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Rassegna. Biomeccanica dell anca protesizzata. L. Quagliarella, 1 A.G. Aulisa, 1 F. Silvi, 1 G. Mastantuoni. Biomeccanica dell anca protesizzata

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Biomeccanica dell’anca protesizzata

L. Quagliarella, 1A.G. Aulisa, 1F. Silvi, 1G. Mastantuoni

Clinica Ortopedica 1 Università di Bari; 1Dipartimento di Scienze Ortopediche e Traumatologiche, Università Cattolica Del Sacro Cuore, Roma, Italia

Rassegna

Clin Ter 2005; 156 (suppl.1) (6):19-41

Corrispondenza: Dott.Angelo Gabriele Aulisa, Istituto di Clinica Ortopedica Policlinico Gemelli 00168 Roma Italia Tel: ++39 06 30154353 e – mail: aulisa@libero.it Istituto di Ortopedia Università Cattolica - Roma

Riassunto

Obiettivo. L’obiettivo è quello di rendere sempre più affi dabile e longevo un impianto protesico mediante lo studio sulla biomeccanica dell’anca protesizzata. Le prospettive di intervento sono molteplici e devono far riferimento ad un ventaglio, sempre più ampio, di fattori che concorrono a determinare l’effi cacia funzionale dell’impianto, in rapporto alle sue diverse fasi di vita: dal progetto, alla commercializ- zazione, al miglioramento delle tecniche chirurgiche e dei metodi di valutazione post-operatoria.

Disegno. Lo scopo di un’articolazione artifi ciale è realizzare un sistema che ripristini, per quanto possibile, la cinematica fi siologica e consenta di sopportare i carichi, minimizzare l’usura e l’attrito, evitando l’insorgere di reazioni dannose nell’organismo.

Il successo dell’impianto è legato all’equilibrio, che deve essere man- tenuto nel tempo, fra le alterazioni indotte dalla protesi e la ca- pacità di compenso della struttura biologica.

Gli sforzi trasmessi dalla protesi all’osso, generano in quest’ultimo una distribuzione di tensioni nettamente diversa da quella fi siologica che dipende anche dalla confi gurazione geometrica della protesi, dalle sue caratteristiche meccaniche e dai nuovi vincoli che si realizzano all’atto dell’impianto per poi evolvere, modifi candosi nel tempo.

Conclusioni. L’impianto di una protesi provoca una totale altera- zione della distribuzione delle sollecitazioni e l’innescarsi di una catena di fenomeni che legano aspetti biologici e meccanici.

Sia nell’anca fi siologica che in quella protesizzata è nota, con buona precisione, la risultante delle forze agenti sul sistema, mentre sono carenti le conoscenze riguardanti la distribuzione delle sollecitazioni.

I fallimenti precoci non sono più accettabili e l’unica reale garanzia della validità di un impianto è indiscutibilmente costituita dai risultati clinici a lungo termine.

Parole chiave: artroprotesi totale anca, biomeccanica, carichi, cinematica

Abstract

Biomechanics Of The Replaced Hip

Objective. The objective is to make a prosthetic implant always more reliable and long lasting through the biomechanical study of the replaced hip. Surgery prospectives are various and have to refer to an always broader spectrum of factors that contribute to determine the functional effectiveness of the implant, related to its different stages of life: planning, marketing, improvement of surgical techniques and post-operative evaluation methods.

Study Design. The aim of an artifi cial joint is to achieve a system that restores the physiological kinematics as much as possible and that allows to support load bearing, minimizes wear and friction, avoiding the onset of harmful reactions in the body. The implant success is tied to the equilibrium, that has to be maintained, between the alterations induced by the prosthesis and the capability of the biological structure to balance.

The forces transmitted by the prosthesis to the bone produces a dis- tribution of load bearing clearly different from the physiological ones, which also depend on the geometrical confi guration of the prosthesis, on its mechanical characteristics and on the new bonds that develop upon insertion of the implant evolving and changing with time.

Conclusions. The implant of a prosthesis determines a total change of the load bearing distribution and the beginning of a series of reac- tions that tie together biological and mechanical aspects. Both, in the physiological hip as well as in the replaced hip, the resultant of the forces acting on the system is, with high accuracy, well noted , whereas knowledge on load bearing distribution is lacking.

Precocious failures are not acceptable any more and the only real guarantee of the validity of a prosthetic implant is unquestionably constituted by the long term clinical outcomes.

Key words: aiomechanics, kinematics, load bearing, total hip arthroplasty

Introduzione

Scopo di un’articolazione artifi ciale è realizzare un sistema che ripristini, per quanto possibile, la cinematica fi siologica e consenta di sopportare i carichi, minimizzare

l’usura e l’attrito, evitando l’insorgere di reazioni dannose nell’organismo.

Infatti, nel caso di primo impianto, è suffi cientemente garantita la possibilità, rapportata alla situazione quo ante, di compiere le usuali attività della vita quotidiana, per un

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The force components -Fx , -Fy , -Fz with positive values act allways from the outside to the center of the prostetic ball.

-Fx = from medial to lateral -Fy = from ventral to dorsal -Fz = from proximal to distal

F = resultant force = square root of (Fx ² + Fy ² + Fz ²)

Fig. 1. L’articolazione coxofemorale.

intervallo di tempo non inferiore ai 12-15 anni. Il successo dell’impianto è legato all’equilibrio, che deve essere man- tenuto nel tempo, fra le alterazioni indotte dalla protesi e la capacità di compenso della struttura biologica. Si tratta di quella che può essere defi nita la “risposta d’organo”

che l’articolazione manifesta all’impianto e che deriva da una molteplicità di elementi connessi all’intero apparato locomotore, all’entità ed al tipo di sollecitazioni scambiate fra osso ed impianto, fra i componenti protesici ed alla loro interazione con i tessuti biologici.

Si tratta di processi molto diversi per natura ed effetti, i cui rapporti reciproci, variabili nel tempo, non sono, oggi, defi nibili da leggi note; è forse per questo che molti aspetti connessi alla realizzazione delle protesi d’anca, in generale comuni a tutte le protesi articolari, sono oggetto di dibattito e portano ad approcci e soluzioni diverse. Di queste e delle motivazioni che le sottendono si darà nel seguito una sintesi, basata sulle indicazioni che la letteratura ha fornito negli ultimi venti anni.

Considerazioni di anatomia funzionale

L’articolazione coxofemorale (Fig. 1), costituita dalla testa del femore e dalla concavità dell’acetabolo, in termini meccanici, è sostanzialmente equivalente ad un giunto sferico con tre gradi di libertà. L’acetabolo è creato dalla confl uenza dell’ileo, dell’ischio e del pube e presenta una superfi cie articolare a forma di ferro di cavallo. Sia la su- perfi cie articolare del femore che quella dell’acetabolo sono coperte di cartilagine; quella del femore è più spessa nella zona centrale e meno in quelle periferiche, l’inverso accade per l’acetabolo.

Sebbene le due superfi ci siano congruenti, solo i due quinti della testa femorale occupano l’acetabolo, il cui vo- lume, se si prescinde dall’anulo fi broso, è inferiore a quello di una emisfera. L’anulo fi broso costituito dal legamento tra- sverso ha la funzione di aumentare la profondità funzionale dell’acetabolo e, quindi, la stabilità dell’articolazione.

Le caratteristiche anatomiche dell’anca consentono am- pie escursioni nei tre piani dello spazio (sagittale, coronale, trasversale). Né l’acetabolo, né la testa del femore sono perfettamente sferici (i piani sagittale e coronale sono eccen- trici di 1-3 mm) o congruenti. La maggior parte dei soggetti normali presenta un’escursione articolare di 120°-140° in fl esso-estensione, 60°-80° in abduzione-adduzione e 60°-90°

in rotazione interna-esterna. II movimento “totale”, somma di ciascuno dei movimenti angolari su ogni piano dello spazio, raggiunge i 240°-300°. Il movimento articolare, in ciascuna direzione spaziale, è limitato da vincoli anatomici imposti dai legamenti e dalla morfologia dei capi ossei.

