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1. SALVATI DA GIOSUÈ DI NAZARET

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Academic year: 2022

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1. SALVATI DA GIOSUÈ DI NAZARET

Introduco il discorso muovendo dalla geografia, da cui il titolo singolare, ma non improprio, scelto per presentarlo. Tutti noi, alla parola “Vesuvio”, abbiamo davanti agli occhi un profi- lo di montagna molto preciso. E’ la famosa veduta da Posillipo, quella con il pino marittimo, che forse ormai è stato tagliato, ma poco importa. Eppure io personalmente ne ho anche un’al- tra. Siccome d’estate vado in vacanza alle Eolie, il Vesuvio per me è quello che vedo alla mattina presto, quando la nave che mi riporta a casa si trova all’altezza di Portici, a est invece che a ovest di Napoli. Ed è un Vesuvio che, pur essendo sempre la stessa montagna, assomiglia pochissimo all’altro. Si può dire che è meno bello, certamente è meno conosciuto, ma senza dubbio non è meno vero di quello osservato da Posillipo. Né, d’altra parte, per il fatto che questa veduta dal mare è la mia più consueta, posso sentirmi autorizzato a ignorare che esiste anche l’altra. Ma se devo descrivere ciò che vedono i miei occhi, sono quelle pendici e quei costoni.

Ecco, la conversazione che terrò questa sera, e le altre non si discosteranno, è fatta proprio così. Il cristianesimo che voi e io abbiamo in mente quando si parla di cristianesimo è il Vesu- vio da Posillipo, quello celebre, classico. Il cristianesimo che vi vorrei illustrare invece in questa occasione è il Vesuvio visto dal mare all’altezza di Portici: più imprevisto e dunque, cer- tamente, più problematico. Chissà, questa è la mia speranza, anche meno frusto e immerso in aria meno pesante. Ma senza dilungarci oltre nella premessa, incominciamo.

Perché noi cristiani ci consideriamo figli di Dio? Ci ritenia- mo tali per creazione: Dio ha creato in Adamo tutti gli uomini. E ci riteniamo tali per adozione, attraverso l’aver creduto in Gesù Cristo ed essere stati uniti a lui per mezzo del battesimo. Gesù è

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Figlio del Padre perché ne condivide la natura, noi invece siamo figli del Padre perché ne siamo stati adottati.

Questo, diciamo, è il Vesuvio visto da Posillipo, se si vuo- le, con tanto di pino. Guardiamo adesso il Vesuvio, sempre per continuare nella metafora, dalla motonave che proviene dalle Eolie e che si trova di fronte a Portici.

Forse non esiste popolo che non abbia, nella sua cultura, un racconto dell’origine dell’uomo. Noi modenesi sappiamo bene che prima di Modena c’era la città romana di Mutina, che è esistita per quattro o cinquecento anni prima che si parlas- se qui da noi di cristianesimo. Il cristianesimo ha cominciato a prendere piede in questa zona d’Italia quasi tre secoli dopo la nascita di Gesù. Ebbene, loro, i nostri antenati pagani, avevano una convinzione dell’origine dell’uomo che, lasciamo da parte quale fosse, non sapeva niente di Adamo ed era completamente diversa da quella attuale. Quindi noi ci riteniamo figli di Dio in Adamo per creazione per il fatto che a un certo punto della nostra storia abbiamo accettato la spiegazione degli Ebrei, ab- bandonando la nostra, circa l’origine dell’uomo.

E proseguendo, se noi diciamo che siamo figli di Dio in Cristo, Cristo, sappiamo bene, vuol dire Messia, cioè l’unto del Signore che gli Ebrei attendevano e che avrebbe liberato il loro popolo e portato la pace su tutta la terra, la prosperità e la ricon- ciliazione. Tutti i popoli, alla sua venuta, avrebbero reso ono- re a Yahvè, il Dio degli Ebrei, creatore dell’universo. Perciò, è molto chiaro, benché non siamo soliti pensarci: perché noi siamo figli di Dio secondo la concezione che abbiamo in quanto cristiani, cioè figli di Dio attraverso Adamo e attraverso Cristo, c’è bisogno che abbia senso Yahvè, il suo piano, la storia del suo popolo, gli Ebrei, il Messia, e che questo Messia salvatore sia arrivato.

Se togliamo via questo, e diciamo: siamo figli di Dio perché adottati da Lui in Gesù, ma che c’entrano gli Ebrei con la nostra

fede, diciamo qualcosa di assurdo: basti pensare che “Gesù” è il nome ebraico “Giosuè” e che Giosuè vuol dire “Yahvè salva”

ed era portato dal personaggio, venuto dopo Mosè, che intro- dusse il popolo di Israele nella Terra Promessa.

L’espressione “Gesù Cristo” significa Yahvè sal- va attraverso il Messia e non ha senso alcuno al di fuori del contesto ebraico. Se lo si abolisce, si fa diventare il cristianesi- mo un’altra cosa da quello che è per sua natura e che lo stesso termine fondamentale “Gesù Cristo” significa. Noi pensiamo spesso che Gesù è stato rifiutato dagli Ebrei e non pensiamo mai che noi, accettandolo, facendoci cristiani, siamo andati dietro a un Ebreo e al suo Dio Yahvè.

E chi sono gli Ebrei, questo popolo a cui noi abitanti di questa città ci siamo legati al punto da sostituire la nostra re- ligione con la loro? Dire Ebrei equivale a dire figli di Yahvè attraverso l’alleanza stipulata da Mosè sul Monte Sinai, che co- stituisce una relazione nuova e fondante: gli Ebrei erano una popolazione anche prima, ma con questa alleanza fondano un popolo particolare, quello che ha per dio Yahvè. Di cosa erano prima non abbiamo alcuna testimonianza diretta, cioè non fil- trata da ciò che divennero dopo l’alleanza del Sinai. E questo a differenza di noi. La nostra vita come popolo anteriormente al cristianesimo è lunga, importante e documentatissima, basti pensare a tutta la nostra storia come appartenenti prima alla re- pubblica di Roma e poi al suo impero: è una storia che, per noi di Modena, copre mezzo millennio (il tempo che va dal Medio- evo ad oggi, per averne un’idea) ed è una storia gloriosa, che ha espresso una grande civiltà. La vicenda degli Ebrei è dun- que molto diversa dalla nostra: essi non aderiscono, come noi, alla religione di qualcun altro. Gli Ebrei non sono figli adottivi di Yahvè nel senso che entrano in una famiglia di Yahvè già costituita e precedente al loro ingresso: prima non si può dire che Yahvè avesse altri figli nati da un patto, a cui gli Ebrei, per sua iniziativa, si siano aggiunti. Viene dichiarato in Esodo 4,22:

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“Così dice il Signore: Israele è mio figlio, il mio primogenito”.

È invece proprio questa la situazione dei cristiani, ad essi è stato dato di aggiungersi. Secondo la religione ebraica, il pro- getto di Yahvè, dopo il peccato di Adamo, è quello di formarsi in un primo tempo un popolo scelto e poi, attraverso l’invio di un suo plenipotenziario, nei tempi finali, far salire a Gerusalemme anche tutti gli altri popoli. Sono vago volutamente perché l’idea di questa figura, come quella della fine dei tempi, era molto complessa e non univoca. Attraverso l’opera del Messia, que- sto personaggio conclusivo, Yahvè riconcilia a sé tutto il genere mano, che voleva che fosse a sua immagine già alla creazione, ma che per la disobbedienza di Adamo si è sviluppato lontano da Lui e dalla sua giustizia.

Subito dopo che Giosuè di Nazaret ebbe subito il suppli- zio, alcuni nel popolo di Yahvè moltiplicarono la sua predica- zione: l’attesa si è compiuta, Giosuè di Nazaret è il Messia, è venuto il tempo che gli altri popoli siano coinvolti insieme a noi nel piano di Yahvè. E gli Ebrei che ne sono convinti – al di là di ogni apparenza, vista la morte da malfattore fatta da Giosuè – perseguono tutto ciò chiedendo ai pagani di credere al piano di Yahvè e al suo Messia, non domandando però loro di circonci- dersi, cioè di entrare nel popolo ebraico. Questo avrebbe voluto dire annullare gli altri popoli. Invece questi Ebrei convinti della venuta del Messia, non senza dure discussioni ricordate da san Paolo e dagli Atti degli Apostoli, decidono che gli altri si uni- ranno a loro restando altri, e come sacramento di questa unione non li vogliono circoncisi, ma battezzati.

Questo punto è estremamente importante e vi chiedo tutta l’attenzione di cui siete capaci. Per abbandonare il paganesimo e venire circoncisi non c’era bisogno del Messia. Al tempo di Gesù, gli Ebrei che non ritenevano che il Messia fosse arrivato erano disposti ad accogliere nel popolo eletto pagani che vo- lessero entrarvi, però se abbandonavano completamente il loro popolo di origine e diventavano separati da tutto e da tutti pro-

prio come i buoni Ebrei lo erano. Era un ingresso laborioso, centellinato, ma nuovi afflussi all’ebraismo esistevano, l’ebrai- smo esercitava una forte attrattiva presso determinati pagani. E’

noto che al tempo di Gesù circa due terzi degli Ebrei vivevano sparsi nel mondo romano ed erano tutt’altro che sconosciuti alle altre popolazioni.

