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Alfonso Berardinelli. Lo scrittore invisibile, Roma, Gaffi, 2014

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(1)

www.lindiceonline.com

Dagli abissi al K2 con lo speciale VIAGGI & NATURA

Sotto il segno dell’esagerazione: intervista esclusiva a JohN NIVeN

LIBRo DeL MeSe: Gas e manganelli tra le risate dei torturatori a Bolzaneto

MENSILE D’INFORMAzIONE - POSTE IT

ALIANE s.p.a. - SPED . IN A bb. POST . D.L. 353/2003 ( conv .in L. 27/02/2004 n° 46) ar t. 1, comma 1, DC b T orino - ISSN 0393-3903

Disegno di Franco Matticchio

Luglio/Agosto 2014 Anno XXXI - N. 7/8 € 6,00

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Dalle cattedrali ad Asterix

di Giovanni Romano

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icordare enrico

Castelnuo-vo induce subito a parlare di libri: di quelli scritti da lui, pochi, ma tutti fondativi, e dei moltissimi da lui letti, consi-gliati, recensiti, presentati, fatti tradurre e pubblicare, strappati dalle mani di autori esitanti e portati di corsa in casa editrice. era un lettore vorace e di ampie prospettive, ben oltre la disci-plina di elezione; la sua cono-scenza non ovvia della lettera-tura francese e di quella inglese era sorprendente, e ne derivano le imprevedibili citazioni che spesso affiorano nei suoi sag-gi: dall’evocazione del triplice nome di ogni gatto (tratta da eliot) al fulminante dialogo di due protagonisti di Astérix da-vanti ai monumenti dei Romani in Gallia: “Tout ça c’est pour quoi faire?”, “C’est pour faire Gallo-Romain!”. La sua seletti-va intelligenza gli fece capire a trent’anni la gravità dell’impas-se in cui si veniva a trovare la storia dell’arte in Italia, ghet-tizzata tra longhiani, arganiani e ragghiantiani, e l’urgenza di aprire nuovi orizzonti alla di-sciplina, pubblicando tempesti-vamente i testi che potevano li-berare le giovani generazioni da

ogni settarismo provinciale; ne nacque, nella casa editrice ei-naudi degli anni sessanta e an-cora dopo, un’imponente onda di provocazioni mirate che sgretolarono dalle fondamenta le pigre abitudini storico-arti-stiche: i saggi didatticamente più utili di erwin Panofsky, il libro di Giovanni Previtali sulla Fortuna dei primitivi (da rileggere l’appassionata presen-tazione alla seconda edizione),

Nati sotto Saturno dei

Wittko-wer, Rudolf e Margot, Arte e

illusione di ernst Gombrich,

la Forma del tempo di George Kubler, Arte e rivoluzione

in-dustriale di Francis Klingender

(la prefazione sarà ripresa nel fortunato volume Arte,

indu-stria, rivoluzioni, 1985 e 2007), L’arte d’Occidente di henri

Fo-cillon, Due dipinti, la filologia

e un nome di Federico Zeri, il Buffalmacco di Luciano

Bello-si, la riedizione della Pittura e

miniatura nella Lombardia di

Pietro Toesca (con un’introdu-zione che costituisce il modello per una storia della critica non banalizzante). Non c’è stata nella seconda metà del secolo appena trascorso una figura di positivo organizzatore di

cultu-ra storico-artistica che gli possa stare alla pari; la morte precoce di Giovanni Previtali e l’appar-tata scelta disciplinare di Paola Barocchi lo hanno in qualche misura lasciato solo nella sua battaglia, ma oggi commuove vedere i tre studiosi uniti nei primi volumi della monumen-tale Storia dell’arte di einaudi, che deve alla loro intelligenza e al loro impegno il suo potere dirompente.

C’è da chiedersi come faces-se enrico Castelnuovo, giova-nissimo, a dominare con tanta sicurezza il panorama europeo (e non solo) della storia dell’ar-te, praticata nelle sue diverse varianti, e verosimilmente la risposta sta nelle ampie esplo-razioni condotte per una sua opera, elaborata prima dei trent’anni, che è stata posta in ombra dal successivo attivismo editoriale; si tratta di un’enci-clopedia di alta divulgazione (Civiltà nell’arte edito da Au-rora-Zanichelli nel 1960) che ripresa in mano oggi ha dell’in-credibile. Vi sono in qualche modo già abbordati tutti i temi che appassioneranno enrico nel corso della vita: il ritratto, le frontiere, la figura dell’arti-sta, le strade di pellegrinaggio, le cattedrali, i committenti, la geografia artistica, le crisi ri-voluzionarie, la storia dei mu-sei; l’elenco dei collaboratori comprende alcuni maestri di una precedente generazione, da Anna Maria Brizio a Giulio Carlo Argan, ma anche nomi di coetanei che si riveleranno i nuovi protagonisti della sto-ria dell’arte italiana (da Ferdi-nando Bologna a Carlo Volpe). La bibliografia è selezionata e d’avanguardia e la scelta del-le illustrazioni è magnifica (fu sempre molto esigente sul fron-te delle illustrazioni dei libri e speriamo che non siano andate perdute le sistematiche campa-gne fotografiche ad Avignone promosse per il suo volume su Matteo Giovannetti del 1962).

Sono note l’insistenza di en-rico sull’esigenza di non farsi condizionare da steccati di-sciplinari e la passione per la vivacità culturale delle aree di confine o per i viaggi di opere e di artisti, con conseguenze rilevanti nei confronti di stili e di mestieri, di tecniche e di ti-pologie. Basta sfogliare La

cat-tedrale tascabile (Sillabe, 2000),

un’antologia personale costru-ita su quattro nuclei generati-vi della sua ricerca (frontiere, storie dell’arte, fortuna del medioevo e gotico in europa) per rendersi conto di quanto sottilmente abbia lavorato a sfaccettare, continuamente in-soddisfatto, gli argomenti che lo seducevano. Altrettanto si-gnificativo è anche il provare a scorrere la bibliografia genera-le di Castelnuovo posta in ap-pendice, comprese le numerose note brevi di commento a even-ti areven-tiseven-tici comparse su quoeven-ti- quoti-diani come “La Stampa” e “Il Sole 24 ore” o sull’“Indice”: una tribuna a cui teneva mol-to e che lo vide tra i fondamol-to- fondato-ri. Mancano in questa raccolta le prove degli ultimi quindici anni (in primo luogo i quattro volumi di Arti e storia nel

me-dioevo, curati con Giuseppe

Sergi, per einaudi dal 2002) e mancano ovviamente i proget-ti non andaproget-ti in porto: penso alla traduzione commentata e aggiornata della History of

Painting in North Italy di

Gio-vanni Battista Cavalcaselle e alla ripresa in un volume parti-colare dei suoi scritti sul gotico internazionale. A proposito di frontiere da rendere permeabili importa ancora ricordare la sua figura di infaticabile mediatore tra la cultura storico artistica italiana e quella francese (non solo la cultura del Louvre, ma anche quella delle province). È stato altamente significativo che ai funerali di Castelnuovo il grande amico di una vita, Mi-chel Laclotte, bloccato a Parigi dallo sciopero dei treni, abbia voluto far sentire la sua voce con un breve e commosso scrit-to di commiascrit-to. Laclotte e Ca-stelnuovo avevano incrociato i loro destini, oltre che a Parigi, anche davanti agli affreschi del Palazzo dei papi ad Avignone, contribuendo ognuno per la sua parte alla rivelazione del genio pittorico di Giovannetti.

I lunghi anni di insegnamento universitario in Svizzera (1964-1982) sono una componente importante della carriera di mediatore. In una nazione che fino ad allora poco si era cura-ta della nuova storia dell’arte, enrico Castelnuovo seppe im-portare il suo concreto interes-se per una storia organica del sistema produttivo in campo artistico (artisti, committenti, fruitori, modelli, istituzioni, spazi) creando più di un allievo di qualità, come aveva già fat-to magnificamente a Torino e continuerà a fare nei pochi anni di ritorno nella sua città e in quelli presso la Normale di Pisa (1984-2001). Guardata in pro-spettiva la sua vita si moltiplica in molte vite operose, in molti luoghi diversi, e la cosa sor-prende dal momento che enri-co lasciava credere di essere un uomo pigro. Negli anni di Lo-sanna, in dialogo con geografi e sociologi, metterà a punto le sue modalità di approccio verso i documenti figurativi dell’area alpina, con saggi memorabi-li sulle Alpi come “crocevia e punto di incontro delle tenden-ze artistiche” e con esiti imme-diati sul fronte delle nuove

mo-stre di ricerca: a Torino dedicò contributi sostanziali alle espo-sizioni su Giacomo Jaquerio (1979) e sul tema delle corti e delle città nelle Alpi occiden-tali (2006), come a Trento si assunse responsabilità primarie nella mostra Il Gotico nelle Alpi (2002); altre manifestazioni, in specie sulla scultura, lo vedran-no protagonista in Toscana, in collaborazione con gli uffici di tutela locali. L’indagine storica sul territorio, per come sugge-riva di affrontarla Castelnuovo, non coincideva esattamente con i progetti di catalogazione allora promossi dalle soprin-tendenze e si avvicinava piutto-sto ai suggerimenti metodologi-ci di Carlo Ginzburg (insieme avevano scritto il grande saggio su Centro e periferia per il pri-mo volume della Storia dell’arte einaudi, 1979) e alle contem-poranee Ricerche in Umbria di Bruno Toscano e del suo grup-po di lavoro; credo non a caso dato il comune riferimento al Longhi degli anni cinquanta e la insoddisfazione per gli usi correnti nella storia dell’arte italiana.