La normale escursione articolare dell’anca eccede le esigenze poste dalla maggior parte delle attività quotidiane e solo in situazioni particolari o nel corso d’attività atletiche si raggiungono i valori limite. La deambulazione in piano richiede circa 50°-60° di fl esso-estensione con piccole escursioni in rotazione e abduzione-adduzione. Invece, in- dossare scarpe o calze costituisce l’attività quotidiana più impegnativa, sotto il profi lo dell’articolarità e richiede una mobilità totale compresa tra 160° e 170°, a meno di ricorrere a strategie motorie insolite quali quelle attuate dai pazienti sottoposti ad artrodesi d’anca.

Biomeccanica dell’anca Le forze articolari

La valutazione delle forze che agiscono sull’anca è stata oggetto di ricerche fi n dal secolo scorso, con gli studi di Braune e Fischer; in seguito, fu Pauwels (1) a calcolare che un soggetto di 80 Kg di peso, in appoggio monopodale statico, sviluppa nell’anca di appoggio una pressione di 18 Kg/cm2. Altri ricercatori affrontarono il problema o per via matematica o con metodi sperimentali (2,3), si tratta dei due approcci ancora oggi attuati anche se con tecnologie e strumenti assai più sofi sticati. La valutazione delle forze, infatti, può essere compiuta o tramite misure dirette, con

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impianti strumentati, o per mezzo di valutazioni numeriche, con tecniche di modellazione; si tratta di metodi, per certi versi complementari. La misura diretta consente di ottenere informazioni molto accurate anche se, a causa dei costi elevati e della complessità tecnica, è stata applicata esclu- sivamente nell’articolazione coxofemorale e ad un numero assai ristretto di pazienti.

I dati che ne derivano hanno il pregio di essere assoluta- mente reali ma il limite d’essere troppo strettamente legati alla peculiarità della situazione in esame. I modelli matematici costituiscono, invece, un metodo d’analisi relativamente poco costoso, applicabile ad un numero potenzialmente assai elevato di condizioni, fra cui anche quelle «normali». Il loro limite è costituito dalla diffi coltà di simulare appieno la situazione reale, a causa delle indispensabili semplifi cazioni a cui si ricorre, per la complessità della struttura biologica e che rendono critica la loro validazione. Il numero d’incognite, infatti, è nettamente superiore al numero d’equazioni del moto, il problema è quindi indeterminato e per ottenere una soluzione è necessario svilup- pare modelli semplifi cati dell’azione muscolare ed adoperare metodi matematici d’ottimizzazione.

Lo studio delle forze agenti sull’articolazione coxofemo- rale è stato inizialmente condotto riferendosi ad una condi- zione statica o quasi statica di appoggio monopodale. In tali ipotesi il carico che agisce sull’articolazione coxofemorale dipende quasi esclusivamente dalla massa corporea, dalle forze muscolari e dalla distanza fra baricentro corporeo e centro dell’articolazione.

La schematizzazione cui più spesso si ricorre è quella proposta da Pauwels, si tratta di un’analisi bidimensionale basata sugli studi antropometrici di Fischer e su alcune ipotesi (Fig. 2):

– appoggio monopodalico statico;

– proiezione delle forze nel piano frontale;

– azione muscolare costituita esclusivamente dai pelvitro- canterici;

– azione di una forza peso data dalla massa corporea cui è sottratta quella dell'arto in appoggio (pari a circa un sesto della massa corporea).

Il modello biomeccanico di Pauwels (4) ed altri, più o meno complessi (5-8) hanno dimostrato che la risultante delle forze agenti sull’articolazione dell’anca è inclinata di circa 16-20° sulla verticale ed ha intensità pari a 2.5-3 volte il peso corporeo.

Questi valori hanno trovato conferma in successive indagini condotte, con valutazioni sperimentali dirette, in persone con impianti di protesi d’anca (9-14), o con misu- razioni indirette, basate sulla valutazione della cinematica e dinamica del cammino integrate da modelli numerici dei diversi distretti articolari (15-17)

Le forze di contatto dell’anca, ottenute attraverso i meto- di numerici o quelli sperimentali sono sostanzialmente equi- valenti; i modelli analitici conducono alla determinazione di picchi di carico che presentano, rispetto ai dati sperimentali una variabilità, in più o in meno, di circa il 12% nel cammino e del 14% nel salire un gradino (18).

Lo stato di sollecitazione del femore

Tutti i carichi incidenti sull’anca vengono trasmessi attra- verso la cartilagine articolare all’osso subcondrale. Mentre

Fig. 2. Rappresentazione schematica della bilancia di Pauwels.

la genetica infl uisce in modo determinante sulla morfologia dell’osso, variazioni signifi cative e durature delle sollecita- zioni comportano, come intuito da Wolff (19), variazioni di forma e densità dell’osso e variazioni dell’orientamento spaziale del sistema trabecolare e, quindi, un sostanziale adeguamento alle nuove condizioni di esercizio.

La non perfetta sfericità delle superfi ci articolari fa si che, in assenza di carico meccanico, l’acetabolo e la testa del femore non siano perfettamente congruenti. La congruenza si realizza sotto carico, con la deformazione delle strutture a contatto, che genera sollecitazioni che si distribuiscono sulla testa femorale a “ferro di cavallo” ed in modo speculare sull’acetabolo. Le sollecitazioni maggiori si verifi cano sul polo superiore della testa del femore; simulazioni in vitro, in cui i carichi riscontrati con l’analisi del passo venivano imposti a strutture articolari di provenienza autoptica, hanno evidenziato, su queste, una non omogenea distribuzione di pressione. L’ordine di grandezza delle pressioni di contatto varia, all’incirca, da 1 Mpa, nel caso di contatto cartila- gine-cartilagine, a 8 MPa nella fase centrale di appoggio monopodale (20).

Diverse patologie (per esempio, la displasia o le fratture articolari viziosamente consolidate) alterano la distribuzione

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delle sollecitazioni sulle superfi ci di carico, ma non è noto l’effetto che, nel tempo, tali alterazioni possano indurre nella cartilagine. Questa è talmente cedevole che la presenza di piccoli difetti o dislivelli articolari non induce grandi au- menti delle sollecitazioni; inoltre, si rimodella progressiva- mente in modo tale che, nelle fratture articolari viziosamente consolidate, i loro margini non provocano concentrazioni di carico per lunghi periodi di tempo. Non vi è correlazione dimostrata tra concentrazioni di carico molto elevate ed in- sorgenza d’artrosi a lungo termine; fanno eccezione i casi in cui persistono per molti anni notevoli gradienti di pressione da contatto, che infl uiscono sulla distribuzione del liquido sinoviale e sulla nutrizione della cartilagine.

La disposizione trabecolare nella regione periaceta- bolare, nella testa e nel collo del femore è il rifl esso delle sollecitazioni cui le strutture sono soggette. L’ispessimento delle lamine subcondrali sembra indicare un aumento dei carichi locali, al contrario, una distribuzione uniforme della loro densità può essere conseguenza di una situazione di carico normale. Nel collo femorale la distribuzione dell’osso spongioso evidenzia due sistemi trabecolari: uno principale ed uno accessorio. Il sistema principale è costituito dal fa- scio arciforme e dal fascio cefalico; il sistema accessorio è formato dai due fasci che si diramano nel grantrocantere: il fascio trocanterico ed il fascio formato da strutture verticali, parallele alla corticale esterna del gran trocantere. Nell’area trocanterica, nel collo e nella testa vengono a costituirsi due sistemi a sesto acuto per la convergenza rispettivamente dei fasci arciforme e trocanterico e dei fasci arciforme e cefalico.

Tra il sistema a sesto acuto dell’area trocanterica e la base del sistema cervico-cefalico è visibile una zona di minor resi- stenza che l’osteoporosi rende particolarmente debole. In un femore sano, pertanto, la maggior parte delle sollecitazioni si distribuisce a livello della porzione prossimale e mediale, subito al di sopra del piccolo trocantere e raggiunge i valori più alti all’inizio ed alla fi ne del ciclo del passo (21).

I sistemi di forze applicati dalle azioni muscolari non sono ben conosciuti, per l’intrinseca diffi coltà a determinarli, ma svolgono certamente un ruolo rilevante nell’assicurare la stabilità e nel determinare entità e distribuzione delle solle- citazioni nelle strutture ossee (22-25), nel condizionarne il processo biologico di rimodellamento (26) e, quindi, nell’as- sicurare il mantenimento della stabilità dell’impianto (27).

