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R i c h i e s t a d e l M i n i s t r o d i G r a z i a e G i u s t i z i a d i p a r e r e s u l d i s e g n o d i l e g g e , a p p r o v a t o d a l C o n s i g l i o d e i M i n i s t r i n e l l a r i u n i o n e d e l 1 2 g i u g n o 1 9 9 8 , c o n

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Academic year: 2022

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Richiesta del Ministro di Grazia e Giustizia di parere sul disegno di legge, approvato dal Consiglio dei Ministri nella riunione del 12 giugno 1998, concernente "Modifiche al codice di procedura penale in materia di esecuzione di misure cautelari"

(Parere del 22 luglio 1999)

«Il disegno di legge su cui il Consiglio è chiamato ad esprimere parere coglie l'esigenza di dare una risposta efficace ad un problema reale, evidenziato nel recente passato (aprile-maggio 1998) da allarmanti episodi di volontaria irreperibilità o di latitanza (i noti casi di Licio Gelli e di Pasquale Cuntrera), che hanno rivelato l'esistenza - nel sistema - di gravi lacune che riguardano sia l'impianto normativo del c.p.p. sia il piano organizzativo degli uffici giudiziari.

Con il cennato disegno di legge, avente per oggetto «Modifiche al codice di procedura penale in materia di esecuzione di misure cautelari», è stata proposta una seriedi contenuti normativi incidenti su aspetti specifici della disciplina delle misure cautelari personali.

Il legislatore sembra aver considerato la possibilità di allargare l'area dell'intervento normativo ad alcuni degli snodi che segnano la fisionomia del processo, come ad esempio, la complessa tematica della sentenza di condanna intervenuta in appello,

confermativa della decisione di primo grado (v. Relazione al d.d.l.); per altro verso, il d.d.l.

ha inteso ampliare le ipotesi di ripristino della custodia cautelare, quando siano decorsi i termini della stessa, in presenza di gravi reati.

Funzionale ad entrambi gli interventi sopraindicati deve essere considerata la previsione dell'ampliamento del ventaglio di ipotesi in cui la polizia giudiziaria può operare, di propria iniziativa, il fermo dell'imputato.

1) I provvedimenti in caso di scarcerazione per decorrenza dei termini (art. 1, comma 1).

Sembra opportuno osservare preliminarmente che la disciplina legislativa contenuta nel disegno di legge in esame si aggiunge ad una normativa che comunque consente l'adozione di provvedimenti finalizzati a scongiurare la latitanza di soggetti pericolosi condannati in secondo grado ed in attesa del giudizio definitivo della Cassazione. Già adesso, infatti, ove per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la

personalità dell'imputato, desunta da comportamenti o atti concreti, emerga il rischio di fuga, può essere ristabilita la custodia in carcere.

La nuova disciplina non innova dunque dal punto di vista procedurale, ma amplia l'originario ventaglio normativo, stabilendo che un nuovo ordine di custodia cautelare può essere emesso per gli imputati di reati particolarmente gravi (mafia, terrorismo, sequestri di persona, omicidio, rapina ed estorsione aggravata violenza sessuale) quando, da comportamenti o atti sopravvenuti al provvedimento di scarcerazione, nasca un fondato giudizio di probabilità che questi imputati possano commettere nuovamente i reati per i quali erano stati messi in libertà.

Tale previsione potrebbe essere considerata una norma che porta di fatto all'inversione dell'onere della prova.

Questa prospettazione, tuttavia, è solo apparente: il giudice di secondo grado, infatti, sarà sempre tenuto a motivare in dettaglio il provvedimento adottato, nel primo caso previsto dalla lettera a bis) del nuovo comma 2 dell'art. 307 c.p.p. (con ri- ferimento a parametri normativi sufficientemente definiti), proprio perchè l'esigenza cautelare potrà essere desunta solo da comportamenti o atti sopravvenuti al provvedimento di scarcerazione.

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In questa ipotesi, peraltro, non è necessario che i comportamenti integrino gli elementi di una nuova fattispecie criminosa, ma appare sufficiente che gli stessi siano idonei ad evocare un pericolo di recidiva in ordine alla commissione dei gravi reati sopraindicati.

In considerazione della rilevante modifica di prospettiva in cui si colloca la nuova norma, appare corretto e condivisibile che il ricorso alla medesima sia stato limitato a reati che destano un particolare allarme sociale.

2) I provvedimenti in presenza di una sentenza d'appello confermativa della sentenza di condanna di primo grado (art. 3).

Ai sensi dell'art. 3 del d.d.l. in esame, quando il giudice d'appello conferma la condanna di primo grado, e la pena da espiare non è inferiore a cinque anni di reclusione, può essere disposta una misura cautelare se il giudice stesso ritiene di non poter escludere un concreto pericolo di fuga.