In questo modo ciò che si produceva era un cambio quantitativo, non una novità qualitativa: vi era un certo numero di Ebrei in più oltre a quelli per nascita, ma non si trattava dei popoli pagani che, restando popoli, si aggregavano al popolo eletto e riconoscevano Yahvè come loro unico Dio e Signore. È il Messia che, portando gli ultimi tempi, sconvolgendo l’ordine delle cose di questo mondo, rendendo pieno il dominio di Yah- vè, può ottenere questo ingresso nel piano divino non di singoli pagani, ma dei popoli pagani, quelli che le nostre traduzioni della Bibbia chiamano “le nazioni”.

Il quadro che si viene a creare nella famiglia di Yahvè, cioè gli Ebrei, con la venuta del Messia è quindi il seguente: vi sono dei figli nati con il costituirsi della famiglia (se si trattasse di una comune famiglia li chiameremmo figli carnali) e ci sono figli che si sono aggiunti, adottati da Yahvè, per sua bontà, attra- verso l’invio di un suo rappresentante, il Messia, che portando nel mondo la potenza di Dio, rende possibile un cambiamento interiore dei pagani e il loro inserirsi, come figli adottivi, nella famiglia.

Perciò noi cristiani, a considerare attentamente le cose (a descrivere con fedeltà il Vesuvio visto dalla motonave), siamo figli adottivi di Dio anche in questo senso, oltre a quello che ci è più familiare di fratelli del figlio di Dio che è tale per natura, Gesù: siamo figli adottivi nel senso che siamo entrati da grandi, mantenendo la nostra storia precedente, cambiati però nell’in- timo, nella famiglia di Yahvè che già c’era. Dal momento della venuta del Messia la famiglia di Dio comprende il figlio primo- genito, gli Ebrei, e i figli venuti da famiglie fallite. Il pagane-

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simo non fu in grado di dare salvezza, altrimenti non sarebbe stato abbandonato, ricordo che fino a Costantino, per tre secoli, il paganesimo non ebbe contro né spada nè svantaggi materiali.

Questi figli venuti da famiglie fallite siamo noi cristiani, i figli di Dio non tramite Mosè, ma tramite Giosuè di Nazaret, respin- to e crocifisso sulla terra, ma riconosciuto Messia da Yahvè ed esaltato alla sua destra. A lui è stato conferito dal Padre ogni potere, anche quello di fare dell’umanità grondante sangue una famiglia di figli rinnovati a immagine del Creatore.

Ovviamente, dicendo questo, si dà per ascoltato san Paolo, che nella Lettera ai Romani si domanda, e non potrebbe darsi una risposta più chiara: “Forse Iddio ha respinto il suo popolo?

No, certamente. Difatti io sono israelita, della stirpe di Abramo, della tribù di Beniamino” (Rom. 11,1). E appena dopo aggiun- ge: “Sappi che non sei tu (cristiano) che porti la radice (Israele), ma è la radice che porta te” (Rom. 11,18). Nell’ insieme del Nuovo Testamento l’aria che si respira è antiebraica, non c’è dubbio al riguardo. Ma come noi cristiani abbiamo fatto, nono- stante affermazioni così aperte, a ritenere che Israele non è più il popolo di Dio e lo siamo noi al suo posto, è davvero insondabi- le, se si pensa che la teologia dovrebbe procedere dalla Rivela- zione. L’unica spiegazione che riesco a darmi è la tragica verità che può assumere il detto popolare “fratelli, coltelli”. Purtroppo non credo che ne esista un esempio migliore.

2. LA FIGLIOLANZA DIVINA DEGLI EBREI E DEGLI ALTRI

Un figlio carnale nasce nella casa e non ha una storia pre- cedente. Chi è figlio adottivo invece, specie se adottato da gran- de, una storia non può non avercela. È la nostra situazione di cristiani. Più che mai in paesi emersi da tantissimo come l’Ita- lia, abbiamo tutto un mondo di appartenenza, che è anteriore al cristianesimo e ci caratterizza, dal quale non sarebbe giusto che ci staccassimo: infatti nelle adozioni di persone formate non ri- chiediamo nulla di simile; se ci sono ricordi e legami precedenti sarebbe una perdita rinnegarli.

Questa prospettiva dell’adozione può rivelarsi insospetta- tamente feconda per reimpostare più di un problema mai ben risolto e addirittura per abolirne altri in radice. In base ad essa, per esempio, diventa lineare il rapporto fra umanesimo e cristia- nesimo. Devono coesistere non perché il cristianesimo sia de- ficitario di qualcosa, ma perché l’umanesimo (la cultura greco- latina) in noi c’è ed è addirittura anteriore alla nostra adesione alla fede cristiana. Mentre per l’ebraismo non è lo stesso: prima dell’alleanza con Yahvè non esiste tra gli Ebrei una consape- volezza di sé come popolo anche lontanamente paragonabile a quella posseduta da Greci e Romani prima di convertirsi al cristianesimo.

Ma soprattutto questa prospettiva autorizza la domanda:

gli Ebrei, assimilabili come sono a figli carnali, perché dovreb- bero diventare cristiani, se “cristiano”, come abbiamo visto, vuol dire “entrato nella famiglia di Yahvè attraverso il Messia”?

Che senso ha che un figlio all’interno fin dalla nascita venga adottato? La misericordia di Dio poteva prevedere un piano sal- vifico diverso, ma quello che abbiamo accettato aderendo alla fede si presenta così: la famiglia del Padre, per sua iniziativa, si allarga (iniziativa del Padre, appunto, non dei figli: non sono i

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figli carnali che adottano qualcuno, è il genitore a farlo). Come parte integrante della predicazione che il Messia è giunto nel mondo, ci è stato rivelato che gli Ebrei, figli carnali, avrebbe- ro dovuto dare il consenso a che il loro status di figli venisse allargato ad altri: invece i più non lo fecero, per paura, c’è da supporre, che la famiglia si sarebbe sfasciata. Per tanti secoli avevano conservato la fede in Yahvè osservando una rigorosa separazione. Ma quello che li avrebbe rassicurati, che i nuovi figli si circoncidessero, era intrinsecamente assurdo: un adot- tivo può diventare figlio a pieno titolo, ma non può diventare un figlio carnale, cioè uno che non ha altra storia se non quella all’interno della famiglia: circoncidersi, vale a dire adottare gli usi ebraici, avrebbe comportato per gli altri popoli cancellare la loro vita precedente. Nell’ottica qui prescelta, quella della rela- zione che intercorre tra ingresso carnale e ingresso adottivo in un nucleo famigliare, la famiglia di Yahvè comprende, secondo il suo progetto stabilmente, sia Ebrei che cristiani, vale a dire suoi figli generati non dall’alleanza stipulata sul Sinai, ma dalla venuta del Messia (non ci si stanchi di tenerlo presente, “cri- stiano” è infatti uguale a “messiano”, brutto ma forse efficace neologismo per significare “del Messia”).

Alla fine ultimissima dei tempi, quando Yahvè sarà tutto in tutti, questa distinzione non avrà più valore, ma non prima.

Prima, avviene che tutti, Ebrei e cristiani, sono costituiti nuova creatura, in una condizione diversa da quella di figli di Dio per natura, come ogni essere umano lo è. La nuova creatura è colui che è stato creato una seconda volta dall’intervento del Signore, e questa seconda volta, generato: messo al mondo al costituirsi di una famiglia speciale (Ebrei) oppure inserito in essa strada facendo, con una adozione (cristiani). Detto riassuntivamente, prima Yahvè ha fatto il mondo e i suoi abitanti, poi si è costitui- to una famiglia, poi la ha allargata a dei figli adottivi. Qui non si considera, ma non passi sotto silenzio, che tutto ciò è l’opposto della garanzia di una qualsiasi rendita ai suoi membri: “non chi

mi dice Signore, Signore…” Chi appartiene a questa famiglia può e deve assomigliare al Padre misericordioso che ne ha vo- luto il formarsi.

In questo quadro diventa logico che i cristiani si preoc- cupino di fare proseliti e gli Ebrei no: è attraverso il diventare cristiani che tutti gli altri uomini possono entrare, se vogliono, nella famiglia di Yahvè. Si possono fare dei nuovi cristiani, cioè dei nuovi adottivi, mentre è fuori luogo proporsi espressamente di fare dei nuovi Ebrei, il numero dei figli carnali non è allarga- bile se non per nascita fisica, a parte determinate eccezioni. Ma oltre a ciò, poste queste premesse si diventa in grado di affron- tare meglio il problema di come considerare tutti coloro che non sono né Ebrei né cristiani. Quand’è che uno diventa adottivo, si fa adottare? Mai quando sta bene nella famiglia in cui è nato, la famiglia c’è e lui felicemente ne fa parte. I cristiani devono prendere atto, rispetto ad appartenenti ad altre religioni oppure atei, della realtà che è sotto i loro occhi: c’è chi è soddisfatto di dove è; e cosa esiste di meglio che essere soddisfatti? I cristiani dovrebbero essere felici di atei felici, augurarsi che lo siano e aiutarli a restarlo, eventualmente, proprio come si cerca di aiu- tare qualcuno a sistemarsi meglio nella famiglia a cui appartie- ne, se incontra delle difficoltà.