Lo stato di sollecitazione dell’acetabolo

Valutazioni effettuate con modelli ad elementi fi niti mostrano che la maggior parte del carico è trasferito tramite il guscio corticale. Sebbene l’intensità delle forze articolari dell’anca vari notevolmente nel corso del ciclo del passo, la sua direzione rimane compresa nel quadrante antero-su- periore dell’acetabolo.

Poiché, inoltre, le principali aree di appoggio dell’osso pelvico sono costituite dall’articolazione sacro-iliaca e dalla sinfi si pubica si ha che la forza generata dal contatto dei capi articolari viene trasmessa principalmente verso il bordo esterno (rima corticale ed incisura ischiatica), la maggiore deformazione avviene in direzione postero-mediale (28), mentre le deformazioni sono di minore entità nella zona pubica (29) e nell’osso subcondrale. Considerata la struttura composita lamellare dell’osso pelvico le sollecitazioni nel

guscio corticale sono circa 50 volte più elevate che nel sot- tostante osso trabecolare: da 15 to 20 MPa vs 0.3-0.4 Mpa, in condizioni di appoggio monopodale (29).

I massimi valori della pressione intrarticolare sono pre- senti nella fase di appoggio monopodale e sono dell’ordine di circa 9 Mpa (29). Nella fase di pendolamento queste pres- sioni decrescono, con un rapporto inferiore a quello lineare, al decrescere dell’intensità della forza articolare.

Nel valutare queste indicazioni non si deve dimenticare che spesso le ipotesi di partenza sono che le deformazioni dell’acetabolo siano notevolmente localizzate e che le pelvi siano un corpo rigido; una parziale variazione di queste ipo- tesi come pure del sistema di carico, ad esempio l’inclusione dell’azione degli abduttori modifi ca, come è evidente, la distribuzione delle pressioni intrarticolari (30).

Lubrifi cazione

Uno dei principali problemi dell’ingegneria è rappresen- tato dalle situazioni in cui il carico viene trasmesso fra due elementi solidi in moto relativo. In tali condizioni, scopo della lubrifi cazione è diminuire attrito ed usura dei corpi a contatto; il sistema più effi cace è quello in cui le superfi ci di carico risultano completamente separate da un sottile strato di fl uido per cui la resistenza al rotolamento o allo scorrimento, rapportata al carico, è molto bassa e risulta dell’ordine dello 0,01.

La separazione fra le superfi ci può essere ottenuta in vari modi:

– iniettando il fl uido dall’esterno (lubrifi cazione idrostati- ca) così da generare la pressione necessaria a mantenere separate le due superfi ci;

– attraverso l’adesione, dovuta a forze molecolari, del lubri- fi cante sulle superfi ci (lubrifi cazione di strato limite);

– per azioni interne legate alla viscosità (lubrifi cazione idrodinamica)

– nel caso di carichi transitori, con velocità di deformazio- ne suffi cientemente elevate, alla capacità di mantenere separate le superfi ci affi dandosi sempre alle caratteristi- che di viscoelasticità del fl uido (lubrifi cazione elastoi- drodinamica e “squeeze-fi lm”);

quest’ultimo meccanismo riveste notevole rilevanza nelle articolazioni a causa delle caratteristiche di deformabilità della cartilagine articolare.

Lubrifi cazione dell’articolazione fi siologica

Le articolazioni devono trasmettere carichi elevati con- sentendo un moto relativo effi ciente in condizioni di sforzo e di moto estremamente variabili. Nell’articolazione dell’anca, il ciclo del passo (Fig. 3) comporta il raggiungimento di due picchi di carico, pari a circa 3 volte il peso corporeo, per una durata di circa 0,2 secondi, mentre valori più lievi del carico (1-1,5 volte il peso corporeo) si mantengono per 0.4 secondi; le velocità variano da 2 mm/s a 75 mm/s in condizioni di cammino normale.

In tali condizioni, le pressioni presenti nell’articolazione dell’anca variano con una frequenza di circa 1 Hz e la car- tilagine si comporta come un solido linearmente elastico;

il coeffi ciente assume valori fi siologici valutati intorno a 0,003-0,0015 (31).

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Fig. 3. L’andamento della risultante nell’articolazione dell’anca nel corso del ciclo del passo (From: BioMechanics Laboratory * Orthopaedic Department * Benjamin Franklin * Free University of Berlin)

La cartilagine articolare ha comportamento assimilabile a quello di un materiale lineare, poroso, bifasico riempito con un liquido linearmente viscoso; in soggetti normali adulti, ha uno spessore circa 2 mm che può ridursi fi n quasi a zero nelle articolazioni gravemente colpite dall’artrosi.

La superfi cie è sostanzialmente rugosa con variazioni d’al- tezza dell’ordine di 2 micron che diventano più marcate in presenza di patologie artrosiche.

Secondo Wang et al. (32) si ha che:

– la cartilagine si deforma in maniera da aumentare l’area di contatto;

– la deformazione agisce in maniera da ridurre la velocità di defl usso laterale del liquido sinoviale in modo da au- mentare il tempo di azione dell’effetto di compressione (squeeze-fi lm) che mantiene così la propria effi cacia in un intervallo di tempo che può raggiungere i 10 s;

– il fl uido lubrifi cante presente negli interstizi viene spinto dall’elevata pressione esistente nell’area centrale nelle zone ad inferiore pressione della periferia delle superfi ci di carico;

– tensioni circonferenziali di trazione sono presenti sulla superfi cie della cartilagine nonostante le condizioni di schiacciamento della pellicola di lubrifi cante, queste sol- lecitazioni circonferenziali vengono generate dal fl usso radiale del fl uido interstiziale negli strati di cartilagine.

Il liquido sinoviale è essenzialmente un dializzato di plasma cui è addizionata una catena polimerica costituita da acido ialuronico. La concentrazione di acido ialuronico, il suo grado di polimerizzazione, il tipo e la concentrazione di sali in soluzione, il pH ed, in minor grado, la temperatura sono i diversi fattori che concorrono a determinare la viscosi- tà del liquido sinoviale. Si tratta di un fl uido non Newtoniano in cui la viscosità diminuisce all’aumentare della velocità di applicazione dello sforzo di taglio.

Non è ben noto quali siano i meccanismi che garanti- scono in vivo la necessaria lubrifi cazione articolare; esiste certamente una differenziazione del meccanismo prevalente, in rapporto alle fasi del passo ed alle condizioni articolari ad esse collegate così che sia sempre garantita, anche attraverso processi differenti, la separazione delle cartilagini per mezzo del liquido sinoviale.

Un’ipotesi può essere che:

– nella fase di pendolamento, in presenza di un’elevata velocità relativa ed un carico articolare basso, vi sia uno spazio relativamente ampio fra le cartilagini, riempito di liquido sinoviale;

– all’atto dell’appoggio calcaneare, con un rapido aumen- to del carico ed una riduzione della velocità, il liquido sinoviale rimanga “intrappolato per schiacciamento”

e si abbia una lubrifi cazione elastoidrodinamica per la presenza di una pellicola di schiacciamento (squeeze- fi lm);

– nelle successive fasi del ciclo del passo, si ha una dimi- nuzione del carico ed un aumento di velocità per cui un meccanismo di tipo elastoidrodinamico classico potrebbe assicurare la lubrifi cazione;

– nella fase fi nale di spinta calcaneare potrebbe ripetersi il meccanismo di “squeeze-fi lm”.

Inoltre, nei casi in cui lo spessore di fl uido non fosse in grado di assicurare la lubrifi cazione, cosa che può verifi carsi, considerando le condizioni di attuazione di alcuni movimenti fi siologici potrebbe attivarsi la lubrifi cazione di strato limite che si avvarrebbe della presenza di uno strato di fosfolipidi adesi alle superfi ci articolari (Hills 2000).

Lubrifi cazione dell’articolazione protesizzata

Pur con tutte le variazioni conseguenti all’introduzio- ne dei componenti protesici la lubrifi cazione articolare sembra attuarsi attraverso meccanismi analoghi a quelli precedentemente descritti (Tab. 1). Nel caso di una coppa acetabolare in polietilene (UHMWPE) con testa femorale metallica o ceramica, i parametri che determinano lo spessore della pellicola di schiacciamento (squeeze-fi lm) sono legati a (33):

– raggio della testa femorale;

– gioco radiale fra testa del componente femorale e coppa acetabolare;

– spessore della coppa acetabolare e modulo elastico del materiale che la costituisce.