Nonostante fosse allievo molto apprezzato di Roberto Longhi, Castelnuovo non ebbe mai la civetteria di presentarsi come conoscitore; era ben con-scio dell’importanza euristica di una corretta attribuzione, e ne scrisse molto esplicitamen-te, ma la lettura in profondità dello stile e la ricostruzione di singole personalità figurative comportava per lui qualche difficoltà psicologica. Il corpo a corpo con l’autore studiato, l’a-fondo nei caratteri più inti-mi delle personalità costituiva-no ai suoi occhi (di lui che era inconfessatamente timido ed esitante) una rischiosa messa in discussione di se stesso, una forma di indiscrezione eccessi-va, di indelicatezza, e, dopo i pochi tentativi di gioventù, la-sciò perdere la questione della

connoisseurship. Non gliene

vorremo per questo, anzi rim-piangeremo negli anni a venire

la sua umana misura. n

giovanni.romano39@gmail.com

G. Romano è professore emerito di storia dell’arte all’Università di Torino

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ome abbonarsi all

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ndiCe

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Le immagini di questo numero sono di Daniela Iride

Mur-gia che ringraziamo per la gentile concessione.

Daniela Iride Murgia, artista, autrice di immagini e di testi ha conseguito una laurea in arte orientale e un master in il-lustrazione. Realizza i propri lavori attraverso tecniche quasi prettamente manuali. L’insieme degli elaborati è costituito da parti disegnate a china e poi assemblate. Utilizza anche il collage, l’acquerello, la cucitura, il paper cutting e il pastello. Tra le sue varie collaborazioni segnaliamo quelle con: “Il Sole 24 ore”, Telecom, DADA, Artebambini, “Ventiquat-tro” magazine di “Il Sole 24 ore”, Art’è Ragazzi, Fce Fon-do De Cultura económica (Messico), editora Pulo Fon-do gato (Brasile), edizioni Corsare, Pequena Zahar (Brasile).

ha ottenuto vari riconoscimenti e premi in giro per il mon-do. È stata selezionata a ILLUSTRARTE di Lisbona nel 2012 e nel 2014 ed è stata finalista al V Compostela International

Prize for Picture Books, in Spagna.

ha ottenuto il premio per il migliore picture-book A la oril-la del Viento nel 2012, Fondo De Cultura económica, in Messico.

Nel 2013 ha vinto il Premio Caniem, assegnato dalla National Chamber of the Mexican editorial Industry.

(3)

S

ommari

O

e

ditoriale

2

Dalle cattedrali ad Asterix. Un ricordo di Enrico Castelnuovo, di Giovanni Romano

V

illaggioglobale

4

da Buenos Aires e New York

Il nuovo bando del Premio Calvino

s

egnali

5

La centralità degli ideogrammi nella civiltà cinese,

di Renata Pisu

6

Letterature di mare a confronto, di Fabio Fiori

7

La bontà come autorappresentazione,

di Girolamo De Michele

8

Io sto con la sposa. Intervista a Gabriele Del Grande, di elena Bissaca, Carlo Greppi e Alice Ravinale

9

La spremuta. Intervista a Beppe Casales, di Raffaella Di Tizio e Francesca Romana Rietti

10

García Márquez, il più amato degli scrittori, di Danilo Manera

11

Sergio Leone: un patriarca che sapeva sognare in grande, di Giuseppe Lippi

12

Il convivialismo contro la crisi economica in un manifesto

francese, di Valter Giuliano

13

Che cosa c’è dietro alla satira. Intervista a John Niven, di Chiara Lombardi

14

La preziosa documentazione contro l’oblio e i depistaggi, di Gian Giacomo Migone

l

ibrodelmese

15

roberto settembre Gridavano e piangevano,

di Vittorio Coletti e Giuseppe Pericu

n

arratoriitaliani

16

ermanno rea Il sorriso di don Giovanni, di enzo Rega

raffaele la Capria La bellezza di Roma, di Luca Ricci

franCesCa ComenCini Amori che non sanno stare al

mondo, di Laura Savarino

17

franCesCo biamonti Le parole la notte,

di Claudio Panella

giorgio Van straten Storia d’amore in tempo di guerra,

di Niccolò Pagani

p

aginaaCuradel

p

remio

C

alVino

18

paolo marino Strategie per arredare il vuoto, di Giorgio

Vasta

simona baldelli Il tempo bambino, di Maria Teresa

Carbone

p

oesia

19

augusto blotto I mattini partivi, di emilio Jona

Valerio magrelli Il sangue amaro, di Giovanni Tesio

s

aggistiCaletteraria

20

daniele giglioli Critica della vittima, di Stefano Jossa

angela borghesi (aCuradi) Lo scrittore invisibile,

di Chiara Fenoglio

l

etterature

21

marguerite duras La ragazza del cinema e sandra

petrignani Marguerite, di Gabriella Bosco

Jón Kalman stefánsson Il cuore dell’uomo,

di Michela Monferrini

22

bernard malamud Romanzi e racconti,

di Caterina Ricciardi

Johann Wolfgang goethe Il carnevale romano,

di Giulio Schiavoni

s

peCialeViaggi

&

natura

23

Lo sguardo della prima volta, di Pino Cacucci

24

Sempre più meduse intorno a noi e Un futuro per le

stazioni di biologia marina, di Ferdinando Boero

25

Per favore, viaggiate voi!, di Chiara Valerio

mirella tenderini Tutti gli uomini del K2,

di Andrea Casalegno

C

inema

27

VeroniCa praVadelli Le donne del cinema,

di Michele Marangi

Cristina formenti I mockumentary, di Luigi Bonelli

sandro fogli Truffaut e la pellicola interattiva,

di Umberto Mosca

s

Cienze

28

Carlo roVelli La realtà non è come ci appare,

di Vincenzo Barone

i

nternazionale

29

roberto iannuzzi Geopolitica del collasso,

di Mario Bova

hamit bozarslan Sociologia politica del Medio Oriente,

di elisabetta Bartuli

s

toria

30

luCiano meCaCCi La ghirlanda fiorentina e la morte di

Giovanni Gentile, di ennio Di Nolfo

marCo mariano L’America nell’“Occidente”,

di Ferdinando Fasce

31

emilio gentile Storia illustrata della Grande guerra,

di Daniele Rocca

gianCristiano desiderio Vita intellettuale e affettiva di

Benedetto Croce, di Maurizio Griffo

gandolfo librizzi “No, io non giuro”,

di Angiolo Bandinelli

e

Conomia

32

marCello de CeCCo Ma cos’è questa crisi, di Gian Luigi

Vaccarino

Babele: Totalitarismo 2, di Bruno Bongiovanni

C

alCio

33

Miti, dribbling e metafore, di Darwin Pastorin laura grandie stefano tettamanti (aCuradi)

La partita di pallone, di Simona Baldelli

s

Cuola

34

beatriCe gusmanoe tiziana mangarella (aCuradi)

Di che genere sei?, di Vincenzo Viola

alessandro bartoletti Lo studente strategico, di Gino

Candreva

gioVanni solimine Senza sapere, di Maurizio Tarantino

d

iritto

35

Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), di Massimo Vallerani

massimo Cuono Decidere caso per caso, di Massimo

Durante

l

etterature

36

Carlo ossola Autunno del Rinascimento, di

Massimiliano Rossi

VinCentVan gogh Lettere e Scrivere la vita, di Federica

Rovati

m

usiCa

37

harry broWne The Frontman, di Simone Garino

Karlheinz stoCKhausen Sulla musica, di Francesco Peri

goffredo plastino Cosa nostra social club, di Carlo

Bordone

f

otografia

38

moniCa maffiolie silVestra bietoletti (aCuradi)