“Dio è amore, e chi resta nell’amore rimane in Dio, e Dio in lui” (1 Giov. 4,16). Nelle situazioni in cui effettivamente c’è amore, l’unico Dio che esiste si è già reso presente e sarebbe introdurre un meno, non un più, volerle mettere su altre basi, le nostre. Ogni realtà possiede un suo contesto. Fare diversamente ci farebbe assomigliare a quei teorici dell’arte, esistiti in passa- to, convinti che sarebbe stato perfetto un quadro con un po’ di Raffaello, un po’ di Tiziano, un po’ di Correggio e un po’ di un altro sommo pittore che adesso non ricordo, forse Michelange- lo. Invece dovremmo pensare che se si è prodotto del bene, esi- ste, come dire, un circuito del bene, ispirato agli interessati da Dio, che ha agito prima che noi esistessimo, oppure ha agito in

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sovrana autonomia anche se c’eravamo (forse, a pensare a tanti comportamenti errati tenuti da Ebrei e cristiani, per il motivo che c’eravamo).

Si tratta di un punto molto importante e lo riprenderemo, sempre mantenendoci nell’ottica dei rapporti famigliari che ci ha guidato fin qui, in una delle prossime serate. Noi sappiamo che Yahvè è intervenuto per noi, ma non conosciamo ogni suo altro intervento passato, presente o futuro riguardo al resto degli uomini. Perché questa è la contraddizione che ci affligge. Chi adotta dei figli è di necessità giovane e in buona salute. I cri- stiani, invece, sembrano sotto sotto pensare a chi li ha adottati come a un vecchio signore con un piede nella fossa. Da quando sono arrivati loro, gli adottivi, paiono convinti di essere loro a dover portare avanti le cose, come se chi li ha adottati fosse sta- to colpito, prendendoli in casa, da una infermità invalidante e si fosse reso necessario interdirlo. La conseguenza dell’adozione sentita come un dovere caduto sui figli, invece che come un’ini- ziativa di pertinenza del padre, è veramente nefasta. Quello che in Yahvè è una libera pulsione d’amore, nei cristiani aggrega- re altri uomini, convertirli, farli entrare in famiglia, prende la connotazione di un agire coatto, giustamente mal visto da chi non accetta che uno del proprio nucleo famigliare venga invi- tato per principio a lasciarlo. Tutto cambierebbe, se convertire fosse concepito per quel che è, adottare: un’azione quindi di stretta pertinenza paterna, compiuta su richiesta e rispondente a una difficoltà non diversamente superabile dell’adottando. Se chi non è cristiano non riesce ad essere soddisfatto nella propria realtà famigliare, solo allora, come ultima opzione, i cristiani dovrebbero essere disposti, con generosità e non guardando che al suo interesse, ad adottarlo.

Si obietterà che Yahvè ha pur preso l’iniziativa di inviare il suo Messia. Certamente, e i cristiani non gli assomiglierebbero come figli se non si preoccupassero degli altri e non fossero attivi nei loro confronti. Ma è proprio in tali buoni e solleciti

rapporti, oltre che in modi a noi sconosciuti, che il Padre si rive- lerebbe e si renderebbe presente. Tutti godrebbero del vicinato di questa famiglia di adottati contenti e disposti senza gelosia a condividere il proprio patrimonio con altri, adozione compresa.

Basterebbe non dimenticarsi che, proprio come avvenuto per noi, è il Padre che adotta, e la nostra parte, in una nuova ado- zione, è di renderla desiderabile e mai intralciarla, anzi, esserne lieti.

Prima che pensare di adottarli, non mancano certo le cose buone e giuste che i cristiani potrebbero fare per gli altri uo- mini, volendo interessarsi di loro. Poi, certo, anche adottarli se quelli, gustato il frutto, domandassero la talea, la porzione di ramo, germoglio, foglia o radice, capace di costituire, infitta nel terreno, una nuova pianta.

Tornando agli Ebrei, essi non devono farsi cristiani, come si è detto poco fa, perché sarebbe un nonsenso. Sono però chia- mati ad accettare che i cristiani esistano come loro fratelli mi- nori, adottivi, nella comune famiglia. Perché devono compiere questo passo? Anzitutto, se non ne ammettono neanche la pos- sibilità vale per loro la stessa osservazione appena fatta per i cristiani: chi genera figli non è meno giovane e pieno di forze di chi ne adotta, anzi, semmai lo è di più. Sono sicuri, gli Ebrei, di non concepire Yahvè, che li ha generati, come qualcuno diven- tato immediatamente incapace di nuova paternità o per lo meno disinteressato ad avere altra prole? Può addirittura far sorridere un padre così, da un solo colpo in canna, che genera quella volta e poi con la paternità ha chiuso. Non ha da stare allegro neanche l’unico figlio messo al mondo, con un padre talmente timoroso e avaro di sé. I figli unici volontari ne sanno spesso qualcosa.

Quanto poi al pronunciarsi effettivamente a favore dei cri- stiani come fratelli minori e adottivi, ma veri fratelli, una buona ragione per farlo potrebbe essere che la Bibbia in base a cui i cristiani avanzano tale richiesta è in realtà cosa loro. Sono tutti Ebrei quelli che hanno scritto il Nuovo Testamento, forse senza

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alcuna eccezione. Gli Ebrei attuali non dovrebbero dar retta a dei Gentili immischiatisi tra loro e il loro Dio, ma a degli antichi fratelli di sangue che si espressero per Giosuè di Nazaret come Messia inviato da Yahvè. Poi la storia prese pessime pieghe per Ebrei e cristiani, ma orribile come è stata, perché non provare a scriverne d’ora in poi una differente? E se entrambi avesse- ro frainteso ad arroccarsi in due famiglie? Paolo rivela che gli Ebrei sono la radice dell’albero, e una radice è necessariamente un fatto attuale, un albero vivo oggi dipende dalla sua radice vegetante oggi. Altrettanto, una radice viva ha sempre sopra di sé un albero che verdeggia, altrimenti è morta o morirà. Tanto Ebrei che cristiani sono indubitabilmente vivi oggi. Quindi van- no pensati, proprio a somiglianza di un albero e della sua radice, come parti distinte di un insieme. Non possono esserci cristiani a se stanti o Ebrei a se stanti, se si accetta che quella di Paolo è veramente parola ispirata, e almeno per i cristiani questo è fuori discussione.

La cristologia non sarebbe al momento condivisibile dagli uni e dagli altri (quella cristiana afferma che Gesù Cristo è Dio e non si vede come gli Ebrei potrebbero accettarla né i cristiani rinunciarvi), ma se gli Ebrei non venissero più chiamati a farsi battezzare, proprio come gli Ebrei autori del Nuovo Testamento non richiesero ai Gentili di farsi circoncidere, se si rinunciasse alla loro dissoluzione in quanto popolo, si aprirebbero al dialo- go spazi enormi. Alla luce di quanto si è verificato tramite Gesù, l’evento davvero messianico che il Dio degli Ebrei è adorato come Signore da tantissimi uomini dovunque sulla Terra, forse i cristiani possono sperare che gli Ebrei prendano in conside- razione Gesù come Messia, se verrà loro riconosciuta in ogni possibile senso la primogenitura, come è giusto che avvenga.

Mentre è totalmente assurdo che i seguaci di un vero Messia of- fendano e addirittura perseguitino il suo popolo Israele. In tanto in quanto tengono questa posizione, sono i cristiani a rendere del tutto incredibile la messianicità di Gesù agli occhi di chiun-

que giudichi con raziocinio: un Messia degli Ebrei, necessaria- mente Ebreo, che distrugge gli Ebrei, proclama che Dio li ha abbandonati e costituisce un secondo popolo di Dio ferocemen- te avverso al primo: sembra un’opera peggio che demoniaca, se questo è possibile, perché neanche Belzebù divora se stesso, e invece i cristiani, così operando, riescono nell’impresa.

Ebrei e cristiani, che devono rimanere distinti in questo tempo di comune attesa della Parusia, hanno fin qui pensato di poterlo essere solo come nemici votati all’annientamento l’uno dell’altro, gli Ebrei negando ai cristiani di esistere legit- timamente come figli di Yahvè tanto quanto loro, e i cristiani volendo fagocitare gli Ebrei, oppure, in caso di insuccesso, pro- ponendosi di estirparli, forti del loro numero. Forse esiste la possibilità di trovare una impostazione diversa, a salvaguardia della necessaria distinzione: attenersi alla storia della famiglia di Yahvè e riflettere su spunti forniti da “generare”, “nascere dentro una famiglia”, “adottare”, “essere figli adottivi”. Senza vagheggiarlo come l’uovo di Colombo, che non sarebbe il caso, è quello che qui si è cercato di perseguire; con buona testar- daggine, mettendo tra parentesi percorsi arcinoti e approcci più complessi; lasciando un momento da parte, per riprendere la similitudine dell’inizio, la veduta tanto sfruttata del Vesuvio col pino.

