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LA GIORNATA DELLA MEMORIA

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Academic year: 2022

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LA GIORNATA DELLA MEMORIA

Il 27 gennaio 1945 le truppe russe arrivarono per prime alla città polacca di Auschwitz, dove scoprirono il campo di concentramento. Al suo interno furono uccise oltre un milione di persone, il 90% delle quali erano Ebrei, deportati da vari Paesi d'Europa.

I soldati liberarono i superstiti, le cui testimonianze aprirono per la prima volta gli occhi del mondo sull’orrore del genocidio nazifascista.

L’Onu nel 2005 ha scelto di istituire una giornata mondiale di commemorazione di tutte le vittime dell'Olocausto.

Quest’anno nella giornata della memoria, sul sito Web del nostro Comune, abbiamo conosciuto le storie di alcuni membri dei Levi, famiglia ebrea con radici doglianesi: di Franco e Oreste deportati e morti ad Auschwitz; di Dario insieme a moglie e due figli, che si salvarono dall’arresto e dal trasferimento in un lager grazie all’ospitalità di un abitante di Cissone, il quale, nascondendoli durante le perquisizioni nazifasciste, li protesse.

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La “Giornata della memoria” è stata anche occasione per approfondire la conoscenza della biografia di Liliana Segre, sopravvissuta al genocidio ebraico e oggi Senatrice a vita. Di lei il libro “La memoria rende liberi” racconta: l’infanzia serena trascorsa con il padre Alberto e i nonni paterni; i cambiamenti che la sua esistenza subì a seguito delle discriminazioni razziali; la dolorosa esperienza ad Auschwitz, la lunga marcia della liberazione; il ritorno a casa e la difficoltà di convivere con un passato che in modo traumatico l’aveva profondamente segnata.

Liliana, orfana di mamma, viveva con l’adorato papà e i nonni Olga e Pippo a Milano.

Apparteneva a una famiglia abbastanza benestante che abitava in una bella casa in corso Magenta ed era proprietaria di una ditta e anche di una scuderia.

La sua vita cambiò dal 1938, con l’introduzione in Italia delle leggi razziali: venne espulsa da scuola in quanto alunna ebrea e alcuni beni di famiglia vennero confiscati.

La guerra e poi l’Armistizio dell’8 settembre del 1943 la costrinsero prima a nascondersi e poi a fuggire. Dopo l’occupazione tedesca dell’Italia, infatti, venne ordinato l’arresto degli Ebrei e la loro deportazione. Il padre dapprima procurò dei documenti falsi a Liliana e la affidò ad altre famiglie; successivamente tentarono la fuga in Svizzera. Pagarono dei contrabbandieri per raggiungere il confine dove, respinti dalla polizia elvetica, vennero arrestati dai Fascisti e consegnati ai Nazisti.

Liliana e il papà finirono in carcere a Varese, poi a Como e infine al San Vittore di Milano. Dalla stazione di questa città, dal binario 21, il 30 gennaio del 1944 partirono per Auschwitz, su un vagone bestiame: pressati insieme ad altre cinquantotto persone, al buio, con un po’ di paglia per terra e un secchio per i bisogni.

Viaggiarono circa una settimana.

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La mattina del 6 febbraio 1944 arrivarono alla stazione di Auschwitz, ma il treno la superò e proseguì fino a una diramazione ferroviaria che portava a un binario morto, dove i convogli arrivavano pieni e partivano vuoti: erano giunti al campo di concentramento. Con violenza vennero tirati giù dai vagoni. Prigionieri che erano in lager già da tempo raccolsero e accatastarono i loro bagagli. Poi furono separati uomini e donne: Liliana lasciò per sempre suo padre. Ecco, prese dal libro, le toccanti parole di una figlia che a quel tempo aveva tredici anni.

Scesi dal vagone bestiame, ci trovammo circondati da tanta gente: c’erano i prigionieri del campo che avevano l’ordine di prendere le nostre valigie; c’erano i soldati nazisti con i cani al guinzaglio che smistavano noi: gli uomini da una parte e le donne dall’altra. –Calmi, state calmi, vi dobbiamo solo registrare; stasera sarete di nuovo insieme-.

Io e papà, che ci eravamo abbracciati prima di dividerci, pensavamo che poco dopo ci saremmo riuniti: -Poi torniamo insieme- mi diceva per farmi coraggio…e io ci credevo.

Papà era stato messo in fila con gli uomini, lontano da me. Io mi giravo verso di lui e gli facevo dei piccoli saluti per farmi coraggio…mi veniva da piangere perché vedevo che si allontanava sempre più dal mio gruppo.

