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Mario Esposito. Pioggia di novembre

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Academic year: 2022

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La Ruota Edizioni

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Mario Esposito

Pioggia di novembre

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Pioggia di novembre Mario Esposito Collana Ombre Prima edizione: novembre 2021 Copyright © 2020 La Ruota Edizioni

Tel. 06 89715227 www.laruotaedizioni.it redazione@laruotaedizioni.it

ISBN: 978-88-31457-52-1

In copertina il quadro Pioggia di novembre di Fabio Costantino Progetto grafico e realizzazione copertina a cura di Paola Catozza

Questa è un’opera di fantasia.

Nomi, personaggi ed episodi sono frutto dell’immaginazione dell’autore e non sono da considerarsi reali.

Qualsiasi somiglianza con fatti o persone, viventi o defunte, veri o immaginari è del tutto casuale.

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A quell’agglomerato umano fantastico e multiforme che è la mia famiglia...

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...So if you want to love me then darlin’ don’t refrain or I’ll just end up walkin’

in the cold November rain...

…Per cui se vuoi amarmi allora cara non ti trattenere o io finirò a camminare nella fredda pioggia di Novembre…

“Novemeber rain” Guns N’ Roses

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Domenica

La panda quattro per quattro verde militare imboccò lentamente la statale. Al suo interno, Frida, una femmina di segugio svizzero di tre anni, era vigile e smaniosa di correre. Il suo padrone, invece, lottava contro gli occhi pieni di sonno, nonostante la bocca sapesse ancora di caffè. Michele Fanucchi adorava l’autunno e le sue giornate indecifrabili. Gli facevano venire in mente suo nonno che gli diceva sempre che l’autunno non è una stagione ma è tutte le stagioni messe insieme.

Oggi fa caldo e, magari, domani nevica.

Il sole si stava timidamente svegliando e i primi raggi facevano scintillare le gocce di brina sui ciuffi d’erba piegati dal temporale del giorno prima. Il cielo era terso e la luna e il sole non gli erano mai sembrati così vicini. La strada era deserta. In lontananza, le Apuane dominavano la valle ricoperta da una nebbia leggera, quasi trasparente dalla quale spuntava il ponte del Diavolo con le sue geometrie improbabili. Frida, dal retro della macchina, continuava a leccarsi il tartufo e ad agitare la coda freneticamente.

«Buonaaa. Ancora un po' e potrai correre quanto ti pare» disse Fanucchi con voce scostante.

La cagnolina si accucciò risentita.

Scendendo dalla macchina, le narici dell’uomo si riempirono dell’odore penetrante e umido della campagna. Nonostante la pioggia, il verde dei prati sembrava compatto. Frida cominciò a correre puntando il terreno come se avesse piantato nel naso un metal detector. Fanucchi tirò fuori dal bagagliaio il suo lungo bastone di ciliegio e, chiamando il cane a sé, si incamminò verso la radura che distava circa due chilometri da dov’erano. Da lì, dopo una

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breve sosta, avrebbero proseguito nel bosco alla ricerca di qualche pioppino con cui condire la polenta.

Frida, come sempre, lo precedeva di una decina di metri, ma ogni tanto si fermava ad aspettare il suo padrone. Lui si godeva la natura con calma. La foga di qualche anno prima aveva ceduto all’incedere del tempo. Le uscite col suo cane si erano ormai diradate e il bastone aveva preso, definitivamente, il posto del fucile. Non gli importava più di sparare. Aveva quasi settant’anni. Il passo si era fatto sempre più pesante e la vista non era più quella di una volta, ma la gioia che gli davano quelle passeggiate con il suo cane, era più forte di qualsiasi acciacco.

A circa metà strada, intravide il piccolo sentiero che portava dall’altra parte del greto di un ruscello ormai secco. Frida lo attraversò con una corsa frenetica, puntando una coppia di cornacchie che spiccarono il volo pigramente prima di essere raggiunte. Appena risalito il piccolo argine, davanti a loro apparve il maestoso faggio che la gente del posto chiamava il “Faggione”. Ogni volta che lo guardava gli sembrava sempre più grande e la sua maestosità lo intimidiva.

