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La lama del tuo sorriso

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Academic year: 2022

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La lama del tuo sorriso

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Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esi- stenti è da ritenersi puramente casuale.

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Antonella Gheza

LA LAMA DEL TUO SORRISO

Romanzo

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www.booksprintedizioni.it

Copyright © 2020 Antonella Gheza Tutti i diritti riservati

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“A mio papà, che ne sarebbe orgoglioso.”

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“Rinchiusa in una torre di certezze la verità è la nostra più grande menzogna.”

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L’uomo raccolse la lama insanguinata.

Passò il dito sulle gocce rosso vermiglio e la leccò per gu- starne il sapore, per prendersi un po’ del male di lei.

Si ferì la lingua e sentì un dolore più profondo esplodergli nelle viscere.

Seguendo i grumi sul pavimento, si incamminò verso la stanza da letto dell’unica sua ragione di vita.

L’amore è una belva incantevole e pericolosa. Ti fa le fusa, ammaliandoti con il suo morbido pelo e quando sereno spro- fondi nel suo caldo abbraccio, convinto che ti proteggerà da tutti i mali del mondo, ti sbrana con fauci fameliche.

A questo pensava, quando socchiuse la porta e vide ciò che già conosceva.

Così addormentata sembrava un angelo, al di sopra del bene e del male. Per un attimo pensò che nulla avrebbe potu- to ferirla. Un essere così perfetto, di una bellezza quasi so- prannaturale, non può venire contaminato da tanta effera- tezza.

L’amore che provava per lei era così potente da procurargli una fitta al cuore. Istintivamente si portò una mano al petto e socchiuse gli occhi nella penombra di un’alba ancora di- stante, sperando di riaprirli in un tempo passato, quando ancora vivevano nella presunzione di essere felici.

L’incubo era ancora lì, sotto i suoi occhi felini addomesti- cati alla notte, e lo pietrificò fino a fargli mancare il respiro.

L’aria pesante della stanza gli imperlava il volto di sudore.

I sensi tesi e il senso del non ritorno.

La mano fra i capelli fu tutto ciò che riuscì a fare.

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In ginocchio, cercando di raccogliere brandelli dell’accaduto, vedeva la vita scorrere davanti a sé.

Gli toccava fare i conti con l’orrore, e il senso di colpa gli attanagliava la gola.

Con gli occhi bassi e gonfi, si condannava al suo futuro.

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“C’è qualcosa di peggio di una donna che vive da sola:

una donna che dice che le piace vivere da sola.”

Thelma Ritter

Sono sdraiata sul letto.

Dalle sue piccole mani irradia un calore che investe ogni cellula del mio corpo. Completamente rilassata, fluttuo in una dimensione surreale, forse frutto della mia immagina- zione, forse di ricordi ancestrali di vite passate.

Quando riemergo dal torpore, apro gli occhi e mi ritrovo in una stanza che dovrebbe essermi familiare, ma è come se vedessi sempre per la prima volta.

Il soffitto è alto e la luce che entra dall’enorme finestra a bovindo è leggermente oscurata da pesanti drappi di Giava.

La parete di fronte è interamente occupata da una libre- ria sovraffollata: volumi posizionati a caso in senso oriz- zontale, verticale e, in alcuni casi, a fantasiosi incastri tra- sversali.

Oggetti di varia e non identificata natura, recuperati du- rante i suoi viaggi in località dai nomi impronunciabili, stipano i pochi spazi rimasti liberi.

Alle mie spalle l’immancabile acchiappa-sogni, regalo di un indiano della riserva Navaho, dove è stata ospite duran- te il suo periodo americano.

Lo stereo è appoggiato a terra e i CD, prevalentemente di musica etnica, sono sparpagliati sul pavimento. Nessun mobile, a meno che il lettino da massaggio possa essere considerato tale.

Quadri di foto e ritratti sono appesi alle pareti colorate.

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Ancora piacevolmente intontita dal massaggio, cerco di mettere a fuoco il mio preferito, quando Eva riemerge dal- la porta.

«Ti va una tisana?»

«Solo se è uno dei tuoi intrugli drogati» rispondo, conti- nuando ad osservare il disegno.

L’ha dipinto un suo compagno di corso nell’Ashram in- diano, dove si reca ogni anno in meditazione. È ritratta di spalle, in bianco e nero, nella posizione del loto. I lunghi capelli ricci le ricadono sulla schiena nuda, accarezzando le spalle leggermente più ampie del normale e scendendo sinuosi verso i fianchi stretti.

«Preparato ayurvedico di fiori di tiglio e rosa canina»

ammicca, facendo segno di seguirla.

La cucina, se possibile, è ancora più sconclusionata della stanza che ci lasciamo alle spalle che, per comodità, chia- miamo soggiorno.

Qui l’ambiente è un misto di sacro e profano.

Il profumo delle piante si fonde con quello delle spezie e degli olii essenziali, in un potpourri insolito e intenso.

Frutta e verdura sono in bella mostra, tra fogli di appun- ti sparsi ovunque, appesi, o volanti sul ripiano del lavello.

Alcune bollette, probabilmente scadute, giacciono intrap- polate tra piatti e bicchieri scompagnati. Barattoli colorati di ogni forma e dimensione, tra cui riconosco le trentotto irrinunciabili boccette di vetro dei fiori di Bach, spuntano come funghi a novembre.

«Quest’intruglio è imbevibile, posso addolcirlo con un po’ di zucchero?» chiedo, dopo essermi ustionata la lingua con la tisana bollente.

«Lo zucchero è veleno, mia cara. Prova questo.»

Mi passa un barattolo contenente una sostanza collosa color testa di moro. L’etichetta recita testuale: Gulamerah di bali biologica. Quando lo apro mi investe un odore dol- ciastro e nauseabondo, che mi ricorda un ricostituente che mi rifilava il pediatra ad ogni visita, e che mia mamma di- ligentemente mi propinava per paura che diventassi ano- ressica.

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