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3. IL DONO DEL MESSIA A ISRAELE

Il fare riferimento al concetto di figliolanza adottiva, per inquadrare noi cristiani, e di figliolanza carnale, per inquadrare gli Ebrei, ci ha permesso di formarci idee meno logore circa il rapporto che dovrebbe e potrebbe intercorrere tra gli uni e gli altri. Si tratta ora di vedere se questo aiuta anche a comprendere il significato di Gesù di Nazaret per gli Ebrei. Perché fin qui si è chiarita una cosa: senza Gesù Messia noi nemmeno esiste- remmo come appartenenti alla famiglia di Yahvè. Però Gesù è ebreo, e il Messia, anche proprio etimologicamente, è il re dei Giudei. Cosa apporta Gesù ai Giudei considerati in se stessi?

Immaginiamo che stiano al gioco di queste serate, mante- nere come unica prospettiva la relazione paternità/figliolanza, e che da loro ci venga la domanda: il Messia Gesù ha fatto entrare voi pagani nella famiglia, vi ha reso partecipi della presenza santificante di Yahvè che prima era riservata in modo speciale a noi come contropartita della nostra adesione al patto del Sinai;

ma il Messia Gesù cosa ha portato al suo popolo Israele? Quale liberazione decisiva, quale tesoro di prosperità? Ha dato tanto a voi, vi ha fatto avere l’unico vero Dio come padre. A noi, cosa ha portato che già non avessimo?

Nell’ottica qui prescelta, quella della figliolanza carnale degli Ebrei, la risposta che ci accingiamo a dare è che il suo dono è stato incommensurabile anche per loro. Per rendersene conto, cominciamo con il considerare la nostra stessa domanda di un istante fa: “Cosa apporta Gesù ai Giudei considerati in se stessi?” La sua formulazione fa intravedere immediatamente, da sola, il dramma del popolo ebraico, la fonte radicale di tutte le sofferenze a lui proprie. Finchè gli Ebrei si considerano e vengono considerati in se stessi, ne risulta un popolo con un compito eccedente ogni misura: essere il popolo di Dio in mez- zo a tutti gli altri popoli che invece non lo sono e non possono

diventarlo, almeno non allo stesso qualificante titolo di essere stati immessi in una alleanza e costituiti portatori di una rive- lazione.

Ma questo, al di là di buoni comportamenti e buone inten- zioni, conferisce di fatto a Israele una condizione di superiorità e genera negli altri popoli uno spirito di rivalsa. È impossibile ritrovarsi speciali, addirittura divini, ed esserlo in modo che non comporti abbassamento per gli altri che mai potranno diventar- lo, ed è altrettanto impossibile essere percepiti così presuntuosi dagli altri senza che abbia origine in questi ultimi un’animosi- tà distruttiva. Un’entità etnica scelta dall’unico vero Dio come propria a differenza di tutte le altre, in mezzo alle quali peraltro essa vive: è difficile ritenere un caso che la storia degli Ebrei, popolo separato ma non residente da solo in un suo territorio, sia ricca in modo speciale di persecuzioni. Esse sono avvenute anche prima e anche fuori del cristianesimo, che nel perseguita- re Israele ci ha aggiunto del suo a motivo dell’odio e della riva- lità dovuti alla parentela. È vero che moltissimi popoli si sono concepiti, chi più, chi meno, come prediletti dalla divinità, ma la differenza fondamentale è che, fin dove si spinge l’occhio, gli Israeliti a) non dominavano uno stato, b) erano monoteisti e c) ritenevano impuri gli altri con fermo rigore. È l’unione di queste tre componenti ciò che mette in pericolo l’incolumità di chi la pone in essere. Se poi vi si aggiunge la cultura, perché farsi guidare da una biblioteca sacra porta a privilegiare l’istru- zione… Quanto rispetto e dispetto fanno nascere nella povera gente gli uomini di carta e penna! E qui, in epoche con l’ottanta o più per cento di analfabeti, abbiamo tutto un popolo che ha a che fare con la scrittura.

So che molte orecchie si drizzeranno, come se si stesse di- cendo, in parole povere, che gli Ebrei se la sono sempre cercata.

I nostri antenati pagani la pensavano esattamente così, ma, ap- punto, erano pagani. Invece non si può valutare in questo modo la millenaria vicissitudine ebraica se si crede, da cristiani, cioè

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figli di Yahvè adottati, che la Legge mosaica è parola di Dio, e si riflette che proprio l’osservanza scrupolosa della Legge, separando Israele dagli altri popoli, ha avuto per lui queste conseguenze nefaste. Ai nostri occhi gli Ebrei vanno considera- ti titolari di un compito gravosissimo che hanno accettato, per nostra fortuna, ma di cui non si può vederli che ammirevoli ese- cutori.

Vulnerabilità inevitabile da parte ebraica e atteggiamento inevitabilmente invidioso e persecutorio da parte dei non Ebrei, è questo il quadro che emerge. Come venirne a capo? La ri- flessione che propongo per trovare una via d’uscita è proprio quella che nasce spontanea a partire dai concetti di paternità di Yahvè e di figliolanza di Israele. Da essi può derivare il male tremendo che conosciamo dalla storia del Novecento, Israele quasi annientato e noi colpevoli di questo genocidio, ma può derivare anche il più grande dei beni, se consideriamo che la paternità, per natura sua, non è destinata a produrre un figlio solo. Basterebbe soffermarsi sul fatto basilare che se ogni uomo generasse un figlio la specie umana si estinguerebbe nel giro di poche generazioni, e quindi non saremmo neanche qui a parlare di questo o di qualunque altro argomento: perché la popolazio- ne si mantenga occorre che, come minimo, ogni padre abbia due figli. La Bibbia parla di Israele come di figlio primogenito, e se la parola sta per qualcosa questo significa che secondo il piano di Yahvè Israele non può restare figlio unico.

Ecco che torniamo alla domanda del rapporto tra Gesù e Israele. Per la natura che gli è propria di primizia di tutto il mondo redento dal peccato, Israele non può mai essere conside- rato in se stesso e il Messia non può portare sulla terra qualcosa che sia per Israele e basta. Il Messia, venendo, ha dato a Israe- le, finalmente, il ruolo effettivo di primogenito, liberandolo da quello disperato di portabandiera di Yahvè in un mondo idola- tra, indegno e però seducente, verso cui l’unico comportamen- to possibile per restare fedeli è vivere in radicale separazione.

Ciò che dava a Israele l’esistenza di isolato vessillifero era la Legge, che da un lato lo costituiva popolo eletto, dall’altro lo costringeva alla chiusura verso gli altri e lo esponeva all’odio proveniente da loro e al proprio odio nei loro confronti, ma se il sale perde il suo sapore, con cosa glielo si renderà? Gesù Mes- sia, facendo entrare i pagani, cambiati dentro, nella famiglia di Yahvè, permette a Israele di non essere destinatario di premure in sé, ma di venire invece trattato in relazione a, insomma di passare da unico oggetto delle attenzioni speciali di Dio a primo membro di un insieme equilibrato e vasto quanto il mondo in- tero. La famiglia di Yahvè, precedentemente, aveva con Israele un figlio unico, con tutti i limiti e le contraddizioni relative. Ve- nendo il Messia, la famiglia di Yahvè diventa ben diversamente ricca e armoniosa, con un figlio primogenito, Israele, amato e onorato dai suoi nuovi fratelli, riconoscenti verso il Padre, ma riconoscenti anche verso di lui, che li accetta in famiglia e, in precedenza, con la sua fedeltà a Yahvè, duramente pagata, ha custodito da solo la casa che adesso è diventata anche loro.

Parlare così quando c’è stata la Shoà può suonare come minimo dissennato. Che non sembri una presa in giro, o peggio.

Bella vita davvero quella di Israele dopo la venuta del Mes- sia Giosuè di Nazaret! Verrebbe da dire: se Gesù è il Messia, meglio perderlo che trovarlo. Pur perseguitato da questo e da quello, mai Israele è stato in pericolo, prima di Gesù, quanto lo è stato dopo. Allora?

Si badi bene, però: questo quadro tragico si è realizzato con Israele che ha continuato a pensarsi come figlio unico e con i seguaci del Messia, i cristiani, che hanno considerato Israele un figlio diseredato e ripudiato. Dagli uni e dagli altri non è stato realmente accettato Gesù come Messia. Gli uni e gli altri.

Sembrerà grossa dirlo, ma se i cristiani hanno certamente rico- nosciuto Gesù come figlio di Dio e di natura divina lui stesso, è molto incerto, forse è da escludere, che lo abbiano riconosciuto come Messia, cioè come re di Israele, liberatore anzitutto del

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suo povero, fedele e paziente popolo ebraico dal peso insoste- nibile della Legge, dal dover lui assolvere necessariamente nel- la chiusura un compito che invece era di apertura universale.