Ri-conoscere Michelangelo, di Marco Maggi

ugo mulas Cirque Calder, di Gabriele D’Autilia

henri-Cartier bresson Vedere è tutto, di Andrea

Casalegno

Q

uaderni

39

Camminar guardando, 31, di Stefano de Bosio

40

La traduzione: Non rottamiamo Holden, di Matteo

Colombo

41

Effetto film: Le meraviglie di Alice Rohrwacher, di Carla

Ammannati

s

Chede

43

infanzia

di Fernando Rotondo e Giuliana olivero

44

letterature

di Santina Mobiglia, Laura Savarino e Camilla Valletti

gialli

di Aldo Fasolo e Fernando Rotondo

45

politiCa

di Maurizio Griffo, Ferdinando Fasce, Nino De Amicis, Federico Trocini, Roberto Barzanti e Francesco Racco

46

storia

di Dino Carpanetto, Daniele Rocca, Donatella Sasso ed elena Fallo

47

antiChistiCa

di Amedeo A. Raschieri, ermanno Malaspina, Gian Franco Gianotti e Alice Borgna

(4)

da BUENOS AIRES

Francesca Ambrogetti

Gli argentini hanno vissuto i mondia-li di calcio non solo davanti agmondia-li schermi della televisione ma anche nelle librerie, dove prima e durante il campionato si sono moltiplicati i testi che hanno a che fare con la grande passione di questo pa-ese. Gli argomenti? Tutto sul calcio per tutti i gusti: dalla storia alle statistiche, dalle analisi sociologiche alle biografie, dalle testimonianze alle previsioni. Stu-diosi e aficionados non hanno avuto che l’imbarazzo della scelta. La proposta più originale l’ha fatta la casa editrice el Ate-neo: Cuentos de fútbol escritos por

muje-res, un’antologia che raccoglie testi scritti

da autrici che fanno parte dell’“altra metà”, quella che fino ad alcuni anni fa era indifferente al calcio e ora è, almeno in parte, coinvolta nel più globale degli sport. Sono storie divertenti con pun-ti di vista diversi e hanno avuto grande successo anche tra il pubblico maschile.

Historias secretas de los mundiales è un

altro titolo molto venduto. L’autore, il giornalista sportivo Alejandro Fabbri, racconta episodi inediti e storie curiose e poco note delle diciannove edizioni del campionato che si sono svolte nell’arco degli ultimi ottantaquattro anni. Perché l’Argentina da ventiquattro anni non vince un mondiale e perché in Brasile potrebbe vincere la coppa, sono le due domande alle quali tentano di rispondere i giornalisti José esses e Federico Lisica nel libro Siamo fuori. Il titolo in italiano fa riferimento alla famosa frase con la quale venne annunciata alla televisione l’elimi-nazione della nazionale azzurra nel 1990. Ma gli autori si dichiarano convinti, e tentano di dimostrarlo in tutti i modi, che in questa occasione la squadra di Messi riuscirà a non restare fuori e a vincere il campionato. Altrettanto ottimista il libro

Ganar, che ricorda la storia della

nazio-nale biancoceleste, le strategie calcistiche e le circostanze politiche, per dimostrare che quella del 2014 sarà la volta buona. Sulle strategie necessarie per raggiunge-re il massimo risultato battendo i padro-ni di casa e grandi favoriti per il titolo, hanno scritto tredici racconti altrettanti giovani autori argentini, raccolti nel vo-lume Cómo ganarle el mundial a Brasil. Nel campo delle biografie il grande pro-tagonista è il giocatore del Barcellona considerato il migliore del mondo: Messi.

Por amor a la camiseta. El nuevo Dios di

Juan Carlos Pasman è forse la storia più completa e accurata del ragazzo introver-so e timido che è riuscito a esplodere nei campi di calcio e diventare una delle star di massima grandezza nella storia dello sport. Anche sul nuovo direttore tecni-co della nazionale argentina, Alejandro Sabella è stata scritta una biografia con le testimonianze di molti calciatori che hanno giocato con la sua regia. Infine, un nuovo libro sul pibe de oro, figura ancora onnipresente quando si parla di calcio:

El último Maradona è una cronaca del

periodo immediatamente precedente al definitivo allontanamento dal campo del grande giocatore.

da NEw YORk

Alfredo Ilardi

Sul più famoso romanzo di D.h. Lawrence, Lady Chatterley’s Lover, e sulla sua protagonista Constance (Connie) Chatterley si è scritto così diffusamente da offuscare quasi la re-stante opera dello scrittore. eppure, periodicamente, continuano ad affiora-re carteggi, corrispondenze e rivelazio-ni inedite che rinvigoriscono l’aura di scandalo che è restata incollata al ro-manzo (dopo la sentenza di assoluzio-ne dall’accusa di oscenità pronunciata dall’old Bailey di Londra nel 1960) e aggiungono qualche nuova tessera al mosaico sempre più completo della storia autobiografica che l’ha ispira-to. S’inscrive nel flusso di questa me-morialistica il libro di Richard owen,

Lady Chatterley’s Villa (University of

Chicago Press, 2014), che esplora e ri-costruisce un periodo ben delimitato della gestazione del romanzo: la per-manenza di Lawrence e di sua moglie Frieda a Villa Bernarda, a Spotorno sulla Riviera Ligure, nell’autunno 1925 e nell’inverno 1926. Il libro è basato sulle lettere inedite che Rina Secker, la moglie anglo-italiana dell’editore in-glese di Lawrence, scriveva al marito in Inghilterra. Fu Secker ad accogliere a Spotorno lo scrittore e sua moglie e ad aiutarli a trovare casa. Più che of-frire nuovi elementi rivelatori, le lettere di Secker sono una conferma ulteriore di ciò che avvenne in quella breve sta-gione nella villa incastonata nel verde della Riviera di Ponente e l’arricchisce con l’immediatezza di una testimo-nianza quotidiana. È noto che a Villa Bernarda prese fuoco e si dipanò, sotto gli occhi di Lawrence, l’incontenibile passione tra Angelo Ravagli, tenente dei bersaglieri nel primo conflitto mon-diale, e Frieda, che questi sposerà nel 1930, dopo la morte dello scrittore. ed è altrettanto noto che la passione divampata a Villa Bernarda contribuì a ispirare a Lawrence il romanzo, mo-dellando i personaggi di Constance Chatterley e del guardiacaccia Mellors sul tenente Ravagli e su Frieda. Anche se ad accertare per primo la veridicità di questi fatti fu Alberto Bevilacqua in un’intervista del 1970 all’ottanten-ne Angelo Ravagli, il libro di owen e la corrispondenza di Secker si rivelano preziosi nel precisarne le circostanze e fanno rivivere il mondo della comunità inglese che scelse di disperdere in Ligu-ria il ricordo della prima guerra mon-diale. Villa Bernarda, come la conobbe-ro i Lawrence, non esiste più. È stata trasformata in alloggi per turisti. Nel darne, costernato, la notizia nell’otto-bre 2002, il “Daily Telegraph” notava pragmaticamente: “Gli appartamenti per le vacanze estive arricchiscono più che i libri”.

VILLAGGIO GLOBALE

Premio Italo Calvino 2014-2015

Il bando della XXVIII edizione

1. L’Associazione per il Premio

Italo Calvino, in collaborazione con la rivista “L’Indice”, bandisce la ven-tottesima edizione del Premio Italo Calvino.

2. Si concorre inviando

un’ope-ra inedita di narun’ope-rativa in lingua italia-na: romanzo, racconto o raccolta di racconti, in ogni caso di lunghezza complessiva su-periore alle sessantamila battute, spazi inclusi. Le indicazioni sulla for-mattazione (caratteri, impaginazione, rilega-tura ecc.) si trovano sul sito www.premiocalvino.it, nella sezione Istruzioni per l’iscrizione.

3. L’autore non

deve aver pubblicato nessun’altra opera narrativa in forma di libro autono-mo, sia carta-ceo che e-book, presso case editri-ci a distribuzione nazionale. L’auto-re deve esseL’auto-re in possesso dei diritti

sull’opera presentata. Sono ammes-se le autopubblicazioni (sia cartacee che e-book), le pubblicazioni a paga-mento, sul web, su riviste, su antolo-gie, le edizioni a distribuzione locale o a cura di associazioni o di enti lo-cali, purché l’autore sia in possesso dei diritti sull’opera presentata. Qua-lora l’autore abbia pubblicato opere appartenenti alla suddetta tipologia, ma non ne possegga i diritti, può partecipare, ma deve presentare al-tro materiale. Il Premio si riserva di chiedere ulteriore documentazione riguardante le eventuali precedenti pubblicazioni.

4. L’ammissione di opere

pre-miate in altri concorsi verrà valutata con giudizio insindacabile dall’As-sociazione. In tali casi è necessario rivolgersi alla Segreteria del Premio prima di inviare il materiale. Qualora

intervengano pubblicazioni o pre-miazioni dopo l’invio del manoscrit-to, è necessario darne tempestiva co-municazione alla Segreteria.

