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Enrica Fei. Quello che resta A A.L.P. Perché si occupi di me. anche quando io. non so occuparmi di lei IN PIMPIRIMPANA N. 3 DELL AGOSTO 2012 PAG.

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Testo completo

(1)

Enrica Fei

Quello che resta

A A.L.P.

Perché si occupi di me anche quando io non so occuparmi di lei

(2)

Quello che resta

E questo perché, chiese.

Non ti preoccupare, risposi, non è niente.

E’ solo quello che resta.

(3)

Capitolo primo

Quando la vidi seduta al bar, pensai che non era cambiata in niente. Dopo otto anni era sempre lei. Gli stessi occhi enormi e tristi, lo stesso sorriso imbarazzato e timido. Mi avvicinavo al tavolino accostato alla finestra sulla strada e riconoscevo il suo look disordinato, i suoi capelli raccolti in una coda, irregolare . La rivedevo pettinarsi con attenzione di fronte allo specchio ma poi prendere troppo vento, perdersi, e non arrivare mai in tempo. Appoggiata alla finestra del bar, guardava fuori distratta ma con gli occhi seri, raccolta e intimidita, come una bambina, una bambina piccola. Anche quel giorno mi sembrò più piccola, come mi era sempre sembrata lungo tutti quegli anni che erano passati da quando era entrata a piccoli passi nella mia vita. Camminavo verso il tavolo e il suo cappotto rosso mi era sempre più vicino. Faceva freddissimo, e lei indossava un cappottino rosso da primavera, come me la ricordavo. Erano otto anni che non la vedevo ma lei era sempre come l’avevo immaginata tutte le volte che era tornata. Che era ricomparsa nei miei pensieri, che si era fatta viva, che mi aveva scritto una mail da un momento all’altro rientrando nella mia vita con prepotenza e messaggi sconnessi. Come l’avevo pensata tutte le volte che l’avevo odiata, che l’avevo maledetta per il suo cercarmi incomprensibile, per quel contatto che sempre manteneva per poi rieclissarsi, ogni volta, senza saper confermare con decisione la sua presenza.

“Ciao”

Sorrise, come aveva sempre fatto. Un sorriso luminoso, come sempre, e bella, come otto anni prima. La stessa. La stessa pelle, gli stessi denti, la stessa postura. Come se qualcuno l’avesse spostata fuori dal tempo e se la fosse presa con sé per non farla cambiare.

“Mi fa molto impressione vederti qui ”, dissi.

“Anche a me. Cosa prendi? Ti ordino del thé?”

“No, niente, grazie” - risposi secco - “tu sempre caffè, vedo”

“Sì. Questa volta non ti ho scritto, hai visto?”

Sorrise. Mi aveva sempre scritto, in tutti quegli anni e prima. Avevo scoperto davvero chi avevo di fronte la prima volta che mi aveva inviato una mail, chiamandola “lettera” nella prima frase. Ho pensato tante volte di scriverti questa lettera e ora che lo faccio per la prima volta sappi che lo farò per sempre, ogni volta che avrò qualcosa da dirti. Ci sono persone che sanno come essere quando parlano, e persone che sanno cosa sono solo quando scrivono. Io sono come loro e tu mi prenderai così, sempre, anche se non lo vorrai.

“Sì. Questa volta non ti ho scritto, hai visto?”

Sorrisi io, questa volta, ma non affettuosamente. La guardai un po’ di traverso corrugando

(4)

“Bene, grazie. Adesso che sei qui non so più come parlare.”

Era sempre lei. Aveva abbassato gli occhi, imbarazzata, sorridendo con dolcezza e prendendosi le mani tra le mani sempre più raccolta nelle spalle. Era sempre lei, con il suo sguardo dolcissimo e fragile, i suoi occhi azzurri e grigi sempre più tristi. E adesso che sei qui non so più come parlare.

“Beh. Dovrai farlo. Ci ho messo tanto per arrivare e mi ero quasi preoccupato”- sorrisi di traverso con piglio sarcastico -“non ci potevo credere che mi chiedessi di vederci. Mi pare che l’ultima volta tu mi abbia salutato con una mail.”

Credo che lo dissi per ferirla, ma che lo dissi anche senza accorgermi che stavo parlando. Lei abbassò i suoi occhi enormi e lucidi, e deglutì. Penso che stesse combattendo con la sua natura.

Ci sono persone che sanno come essere quando parlano, e persone che sanno cosa sono solo quando scrivono. Me lo stava ripetendo in quel momento, a denti stretti, quel momento in cui aveva deciso di appartenere alla prima categoria, contro la sua natura, senza spiegarmi perché.