Apertura che poteva esserci soltanto quando, maturati i tempi, Yahvè avesse inviato sulla terra, attraverso il Messia, la gra- zia che tocca il cuore degli uomini e può trasformare anche le pietre in figli di Dio. Invece è successo che gli Ebrei in gran maggioranza non hanno riconosciuto Gesù come Messia e che i pagani, dopo un po’ gli unici ad aver creduto in lui, lo hanno, a propria immagine, “degiudaizzato”. Lo hanno considerato non il Messia di Yahvè, ma il Figlio inviato dall’unico vero Dio, che si sono ben guardati dal continuare a chiamare Yahvè, e hanno messo il più possibile sullo sfondo che “Cristo” voleva dire “Messia”, facendo come noi con i cognomi, che quando hanno un significato, non ci badiamo. Non hanno mai rotto a fondo con l’ebraismo, questo è altrettanto vero, anche se ci sono stati importanti tentativi per liberarsi del Vecchio Testamento e per abbandonare il Dio “cattivo” che lo aveva ispirato, ma la soluzione trovata è stata quella di ritenere di essere subentrati a Israele come popolo eletto e il rapporto venutosi a creare è stato quello di due litiganti vicini di casa, dei quali uno con muscoli da far paura (i cristiani) e l’altro piccolo e irriducibile (gli Ebrei).

È un arcinoto tema paolino che l’osservanza della Legge è impossibile. In ambito cristiano si è soliti sottolinearne il nume- ro esorbitante di precetti, oppure che l’ossequio esteriore non costituisce vera obbedienza, “farisaico”, lo chiamiamo. Sono semplicemente spunti polemici, anche abbastanza sciocchi, per quanto siano presenti già nella prima generazione cristiana e il Nuovo Testamento li registri puntualmente. Gli Ebrei dipen- dono dall’osservanza della Legge, se no perderebbero la loro identità, e tutt’oggi ce l’hanno: figurarsi se non sono capaci di tenere insieme, e molto meglio di noi, perché per loro è vita- le, obbedienza esteriore e partecipazione dell’animo, ed evita-

re l’ipocrisia, che è il primo scoglio su cui si può naufragare.

Quanto poi al numero dei precetti, la vita cattolica del precon- cilio, così “ebraica”, era certamente faticosa, ma fattibilissima.

Il discorso serio è quello di san Paolo. La Legge, in sè buona e santa, di cui non cambierà, per gli Ebrei, neanche uno iota o un apice, è pedagogo al Messia, non salva perché soltanto la fede in Gesù Messia (Gesù Cristo) può salvare. Per Giudei e Gentili, solo la venuta del Messia è apportatrice di salvezza. Quella che risulta da queste riflessioni è, se non mi illudo, nient’altro che un’insolita riproposizione paolina. Anche se l’ottica prescelta costringe poi a fare una precisazione non da poco, che andrebbe conciliata con lo slancio missionario di Paolo: solo la fede sal- va, ma chi? I Gentili che siamo noi, i figli di famiglie andate a monte, desiderosi di trovarne una nuova e migliore in quella di Yahvè. Quanto agli altri uomini, la nostra conoscenza è limita- ta. Non sappiamo cosa gli è stato dato di sé dal Signore, di cui sono creature, né come provvederà per loro in futuro. Di certo li accoglierà in questa sua famiglia se, smarriti come noi fummo e come auguriamo loro di non essere mai, glielo chiederanno;

e speriamo in quel caso, proseguendo ad essere verso di loro il prossimo che raccomanda il Vangelo, di sapergli far spazio come ulteriori fratelli.

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4. SIAMO SUBENTRATI COME EREDI?

“Dio non ha respinto affatto il suo popolo”, scrive san Pa- olo nella Lettera ai Romani, come abbiamo già avuto modo di ricordare. È un gran punto fermo, perché si tratta dell’unica vol- ta in cui il Nuovo Testamento si pronuncia espressamente sulla sorte di Israele, e lo fa in modo inequivoco. Forse però si tratta di un’affermazione da considerare appartenente al “Vesuvio vi- sto da Posillipo”, nota a tutti com’è; anche se poi in concreto viene dimenticata, così sembra, altrettanto da tutti: alzi la mano il cristiano che pensa che gli Ebrei siano tuttora il popolo elet- to.

Come sta invece la faccenda di Israele diseredato nella pro- spettiva della “motonave all’altezza di Portici” a cui ci siamo voluti limitare noi, cioè di considerare il rapporto fra ebraismo, cristianesimo e altre fedi esclusivamente sotto il profilo della paternità e della figliolanza? Nel campo dei rapporti famigliari, esiste almeno un caso in cui un figlio perde ogni diritto succes- sorio e non può più essere erede? La domanda è del tutto perti- nente, un caso del genere è contemplato. Recita infatti il nostro Codice Civile, in sintonia con quello delle nazioni vicine, all’ar- ticolo 463: “È escluso dalla successione come indegno chi ha volontariamente ucciso (…) la persona della cui successione si tratta, o il coniuge, o il discendente”.

E allora, basandosi su questa norma, si potrebbe ragionare così: Gesù era il Messia, il Figlio di Dio, dunque, uccidendolo, gli Ebrei si sono resi indegni di continuare ad essere eredi di Yahvè. Il figlio carnale, Israele, ha perso con quel delitto il suo posto nella famiglia. Eredi siamo rimasti noi, i figli adottivi. Pri- ma c’era un figlio carnale, che era l’unico erede, poi, attraver- so l’adozione, noi siamo diventati coeredi. Il successivo delitto compiuto da Israele ha lasciato unici eredi noi, i cristiani. Noi adesso costituiamo la famiglia di Yahvè; Israele, invece, a causa

della sua indegnità, non ne è più membro.

A prima vista tutto ciò sembrerebbe lineare e inoppugna- bile, un argomento, come si dice, che taglia la testa al toro. Per dichiararlo decaduto dalla sua posizione di figlio non c’è nean- che bisogno di accusare Israele di deicidio, come varie voci del cristianesimo, per mettere gli Ebrei con le spalle al muro, nel corso dei secoli hanno fatto ripetutamente. La teoria del deici- dio l’avrete certamente già sentita, anche se è una concezione oggi meno viva che in altri tempi. Tuttavia per condividerla è necessario che esista un clima di odio così forte da ottenebra- re la mente, perché a volerla sostenere usando la ragione ci si scontra con argomenti molto difficili da superare. Come si fa ad uccidere Dio? Se Dio può essere ucciso, che Signore dell’uni- verso è, creatore del cielo e della terra? Sono obiezioni a cui non si sfugge neanche precisando che gli Ebrei hanno fatto uc- cidere l’uomo Gesù, che però era Dio, e dunque hanno ucciso Dio. Infatti la replica è subito pronta. Se con la crocifissione di Gesù hanno ucciso Dio, dove sono andati a finire il Padre e lo Spirito Santo, che la nostra fede considera uguali ma distinti dal Figlio?

Parlare di Israele come di popolo deicida comporta per i cristiani problemi francamente imbarazzanti. La Trinità la cre- diamo, ma è per noi il mistero dei misteri, nominarla è come trovarsi sulla cima dell’Everest, dove esser là è già tutto. Ve lo immaginate qualcuno che utilizza l’essere sulla vetta dell’Eve- rest? Che lo considera il posto adatto per farci qualcosa, per im- portante o utile che possa essere? No, per carità, per affermare che noi cristiani abbiamo sostituito Israele, il deicidio è meglio lasciarlo perdere.

Sembrerebbe più conveniente, per sostenere l’avvenuta so- stituzione, sfruttare la strada che pare aprirsi qualora ci si metta nella prospettiva di queste pagine. Utilizzare, cioè, quello che abbiamo appena letto nel Codice Civile, che esiste un’indegnità ad essere eredi se ci si è macchiati di un omicidio in famiglia.

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Israele ha fatto condannare a morte il Messia, il Figlio di Dio, e allora non può più essere erede di Dio, ne sono rimasti eredi i figli venuti dopo di lui, i figli adottivi, noi cristiani, insomma.

Detto di passaggio, eventualmente con gli Ebrei si potrebbe an- che discutere se Giosuè di Nazaret era o no il Messia, mentre non c’è nessuno spazio di confronto con loro, fosse pure mi- nimo, se noi introduciamo nel discorso la sua divinità, che per gli Ebrei è la più grave delle bestemmie. Il primo articolo della fede di Israele è proprio: “Ricorda, Israele, Yahvè, Iddio nostro, è l’unico” (Deuteronomio 6,4).

Invece è facile dimostrare che neanche per la nostra via si arriva a stabilire che gli Ebrei non fanno più parte della fami- glia di Yahvè. Lo affermavamo appoggiandoci al diritto civile, nostro come di molti altri popoli, se non di tutti? Ma l’articolo 463 che abbiamo citato prosegue in modo molto preciso: “È escluso dalla successione come indegno chi ha volontariamente ucciso (…) la persona della cui successione si tratta, o il coniu- ge, o il discendente, purchè non ricorra alcuna delle cause che escludono la punibilità a norma della legge penale”. La quale a sua volta dice (Codice Penale, art.85): “È imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere”. Gli Ebrei hanno fatto croci- figgere Gesù, ma ricordiamo tutti cosa Gesù stesso, sulla croce, afferma di chi lo sta mettendo a morte: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Luca 23,34).