5. Tutti i partecipanti non

po-tranno essere rappresentati da un agente. Tale condizione deve per-manere dal momento dell’inizio del

concorso fino alla Cerimonia di premiazione.

6. La partecipazione comporta il versamento di una quota di iscrizio-ne. La quota di iscrizione per testi con numero di battute inferiore o uguale a seicentomila, spazi inclusi, è di euro 100. Per testi che superino le seicentomila battute, spazi inclusi, la quota di iscrizione è di

euro 120. La ricevuta del pagamento della quota di iscrizione dovrà essere in-viata in forma car-tacea o in formato digitale. Le

moda-lità di versamen-to e di invio della ricevuta si trovano sul sito www.premiocalvino.it, nella

sezione Istruzioni per l’iscrizione.

7. La partecipazione

compor-ta la compilazione di un Modulo di iscrizione. Il Modulo si trova sul sito

www.premiocalvino.it, nella sezione

Modulo di iscrizione.

8. Le opere devono essere

in-viate alla Segreteria del Premio en-tro e non oltre il 30 settembre 2014 (fa fede la data del timbro postale di invio). Le modalità di invio sono

in-dicate sul sito www.premiocalvino.

it, nella sezione Istruzioni per

l’iscri-zione.

9. Saranno ammesse al giudizio

della Giuria le opere selezionate dal Comitato di lettura dell’Associazio-ne per il Premio Italo Calvino. La rivista “L’Indice” si riserva la facoltà di pubblicare un estratto delle sud-dette opere.

(5)

La lunga durata della scrittura cinese nei flutti della storia

La mentalità collettiva fissata negli ideogrammi

di Renata Pisu

h

o la strana impressione che ormai

si viva in un’epoca dove è di moda raccontare favole, nel senso che spesso si è costretti a cominciare con un “c’era una volta”. La colpa è del tempo che è come se fosse diventato più “breve”: come du-rata, guardandoci alle spalle, appare bre-ve, per esempio, il secolo che si è appena concluso, il XX, a causa dell’accelera-zione degli eventi e delle trasformazioni a ritmo vorticoso che si sono succedute in appena cent’anni. Così, il “c’era una volta” di oggi si situa appena ieri, non se-coli fa, decenni fa, ma ieri, proprio ieri, il tempo di schioccare le dita. Se ciò tro-va riscontro quasi ovunque e per le più diverse situazioni, è per quanto riguarda la Cina che la mutazione lascia esterrefatti.

C’era una volta la Cina, quintes-senza dell’esotismo, terra di miseria e carestie. Non c’è più. C’era una volta la Cina della rivoluzione trion-fante. Sparita. C’è invece oggi la Cina dello sfrenato sviluppo econo-mico, delle megalopoli, delle ardite infrastrutture, del turbocapitalismo, del sogno di un benessere promes-so e non ancora concespromes-so ai più. È questo il finale della storia, un “e vissero per sempre felici e conten-ti”? Potrebbe anche darsi, se si vo-lesse continuare a raccontare favole sulla Cina, ignorandone le specifi-cità culturali, valutandone le diver-se fasi con superficialità, come diver-se il grande paese fosse nato ieri. e in tal caso forse si correrebbe il rischio, fra qualche anno, di dover raccon-tare un’altra favola: “C’era una volta la Cina del super sviluppo econo-mico”… Per carità, mai vorremmo dover constatare che quella Cina non c’è più, però sono le incognite, le continue variazioni, il gioco delle probabilità nel contesto globale che suggeriscono di affrontare la que-stione della Cina in una prospettiva di più ampio respiro, tentando di capire quali sono le radici profonde da cui si è forma-ta da oltre due millenni l’identità cultura-le di una civiltà che è “altra” rispetto alla nostra; e per la quale vale la pena di rac-contare che la Cina che c’era una volta c’è ancora, visto che cento anni di certo non possono bastare a cancellarne duemila.

Alessandra Lavagnino e Silvia Pozzi, entrambe docenti universitarie, con

Cul-tura cinese. Segno, scritCul-tura e civiltà (pp.

243, € 18, Carocci, Roma 2013) si sono proposte di rintracciare gli elementi fon-danti e peculiari dell’identità culturale della Cina di ieri che ancora oggi deter-minano il modo di essere e di pensarsi della Cina di oggi, dalla scrittura ai vari generi letterari che di questa particolare forma di fissare la memoria si sono ser-viti. I caratteri cinesi sono infatti i mat-toni con cui è stato edificato un tessuto culturale tanto ricco, dando forma a un pensiero filosofico, poetico, storico e re-ligioso e impregnando anche la cultura popolare, quella che si esprime nel ro-manzo e nel teatro. Sono delle forme che perfettamente aderiscono ai contenuti e questi si adattano a fatica alla trasposi-zione in un’altra forma, quella alfabetica, come è il caso soprattutto della scrittura poetica. Ma anche tutte le altre scritture (perché è di una civiltà grafocentrica che qui si tratta) mantengono un qualcosa di arcano, di non perfettamente traducibile,

che deriva dal segno scritto, un’invenzio-ne culturale che dalla Cina si è irradiata presso altri popoli dell’estremo oriente come il Giappone, la Corea e il Vietnam.

Così, mantenendosi costantemente aderenti al filone della scrittura in tutte le sue manifestazioni, identificando, grazie al segno, scrittura e civiltà, Lavagnino e Pozzi presentano non una storia fattuale della Cina con il classico succedersi di date e dinastie, ma qualcosa di inedito e di veramente prezioso: uno strumento complesso e quanto mai sofisticato per comprendere l’identità culturale della Cina di ieri e di oggi. Che si tratti di uno strumento sofisticato è un bene, siamo

giunti ormai fortunatamente a un punto di svolta in cui è indispensabile liberarsi dalle mistificazioni dei sublimi semplifi-catori, accettando sì la divulgazione pur-ché sia una divulgazione colta, che renda cioè partecipi tutti coloro che non si con-siderano specialisti in materia del meglio di quanto è stato scritto e pensato nei cir-coli chiusi delle accademie.

Per quanto riguarda la Cina, che è di-ventata ormai una stella fissa del nostro firmamento, la svolta è indispensabile per proteggersi da frettolosi giudizi e pre-visioni prive di costrutto, luoghi comu-ni che si affastellano e che nell’era della globalizzazione hanno trovato terreno più che mai fertile. Prima della sua folgo-rante entrata in scena come potenza eco-nomica, cioè fino a pochi anni fa, la Cina veniva intesa o come un fossile vivente o come una speranza di riscatto per una futura umanità. Ma il bello era che non se ne sapeva niente o, per lo meno, chi la studiava e frequentava aveva difficoltà a inserirne la specificità in un contesto ancora vivente e tale da sollecitare fecon-de riflessioni. Infatti il fossile puzzava di muffa, il sogno della futura umanità era svanito nei gulag dei socialismi reali, i ri-petuti fallimenti autorizzavano a ignorare la vitalità ancora operante di una cultura che era stata soffocata e avvilita negli anni del “secolo breve”.

A questo volume sulla cultura cinese che dovrebbe leggere chiunque intenda occuparsi di Cina, si affianca un

interes-sante studio di Christopher Bollas (La

mente orientale. Psicoanalisi e Cina, ed.

orig. 2012, trad. dall’inglese di Maria Paola Nazzaro, pp. 199, € 14, Raffaello Cortina, Milano 2013), non dedicato uni-camente alla Cina ma alla “mente orienta-le” in generale, della quale, come lo stesso Bollas riconosce, la mente cinese è magna

pars. Il sottotitolo è infatti Psicoanalisi e Cina e Bollas, noto scrittore e

psicoanali-sta, tenta di creare dei collegamenti tra al-cuni aspetti della pratica psicoanalitica e la mente orientale. Riconosce che la Cina di oggi è al centro dei pensieri della co-munità globalizzata ma sottolinea come i cinesi, anche di fronte ai fulminei sviluppi della loro crescita economica, non possano fare a meno di portare con loro, quantomeno nell’inconscio collettivo, quei testi e quegli assio-mi etici che hanno costituito la base della loro civiltà.

Come Lavagnino e Pozzi nel loro libro mettono in stretta correlazio-ne scrittura e civiltà, anche Bollas si sofferma a lungo sulle particola-rità uniche del cinese scritto, soste-nendo che ogni segno ha acquisito molte altre associazioni rispetto alle originarie e si è aperto a molteplici significati. Ma come psicoanalista va oltre e scrive: “Tenendo presen-te che ogni caratpresen-tere è ideografico e carico di emotività, il semplice atto di imparare a scrivere è simile a una identificazione psichica, di solito inconscia, con l’intera storia di quel frammento di vita emotiva di una nazione”.