In particolare l’altezza della pellicola è direttamente pro- porzionale al raggio della testa femorale ed allo spessore della coppa ed è inversamente proporzionale al gioco fra le superfi ci a contatto ed al modulo di elasticità del polietilene (34).

Nel caso di accoppiamento metallo-metallo, l’aumento del diametro della testa facilita una lubrifi cazione in regime misto e contribuisce a limitare l’usura (35).

Per quanto concerne le protesi metallo-metallo la prima dimostrazione diretta dell’esistenza di un meccanismo di lubrifi cazione elastoidrodinamico fu ottenuta tramite misure di resistenza elettrica di contatto in simulatori d’anca. Dimi- nuire la rugosità superfi ciale ed il gioco dovrebbe consentire di aumentare la protezione che questo tipo di lubrifi cazione può offrire. Tuttavia anche in presenza di una pellicola continua di fl uido, che separi le due superfi ci, le variazioni del carico e le condizioni cinematiche possono provocare il deterioramento, la delaminazione e l’usura delle superfi ci di carico e tali fenomeni possono avere conseguenze più gravi a causa della fragilità dei componenti ceramici o della minore resistenza del polietilene.

Un’altro effetto rilevante è stato dimostrato da Bergmann et al. (36) che hanno rilevato un sensibile aumento di tem-

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peratura, fi no a 43 °C, nell’intorno delle superfi ci articolari di impianti con coppe in polietilene, dopo appena un’ora di cammino. Il fatto che in presenza di coppe di ceramica si abbia un minore innalzamento di temperatura, consente di ritenere questo effetto termico collegato a fenomeni di attrito.

L’aumento di temperatura potrebbe essere causa di danno termico ai tessuti periprotesici ed il peggioramento delle condizioni di lubrifi cazione potrebbe contribuire alla mobilizzazione asettica dell’impianto (36).

Le condizioni sperimentali di laboratorio sono ovvia- mente diverse da quelle presenti in vivo, ad esempio, la precipitazione di proteine dal siero bovino, che i simulatori adoperano come liquido lubrifi cante e che svolge un’azione protettrice delle superfi ci articolari nei confronti dell’usura (37), non si verifi ca in vivo.

La necessità di verifi care le prestazioni di materiali, accop- piamenti e scelte costruttive, pone in primo piano la verifi ca delle fondamentali caratteristiche tribologiche: attrito, usura e lubrifi cazione (38,39). La stesura di apposite norme tecniche, sviluppate presso l’ISO (International Organization for Stan- dardization) ed in via di adozione presso il CEN (Comitato Europeo di Normazione), rappresenta un elemento di garanzia per una valutazione delle caratteristiche di nuovi impianti, fondata su elementi accettati dalla comunità scientifi ca inter- nazionale, oltre che dalle industrie produttrici.

Biomeccanica dell’anca protesizzata

La protesi sostituisce i componenti osteocartilaginei dell’articolazione, per cui s’inserisce nel microambiente articolare realizzando un rapporto diffi cile con il contesto anatomico, sia per quanto riguarda l’aspetto biologico che quello meccanico. Gli sforzi trasmessi dalla protesi all’os- so, generano in quest’ultimo una distribuzione di tensioni nettamente diversa da quella fi siologica che dipende anche dalla confi gurazione geometrica della protesi, dalle sue caratteristiche meccaniche e dai nuovi vincoli che si realiz- zano all’atto dell’impianto per poi evolvere, modifi candosi nel tempo.

Di certo, a seguito dell’introduzione di una protesi si ha che:

– l'azione delle forze di carico non è più unicamente sostenuta dall'osso, ma si ha una ripartizione delle sol- lecitazioni tra osso e protesi;

– l'introduzione di uno stelo protesico nel canale endomi- dollare, aumenta la rigidità del complesso osso-protesi e riduce le sollecitazioni fl ettenti a livello del femore, sino all’apice dello stelo dove si ha una concentrazione di tensioni;

– la geometria dell’impianto protesico può determinare una variazione del punto di applicazione della risultante delle forze articolari ed una variazione del braccio di leva degli abduttori.

È noto che, in vivo, l’osso è capace di rimodellamento quando nuove condizioni funzionali di carico richiedono una diversa distribuzione tridimensionale delle strutture resistenti (40). Tale “richiesta” si verifi ca sempre dopo un impianto protesico e sia la natura che l’estensione del rimodellamento dipendono anche dalle caratteristiche dello stelo impiantato e dell’interfaccia che si realizzerà, nel tempo, con l’osso.

La trasmissione delle forze articolari

Il problema fondamentale nell’ancoraggio dei compo- nenti protesici è rappresentato dalla trasmissione del carico fra osso ed impianto; quanto più la nuova situazione sarà prossima alle condizioni fi siologiche tanto più facilmen- te l’osso periprotesico si adatterà alle nuove condizioni biomeccaniche (28).

Le caratteristiche della risultante delle forze applicate a livello articolare sono suffi cientemente conosciute; misure dirette delle sollecitazioni trasmesse fra componenti di pro- tesi d’anca si sono avute con numerosi lavori sperimentali (9-14) in cui sono stati adoperati componenti femorali di protesi d’anca muniti di sensori, in grado di misurare le forze scambiate fra le superfi ci di carico.

È sulla base dei dati così ottenuti (valor medio del carico massimo pari a circa tre volte il peso corporeo), che vengono dimensionate le protesi d’anca; ad esempio nella fase di ap- poggio monopodale del ciclo del passo in un individuo adulto di sesso maschile, il picco di carico nell’anca è inferiore ai 3000 N, che rappresentano il valore di carico previsto per l’esecuzione delle prove di fatica su steli di protesi d’anca, secondo le norme internazionali.

Quindi, ciò che si conosce, con suffi ciente precisione è l’entità delle forze che si scambiano i due capi articolari e ciò consente di progettare adeguatamente i componenti protesici, nonostante non sia noto il sistema di vincoli cui la protesi è soggetta.

La conoscenza di queste grandezze non è però suffi ciente per determinare lo stato di sollecitazione della struttura ossea che dipende dal reale sistema di carico e dalla distribuzione dei vincoli che si stabiliscono fra protesi ed osso.

Lo stato di sollecitazione nel femore protesizzato

Per la determinazione delle reazioni vincolari è possi- bile sostituire al sistema di carico reale un sistema ad esso equivalente che consenta di semplifi care l’analisi.

Tale sostituzione non è più corretta quando l’obiettivo del calcolo sia la determinazione dello stato di sollecitazione della struttura, ossia la conoscenza degli sforzi cui è soggetto ciascun punto del segmento osseo allo studio.

Per quanto riguarda qualunque impianto di protesi ar- ticolare, non è noto come si realizzino nello spazio i punti

Tabella 1. Coeffi cienti di attrito dinamico per alcuni accoppiamenti articolari

Accoppiamenti Coeffi cienti di artrito dinamico acciaio-acciaio 0,5

CoCrCoCr (con soluzione salina) 0,35 UHMWPE-acciaio (con siero) 0,7-0,12 UHMWPE-acciaio (con fl uido sinoviale) 0,4-0,5

UHMWPE-CoCr (con siero) 0,05-0,11

UHMWPE-Ti6A14V (con siero) 0,05-0,12 A12O3-A12O3 (con soluzione salina) 0,09 UHMWPE-A12O3 (con soluzione salina) 0,05 articolazione anca (con soluzione salina) 0,005-0,01 articolazione anca (con fl uido sinoviale) 0,002

da: J Black “Orthopaedics Biomaterials in Reseach and Practice, Churchill Livingstone, New York, 1988.

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di contatto protesi-osso e come essi possano modifi carsi nel tempo e quali caratteristiche meccaniche abbiano (ad esempio quale sia il limite di resistenza a taglio o a compren- sione di un ponte osseo sviluppatosi nell’area periprotesica a contatto con la protesi); allo stesso tempo non sono note, in dettaglio, le azioni muscolari (intensità e direzione della forza, istante di attivazione, distribuzione delle inserzioni).