Con questa disposizione è stata affrontata la condizione degli imputati in stato di libertà, già ritenuti responsabili dei reati loro contestati in primo grado e secondo grado, cercando di ridurre gli ambiti del pericolo di fuga.

La considerazione della frapposizione di un solo grado di giudizio (peraltro di legittimità e dopo l'esaurimento del doppio processo di merito sul fatto), rispetto all'esecutività della sentenza, è sembrata ragione sufficiente perché venisse dato un giusto peso specifico alla eventuale condanna e alla valutazione del pericolo di fuga conseguente alla medesima, mediante la previsione del meccanismo sopra delineato.

In questo caso, quindi, è stata prevista la possibilità di collegare,

sostanzialmente in modo esclusivo, il pericolo di fuga alla particolare gravità della pena irrogata dal giudice di secondo grado, condizionando quindi l'adozione della misura all'avvenuta conferma della condanna e alla consistente entità della pena inflitta.

La prospettiva accolta in questo caso dal legislatore si pone in linea con

quell'interpretazione giurisprudenziale (v. Cass., sez. I, 29 luglio 1994, Villafranca, in C.E.D.Cass. n. 199.224), secondo cui, poiché l'art. 307 comma 2 c.p.p. prevede che la custodia cautelare è ripristinata quando risulti necessaria ai sensi dell'art. 275 c.p.p. (ove si tratti di delitti indicati nell'art. 275, comma 3 c.p.p.), il pericolo di fuga è presunto - al pari delle altre esigenze cautelari - salvo che siano acquisiti elementi da cui risulti che queste ultime non sussistono.

La nuova normativa si differenzia tuttavia da quest'ultimo caso, poichè prevede la possibilità che, ove venisse deciso di adottare una misura, questa non dovrebbe essere necessariamente la (più grave) misura della custodia in carcere.

La norma fa, infatti, un riferimento generico alla categoria delle misure cautelari, con ciò non escludendo a priori una valutazione che ritenga idonei a contrastare il pericolo di fuga, in relazione al caso concreto, anche il divieto di espatrio, l'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, il divieto o l'obbligo di dimora e gli arresti domiciliari.

Se appare condivisibile la previsione di un percorso valutativo che privilegia il richiamo ai principi di proporzionalità e adeguatezza nella scelta della misura, sembra che possa escludersi che lo stesso riguardi, per quanto è stato sopra detto in proposito, la valutazione della concretezza del pericolo di fuga, essendo lo stesso presunto nel caso di specie, e dovendosi individuare esclusivamente gli elementi che consentono di escludere - sia pure con adeguata motivazione - la ricorrenza del suddetto pericolo.

In sostanza, una volta accertata la sussistenza della probabilità di fuga, secondo i parametri sopraindicati, il giudice avrebbe l'obbligo di applicare la misura coercitiva ritenuta più adeguata, sulla base dell'entità della sanzione in concreto inflitta e della

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pericolosità rivelata dall'imputato nel processo.

Giova sottolineare che la disposizione in commento non prevede

espressamente la richiesta del P.M. ai fini dell'applicazione della misura cautelare da parte del giudice d'appello.

Al riguardo, però, siccome la consolidata giurisprudenza formatasi sull'art. 307 c.p.p. esclude la possibilità che un giudice applichi una misura cautelare in

assenza di richiesta del Pubblico Ministero circostanza, questa, considerata

addirittura quale causa di nullità dell'eventuale provvedimento applicativo (in tal senso, ex plurimis, Cass. 23.1.97 n.207267 e 23.11.1992 n.192661) - si ritiene opportuno

suggerire un intervento chiarificatore del Legislatore, nel senso dell'applicabilità - anche alla disposizione in esame - del principio di cui all'art. 291, primo comma, c.p.p., proprio per evitare "in radice" ogni possibilità di interpretazioni contrastanti.

Richiamata l'opportunità di questo chiarimento, è innegabile che nel d.d.l. in parola il legislatore ha spostato in avanti, a favore delle esigenze di tutela della collettività, il punto di equilibrio tra dette esigenze e le incontestabili garanzie che vanno riconosciute ai cittadini-imputati.

Corollario di questa opzione legislativa potrebbe sembrare quello di riconoscere esecutività anticipata alla sentenza di condanna pronunciata in grado di appello, il che costituirebbe un indubbia interferenza con la norma costituzionale di cui all'art. 27 comma 2, e non sarebbe in alcun modo accoglibile.

Tale interpretazione, però, non è fondata.