Gli argomenti trattati in questo te-sto, che sicuramente segna una svol-ta nel modo di avvicinarsi alla mente orientale, inducono a riflessioni sul-le differenze evidenti tra oriente e occidente, soprattutto per quanto riguarda il sé individuale che in Cina si è sviluppato con un forte senso della forma della vita umana (l’importan-za dei riti), mentre nel mondo occidentale manca un tale senso della presentazione formale del sé. Ne deriva che attraverso il linguaggio la mente orientale non riesce a rappresentare la vita interiore, il discorso non riesce a deviare da norme accettate per secoli, mentre invece, per la psicoa-nalisi occidentale, è l’enfasi sul discorso libero che rivela i pensieri rimossi e dà importanza al significato del sé.

Sembrerebbero due tipi di comporta-mento inconciliabili ma, dal mocomporta-mento che oggi oriente e occidente tentano sempre più di incontrarsi, la psicoanalisi potrebbe essere uno dei possibili ponti. Questa almeno è la speranza espressa da Bollas, il quale ritiene che la lingua cinese classica possa aggiungere una dimensione nuova alla libera associazione freudiana in quanto, scrive, “la catena di immagini svelate dal cinese equivale a un processo libero associativo più esistenziale, com-posto da esperienze toccanti (…) essa mette in giustapposizione le immagini con tale forza intelligente da formare un nuovo oggetto emotivo”. La speranza è dunque quella di un processo libero as-sociativo “sino-freudiano”, in un futuro che si spera prossimo dove tante altre categorie orientali e occidentali andranno

ripensate. Così si spera. n

renata.pisu@fastwebnet.it

R. Pisu è giornalista

Segnali

Renata Pisu

La centralità degli ideogrammi

nell civiltà cinese

Fabio Fiori

La letteratura di mare

anglofona e italiana

Girolamo De Michele

La bontà come

autorappresentazione

Elena Bissaca,

Carlo Greppi e Alice Ravinale

Intervista a Gabriele Del Grande

Raffaella Di Tizio e

Francesca Romana Rietti

Intervista a Beppe Casales

Danilo Manera

Ricordando Gabo,

il più amato degli scrittori

Giuseppe Lippi

Per un pugno di dollari

compie cinquant’anni

Valter Giuliano

Il manifesto convivialista

per una politica anti crisi

Chiara Lombardi

Cosa c’è dietro alla satira:

intervista a John Niven

Gian Giacomo Migone

La preziosa documentazione

contro l’oblio e i depistaggi

(6)

La titanica letteratura marinaresca anglosassone e le storie di riva italiane

kilo. “Desidero comunicare con voi”

di Fabio Fiori

S

ul piccolo veliero della letteratura marinaresca

italiana, alta, sulla sartia di sinistra, sventola la bandiera Kilo, quella a due fasce verticali giallo-blu del codice internazionale nautico. Nel linguaggio asciutto, che contraddistingue la gente di mare, si-gnifica “Desidero comunicare con voi”. Una richie-sta silenziosa, ma per questo non meno impellente. Perché malgrado ogni anno, anche in Italia, ven-gano pubblicati decine di libri dedicati al mare e diverse case editrici abbiano collane tematiche ricchissime e di vecchia data come Mursia o più recenti come Longanesi, Nutrimenti, Magenes, Lint, Diabasis, a cui si aggiungono gli editori spe-cializzati (Incontri Nautici, Il Frangente, Mare di Carta, hoepli, Mare Verticale), dobbiamo consta-tare che la cultura del mare è marginale, soprat-tutto se confrontata con quella della montagna, a cui giustamente è dedicato un

particolare riguardo dai media? Per Giorgio Bertone, curatore dell’antologia Racconti di vento

e di mare (einaudi, 2010), il

pa-ragone è insensato perché “na-sce dal mancato riconoscimento della speciale, esclusiva natura del mare e di chi nei millenni ci ha vissuto, campato, affogato o dominato”. È però innegabile il divario d’attenzione, e frequen-tazione, tra questi due grandi ambienti naturali che, malgra-do le devastanti trasformazioni dell’ultimo secolo, rimangono straordinarie palestre d’incontro con la natura. Salendo in quota o prendendo il largo, gli spazi si di-latano, i contatti reali e virtuali si rarefanno. oggi come un tempo la terra e l’acqua, l’aria e il fuoco riaccendono la nostra sensibilità animale. esperienze che alimen-tano le narrazioni; racconti che accendono le passioni. Almeno teoricamente, perché concreta-mente, invece, in Italia del mare si conosce quasi esclusivamente la dimensione balneare, il dipor-to è consideradipor-to uno svago per ricchi, il lavoro un accidente per poveri. Così non sembra essere in altri paesi europei, la Francia in testa. A riprova di ciò basta guardare solo il trailer del recen-te film In solitario di Christophe

offenstein, dedicato alla vela oceanica sportiva. Un vero e proprio kolossal, almeno in termini di energie economiche e culturali profuse. Un film in cui l’avventura marinaresca si rinnova e si intreccia con le problematiche contemporanee, in cui la so-litudine delle alte latitudini può inaspettatamente accendere amicizie e solidarietà.

e la letteratura? È fondato il luogo comune che in Italia non ne sia mai esistita una marinaresca? Solo il mondo anglosassone può vantare figure levia-taniche quali herman Melville e Joseph Conrad? o comunque scrittori di mare quali Robert Louis Stevenson, Joshua Slocum e Jack London? e an-cora, solo i francesi hanno saputo aggiornare con Bernard Moitessier e altri navigateurs solitaires l’e-popea della vela? Di certo la grandezza di questi autori è legata anche alle loro straordinarie navi-gazioni e agli altrettanto importanti incontri. È questo un dato oggettivo e imprescindibile, per-ché, nauticamente parlando, la letteratura è l’opera morta, mentre la cultura nella sua accezione più ampia è l’opera viva, ciò che sta sott’acqua, e quin-di molto più importante. Di conseguenza, almeno nell’ultimo mezzo secolo, un paese poco attento economicamente e culturalmente al mare ha avuto un ristretto numero di lettori appassionati alle sto-rie acquatiche e un ancor più limitato numero di autori. Ciò non significa che, tra ottocento e No-vecento, non ci siano eccezioni degne di nota. Anzi,

a maggior ragione vale la pena di ricordare le gesta e le parole dei marinai imbarcati su la garopera di Giuseppe Garibaldi, il trabaccolo di Giovanni Co-misso, la goletta di Raffaello Brignetti, il pirosca-fo di Vittorio Giovanni Rossi. Anche questi sono autori accomunati da navigazioni, svolte in diverse circostanze ma tutte molto concrete. Tra i quattro scegliamo Comisso che scrisse, tra il 1923 e il 1928, una raccolta di racconti intitolati Gente di mare (Treves, 1929). Questo, per Giampaolo Dossena e Mario Spagnol, curatori di Avventure e viaggi

di mare. La storia del mare narrata dai suoi prota-gonisti (Feltrinelli, 1959), è il libro più bello della

letteratura marinaresca italiana, dedicato all’ultima “età della vela”, quella del piccolo cabotaggio nella prima metà del Novecento, fatto tra una riva e l’al-tra del Mediterraneo, a bordo di umili velieri

impe-gnati nel traffico, nella pesca o nel contrabbando. Le pagine di Comisso restituiscono arti e parole dei marinai, sono descrizioni di precisione tecnica e narrativa: “Le vele messe in croce che davano al veliero, come aveva fatto osservare il capitano, un aspetto di colomba con le ali aperte”. Comisso co-nosce l’armamento delle barche e i venti per nome, non confondendo le qualità di maestro, bora, sci-rocco e garbin.