Ne consegue che non è possibile conoscere il reale stato di sollecitazione della struttura (osso-impianto) da cui dipende il rimaneggiamento osseo, l’osteolisi da disuso e lo stress shielding; ossia il successo nel tempo dell’impianto.

È invece noto che nel corso delle normali attività quo- tidiane, sulla protesi d’anca, agiscono forze e momenti di rilevante intensità; si tratta di grandezze determinate con precisione, sia pure in un numero limitato di casi, tramite l’impianto di protesi strumentate (9-11).

Queste valutazioni sperimentali hanno confermato valori già noti: la linea di azione della forza risultante, agente sul- l’articolazione dell’anca, è diretta lungo una retta passante per il centro dell’articolazione, la cui inclinazione sul piano frontale è compresa fra 20-25° (Rydell 19-21°) e quella sul piano trasverso fra 19,5-25.5°.

Nel piano frontale i picchi di forza variano dal 280% al 480% del peso corporeo; valori più elevati, fi no all’870%

del peso corporeo, si sono avuti in occasione di anomalie del passo di lieve entità che possono, però, avere un’infl uenza determinante nel dare inizio al processo di mobilizzazione.

Il momento torcente varia, mediamente, da 24 Nm a 40,3 Nm, ma si possono facilmente raggiungere valori prossimi o superiori rispetto alla resistenza torsionale dell’ancoraggio dell’impianto (36, 41).

I massimi valori del momento fl ettente sono originati da forze comprese fra 1’8,2% e il 10% del peso corporeo, si tratta di valori che vanno poi moltiplicati per il braccio di azione rispetto alla sezione considerata.

Nel piano trasverso il picco di carico agisce in direzione medio-laterale. all’aumentare della velocità del passo au- menta il suo componente in direzione anteroposteriore e la sua direzione approssima, maggiormente, quella determinata dall’angolo di antiversione del collo del femore. È suffi ciente camminare con passo più spedito perché il carico raddoppi e sorgano momenti torcenti di notevole intensità; il semplice salire o scendere le scale rappresenta una delle attività più gravose per l’anca (42).

Sforzi elevati sono sopportati dall’anca durante l’at- tività riabilitativa: nel corso di movimenti «passivi», si raggiungono valori pari al 50% del peso corporeo, mentre la deambulazione con due grucce produce sforzi variabili fra 1’85% e il 200% del peso corporeo.

Le maggiori differenze fra anca normale ed anca prote- sizzata si verifi cano soprattutto per il sovvertimento della distribuzione delle tensioni nella zona prossimo-mediale del femore. Nelle articolazioni naturali, le forze vengono trasmesse, attraverso le superfi ci articolari, le inserzioni muscolari e quelle legamentose, alle strutture dell’osso spongioso e corticale. L’inserimento di una protesi altera questa distribuzione e crea sollecitazioni che non hanno alcun corrispettivo fisiologico (28, 43-44). Si tratta di aspetti evidenziati da tempo e che condizionano a tal punto il rimodellamento osseo che a 17 anni dall’impianto, esso è ancora, totalmente, alterato (45).

L’uso di modelli tridimensionali con elementi finiti (FEM) consente di valutare gli sforzi e le deformazioni ot- tenuti sul femore integro o protesizzato, tenendo conto delle differenti proprietà delle strutture presenti. Nel rapportare i risultati alla situazione reale non si devono però dimenticare i limiti di queste procedure, che non sono intrinseci ai codici di calcolo, ma dipendono dalle semplifi cazioni ed appros- simazioni introdotte nel modello rispetto alla situazione reale. La defi nizione delle ipotesi, la cui validazione è assai spesso molto diffi cile, rappresenta il punto critico dell’intero processo; da essa dipende non solo il grado di dettaglio dei risultati ma soprattutto la signifi catività di questi rispetto alla realtà. Ad esempio, nella gran parte dei modelli che cercano di affrontare il rapporto fra caratteristiche del segmento osseo e situazione di carico, l’osso viene considerato isotropo. In tal modo si riesce a simulare la distribuzione di densità dell’osso, ma non la struttura e la morfologia dei fasci trabecolari, per la cui determinazione, se richiesta, è necessario considerare una legge più vicina alla realtà, che può essere costituita dal far corrispondere gli assi della ortotropia a quelli delle sollecitazioni principali (46).

Dalle ipotesi sulle condizioni di vincolo presenti all’in- terfaccia protesi-osso o protesi-cemento deriva la preva- lenza di sforzi di trazione longitudinali rispetto a tensioni circonferenziali (47) ed ancora l’applicazione degli sforzi attribuiti agli abduttori, al vasto laterale ed allo ileo-psoas comporta una diminuzione delle deformazioni del femore se si considera la testa del femore opportunamente vincolata, un aumento in caso contrario (48).

Distribuzione delle sollecitazioni e carico applicato sono ovviamente l’uno conseguenza dell’altro e se considerare unicamente l’azione della risultante delle forze interarticolari non è corretto, per molti autori anche aggiungere a quella l’azione del pelvi trocanteri non è suffi ciente, per ottenere una descrizione attendibile della realtà (49).

Sintetizzando i risultati di analisi comparative, condotte con metodi numerici e sperimentali, (50-57) si possono defi nire alcuni comportamenti di massima.

Nelle protesi cementate d’anca le deformazioni longitu- dinali, nella regione ossea prossimo-mediale, sono inferiori a quelle fi siologiche; esse vengono, invece, superate nella parte distale, questo effetto è ancora più evidente nelle prote- si interamente porose, ove si assiste, spesso, ad un’ipertrofi a della corticale. Per quanto riguarda le deformazioni circon- ferenziali, sono più elevate, rispetto ai valori “fi siologici”.

Secondo Walker (107) negli steli a press-fi t si ha un aumento delle tensioni circonferenziali pari al 125%.

Al contrario di quelle longitudinali, la loro distribuzione non sembra modifi cabile variando la rigidezza dello stelo. Nel corso di comuni attività, salire le scale o alzarsi da una sedia, si sviluppa uno sforzo di torsione che raggiunge valori di circa 20-25 Nm (58), la cui importanza, come possibile causa di mobilizzazione, era stata ipotizzata in precedenti valutazioni cliniche e sperimentali (59). Nelle protesi cementate, la pre- dominanza dell’usura in sede postero-mediale e antero-late- rale, evidenzia la presenza di elevate sollecitazioni torsionali intorno all’asse longitudinale della protesi (60) e l’infl uenza del peso del paziente sulle sollecitazioni nella parte prossimale è superiore a quella di altri parametri (57).

L’effetto di carichi ciclici torsionali (61) e la rilevanza, nel primo periodo di vita dell’impianto, delle rotazioni

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generate dal momento torcente (62-63) costituiscono una delle possibili cause di mobilizzazione dell’impianto anche nel caso di protesi non cementate.

All’interfaccia osso-impianto si hanno sollecitazioni di taglio e compressione. Nelle protesi con superfi cie struttura- ta, le sollecitazioni di taglio vengono equilibrate dall’azione dei microincastri ed in quelle con superfi cie liscia dall’attrito, con un coeffi ciente stimato intorno a 0.5 (64). Se presenti, le sollecitazioni di trazione tendono a separare le superfi ci contigue dell’osso e della protesi, favorendo il fl usso di liquidi e la disseminazione di particelle di usura (65).

Un’ulteriore prova della cautela con cui questi modelli, sia numerici che sperimentali, devono essere esaminati è legata al concetto fi no ad ora assunto come paradigma per cui la conseguenza delle variazioni indotte dalla presenza di uno stelo femorale è, in linea generale, un’inversione del normale “pattern” di distribuzione delle sollecitazioni.

Secondo le ipotesi fi no ad ora accettate (66) nel femore sano la massima sollecitazione si ha a livello prossimo-mediale, mentre nei femori protesizzati, con variazioni legate alla geometria della protesi, questa si verifi cherebbe al di sotto della punta dello stelo, con una marcata riduzione, fi no al 90%, nella zona prossimo-mediale.

Opposte le conclusioni di Kim (67), secondo cui le deformazioni nel femore intatto crescono in direzione prossimo-distale così che le deformazioni sono massime presso l’apice dello stelo. Unico punto fermo sembrerebbe l’opinione, condivisa dalla maggioranza dei ricercatori, per cui la presenza dello stelo comporta sempre un aumento delle tensioni circonferenziali (68).