Ed invero, non sembra illogico, nella fattispecie, affermare che il d.d.l. si muove in altri e diversi ambiti (quelli consentiti dall'art. 13 comma 2 cost.), i quali senza toccare la previsione costituzionale di cui all'art. 27 comma 2 cost., mirano a ridurre l'incidenza del pericolo di fuga di quegli imputati che attendono che la propria sentenza di condanna divenga definitiva.

Non appare possa disconoscersi, infatti, che l'attuale sistema processuale penale configura una rete di impugnazioni, che rischia di produrre - obiettivamente - indubbi effetti distorsivi anche sulla corretta interpretazione dello stesso concetto di presunzione di non colpevolezza.

Nè sembra possa contestarsi che un reticolo di verifiche e riesami così riccamente articolato porta spesso ad effetti opposti rispetto a quelli originariamente perseguiti, in quanto tali rimedi spostano la loro operatività - nella maggior parte dei casi - dal piano delle giuste garanzie a quello delle inammissibili impunità tutte le volte in cui il sistema venga finalizzato allo sfruttamento di "ingorghi procedurali", nella prospettiva della prescrizione o della scarcerazione per decorrenza dei termini di fase della custodia cautelare.

In questo quadro di analisi realistica delle cause che allungano i tempi per

raggiungere la definitività della sentenza, non sembrerebbe inopportuno, forse, rivisitare l'intero sistema delle impugnazioni, ad es. introducendo un filtro per la declaratoria della manifesta infondatezza dell'appello, sul modello di quanto previsto per il ricorso in Cassazione, mediante procedura camerale.

Tale filtro comporterebbe di certo il beneficio di una contrazione dei tempi processuali rispetto alla pronuncia della sentenza di primo grado.

Allo stesso modo sarebbe utile, forse, ipotizzare anche forme di sterilizzazione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, soprattutto nell'attuale assetto processuale in cui la prova si forma attraverso un ampio contraddittorio delle parti.

Pertanto, gli interventi per ridurre efficacemente l'incidenza del pericolo di fuga, in attesa della definitività della sentenza, sembra possano muoversi pure nella direzione di restringere quelle interpretazioni o applicazioni del principio di presunzione di non

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colpevolezza idonee a favorire soltanto manovre dilatorie o, comunque, chiaramente contrarie ad un corretto svolgimento dei processi e ad una leale accettazione dei loro esiti.

3) La nuova disciplina del fermo di polizia giudiziaria (art. 1, comma 2; art. 2).

Nell'ambito dell'art. 307 c.p.p., il d.d.l. in esame ridefinisce anche la disciplina del fermo di p.g. prevista dal comma 4. In particolare, è stata ampliata la gamma delle ipotesi in cui è possibile applicare tale istituto (sempre per reati di particolari gravità e per

situazioni di urgenza), prevedendo la sua estensione anche al caso previsto dalla lett. b) del comma 2. Cioè, all'eventualità di pericolo di fuga insorto contestualmente o

successivamente alla pronuncia della sentenza di condanna in appello, oltre che al caso di violazione delle prescrizioni inerenti a una misura cautelare disposta a' sensi del comma 1 dell'art. 307, con conseguente fuga.

Tale modifica sembra anch'essa da condividere, in quanto appare ispirata

dall'intento di ridisegnare l'istituto secondo linee coerenti di politica criminale, attente a rispondere alle concrete esigenze e ai presupposti sostanziali dell'istituto.

L'attuale previsione normativa, che modella l'applicazione del fermo di p.g.

sull'esistenza di una fuga già in atto, sembra porsi in contrasto con la finalità propria dell'istituto, riscontrabile nell'esigenza di impedire la fuga.

La valorizzazione del contenuto anticipatorio della novella, tesa a stabilire che il fermo di p.g. è consentito quando l'imputato stia per darsi alla fuga, fa sembrare pertanto condivisibile la modifica normativa.

L' art. 2 del d.d.l. insiste significativamente sulla disciplina del fermo per stabilire il potere di procedervi di propria iniziativa da parte della polizia giudiziaria quando

ricorrano:

a) specifici elementi che rendono fondato il pericolo di fuga;

b) non sia possibile, per motivi d'urgenza, attendere il prov- vedimento del p.m.;

c) il soggetto sia sottoposto a una misura cautelare diversa dalla carcerazione preventiva (o dagli arresti domiciliari) per reati di particolare gravità;

d) in caso di doppia sentenza di condanna nel merito.

Con la modifica prevista dal disegno di legge sembra dunque che il sistema acquisti una sua maggiore razionalità e coerenza, una volta che la disciplina prevista per

fronteggiare più efficacemente il pericolo di fuga è sostanzialmente equivalente a quella dettata per la disciplina della scarcerazione per decorrenza dei termini di custodia di cui all'art. 307 c.p.p.

In questi sensi, il Consiglio delibera di rendere il chiesto parere».

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