Se l’autore veneto ha raccontato piccole storie navigando tra le due sponde dell’Adriatico, Gio-vanni Verga ha scritto I Malavoglia osservando lo spettacolo degli umili pescatori siciliani rimanen-do “fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da rendere la realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto essere”. Un verismo però poco marinaresco, visto che ad esempio: “La Provviden-za si dondolava sulle onde verdi” e non rollava o beccheggiava, dato che i “Malavoglia si tenevano tutti da un lato, afferrati alla sponda” e non alla murata. Questi, e cento altri, non sono solo det-tagli lessicali ma testimonianze inequivocabili di un’oggettiva lontananza dell’autore dalla vita dei pescatori e dagli umori del mare. Nella stragrande maggioranza dei casi, quelle italiane sono quindi storie di riva, romanzi-paesaggio, riprendendo una definizione cara a Italo Calvino. Pensiamo innan-zitutto allo Scill’e Cariddi di Stefano D’Arrigo, al

mandracchio triestino di Pier Antonio Quarantot-ti Gambini, agli scogli istriani di Giani Stuparich, al portocanale romagnolo di Marino Moretti, ai moli viareggini di Mario Tobino, agli affacci liguri di Francesco Biamonti, alle cale procidane di elsa Morante, ai pontili napoletani di Raffaele La Ca-pria. Autori di costa, in cui il mare è solo lo sfondo, per quanto grandioso, delle narrazioni. Sono qua-dri marini quelli dipinti da La Capria in Ferito a

morte (Mondadori, 1961), dove “lieve lieve un

ven-ticello porta lontano, sul mare dove un cutter con le vele gonfie fila verso terra”. Ancora più rarefatte le visioni di Francesco Biamonti in Vento largo (ei-naudi, 1991), che vede “il mare laggiù in fondo, un mare che turbava: un dirupo più lucente degli altri, che saldava i promontori. Poi salirono per un cana-lone di polvere e conchiglie corrose, dove il piede

affondava, e dal crinale apparve un altro mare, più vasto che sem-brava respirare”. Due sguardi salmastri come l’aria che entra

nel Palazzo Medina a Posillipoo

sulle terrazze di Aùrno, paesag-gi italiani costieri illuminati dal riverbero del sole e corrosi dal sale. Una letteratura fortemen-te ancorata ai luoghi, popolati da genti inevitabilmente attratte da quell’orizzonte mediterraneo che rimane insieme seducente e misterioso. “ecco, lo vedi il fascino del Mediterraneo” dice uno dei personaggi di Biamonti, il “mare, di là degli ulivi, e le roc-ce di cresta segnavano il cielo di una luce che si ossificava”.

Riprendendo il largo e facen-do un passo indietro nel tem-po, bisogna invece ricordare lo straordinario lavoro di Alberto Guglielmotti che il mare l’ha na-vigato e ne ha raccolto la nomen-clatura “con religiosa cura dalla bocca dei marinai”, riprendendo le parole di Giorgio Bertone, che lo ritiene giustamente indispen-sabile al pari di Melville, soprat-tutto per chiunque voglia nar-rare il Mediterraneo. Alla fama internazionale dell’autore di

Moby Dick (1851), corrisponde

però l’anonimato del “sacerdote domenicano, filosofo, maestro di teologia, storico” e navigante che ha tentato di unificare le tante parlate marina-resche regionali in italiano nel Vocabolario marino

e militare, pubblicato nel 1889 e fortunatamente

ancora disponibile in edizione anastatica (Mursia, 1987). Un vocabolario che ha permesso di conser-vare almeno il linguaggio di una cultura altrimenti perduta, come le migliaia di velieri che affollavano i porti italiani e i loro marinai, che della nave sono le mani, sempre secondo Conrad, di cui sono da poco stati ritradotti in italiano alcuni suoi scritti, raccolti in Di mare, uomini e vele. Memorie e impressioni (Piano B, 2013).

oggi concretamente pensiamo che in una peni-sola, proprio a partire dal mare, dalla cultura del mare, si debba provare a ricostruire un rapporto armonico con la natura, una relazione esperienziale intensa, non solo lavorativa o sportiva. Al seguito di Conrad, si mollino quindi gli ormeggi e si trac-ci una rotta su quel Mediterraneo che ha ospitato l’infanzia dell’arte marinaresca e la cui “leggenda del canto tradizionale e della storia solenne vive an-cora, affascinante e immortale, nelle nostre menti”. Un canto che le onde e i venti continuano armo-niosamente a offrirci, anche lungo le caotiche rive

urbane italiane. n

fiorifabio@gmail.com

F. Fiori è marinaio e scrittore

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(7)

Romanzi, saggi e denunce tra cinismo filantropico e mistica della celebrità

La bontà come autorappresentazione

di Girolamo De Michele

C’

è una frase, attribuita a Italo Calvino, che Mau-ro affigge sulla parete dell’ufficio della onlus “In punta di piedi” in cui lavora: “Dove si fa violenza al linguaggio è già iniziata la violenza sugli umani”. La frase richiama la lezione americana sull’esattezza contro quella peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e livellamento dell’espressione sulle formule generiche e astratte: sarà interpretata come una velata critica al guru della onlus (poco preciso, nel suo parlare a braccio, con i congiuntivi), e usata come argomento per “accompa-gnare” Mauro fuori dalla comunità. L’etica del linguaggio viene così pervertita da quel-lo stesso uso delle parole che avrebbe dovu-to contrastare. Quesdovu-to episodio si appoggia sul principale, anche se non unico, piano di significazione di I buoni di Rastello: la co-struzione, attraverso l’uso simultaneo di tec-niche retoriche e carisma personale, di un mondo allucinatorio ma realissimo, nel qua-le il discorso della Bontà, attraverso qua-le sue declinazioni, struttura e definisce non solo se stesso, ma anche il campo avverso, quel-lo del Male. La “memoria condivisa”, “la frusta dell’oltre”, il “bene a regola d’arte”, l’impegno, la “costruttività” (“ok, questa è la tua protesta, ma dov’è la proposta?”), il “metterci la faccia”, l’insistenza di parole come “noi, nostro, nostra”, la “corresponsa-bilità” usata come un martello per inchioda-re l’avversario: la cinchioda-reazione del nemico, “il lorsignori dell’oratore. Chi non è con noi è contro di noi. e quindi con le mafie.

Quin-tessenza dell’esclusività, travestita da inclusione. Il bene assoluto che si erge contro il male assoluto”. Il male, beninteso, esiste: è la città dell’europa orienta-le devastata da una miseria che appare irredimibiorienta-le, dove abita il popolo delle fogne, in un’alternativa tra il male dei sotterranei e il peggio delle strade in superficie. Di quel male è testimone Andrea, il gior-nalista che abdica al proprio dovere etico; da quel male proviene Aza, che attraversa i porosi confini tra oriente e occidente per giungere alla periferia della Città frontale: gli scheletri dei capannoni, carcasse paleontologiche di passate cattedrali industriali, illu-minati dai fuochi che scaldano i migranti-fantasma, “un intero popolo alla macchia, come blatte nelle crepe dei muri”. Da questi margini Aza giungerà ai Piedi, metterà a frutto la capacità di cogliere sfture e dettagli, di afferrare il peggio degli esseri uma-ni e volgerlo a proprio vantaggio, entrerà a far parte della corte ristretta di Silvano, il capo carismatico dei Piedi, fasciata da uno stretto tailleur. Libro feroce, quello di Rastello: che narra di una storia in apparen-za localizapparen-zabile per farne allegoria di una condizione esistenziale nella quale “abbiamo bisogno di accetta-re un mondo inaccettabile che ci stritola, e abbiamo bisogno di abitarlo sotto anestesia. Abbiamo bisogno di rimandare la lotta, ma abbiamo bisogno anche di fingere di combattere, e di amare la lotta”. e quindi abbiamo bisogno dei Silvano, i cavalieri del Bene che combattono al nostro posto una battaglia che non abbiamo tempo di combattere: a un popolo di dan-nunziani, scriveva un altro torinese in altri tempi (ma davvero altri?), non si può chiedere spirito di sacri-ficio. Per questo compito Rastello ha scelto la forma ibrida del saggio-romanzo; o meglio, con buona pace di chi ha visto “ipocrisia” della forma o “abdicazio-ne” della responsabilità dell’inchiesta, dell’oggetto letterario (secondo la formula della New Italian Epic, a riprova della vitalità di questa individuazione), il cui archetipo è A sangue freddo di Capote.

Libro feroce, ma non cinico: piuttosto, parresiasti-co, mosso dal coraggio della verità. Per coglierne la portata è utile allargare lo sguardo alla “mistica della celebrità”, incarnata da figure come Bono Vox, e al crescente spazio mediatico conquistato da popstar che pretendono di esprimere la pubblica opinione non in ragione di criteri come la coerenza, le qualità politiche o lo spessore ideologico, ma a partire del proprio ruolo e della propria fama. Cui fa da cor-relato la legittimazione a rappresentare la pubblica opinione da parte di soggetti politici in base a qualità

estetiche (gesti, capacità retorica, costruzione dell’im-magine). Questa politica dell’apparenza è oggetto, a partire dagli studi ormai decennali di John Street, di una crescente mole di ricerche che hanno scanda-gliato le pratiche con cui la rappresentanza politica diventa sostituzione di oggetti e interessi pubblici, in un quadro nel quale la rappresentazione “costru-isce” il reale. La Bonoization of diplomacy si fonda su rappresentazioni e interpretazioni dell’Africa ela-borate da un immaginario coloniale che ri-produce l’Africa all’interno di un progetto specificamente

occidentale: questi ambasciatori della buona volontà contribuiscono così al mantenimento dell’egemonia del mondo occidentale sull’Africa, e a rafforzare il consenso nei confronti dell’ordine mondiale che non viene mai chiamato in causa come principale artefice della disuguaglianza globale (Riina Yrjöla). Da cui il cinismo del capitalista-filantropo che sdegnato dalla morte di un bambino privo di un’operazione da venti dollari, paga l’operazione e lascia che il bimbo viva in quel mondo che produce la malattia. Il “fardello del rock-man” (harry Browne) piegato a “servire i bisogni dei suoi sottomessi” si palesa come la ver-sione aggiornata del “fardello dell’uomo bianco” di Kipling. Al tempo stesso, il dispositivo filantropico della celebrità è in grado di incantare lo spettatore, ma senza smuoverlo dal proprio ruolo passivo (Lilie Chouliaraki): orienta non all’azione, ma alla delega. Stimolando il desiderio di identificazione con stili di vita di livello superiore, le celebrità politicizzate “legittimano l’ordine sociale riaffermando il mito delle uguali opportunità per compiti straordinari e

nascondono così la contraddizione tra il moderno ideale di democrazia egualitaria e la realtà delle per-sistenti gerarchie” (Robert Fletcher).