Si comprende, quindi, quanto sia diffi cile avanzare ipotesi circa l’entità ed il tipo di rimodellamento osseo considerando quanto poco si conosca della natura e della risposta dell’interfaccia, vera chiave di volta del sistema, in grado di condizionare il trasferimento dei carichi (69) e determinare la qualità della fi ssazione.

Lo stato di sollecitazione dell’acetabolo

Come nel caso del femore la valutazione dello stato di sollecitazione dell’accetabolo richiede la conoscenza:

– del meccanismo di trasferimento dei carichi nell’anca normale;

– dell’interazione fra neocotile e strutture ossee sottostanti;

– delle deformazioni presenti nelle strutture pelviche peria- cetabolari sia in condizioni fi siologiche che in presenza di differenti modelli di coppe;

– di un modello del processo di osteointegrazione corre- labile alle valutazioni in vitro;

sarebbe così possibile paragonare i risultati clinici e radiologici con le ipotesi teoriche e con le osservazioni sperimentali (28).

Nel caso dell’acetabolo, l’ancoraggio viene ottenuto su di una superfi cie piana o concava ed in genere, ciò comporta rispetto al femore un minore sovvertimento della situazio- ne di carico, caratterizzata dalla prevalenza degli sforzi di compressione che vengono mantenuti anche successiva- mente all’intervento di protesizzazione, sia pure con una distribuzione più o meno alterata rispetto alla situazione fi siologica. Tuttavia, la presenza del componente protesico comporta l’insorgere di sforzi tangenziali e di concentrazioni

di tensioni che, specie nel caso di posizionamento non cor- retto o di una chirurgia troppo demolitiva, possono divenire pericolosamente elevati.

Nell’articolazione coxofemorale, il carico è trasferito dalla porzione antero-superiore dell’acetabolo verso l’artico- lazione sacroiliaca e verso la sinfi si pubica; il comportamento meccanico delle pelvi è assimilabile a quello di una struttura composita, in cui i gusci di corticale e lo strato di osso subcon- drale sopportano la maggior parte dei carichi, mentre l’osso trabecolare svolge funzioni di riempimento (70); è, quindi, evidente l’importanza di conservare l’integrità di tali strutture, ricercando l’appoggio ed il contenimento della coppa sulla spongiosa subcondrale della facies lunata (28, 71) ed ottenen- do un corretto posizionamento anatomico (72).

Studi condotti su reperti autoptici hanno avvalorato que- ste ipotesi, dimostrando che il contatto sotto carico si verifi ca sull’intera superfi cie articolare, con una percentuale variabile dal 39% al 57% dell’intera emisfera e che le zone di maggior pressione si localizzano in corrispondenza dell’appoggio dell’ileo, dell’ischio e del pube (73). Ciò dimostra, inoltre che le pelvi rappresentano una struttura deformabile (30) che dal punto di vista funzionale non può essere assimilata ad un corpo rigido.

Forze meccaniche ed osteogenesi

L’interfaccia osso protesi costituisce l’elemento più deli- cato del sistema osso-impianto; le concentrazioni di tensioni che sembrano essere presenti sui bordi di tale interfaccia sono probabilmente una delle cause di innesco dei fenomeni di mobilizzazione o di protesi dolorose.

La mobilizzazione asettica, che ha costituito il principale limite della protesizzazione articolare, non solo continua ad essere la principale causa di insuccesso, anche se si presenta con minore incidenza percentuale, ma rimane tuttora oscura nella sua eziopatogenesi.

È incontestabile che forma e massa dei segmenti sche- letrici siano costantemen te adeguati all’entità degli stimoli funzionali, anche se la natura di questa rela zione è pressoché sconosciuta. Nei soggetti in accrescimento ed adulti l’entità delle sollecitazioni meccaniche sembra svolgere un ruolo fondamentale nel re golare l’osteogenesi.

Durante l’accrescimento somatico i segmenti scheletrici vanno incontro a due processi strettamente concatenati tra loro: l’accrescimento ed il modellamen to. Il primo avviene per apposizione di nuovo osso sulle superfi ci di osso pree- sistente, ed ha per effetto l’ispessimento complessivo della struttura su cui è avvenuta la deposizione, senza modifi cazio- ne sostanziale della forma o posi zione spaziale. Il secondo ha luogo per azione contemporanea, ma su superfi ci diverse, di osteoblasti ed osteoclasti: la struttura che rimodella va incontro a spostamento spaziale, e, a seconda della velocità relativa, degli uni rispetto agli altri, può conservare lo spes- sore di origine, se le cellule dei due citotipi pro cedono alla stessa velocità, ispessirsi o assottigliarsi, in caso contrario.

Questi due processi si arrestano al termine del periodo di accrescimento mentre persiste per tutta la vita un terzo pro- cesso, di continuo rimpiazzo di osso pree sistente con osso neoformato (rimaneggiamento) in singoli foci della compatta e della spugnosa. Gli osteoblasti depongono osso neoformato nella stessa se de dalla quale gli osteoclasti avevano riassor-

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bito osso preesistente calcifi cato. Durante l’accrescimento, perciò, l’osteogenesi è espressione di:

a) accrescimento, b) rimodellamento,

c) rimaneggiamento dell’osso;

mentre nel soggetto adulto è solo espressione di rima- neggiamento. Tuttavia vi può essere apposizione di nuovo osso anche in soggetti adulti, quando il segmento scheletrico riadatta la propria forma al carico meccanico variato per intensità o distribuzione. In altri termini, la quantità di osso neo deposto è legata all’entità delle sollecitazioni meccaniche (74); appare ben dimostrato il principio che le sollecitazioni meccaniche stimolano effi cacemente l’osteogenesi, secondo una relazione causale diretta.

La spugnosa si pre sta assai bene allo studio degli ef- fetti meccanici sull’osteogenesi, sia perché le trabecole si orientano nello spazio in relazione alla distribuzione spa- ziale delle deformazioni (1) e sia perché presentano forma e dimensioni diverse persino nell’ambito di una singola regione spugnosa. La diversa morfologia, orientamento e spessore delle trabecole depongono per un loro diverso im- pegno meccanico. Variazioni del carico meccanico, e cioè incremento o drastica riduzione, hanno effetti diversi sulle regioni spugnose. L’incremento del carico provoca ipertrofi a spic cata delle trabecole, e successiva mente una riduzione del rinnovamento strutturale; una sensibile diminuzione del carico applicato, provoca l’atrofi a del traliccio spugnoso.

Pur essendo dimostrato che le sollecitazioni meccaniche esercitano uno stimolo diretto sull’osteogenesi tuttavia, il meccanismo di trasduzione dello stimolo fi sico in impulso biologico è tut tora sconosciuto e le ipotesi proposte in passato non hanno mai ricevuto di mostrazioni convincenti. Tuttavia, se si considera che gli osteociti e gli osteoblasti sono con- nessi tra loro da “gap junctions” che consentono una facile dif fusione di sostanze quali i coloranti tra cellula e cellula (75), non sembra azzar dato supporre che siano proprio queste cellule ad essere coinvolte nei mecca nismi di trasduzione.

In particolare, è stata avanzata l’ipotesi che il processo di trasformazione delle deformazioni mecca niche in impulsi biologici avrebbe luogo negli osteociti. Queste cellule, infatti, mostrano segni di una vivace attività di sintesi proteica dopo applicazione di forze compressive intermittenti sull’osso.

II meccanismo di stimolazione de gli osteociti è anch’esso ipotetico. È stato proposto che i proteoglicani della capsula osteocitaria vadano incontro ad un riorientamento quando l’osso venga deformato dalle sollecitazioni meccaniche.

Terminata la fase di accrescimento, i diversi processi che avvengono nel rimodellamento osseo sono fi nemente controllati, in modo da avere un perfetto bilanciamento fra deposizione e riassorbimento osseo. Nel l’anziano, il processo di deposizione ossea rallenta e prevale quello di riassorbi mento; si verifi ca, così, una perdita di massa ossea che con il tempo può por tare a fragilità e fratture spontanee.