“Ti ho pensato sempre, in questi anni e prima. Ti ho scritto, tutte le volte che ho potuto, ma spesso non potevo. La mia vita è stata difficile, in tutto questo tempo”.

“Anche la mia, Elis. Anche la nostra, di tutti noi che eravamo insieme, lo sai. Non capisco questo discorso da vittima, adesso. Comunque. Cosa hai da dirmi?”

“Ti devo chiedere un favore, Mattia.”

Un favore. Un favore, Mattia.

Ancora oggi, quando ci ripenso, quelle parole pronunciate a fatica, le prime dopo otto anni di silenzio e di lettere confuse e inspiegabili, mi rimbombano contro le tempie, facendo male. Un favore. Ti devo chiedere un favore, Mattia. Dopo otto anni nei quali, mio malgrado , il suo cappotto rosso e i suoi occhi enormi avevano fatto parte della mia vita e dei miei pensieri, dopo otto anni nei quali l’avevo odiata, l’avevo maledetta, avevo sperato che qualcosa di male la portasse via da questo mondo e da me, come sempre assurda e inopportuna mi chiedeva un favore. Dopo una vita passata in quel suo modo strano di concepire l’esistenza, con naturalezza bussava alla mia porta come se fosse una cosa normale, come una cara amica che dopo tanto tempo torna e, in difficoltà, imbarazzata ti chiede un favore.

“Non capisco cosa tu intenda. E’ otto anni che non ci vediamo.”

“Sono otto anni che ci scriviamo.”

“Appunto. Sono otto anni che rispondo alle tue mail senza che tu mi abbia mai concesso di vederti, come avrebbe fatto una persona normale. Comunque. Dimmi. Mi hai chiesto un favore”.

“Lo sai della mia bambina, vero?”

(5)

Una bambina. Elisabetta aveva una bambina. Potevo immaginarmelo, in effetti, che nella sua vita strampalata avesse dato alla luce una creatura e magari non avesse mai informato il padre. Era capace di questo e ben altro, purtroppo. Ma no, non lo sapevo.

“No. Non lo sapevo, Elis. Come faccio a saperlo. Non me lo hai mai scritto. Non parlo di te con nessuno. Gli altri non li sento da tanto. Abbiamo perso i contatti, da anni ormai. Quindi. Hai una bambina?”

“Sì.

E ti devo chiedere una cosa.

Devi farmi una promessa, Mattia. Oggi, in questo posto, in questo momento. Giuramelo.”

Ecco. Anche adesso la odio, ricordando quel momento. La odio, come la odiai allora, senza poter reagire. La odiavo, ma lasciai che prendesse le mie mani come aveva sempre fatto prima di sparire nel nulla, otto anni prima, stringendole fortissimo tra le sue, aggrappandocisi, come per non cadere. Lasciai che prendesse le mie mani e che i suoi occhi enormi e a mandorla diventassero sempre più lucidi, sempre più chiari, che la sua voce dolcissima diventasse sempre più bassa e silenziosa.

“Devo partire, Mattia. Non ho molta scelta. Devo partire e andarmene, oggi, adesso. Non posso spiegarti perché. Non per il momento, almeno. Devo lasciare il paese e non posso portare la bambina con me. Devi tenerla tu, non so per quanto. So che lo puoi fare. So del tuo lavoro, della casa, che hai la possibilità. Devi tenerla tu e proteggerla. Prenderti cura di lei. Spiegarle quello che sai. Io non potrò starle accanto, non ora, e non posso lasciarla sola.

Adesso io mi alzerò e andrò alla porta. Tra pochi secondi uscirò, proseguirò a destra per pochi metri, e prenderò il taxi che in questo momento è all’angolo, proprio dietro di noi. Salirò sulla vettura e me ne andrò, e per un po’ non ti scriverò. Per un po’, per molto tempo, ma non per sempre. Tu aspetterai qualche minuto e poi uscirai. Fuori, troverai una bambina in piedi accanto al lampione, quello all’ angolo, qui di fronte, all’ingresso del parco. E’ una bambina bionda, magra, con un caschetto e una frangetta corta. Ha gli occhi chiari, un cappello grigio spesso e un cappotto rosso. Si chiama Sole. Maria Sole, ma chiamala Sole, la chiamiamo tutti così, si volterà.

Adesso uscirai e la troverai al lampione, in piedi, che guarda intorno a sé. E la prenderai con te. Sa del tuo arrivo, quindi non avrà paura.

Prenditi cura di lei, Mattia”.

(continua)

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