C’è dietro queste ricerche la potente onda di que-gli studi postcoloniali che hanno per emblema il li-bro di Dipesh Chakrabarty Provincializzare l’Europa (Feltrinelli, 2004). La stessa impostazione è presente, associata al lavoro degli anni sessanta su meridione e sottosviluppo di Ferrari Bravo e Serafini, nel libro collettivo Briganti o emigranti, che riapre la questio-ne meridionale dopo il fallimento delle politiche di

sviluppo del Sud (ma se il sottosviluppo dei Sud d’Italia e del mondo è funzionale alle politiche della governance globale, è ancora lecito parlare di “fallimento”, piuttosto che di pianificazione?). Questi studi mostra-no come la costruzione dell’Italia unitaria sia stata accompagnata da quello che Na-poleone Colajanni definì “l’invenzione di un romanzo antropologico”: la percezione del Sud come una realtà compatta priva di differenze interne, un luogo estremo di “alterità”, “primitività”, “arcaicità” che ha influenzato, per reazione o per difesa, gli stessi meridionalisti. L’apparentamento del meridionale “senza storia né civiltà” al ne-gro, allo slavo e all’ebreo (secondo l’antro-pologo – absit iniuria – Alfredo Niceforo, la cui “scienza”, per la “proprietà transitiva dell’odio”, sarà portata a sintesi nel

Manife-sto della razza fascista) è consustanziale alla

rappresentazione di un Sud che, come l’A-frica, “deve essere accompagnato alla civiltà e alla modernità soltanto tramite misure ecceziona-li”. La forma moderna di questa ricostruzione dello spazio meridionale è la retorica della legalità, che ri-caccia ogni forma di conflitto sociale e contestazione dell’ordine simbolico del potere nel campo seman-tico delle mafie e dell’illegalità; e confina il pensiero meridionale nell’alternativa senza residui tra il “buon meridionalista” che varca la soglia dell’accettazione del modello di sviluppo eterodiretto e il “nostalgico neo-borbonico”.

La necessità di un ripensamento di un “orizzonte meridiano” parte dalla constatazione che il “Meri-dione”, così come è stato rappresentato, non esiste. Come del resto, ci dice Gianni Biondillo sin dal ti-tolo dei suoi reportage, non esiste l’Africa: “esisto-no esperienze dell’Africa, mai definitive”. esisto“esisto-no “realtà mutevoli, non solo di nazione in nazione, ma anche all’interno dello stesso territorio. Innovazione e arretratezza, immobilismo e fuga verso il futuro”. Le nostre idee monolitiche di un’Africa immobile si disfano sotto i colpi dell’esperienza diretta: con un soggetto in perenne mutazione la foto viene sempre mossa. Ma se le uniche voci che ci narrano i mondi che costituiscono il continente africano sono quelle dell’emergenza, delle carestie, dell’aiuto umanitario, “la percezione che abbiamo di quel mondo diventa inevitabilmente distorta, falsata, vittimistica”: non annotava cosa diversa Gramsci, a proposito della percezione del Meridione al Nord. Viaggiatore non per caso, Biondillo si adatta a una sorta di breviario laico: “Non crederti migliore di nessuno, non giudi-care, non sei il portatore di alcuna civiltà, sarà più quello che riceverai di quello che donerai, accetta di essere pieno di pregiudizi e di luoghi comuni, tutta-via non credere di essere l’unico, la cosa è reciproca”. e nondimeno ai pregiudizi Biondillo riesce a sfuggire anche grazie alla sua personale bussola per orientar-si nel mondo: quello sguardo dell’architetto (non è forse vero che l’architettura non è solo estetica, ma etica?) che gli permette al tempo stesso di scompagi-nare la topografia ritrovando i codici stilistici italiani in Africa, e di sorprendersi per l’esistenza della cat-tedrale in terra cruda di Djenné, nel Niger, che da secoli viene ogni anno rigenerata dall’intero villaggio, attraverso pratiche che fondano non “il Bene”, ma i

“buoni comportamenti”. n

demichele.gi@tiscali.it

G. De Michele è insegnante e scrittore

Segnali

- Società

I libri

Gianni Biondillo, L’Africa non esiste, pp. 210, € 15, Guanda, Milano 2014.

Briganti o emigranti. Sud e movimenti tra conricerca e studi subalterni, a cura di orizzonti meridiani, pp.

224, € 19, ombre corte, Verona 2014.

harry Browne, The Frontman. Bono (nel nome del

potere), ed. it. a cura di Wu Ming 1 e Alberto

Pru-netti, pp. 284, € 15, Alegre, Roma 2013.

Lilie Chouliaraki, The Theatricality of

Humanitaria-nism: A Critique of Celebrity Advocacy,

“Commu-nication and Critical/Cultural Studies”, 2012, n. 1, vol. 9.

Robert Fletcher, Blinded by the Stars? Celebrity,

Fantasy, and Desire in Neoliberal Environmental Governance, Paper Prepared for Symposium

“Ca-pitalism, Democracy, and Celebrity Advocacy”, University of Manchester, UK, 19-20 June 2012. Luca Rastello, I buoni, pp. 204, € 14, Chiarelettere, Milano 2014.

Riina Yrjöla, From Street into the World: Towards

a Politicised Reading of Celebrity Humanitarianism,

“The British Journal of Politics and International Relations”, 2012, n. 3, vol. 14.

(8)

Un film surreale, un’ilare denuncia delle irrazionali leggi comunitarie

Meglio di un treno per Stoccolma

Intervista a Gabriele Del Grande di elena Bissaca, Carlo Greppi e Alice Ravinale

Gabriele Del Grande è un giornalista freelance autore di due libri sul Mediterraneo (Mamadou va

a morire, 2007 e Il mare di mezzo, 2010, entrambi

editi da Infinito Edizioni) nonché uno dei tre registi di Io sto con la sposa (cfr. l’articolo in questa pagi-na).

S

imboli, fotografie, libri, film: quali immagini hanno costruito la sua idea del mondo e del no-stro Mediterraneo?

Il Mediterraneo è la mia grande avventura di formazione. Sono cresciuto nella cronica provin-cia italiana nazionalpopolare. Secondo di sei figli, in una famiglia cattolica piccoloborghese devastata dalla crisi degli anni novanta. Della mia adolescen-za ricordo le gare di motocross, le serate in disco-teca e il lavoro per aiutare

i miei: ho iniziato a tredici anni nei pomeriggi dopo la scuola, prima cameriere e poi magazziniere, e da allora non ho mai smesso. Il ragazzo di provincia che ero si è affacciato al mon-do durante gli studi uni-versitari a Bologna, dove mi sono laureato in storia, culture e civiltà orientali. Tuttavia sono stati i chilo-metri e non i libri a farmi innamorare del Mediter-raneo. Il primo viaggio era un biglietto di sola andata Roma-Casablanca, ottobre 2006. All’epoca avevo ventiquattro anni e un anno dopo avrei dato alle stampe il mio primo libro, Mamadou va a

mori-re, scritto proprio durante

quei tre mesi in cammino. Da allora non mi sono più fermato. Quei viaggi, que-gli incontri, queque-gli amori, quelle guerre, quelle lin-gue, quei silenzi mi han-no fatto diventare quello che sono. Un uomo inna-morato di questo piccolo grande mare che è il Me-diterraneo. Piccolo abba-stanza da trovare sempre un elemento comune che ti fa sentire a casa. Ma grande abbastanza per trovare sempre un’alterità culturale, linguistica, mu-sicale, gastronomica che ti fa perennemente sentire in viaggio.

Lei è giornalista e

scrit-tore e per anni ha avuto un blog seguitissimo ( For-tress Europe). Quando ha avuto l’idea di passare dalla scrittura alla scrittura per immagini?