Perciò, anche dato e non concesso che il popolo ebraico in quanto tale vada ritenuto responsabile della morte di Gesù, per testimonianza di Gesù stesso non è punibile, e dunque non perde nessun diritto a nessuna eredità. È quanto è capitato di recente vicino a noi, a Parma. Il giovane Carretta uccise anni fa i genitori e il fratello, ma fra breve entrerà in possesso della loro eredità, senza discussione, benchè gli altri parenti si appellino all’opinione pubblica, perché il tribunale ha stabilito che nel commettere l’omicidio era incapace di intendere e di volere.

Sempre nella prospettiva in cui abbiamo scelto di metterci,

quella di paternità e figliolanza, adottiva o carnale, c’è però un argomento non meno interessante che merita di essere svilup- pato. Vi abbiamo appena fatto cenno: “dato e non concesso che il popolo ebraico in quanto tale vada ritenuto responsabile della morte di Gesù”. Raffiguriamoci la scena della crocifissione, resa così vividamente dai Vangeli. Dove siamo noi, i figli di Yahvè adottati? Subito ci accorgiamo di brillare per la nostra assenza.

Ci sono i nostri padri, i funzionari e i soldati romani, adoratori di Giove, Marte, Iside, Mitra e altri dèi, nella non bella parte di aguzzini. E per il resto, oltre a Gesù, ci sono Israeliti che approvano l’esecuzione, anzi l’hanno provocata, e Israeliti che la disapprovano: o addolorati nei pressi della croce, soprattutto donne, o impauriti un po’ più lontano, i discepoli. Il dramma della messa a morte di Giosuè di Nazaret, voluta dagli uni e subita dagli altri, considerato dal punto di vista della figliolanza di Yahvè, si gioca tutto all’interno dei figli carnali. Di adottivi, di simili a noi, ve ne saranno quando poco tempo dopo gli Ebrei contrari alla condanna di Giosuè di Nazaret si metteranno a pre- dicare anche ai pagani che Yahvè ha ribaltato la sentenza e, ri- suscitandolo dai morti, lo ha proclamato Messia, cioè salvatore definitivo tanto di Israele che di tutti gli altri popoli della terra.

Se noi diciamo senza aggiungere altro che Israele, in quan- to tale, ha crocifisso Gesù, è come se affermassimo che Maria, il Discepolo Prediletto, Maria di Magdala, le pie donne, Giu- seppe di Arimatea e gli altri non nominati, proprio i fedeli di Gesù, non erano il vero popolo eletto, il vero popolo eletto era- no i sommi sacerdoti e gli scribi. Dunque ci è impossibile farlo.

La verità, molto meno comoda di quella in cui noi cristiani ci culliamo, è piuttosto che Israele in quanto tale, “non sapendo quello che fa”, mette a morte Giosuè di Nazaret, e Israele in quanto tale crede in lui come Messia. È tanto vero che Israele ha crocifisso Gesù quanto è vero che lo ha riconosciuto e pre- dicato. Del resto, se non fosse così, come entreremmo in scena noi “messiani”? Tutti quelli che ci hanno convertito, i Dodici,

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i discepoli maschi e femmine, “Maria di Magdala, Giovanna, Susanna e molte altre” (Luca 8, 2-3), Paolo apostolo, Giacomo fratello del Signore, Stefano, Filippo, Barnaba, Timoteo, Apol- lo, tutti i nostri padri e madri nella fede erano Ebrei. E chi d’al- tra parte, se non gli Ebrei stessi, poteva predicare a qualcuno il loro Dio Yahvè e il suo Messia?

Il popolo ebraico che, in quanto tale, sic et simpliciter re- spinge Gesù Messia, esiste ed è giunto fino a noi, ma si è de- terminato solo un certo tempo dopo la crocifissione, e quindi non può logicamente esserne considerato l’artefice. Tale Israele che respinge Gesù, ma – come sappiamo da san Paolo – non è respinto da Dio, prende corpo quando gli Ebrei convinti che Gesù è il Messia hanno avuto, per così dire, troppo successo.

I pagani che si convertono sono talmente tanti, rispetto a loro, che li assorbono e li fanno sparire: in breve tempo non vi è più un giudeo-cristiano riconoscibile, vi sono soltanto pagano-cri- stiani. Dopo di che da una parte abbiamo un Israele fermamente avverso a Gesù, che espelle da sé tutti i cristiani, e dall’altra troviamo dei seguaci di Gesù di origine pagana che tendono a contrapporsi a Israele. Gli uni preoccupati che loro fratelli di sangue, traviati da un falso Messia, finiscano pagani (Gesù Dio:

una bestemmia!), e gli altri, i “messiani”, gli adottivi, con il complesso dei nuovi arrivati e costretti il più possibile a distin- guersi e a negare il buon diritto dei fratelli già presenti nella fa- miglia. I quali, dal canto loro, non li considerano assolutamente propri fratelli; e così il cerchio è chiuso. Alla fine del primo secolo della nostra era il disastro storico dei rapporti tra Giudei e cristiani c’è già tutto.

È però possibile che qualcuno di voi, avendo pazientemen- te seguito il discorso, lo accetti per intero tranne che nella con- clusione. Va bene, non si può dire che Israele in quanto tale ha crocifisso Gesù ed è vero che dopo la sua morte ci sono stati israeliti cristiani e pagani cristiani fratelli fra loro. Ma, dopo un po’, è indiscutibile che sono rimasti soltanto pagani cristiani.

Dunque i figli carnali sono venuti meno e la famiglia è rimasta composta soltanto da quelli adottivi. Non siamo tornati, dicen- do questo, alla sostituzione degli Israeliti con noi? Non è neces- sario introdurre né deicidio, né uccisione di Gesù, basta quello che è successo: a un certo momento di Ebrei cristiani non è più dato incontrarne. Prima c’è Israele come popolo eletto, dopo veniamo noi.

Se non presumo troppo di me, credo che sarei in grado di smontare questo ragionamento con la logica, perché contiene una petizione di principio, cioè dà per dimostrato ciò che si do- vrebbe dimostrare: presuppone che la sostituzione ci sia stata, se uno non è con noi, non ha credenziali come popolo eletto.

Infatti gli Ebrei non sono per niente scomparsi. Il discorso fi- lerebbe se di Ebrei non ce ne fossero più, allora sì che sarebbe evidente che il popolo eletto siamo rimasti noi, al loro posto.

Ma la logica formale vorrei lasciarla da parte e mi piacerebbe mantenermi nella pedestre posizione di “osservatore del Vesu- vio dalla nave”, cioè considerare come al solito le cose dal pun- to di vista di paternità e figliolanza.

Gli Ebrei in quanto tali, da un certo momento in poi, non hanno più voluto saperne del piano di Yahvè che prevedeva nuovi fratelli, ma non di Yahvè stesso, che hanno continuato ad onorare in tutto tranne che su questo punto, certo importan- tissimo. Questo fa sì che siano in disaccordo grave con Yahvè, perché anche noi cristiani esistiamo e lo adoriamo. Se Yahvè (tramite Israele!) ha preso altri figli nella famiglia e Israele fa come se niente fosse, ne nasce un bel problema di rapporti, non c’è dubbio. Tuttavia, come si diceva prima, l’unico motivo di disconoscimento che abbia valore è l’omicidio, e qui non ricor- re. Dalla fine del primo secolo della nostra era in poi gli Ebrei hanno fatto come se noi fratelli adottivi non ci fossimo e Yahvè non ci avesse voluto, il caso è molto diverso rispetto all’omici- dio. Mi si permetta di istituire un paragone. Se mio figlio non si sogna di cercarsi un altro padre, anzi mi ama, e proprio perché

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mi ama non riconosce che io abbia adottato un altro figlio, la crisi che si apre è ben grossa, ma non sarò certamente un padre così duro di cuore da dire: il figlio che ho messo al mondo lo rifiuto, per me d’ora in poi c’è solo quello adottivo. E dovreb- be averlo fatto Yahvè con il suo primogenito? Non se stiamo ad Osea: “Così dice il Signore: Quando Israele era bambino io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano. Li conducevo con legami di bontà, con vincoli di amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare. Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione.” (Osea 11)

Non chiuderò tuttavia senza accennare alla inquietantissi- ma altra faccia di questa medaglia. Mi riferisco sempre all’ere- dità che si può perdere per omicidio in famiglia. Israele non si è mai posto l’obiettivo di sterminare i cristiani, dopo l’avvenuta separazione: anche se ne avesse avuto la forza e la cattiveria, era necessario e sufficiente tenerli a distanza. Ma i cristiani se lo sono proposto eccome, qua e là l’hanno fatto e, se si condivide la teoria del deicidio e si dispone di un carattere sufficientemen- te spiccio, sterminare gli Ebrei diventa meritorio, addirittura un peccato non farlo. Non si sta parlando di altri tempi. La Shoà, il tentativo più riuscito di tutti, è di sessant’anni fa e venne per- petrata da battezzati, in paesi di grande tradizione cristiana, con molta indifferenza e pochissima opposizione da parte dei fedeli sinceri. Avremmo pianto, al di là dell’umana compassione, se sparivano gli Ebrei? O avremmo sentito come positivo, al mas- simo irrilevante, che non ci fossero più? Modena, che all’unità d’Italia aveva tra l’uno e il due per cento di Israeliti, adesso or- mai ne conta pochissimi, e le va bene così. E invece, ecco cosa ne consegue, ponendosi dal nostro punto di osservazione, dal famoso Vesuvio visto dal mare: se scompaiono gli Ebrei e ne siamo responsabili, noi perdiamo, per omicidio di uno di casa,

qualunque diritto all’eredità. Non esiste una parola di Gesù che dica che ad uccidere gli Ebrei non sappiamo ciò che facciamo, né, a differenza del Messia, è predetta nel Vangelo una loro ri- surrezione il terzo giorno, e nemmeno, poiché Ebrei si è per nascita, sarebbe possibile ai cristiani contrari allo sterminio diffonderli successivamente attraverso una testimonianza. Se la Shoà riusciva, non eravamo più il popolo di Dio. Tutte le chie- se, tutti i sacramenti, tutta la nostra vita di cristiani se ne andava.