Si parlerà, quindi, di osteoporosi postmenopausale e senile, effetto, comunque, del mancato equilibrio tra i diversi fattori che determinano il modellamento os seo.

Mobilizzazione asettica

La mobilizzazione asettica continua ad essere una delle principali causa di fallimento delle protesi d’anca mag-

giormente presente nei soggetti più giovani e di maggior massa corporea (76-78), si presenta con modalità differenti a seconda del componente protesico interessato.

Qualunque sia il meccanismo che conduce alla mo- bilizzazione, essa è certamente favorita dalla mancanza di stabilità dell’impianto nell’immediato post-operatorio (79-83).

L’adozione di protesi non cementate ha, forse, portato ad una lieve riduzione della percentuale di mobilizzazione (84,85) ma non alla scomparsa della linea di radiolucenza ed ha provocato la nascita di nuovi problemi. Si è avuto un aumento dei casi di rottura del rivestimento (84, 86-90). È au- mentata l’usura e la delaminazione del polietilene, accentuati dalla presenza del metal-back (28, 91-93) sia per gli effetti meccanici che questo induce nell’inserto, sia per i micromo- vimenti che si verifi cano all’interfaccia guscio-inserto e che comportano un aumento della produzione di detriti.

Fra le cause che concorrono a determinare la mobilizza- zione asettica sono predominanti i fattori meccanici, come la presenza di movimenti tangenziali, dovuti alle diverse caratteristiche dei materiali a contatto (94); e la produzione di detriti, sia metallici (95-97) che di polietilene (98).

Un aspetto di assoluta rilevanza è costituito dalla qualità dell’osso in cui è posto l’impianto (99-100), poiché si è ri- scontrata una maggiore percentuale di fallimenti, in presenza di patologie che si rifl ettevano negativamente sulla struttura ossea (101). Non vanno trascurati, inoltre, le alterazioni meccaniche e geometriche legate al processo di invecchia- mento (102); sia per la minore capacità dell’osso porotico di compensare l’elevata rigidezza degli impianti (103), sia per l’aumento delle dimensioni interne del canale midolla- re. È, infatti, noto che, con l’età, lo scheletro umano perde massa ossea; le ossa lunghe compensano questa perdita, in misura proporzionale alle deformazioni cui sono soggette, con l’incremento del momento di inerzia delle sezioni rette, ottenuto aumentando il diametro interno e quello esterno delle diafi si (104).

Ancoraggio

Riuscire ad ottenere un ancoraggio stabile nel tempo dei componenti protesici è tutt’ora un obiettivo prioritario considerato che la mobilizzazione asettica continua ad essere una delle principali causa di fallimento delle protesi d’anca specie nei soggetti più giovani e di maggior massa corporea (76-78).

L’ancoraggio dei componenti protesici è assicurato dal contatto fra osso e protesi; comunque venga realizzato, con o senza l’interposizione di un riempitivo, la mancanza di legami chimici fra osso ed impianto fa si che esso sia affi dato all’azione meccanica della stabilità di forma e della suc- cessiva osteointegrazione esplicata, a livello microscopico, dalla aree di interferenza fra le superfi ci corrispondenti della protesi e dell’osso.

L’uso di rivestimenti in grado di non inibire o di stimolare la ricrescita ossea rappresenta il primo passo in una diversa direzione che probabilmente si svilupperà con il contributo dell’ingegneria genetica.

Rinviando al seguito accenni sulle scelte costruttive svi- luppate per il componente femorale e per quello acetabolare, una prima schematica suddivisione degli impianti protesici

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può essere effettuata in base alla soluzione adottata per ot- tenere l’ancoraggio che può essere cercato utilizzando:

– il cemento;

– l’adesione diretta con l’osso.

Ancoraggio con cemento

Sono disponibili sul mercato fi n troppi modelli diversi di protesi, la cui logica di progettazione non è sempre fa- cilmente individuabile e che, a volte, sono privi di risultati clinici a lungo termine. L’elemento di confronto, per ogni nuovo impianto, è costituito dai risultati delle protesi ce- mentate ed in tale ambito il miglioramento della tecnica di cementazione ha comportato una netta riduzione delle percentuali di revisioni (105-117).

L’adozione delle protesi non cementate non ha, fi nora permesso di ottenere gli stessi risultati; la stabilità della protesi e l’osteointegrazione, che rappresentano il successo clinico dell’impianto, non escludono la persistenza di una sintomatologia dolorosa e funzionale che può portare, anche, al reintervento (118). Si tratta fortunatamente di un numero limitato di casi; molto più spesso la sintomatologia regredisce nel corso dei primi quattro anni, segno di un rimodellamento che continua nel tempo. Mentre il cemento crea una protesi su misura, realizzata in due fasi, anima metallica e manto di cemento, ove è possibile ottenere una maggiore stabilità iniziale senza che ciò vada a detrimento dell’osso (119); la protesi non cementata richiede una congruenza anatomica diffi cile da realizzare sia nel canale midollare, che sulle su- perfi ci di osteotomia. L’uso di guide e della sega oscillante, infatti, garantisce solo in parte l’ottenimento di una superfi cie piana, questa in realtà si presenta in maniera abbastanza ir- regolare con una rugosità che crea vuoti, fra osso e protesi, suffi cientemente grandi da prevenire il contatto diretto e ridurre la possibilità di ancoraggio biologico (120).

Per altri aspetti, la distinzione fra protesi cementate e non cementate è, certamente, assai meno signifi cativa di quanto fi no ad oggi non si sia voluto ritenere. In entrambi i casi la fi ssazione dei componenti è affi data alla presenza di microincastri; eguale l’atrofi a subita dall’osso (121); simile il comportamento biochimico dei tessuti presenti all’interfaccia (81); spesso, analoghe le complicazioni (122-123). Si pensi alla formazione di cisti e di aree di osteolisi intorno agli steli cementati, che diede origine al concetto di “patologia del ce- mento” e che risulta ugualmente presente negli impianti non cementati (45, 85, 103, 124-128), provocata, dalle particelle di polietilene (45), da particelle metalliche (129), o da una imperfetta preparazione della sede anatomica (130).

Adesione diretta con l’osso (ancoraggio biologico)

La ricerca dell’ancoraggio biologico nacque dalla necessità di porre riparo al gran numero di insuccessi che seguirono la prima diffusione degli impianti cementati e di cui già Charnley si era reso conto. Poiché si riteneva che fossero le caratteristiche intrinseche della resina, più che la tecnica di preparazione e di introduzione a causare i falli- menti degli impianti, Lord ed altri ricercatori svilupparono soluzioni tecniche alternative al fi ne di stimolare la crescita ossea direttamente sulla protesi, contenendo al massimo l’ampiezza dello spazio e dei micromovimenti inizialmente

presenti tra osso e protesi. Assumevano, q1uindi particolare importanza l’accuratezza della tecnica chirurgica, la forma, la fi nitura superfi ciale dell’impianto e l’adozione di oppor- tuni rivestimenti “osteoinduttivi”.

L’ancoraggio biologico consentirebbe di ottenere un ancoraggio tridimensionale, fra protesi ed osso, in grado di trasferire, attraverso l’interfaccia, anche sollecitazioni di trazione. Ciò non avviene in presenza di uno stelo liscio cementato, che può trasmettere, oltre agli sforzi di compres- sione, soltanto sollecitazioni di taglio (131-133).

I principali requisiti per ottenere l’apposizione di osso, in una struttura porosa, sono costituiti dalla biocompatibi- lità del materiale, da una microstruttura appropriata, dalla stabilità dell’impianto e da un intimo contatto osso-protesi (83, 134-135). Ciò vuol dire che, fra le due superfi ci, vi deve essere una distanza massima compresa fra 0.3-0.5 mm (136) e 1 mm (137). Spesso, però, la distanza fra osso e protesi è superiore a tali valori (123) e ciò potrebbe spiegare la par- ziale integrazione, limitata al 10% della superfi cie porosa, riscontrata da Cook et al. (138).

Fattori meccanici che condizionano il rimodellamento osseo: stabilità primaria e stabilità secondaria

La risposta adattativa dell’osso è modulata, sia qualita- tivamente che quantitativamente, da fattori biologici e da fattori biomeccanici, quali il modulo e la direzione delle forze che agiscono sulle strutture ossee e la capacità di queste strutture di rispondere alle sollecitazioni.