Seguivo tutti i movimenti che faceva papà nella fila degli uomini. Però, intanto noi andavamo avanti e io dovevo stare attenta a cosa succedeva nella mia fila…se non sentivi un comando ti picchiavano.

A un tratto mi girai per salutare ancora papà…ma lui non c’era più, non lo vedevo più. Cominciai ad agitarmi, mi sembrava di impazzire perché non potevo correre e andarlo a cercare…non potevo muovermi, staccarmi dalla fila dove mi avevano messa.

Continuavo a guardarmi intorno sperando di vederlo…fino a quando capii che era inutile…era sparito, era stato portato lontano da me”.

Dopo la selezione Liliana venne spogliata di tutto, le fu tatuato sull'avambraccio il numero di matricola 75190, indossò la divisa a righe e, trascorsa la quarantena di circa quindici giorni, fu impiegata nella fabbrica di munizioni “Union” a produrre bossoli per mitragliatrice.

Nel libro la Segre spiega le azioni che scandivano ogni giornata del deportato e descrive le drammatiche condizioni di vita e di lavoro.

I Tedeschi fecero uscire Liliana definitivamente dal campo il 20 gennaio 1945, poiché stavano arrivando i soldati russi; da quel giorno l’adolescente, sempre prigioniera, iniziò una lunga e faticosa marcia per la Germania, trasferita da un lager all’altro. Fu liberata

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dai Nazisti soltanto a maggio del 1945, per intervento dei soldati americani; questi se ne presero cura fino al rientro in treno in Italia ad agosto.

Liliana dal lager ritornò sola. Per lungo tempo cercò di avere notizie del padre, ma senza risultati.

Per quarantacinque anni rimase in silenzio, ma dimenticare Auschwitz le era impossibile, non poteva voltare pagina: il ricordo dell’“inenarrabile” tornava soprattutto di notte e non le dava pace.

Non raccontava le sofferenze subite anche perché “era difficile far capire” agli altri, secondo i quali la guerra era finita, bisognava andare avanti. I parenti, il mondo “non sapevano” e “non volevano sapere”: non avevano sentito le grida giorno e notte di chi subiva le punizioni; non conoscevano quanti uomini, donne e ragazzine erano state mandate a morire; non avevano avvertito l’odore acre del fumo che proveniva dai forni.

Un giorno del 1990 Liliana annunciò in famiglia che avrebbe cominciato a raccontare in pubblico quello che gli era accaduto nel campo: il ricordo del lager, che fino ad allora aveva accompagnato la sua vita silenziosamente, pian piano aveva suscitato una pressante sensazione di non aver fatto il suo dovere; il silenzio cominciò a pesarle. Da allora si è impegnata come testimone, anche nelle scuole, convinta che qualche alunno o alunna possa ricordarla, diventando una “candela” della memoria; seminando fino all’ultimo i ricordi, infatti, le giovani generazioni potranno continuare a trasmettere a loro volta ciò che hanno ascoltato. Per la Segre “coltivare la memoria è un vaccino prezioso…perché la memoria rende liberi”.

Il 18 gennaio 2018, pochi giorni prima della “Giornata della memoria” il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha nominato Liliana Segre Senatrice a vita: in quanto testimone della Shoah italiana, perché ricorreva l’ottantesimo anniversario delle leggi razziali, ma anche per contrastare i rigurgiti di razzismo. Ancora oggi, infatti, ci sono manifestazioni di odio antisemita, che si riteneva definitivamente scomparso. La stessa Liliana è stata costretta a vivere sotto scorta per aver ricevuto insulti e minacce sui social network: addirittura duecento messaggi di odio razziale al giorno.

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Rispetto a questo terribile segnale di un mondo che rischia di correre all’indietro, non si deve essere indifferenti. Liliana Segre sostiene che il “razzismo” per affermarsi trova fertile terreno quando ci si volta dall’altra parte e si fa finta di niente; la memoria vale come vaccino anche contro l’indifferenza.

Riguardo alla storia della famiglia con radici doglianesi pubblicata dal nostro Comune, abbiamo appreso che in memoria di Carlo Levi a Torino è stata dedicata una pietra d’inciampo.

Anche per il papà di Liliana a Milano, in via Magenta, davanti all’abitazione della famiglia, nel selciato stradale è stato incorporato un blocco di pietra di dimensione 10x10 cm, ricoperto con una piastra d’ottone. Su di essa sono incisi nome e cognome, anno di nascita, luogo di deportazione e data di morte. Chi s’inciampa nella targa, non in senso fisico ma visivo e mentale, secondo l’ideatore di tale opera, dovrebbe fermarsi a ricordare una vittima del Nazismo e a riflettere sul male compiuto dall’uomo in quel periodo della storia.

Classe 3^ B, Secondaria di Dogliani

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