Non scompariva, era peggio, tutto sarebbe rimasto uguale e puf, non era più vero niente.

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5. LA “CASA” PER EBREI, MUSULMANI E CRISTIANI Ormai a metà dei nostri incontri, comincio riassumendone il filo conduttore. È verità basilare della fede cristiana che i cre- denti sono figli adottivi di Dio. Lo sono in quanto uniti a Gesù Cristo, e abitualmente ci si ferma qui, al legame personale in- staurato con il Battesimo: il dono è così grande che fare tre ten- de e rimanere, come voleva Pietro alla Trasfigurazione, viene spontaneo. Non vedere che questo però è riduttivo, addirittura fuorviante se porta a considerare l’insieme dei battezzati come l’attuale popolo di Dio a discapito di Israele; del resto le tre ten- de erano una per Gesù, una per Mosè e una per Elia. Dobbiamo riflettere che “Gesù Cristo” vuol dire “Yahvè salva attraverso il Messia”. I cristiani sono figli adottivi di Dio precisamente in quanto, a un certo punto, dalla loro famiglia di origine sono passati in quella di Yahvè, già formata da molti secoli. Furono chiamati in essa da Ebrei che credevano che il Messia fosse venuto, e che dunque ormai anche i pagani potevano, ricevendo lo Spirito da lui effuso, diventare loro fratelli. È altrettanto fon- damentale non perdere di vista che il tipo di adozione praticato dagli Ebrei seguaci del Messia nei confronti dei pagani deside- rosi di entrare nella famiglia di Yahvè era tale da non far loro perdere l’appartenenza precedente a una cultura, a dei costumi, a una storia. Con il battesimo nel nome di Gesù Messia, i nuovi fratelli non diventavano anche loro Ebrei, non era loro richiesto che si circoncidessero. Venivano trattati, insomma, come ci si comporta quando l’adottato è un adulto.

E’ proprio partendo da qui che si possono fare riflessio- ni importanti. Le famiglie nascono proporzionate a una casa e se vengono più figli del previsto si cambia la volumetria della casa. Là dove si può, la si allarga, dove invece non si può, ci si trasferisce. Lo stesso vale se la famiglia si accresce attraverso adozioni? La risposta viene da sola. Sì, se si tratta di bambini

piccoli. No, se vengono adottati degli adulti. In questo secondo caso il legame si crea, ed è, in un certo senso, ancora più forte, perché l’adozione di un adulto è un atto meno necessitato e più consapevole, e ha dietro di sé fortissime motivazioni ideali, se non c’è di mezzo un patrimonio, quando l’adozione, come suc- cede, è più che altro una trasmissione di beni. Ma non comporta vivere sotto uno stesso tetto, perché ogni adulto, di norma, ha la sua casa. Non c’è bisogno che l’adottato venga a stare nell’abi- tazione dell’adottante, né che l’adottante diventi il gestore della casa dell’adottato, come sarebbe indispensabile se questi fos- se un bambino e per qualche ragione dovesse rimanere dov’è.

Ottaviano venne adottato da Cesare, e fu una cosa serissima e decisiva per lui, senza per questo muoversi da dove stava prima, né intromettendosi Cesare nella conduzione della casa del suo nuovo figlio.

L’impostazione degli Ebrei seguaci del Messia di lascia- re a ciascuno la propria appartenenza era dovuta a un preciso mandato divino: le “nazioni” in quanto diverse da Israele sa- rebbero salite a Gerusalemme ad adorare anch’esse Yahvè. Non motivata da ragioni d’altro genere, tuttavia non c’è dubbio che essa consentiva di adottare i pagani con maggiore generosità e maggiore rispetto: maggiore rispetto, perché non infantiliz- zava nessuno, e maggiore generosità perché in questo modo si poteva adottare, senza limite quantitativo, chiunque ne facesse richiesta. Per dirlo alla buona, non c’era il problema di “dove metterlo” e neanche quello di “starsi fra i piedi” (anche se c’era quello, altrettanto non piccolo, di accettare la parentela con dei diversi). E adottare – o meglio, essere aperti ad adottare – biso- gnava, perché un Messia che fosse stato per Israele e basta, pro- prio perché doveva cambiare la condizione di Israele oppresso, avrebbe significato un controsenso. Essa non sarebbe cambiata, se l’intimo delle nazioni non fosse stato trasformato dallo Spi- rito.

Tutte le religioni, probabilmente, in quanto famiglie pa-

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ragonabili a quelle di genitori e figli, hanno il problema della

“casa”, sia in senso immateriale, sia nel senso di un luogo, di una terra data loro dalla divinità. Ciò è soltanto più macrosco- pico per Israele, per il quale la promessa di Yahvè comprende, come sta scritto, il possesso di una precisa regione. L’accani- tissima resistenza araba all’insediamento dello stato di Israele in Palestina è molto dovuta al fatto che, per i musulmani, la Palestina fa parte della terra dell’Islam. Secondo il loro modo di essere credenti, il mondo si divide in casa della pace (Islam) e in casa della guerra, cioè dove vige la guerra, non regna la santa legge di Allah.

In effetti, Ebrei e mussulmani ci forniscono, per contrasto, un sfondo molto utile per chiarire importanti conseguenze di quanto appena affermato circa l’adozione dei pagani operata dai seguaci di Gesù e la modalità da essi scelta. Gli Ebrei attuali non vedono il motivo (e giustamente, se il Messia non c’è e non c’è stato) per cui dovrebbero adottare qualcuno. Il popolo di Dio già esiste, deve soltanto essere fedele. Se qualcuno biso- gna proprio adottarlo, venga e si circoncida. Di conseguenza gli Ebrei, non dovendosi allargare, con la casa sono a posto (solo da questo punto di vista, ovviamente: la loro precarietà nella diaspora e la situazione attuale dello stato di Israele sono sotto gli occhi di tutti). C’è la famiglia e c’è la casa proporzionata, fine del discorso.

I musulmani, dal canto loro, adottano in grande stile, e adottano “bimbi”, in quanto non danno tendenzialmente valore a tutto ciò che è precedente alla conversione, fossero pure ere- dità enormi come l’ellenistica, l’egizia, la mesopotamica o la persiana. Naturalmente, all’inizio ci si dovettero confrontare, e in vario modo seppero trarne vantaggio. Sempre meno però, per logica interna, con l’andare del tempo. Per esempio, in epoca moderna è attraverso di noi, figli adottivi secondo l’altra mo- dalità, che nutrono un certo gusto e interesse (poco) per la loro antichità preislamica. Di conseguenza, il problema della “casa”

ce l’hanno. Adottando “bimbi”, ed essendo tanti gli adottati, bi- sogna necessariamente che la casa in cui i “bimbi” vivono di- venti tutt’uno con la loro, se no, come potrebbero occuparsi dei nuovi accolti nella famiglia, visto che, privi di storia propria, sono appunto una specie di bambini piccoli? In altre parole, la casa della pace, l’Islam, deve estendersi là dove risiedono i nuo- vi convertiti.

I cristiani, viceversa, come concezione, sono figli adottivi adulti, e possono vivere da soli, sia dove sono sempre vissuti, oppure anche altrove, non conta molto. Tutto ciò, attenzione, non lo si ribadirà mai abbastanza, vale in linea di principio, non di fatto: moltissimi battezzati hanno una sensibilità “musulma- na” (su questo punto ce l’ha anche il Papa, quando reclama il riferimento alle radici giudeo-cristiane nella Costituzione euro- pea), e molti musulmani sono sempre vissuti “cristianamente”, cioè come minoranza in territori a prevalenza non islamica, sen- za emigrare e senza votarsi a una guerra perpetua. L’idea è però che, se fossero in maggioranza, là dove essi si trovano sarebbe Islam: la “casa” è quella, così allargata, dei “genitori adottivi” a cui essi devono la loro fede musulmana.