In tutti gli impianti protesici si può ritenere che lo sviluppo del legame osso-impianto sia affi dato nella fase iniziale esclusivamente all’azione meccanica dei microin- castri presenti all’interfaccia e dovuti alla congruenza di forma delle superfi ci a contatto; tale azione determina la cosiddetta “stabilità primaria”.

Successivamente, la crescita dell’osso periprotesico, eventualmente stimolata in modo opportuno, da un lato aumenta il numero di microincastri, dall’altro crea legami che, basandosi sull’affi nità chimica degli elementi a contatto, possono condurre ad una maggiore effi cacia del vincolo;

si giunge così ad ottenere la “stabilità secondaria” cui, in defi nitiva, è affi dato il successo dell’impianto.

In sintesi, prescindendo da aspetti biologici e chirurgici, si può dire che la forma della protesi determina la stabilità primaria; i rivestimenti condizionano la neoformazione ossea ed infi ne la fi nitura superfi ciale contribuisce ad ottenere la stabilità secondaria.

Per forma della protesi, in particolare del componente femorale, deve intendersi sia la geometria della parte in- serita nel canale femorale, sia quella esterna al canale che determina la possibilità di ricostruire una confi gurazione spaziale dell’articolazione operata che tenga conto, non solo della fi siologia, ma anche della situazione preoperatoria e di quella dell’arto controlaterale.

La stabilità a lungo termine dell’impianto, ovvero la fi s- sazione ossea allo stelo non cementato, si ottiene solo se l’os- so si accresce a contatto o all’interno della superfi cie dello stelo protesico e mantiene tale contatto nel tempo. Perché la fi ssazione ossea si verifi chi, l’impianto deve presentare una suffi ciente stabilità iniziale e perché si mantenga nel tempo è necessario che il comportamento meccanico della protesi sia compatibile con le caratteristiche fi siche dell’osso.

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La stabilità meccanica primaria condiziona i processi di osteointegrazione. La soddisfacente stabilità iniziale di uno stelo non cementato è ottenuta quando esso ha un’adeguata fi ssazione su di un osso di resistenza suffi ciente per soppor- tare i carichi ad esso applicati.

Pertanto, poiché si ottengano le condizioni suffi cienti a garantire un’osteointegrazione ottimale è necessario che gli impianti siano in grado di resistere alle traslazioni su 3 piani:

assiale (affondamento), mediale-laterale e antero-posteriore.

Gli impianti devono anche resistere alla rotazione sul piano coronale (varo-valgo), alla rotazione sul piano sagittale (fl es- sione ed estensione) ed alla rotazione sul piano trasverso.

La maggior parte degli steli non cementati, anche quelli di maggior successo, va incontro dopo l’impianto a un lieve affondamento precoce, in genere troppo modesto per essere misurabile con radiografi e standard. L’affondamento pro- gressivo, tuttavia, conduce al fallimento clinico. La resisten- za ai carichi di torsione appare particolarmente importante ed è una caratteristica chiave degli steli non cementati, ove in alcuni casi è stato osservato un micromovimento in rotazione maggiore rispetto a quello riscontrato in modelli cementati che può essere ritenuto una delle concause degli insuccessi precoci e del dolore di coscia.

I più importanti progressi nella fi ssazione iniziale si sono ottenuti con il miglioramento della geometria dello stelo, con il rendere disponibile una maggior varietà nelle dimensioni dell’impianto e con il miglioramento delle tecniche chirurgiche. Per una buona funzione dell’anca, che garantisca una stabilità nel tempo dell’impianto, sono da considerare le caratteristiche prossimali dell’impianto femorale che ottimizzano la biomeccanica coxo-femorale (lunghezza del collo, angolo cervicale, antiversione del collo, lateralizzazione del femore), la geometria del corpo dello stelo, i materiali impiegati ed il tipo di fi nitura.

Tuttavia quasi tutti gli elementi che definiscono i componenti protesici sono tuttora oggetto di studio e di discussione; l’esistenza di numerosissimi modelli ne è la riprova. I risultati delle casistiche riportati nel seguito rendono quanto mai complessa la valutazione dell’effettiva rilevanza delle diverse scelte costruttive. Alcuni aspetti, su cui molto si è discusso negli anni precedenti, sembrano superati di fatto da scelte del mercato, senza che se ne sia avuta una completa giustifi cazione tecnica. In molti casi le soluzioni più diffuse sono dovute alla necessità di ottimiz- zare il risultato globale, anche limitando specifi ci aspetti funzionali. Ad esempio, l’aumento delle dimensioni del collo comporta una diminuzione dell’escursione articolare e ciò rappresenta l’inevitabile prezzo di quella modularità che l’uso di testine di lunghezza variabile consente di ottenere, garantendo una migliore possibilità di ripristinare la piena funzionalità dell’arto.

Gli argomenti e le considerazioni che seguono vogliono evidenziare alcuni dei punti su cui si è focalizzata l’atten- zione dei ricercatori e le soluzioni che sono state fi no ad oggi adottate.

Geometria dello stelo

I modelli di stelo femorale si sono evoluti secondo fi lo- sofi e differenti, ogni sistema di classifi cazione è arbitrario;

è tuttavia possibile individuare dei modelli generali di steli

in base al loro sviluppo nel piano frontale ed in quello sa- gittale:

– retti;

– curvi;

– anatomici.

Non si tratta solo di una differenziazione morfologica ma di una diversa maniera di intendere la ricerca di quella congruenza superfi ciale che limitando la distanza fra osso e superfi cie protesica rende più probabile lo sviluppo di strutture ossee adese alla protesi.

Si passa dal concetto di adattamento dell’osso alla protesi, ottenuto tramite una resezione molto bassa ed un opportuno alesaggio del canale femorale alla ricerca di forme che consentano la salvaguardia, quando possibile, di parti del collo femorale e che abbiano anche nella loro parte distale una curvatura che si sviluppa per tutta la lunghezza dello stelo e ne renda possibile l’impianto senza richiedere un’eccessiva cruentazione della superfi cie endostale.

La ricerca di un contatto, il più possibile esteso e che si sviluppi in maniera tridimensionale ha portato allo sviluppo delle protesi “anatomiche” dove si tiene conto anche della curvatura sul piano sagittale con la realizzazione di protesi asimmetriche.

Lo sviluppo di steli con componenti modulari e di pro- tesi su misura costituisce la naturale conseguenza di questo approccio che essenziale nelle protesi per grandi resezioni o nel caso di reimpianti su morfologie ossee complesse, non trova un suffi ciente riscontro clinico in altre situazioni di più comune ricorrenza.

Colletto

Fisiologicamente, nel femore, la zona del calcar è soggetta al carico trasmesso dall’area di contatto articolare alla parte prossimale. L’inserzione di steli femorali riduce le solleci- tazioni in tale zona, fi no al 90% negli steli senza colletto e dal 50 al 70% negli steli con colletto (5). L’uso del colletto consentirebbe di caricare il calcar mediale riducendo nelle protesi non cementate il rimodellamento osseo corticale (139), di prevenire l’osteopenia, diminuendo l’intensità delle solleci- tazioni circonferenziali (140-141) con buoni risultati clinici.

La presenza del contatto calcar-colletto avrebbe poi il vantag- gio, nelle protesi cementate, di ridurre signifi cativamente le sollecitazioni nel manto di cemento (57). Anche l’ampiezza dei micromovimenti in direzione cranio-caudale risulterebbe signifi cativamente ridotta, da 90 µm a 25 µm (142).

Non si deve però dimenticare che è diffi cilmente rea- lizzabile un valido contatto fra colletto e calcar, ed il rias- sorbimento osseo, radiografi camente evidente in numerosi casi, potrebbe indicare come la presenza del colletto non sia garanzia di un reale trasferimento del carico. Inoltre, in presenza di riassorbimento del calcar, il colletto, impedendo l'affondamento della protesi, non potrebbe impedire il rag- giungimento di una nuova posizione di equilibrio e rendere più precaria la situazione dell'impianto.

Collo

Un elevato rapporto fra il diametro della testa e quello del collo, valutato anche alla luce del posizionamento dei componenti, consente una maggiore escursione del movi-

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