Mentirei se vi dicessi che è stato un passaggio meditato. Continuo ad amare e a preferire la scrit-tura. Mi dà più possibilità di montaggio e di narra-zione. È più intima. Il lavoro di Io sto con la sposa è arrivato per caso. Come i migliori colpi di fulmine. Un giorno a Milano abbiamo incontrato un ragaz-zo in stazione che cercava un treno per Stoccolma. Si chiamava Abdallah, era un palestinese siriano sbarcato due settimane prima a Lampedusa dopo essere sopravvissuto a un terribile naufragio. Siamo diventati amici e ci siamo chiesti come aiutarlo ad arrivare in Svezia. Io ero appena tornato dalla Siria in guerra, e ottobre del 2013 era stato il mese dei seicento morti a Lampedusa. Così abbiamo deciso, senza troppo pensarci, di portarlo noi in Svezia. e di improvvisare un finto corteo nuziale per evitare i controlli in frontiera. era un’idea talmente folle

che ci ha subito conquistati. e a quel punto non potevamo non farci un film sopra. Per farlo abbia-mo chiaramente coinvolto amici del cinema indi-pendente milanese che conoscessero quel linguag-gio. Per me è stato bellissimo perché avevo soltanto da imparare. Il mio ruolo è stato più di scrittura della storia e di regia in montaggio.

Io sto con la sposa non è una fiction, non è un

mockumentary (un “finto documentario”), non è un documentario, ma documenta una “messa in scena”, il matrimonio. Chi si aspettava un “classi-co” documentario di denuncia rimarrà sorpreso. C’è chi lo accosta a kusturica, chi a Train de vie... Che film avete fatto?

Forse prima di fare accostamenti dovreste

aspet-tare un po’ e vedere il film... Diciamo che è un do-cumentario che racconta una storia vera per quan-to surreale. Nessuno di noi recitava, quegli abiti da cerimonia non erano i nostri costumi di scena, erano i nostri travestimenti per eludere i controlli. Il nostro lavoro sul trattamento del film si è limitato a immaginarci alcune scene, a pensare in che punto fare uscire i vari personaggi. Alla fine è uscito un film di avventura fatto da persone reali che vivo-no – e raccontavivo-no – la propria vita senza troppo pensare alla camera che li riprende. e il bello del film è questo. Che non è il classico documentario/ intervista in camera con il sottopancia e il tono da piagnisteo commiserevole. Il nostro obiettivo non è compatire la “vittima”. Il nostro obiettivo è raccon-tare una storia bella, una storia positiva, una storia di amicizia mediterranea dove ragazzi delle due rive si mettono insieme per bucare la fortezza eu-ropa e inseguire un sogno. Quello di un mondo di persone libere, dove viaggiare non sia più un reato.

Un’immagine dal futuro.

Sogno un mondo senza frontiere. La dico meglio: un mondo senza restrizioni sulla mobilità. I confini esistono, negarli è un errore. Mi piacerebbe scrive-re un elogio dei confini. I popoli esistono, come esi-stono le lingue, le religioni, le grandi storie colletti-ve. Il problema è quando si alzano muri e si contano i morti lungo quei confini. Un giorno tutto questo sarà un ricordo. È inevitabile. I confini di oggi tra gli stati-nazione sono come le vecchie dogane tra i ducati, le signorie e i piccoli regni italiani. Spari-ranno per il semplice fatto che viviamo in un siste-ma mondo, non più in un sistesiste-ma paese. Il mondo di oggi è globale, interconnesso, interdipendente, pluricentrico. La ricchezza si sta redistribuendo in modo vertiginoso. e la libera mobilità sarà

irrinun-ciabile, senza per questo intaccare le identità locali. Il timore è che per arrivare a questo risultato si deb-ba prima passare per un grande dramma. e quanto accade in Siria e adesso in Iraq non promette niente di buono. Spirano i venti di una grande guerra tra il mondo sciita e sunnita che inevitabilmente cambierà il Mediterraneo.

Per fare esistere questo film state chiedendo soste-gno, economico e ideale, attraverso una operazione di crowdfunding: quella che si è creata in meno di un mese è una rete di mi-gliaia di persone che si as-sumono la responsabilità di appoggiare chi infran-ge delle leggi ingiuste. Vi aspettavate un supporto così ampio? Chi vi sta so-stenendo? Cosa significa secondo lei?

Ci siamo chiesti se esi-steva una comunità di per-sone che la pensasse come noi su questi temi, pronta ad appoggiare con un ge-sto concreto il nostro atto di disobbedienza. e i risul-tati sono sorprendenti. In un mese abbiamo raccolto 60.000 euro online. Più di 1.700 persone hanno già fatto la loro piccola dona-zione, diecimila ci stanno seguendo su Facebook, la stampa italiana e quel-la internazionale si sono innamorate del progetto. Questo ci permette nell’immediato di pagare i pro-fessionisti che da mesi stanno lavorando al film. e sul lungo periodo di stare tranquilli nel caso in cui dovessimo essere processati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Perché non saremo soli. Molti dei nostri piccoli donatori fanno parte della rete costruita in questi otto anni intorno al blog Fortress Europe e ai miei libri. Ma non solo. Stanno arrivando donazioni di perfetti sconosciuti dagli Stati Uniti, dalla Germania, dalla Gran Breta-gna. Credo che il fatto che ci siamo esposti a un ri-schio così grande ci renda più autorevoli. e poi c’è il grande tema del sogno. Abbiamo portato un’aria di poesia su un tema che ormai è confinato ai nu-meri e alle paure.

ora la speranza è che il matrimonio venga

pre-sentato alla Mostra del cinema di Venezia. n

http://igg.me/at/iostoconlasposa www.iostoconlasposa.com

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- Migrazioni / Cinema

Un matrimonio che s’ha da fare

C’

è Abdallah, un ragazzo di poco più di

vent’anni. C’è Manar, che di anni ne ha do-dici, con suo padre Alaa. Ci sono Mona e Abu Nawar, che sono sposati da tanto tempo ma si guardano con gli occhi del primo giorno. Sono siriani palestinesi. Nell’ottobre

2013, in fuga dalla guerra, at-traversano il Mediterraneo e riescono a raggiungere Lam-pedusa, a differenza degli oltre seicento compagni di viaggio che in quel mese perdono la vita nel nostro mare. Alcuni di loro vengono registrati dalle autorità italiane, altri no. Tutti risalgono l’Italia e arrivano a Milano, dove si dice che par-ta la via per la Svezia. È la loro meta: in Svezia esiste un’im-portante comunità siriana, ai siriani in fuga dalla guerra viene riconosciuto lo status di rifugiato politico e gli standard di accoglienza sono molto più elevati che nel resto d’europa.

Perché in questa storia c’è anche l’europa, con le sue politiche di contenimento dell’im-migrazione dettate da logiche emergenziali, che hanno delineato un quadro giuridico contrad-dittorio, inefficace e, in definitiva, non equo. L’Ue controlla le sue frontiere attraverso l’agen-zia Frontex, che nasce con l’intento dichiarato di collaborare con i paesi confinanti per gestire insieme i flussi migratori e che ha invece mes-so in atto una politica di esternalizzazione delle frontiere per bloccare quanto più possibile, con ogni mezzo possibile, gli accessi a un’europa che, a tutti gli effetti, ha assunto i connotati di

una fortezza. I pochi che infine approdano sul territorio europeo si trovano di fronte a nuove barriere. I richiedenti asilo, in particolare, ai sensi dei regolamenti comunitari sono tenuti a restare nel paese in cui arrivano. Non importa se le condizioni di accoglienza e le possibilità di lavoro sono più favorevoli altrove o se in altri stati europei vi siano comunità di riferimento più ampie e ra-dicate. Chi arriva in Italia, in Italia deve restare. ecco quindi che anche il viaggio verso altri paesi europei, come la Svezia, è un’impresa complicata e ri-schiosa: un altro viaggio illega-le. e poi ci sono Gabriele, An-tonio e Khaled, uno scrittore, un regista e un poeta: vivono a Milano e da anni racconta-no il Mediterraneo. Per caso conoscono Abdallah e tutti gli altri. Il dramma delle frontie-re europee già lo conoscono. Stanchi di trovarsi ad ascoltare l’ennesima storia triste, decidono di crearne una. Che sia bella. Coinvolgono amici italiani, siriani, francesi, tedeschi, danesi, invitano tutti a un ma-trimonio che attraverserà l’europa. È così che nasce Io sto con la sposa, azione di disobbedien-za al sistema delle frontiere comunitarie che sta per diventare un film. Nelle ultime settimane ne hanno parlato decine di testate, sul web sembra che non si scriva d’altro, in poco più di un mese migliaia di persone hanno deciso di partecipare al progetto, finanziandolo.

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