È curioso riflettere che i cristiani, visti da questa angola- tura, non avendo preoccupazioni di “casa”, sono una specie di gente in affitto: loro sono qui e potrebbero essere là, i loro nuo- vi fratelli restano dove si trovano e, diventati cristiani, hanno anch’essi poca rigidità circa l’abitazione. Per quanto i Tedeschi, che sono di tradizione cristiana, abbiano notoriamente un forte senso della patria, milioni di loro l’hanno abbandonata a segui- to dell’ultima Guerra Mondiale (Prussia e Pomerania orientali, Slesia, Sudeti) e non pensano di non poter vivere senza rientrar- vi. I profughi palestinesi, certo per tante ragioni, ma soprattutto per questo modo di concepire la “casa” della famiglia, dopo gli stessi decenni di lontananza sono ancora inconsolabili. Sempre in dipendenza della stessa impostazione di fondo, in Sudafrica i bianchi sono rimasti, una volta cambiata la supremazia politica,

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e i neri non hanno pensato che fosse necessario cacciarli o ren- derli cittadini di seconda categoria. Fino a poco prima i bianchi erano stati verso di loro escludenti all’estremo, addirittura raz- zisti: Mandela si è rivelato la figura politica più memorabile del Ventesimo secolo, ma nulla avrebbe potuto senza una mentalità

“cristiana”, di noncuranza della terra, a cui fare appello, presen- te in qualche piega dell’animo degli uni e degli altri.

Naturalmente, questo essere teologicamente dei senza casa si paga (se è giusto dire che si paga, e non costituisce, invece, l’inizio della salvezza messianica: nessuno avrebbe puntato un soldo sulla convivenza in Sudafrica!). È risaputo che un mu- sulmano ben raramente abiura e che un Ebreo, in profondità, rimane sempre tale. I cristiani, che non hanno al centro della loro fede legami di sangue, come gli Ebrei, e non hanno teolo- gicamente legami con una terra, come gli islamici, facilmente sono foglie al vento. Ma bisogna che sia così. Se sono seguaci del Messia, essi dipendono dalla presenza dello Spirito, che non ha muri e non può averne. “Le volpi hanno le loro tane, e gli uccelli il loro nido, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. O i cristiani sono animati dallo Spirito, oppure sono esseri umani più disorientati di altri, perché non hanno tra loro elementi connettivi molto solidi, e ogni uomo è a disagio quan- do se ne sente carente.

Si pensi alla “casa” costituita dalla lingua. Ebrei e musul- mani hanno addirittura i testi sacri scritti nella loro lingua. Con l’ebraico e l’arabo essi parlano la lingua di Dio, e a tutti gli Ebrei, possibilmente, viene insegnato l’ebraico, e a tutti i mu- sulmani l’arabo. I cristiani sono un popolo senza lingua. E nep- pure hanno un santuario nazionale a cui riferirsi. Non possiedo- no nulla di neanche lontanamente paragonabile a Gerusalemme o alla Mecca. Per diversi secoli non hanno nemmeno abitato un tempo loro: contavano gli anni dalla fondazione di Roma e an- cora oggi i Copti, non deve sorprendere più di tanto, li contano a partire da Diocleziano proclamato imperatore.

Il cristianesimo è tutto “malfatto”. Non solo la sua teolo- gia su Dio è decisamente problematica, rispetto al monoteismo assoluto e lineare di Ebrei e musulmani, anche le modalità di appartenenza al popolo sono poco assicurate, con l’aggiunta di una facilità di scomunica che le altre due grandi religioni del Li- bro non conoscono nella stessa misura. Nessuno viene ritenuto non più Ebreo se ignora la sinagoga, e Rushdie è un musulmano da uccidere, ma è un musulmano, mentre ai propri occhi e a quelli altrui il battezzato Hitler non era cristiano, e non c’è bi- sogno di essere Hitler, basta infinitamente meno perché si formi questa valutazione.

Gli Ebrei non prendono origine da altri e i musulmani nem- meno. È iscritto invece nell’essere cristiani di derivare. Sono figli adottivi, per di più con la drammatica complicazione che Israele ha voluto cancellare l’adozione e loro, dal canto proprio, l’hanno considerato decaduto da popolo di Dio e l’hanno perse- guitato in tutti i modi. Non solo, si sono fatti adottare voltando e non voltando le spalle al loro appartenere a un grande impe- ro, quello di Roma. Non gli hanno voltato le spalle in quanto, diventati cristiani, hanno continuato ad utilizzarne, da apostati della romanità, gli strumenti culturali. I cristiani sono sempre ir- rimediabilmente in mezzo. Dipendono, tuttora, dagli Ebrei, loro radice e quindi fonte attuale di linfa. E dipendono dai Greci e dai Romani, loro padri, a cui non hanno mai smesso di guarda- re, anche da convertiti, e a cui devono, sia pure sviluppato per conto proprio, lo stile di vita caratterizzato dal progresso scien- tifico che li distingue, al momento, dal resto dell’umanità e che risulta essere per tutti gli abitanti del pianeta un così grosso pro- blema, per chi ne usufruisce, per una ragione, e per chi non ne usufruisce, per un’altra. Perché non avere confini certi ha come conseguenza ultima essere tendenzialmente dappertutto. Gli Ebrei se ne sarebbero rimasti tranquilli, dentro un loro stato, un po’ come gli Svizzeri. I musulmani prescrivono il velo alle loro donne, siamo soltanto noi, per come siamo fatti, ad operare in

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mille modi e dovunque perché tutte le donne non se lo mettano.

Non avere limiti vuol dire che non c’è nessun freno a portata di mano. O noi troviamo ordine dallo Spirito, la cui asserita venuta è l’unica causa della nostra origine, e produciamo le opere della fede, oppure siamo un carro armato, sia in senso stretto (nostre sono le armi più terribili), sia in senso figurato, per gli altri uo- mini, per la natura, innanzitutto per noi stessi.

Sarebbe stata tutta un’altra storia, proprio completamente diversa, se fossimo stati adottati “bimbi” e avessimo ricevuto la circoncisione. Adozione che però, senza la venuta del Messia, nessuno ci avrebbe proposto. Niente da fare, un cristiano o è foglia al vento, o non è, sempre che un singolo o un gruppo non siano cristiani più che altro di nome, cosa che la labilità delle connotazioni esterne consente appunto benissimo, e in realtà, come si diceva sopra, essi siano invece “ebrei”, “musulmani”, politeisti o altro ancora (il cattolicesimo preconciliare, con tutti i suoi precetti e la sua casistica, suonava notevolmente ebrai- co). A meno che non abbia in sé, come crede e come spera, lo Spirito, per un seguace del Messia non sembra esserci al- ternativa a una disturbante mancanza di sicurezza, sia propria che ingenerata da lui negli altri uomini intorno. Non ne risulta schiacciato, restando cristiano e non rifugiandosi in modalità altrui, soltanto se vive nello Spirito, perché allora ne godrà i frutti, “carità, gioia, pace, pazienza, benignità, bontà, fedeltà, dolcezza, temperanza”. “Vi lascio la pace, vi do la mia pace”. Il battezzato non può e non deve sottrarsi alle incertezze derivanti dall’essere impostato alla cristiana, deve invece contare sulla pace inesprimibile che gli è data da Gesù risorto.

6. DUE MODESTE PROPOSTE

Si è detto che il cristianesimo è sempre “in mezzo”, sensi- bile a influenze contrapposte, e che, a differenza di ebraismo e islam, non ha un’origine assoluta, ma deriva da e, anche attual- mente, dipende. San Paolo fa il paragone con l’albero innestato, che dà frutti suoi avendo però la radice non sua. È la radice che apporta la linfa. Senza l’innesto, per contro, l’albero produrreb- be frutti diversi e meno buoni. La famiglia di Yahvè non avreb- be la stessa rilevanza se non vi fossero i figli adottivi, ma questi ultimi non possono che giovarsi di tutto ciò che valorizza la famiglia esistente prima della loro ammissione. Tornando alla similitudine dell’albero, semplicemente si innaffi la radice e si vedrà quanto le fronde e i frutti ne trarranno vantaggio.

Ma è facile verificare l’assunto anche fuori metafora. Ab- biamo richiamato più volte, e quasi tutti lo sapevano senza bi- sogno di sentirselo dire, che “Cristo”, parola greca, è la tradu- zione del termine ebraico “Messia”. Ebbene, confortati dal fatto che siamo nel lecito - non si tratta in fondo che di ritornare al vocabolo originario - tutte le volte che diciamo “Gesù Cristo”

proviamo a dire “Gesù Messia”. L’effetto che vediamo prodursi è molto significativo. Ne risulta un vero e proprio rigoglio per noi, per la “chioma”. Prendiamo un brano a caso. Dice Pietro allo storpio all’inizio degli Atti degli Apostoli: “Non ho né oro né argento, ma ti do quello che ho: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, alzati e cammina!” È ben diverso dire: “Nel nome di Gesù Messia il Nazareno alzati e cammina!”, cioè “poiché Gesù il Nazareno è il Messia, alzati e cammina”. Non dovrebbe esse- re cambiato niente, e invece si profila tutto un altro orizzonte. Il miracolo smette di essere fraintendibile come una gemma a sé, una semplice per quanto elevata manifestazione di potenza e di filantropia, e acquista una ragion d’essere che prima non pos- sedeva o almeno non era perspicua. Del resto se dicendo “Gesù

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