Dietro l’albero giaceva un vecchio rudere diroccato che sembrava una scatola di fiammiferi stropicciata dal tempo. Frida, incerta sul da farsi, guardava incuriosita il vapore che usciva veloce dalla bocca dell’uomo. Fanucchi le fece cenno di andare e lei riprese ad annusare ogni centimetro quadrato di vegetazione. All’improvviso, però, il segugio si fermò rimanendo immobile come se qualcuno, da chissà dove, lo avesse pietrificato all’istante. Il suo padrone, d’istinto, imbracciò il bastone quasi come se avesse in spalla ancora la doppietta. Il cane puntò verso il rudere e dopo un attimo cominciò a correre con la stessa foga di un ghepardo affamato. L’uomo lanciò il solito fischio di richiamo, ma Frida non lo volle sentire. A metà strada fra il padrone e il rudere diroccato, si fermò un attimo per girarsi verso l’uomo per poi ripartire. Fanucchi non l’aveva mai vista

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11 così agitata. La vide sfiorare la catapecchia e proseguire verso un piccolo pendio che a malapena si intravedeva dietro i muri rovinati della casa. Un gruppo di piccioni appollaiati sulle travi della porzione di tetto ancora in piedi, prese il volo alla vista del cane. Fanucchi accelerò il passo affondando il bastone nella terra bagnata. Superò la costruzione e solo allora si rese conto che la collinetta che si ergeva all’ingresso del bosco era smottata facendo scivolare una porzione di essa di qualche decina di metri. Pensò al temporale del giorno prima e all’enorme quantità di acqua che era caduta. Frida abbaiava con decisione mentre si scuoteva per togliersi di dosso l’acqua e il fango che ricoprivano quasi interamente il suo ventre. Fanucchi, ansimante e sudato, le urlò di tacere. Il cane, vedendo il suo padrone ormai prossimo, si calmò e si sedette senza mai togliere lo sguardo dal terreno smosso della collinetta. Quando l’uomo le arrivò accanto infilò la mano in una delle tasche del suo gilet e le diede un bocconcino di carne secca. Si abbassò appoggiando la gamba destra a terra e le accarezzò le lunghe orecchie.

«Oh che ti è preso stamani?» disse con un accenno di affanno. Dalla bocca dell'uomo uscì una nuvoletta di vapore che si disperse davanti ai suoi baffi bianchi e umidi. Il cane aprì la bocca ed emise un leggero guaito come se volesse dire qualcosa.

«Cos'è? Cosa ci sarà mai qui sotto?» sussurrò Fanucchi allungando la punta del bastone verso un leggero rigonfiamento che appena si percepiva in quel cumulo di erba, terra e piccoli sassi. Il cane, vedendo il bastone smuovere il terreno, si alzò delicatamente e iniziò ad agitare talmente forte la coda che i fianchi posteriori iniziarono a muoversi anch’essi. Il bastone toccò qualcosa la cui consistenza sembrava diversa rispetto a quella della terra umida. Gli occhi dell’uomo cercarono di mettere a fuoco il punto, ma lo sforzo si dimostrò vano. Allora allungò la mano e, con un gesto deciso, smosse la terra. Il cane puntò il muso verso la mano del padrone.

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Fu in quel momento, in quel preciso istante, che un brivido di terrore scosse la schiena di Fanucchi. Più che un brivido gli sembrò quasi che qualcuno, da dietro, gli avesse dato una frustata improvvisa e che la frusta avesse colpito l’intera colonna vertebrale. Di scatto si alzò senza far caso al dolore che gli causò il movimento improvviso. Una vertigine lo disorientò per un istante. I suoi occhi fissarono il terreno e, stavolta, riuscirono a mettere perfettamente a fuoco la mano che spuntava da quello che sembrava essere una piccola porzione di un sacco nero. Una mano bianca, ma di un bianco innaturale. Un bianco che non è bianco, ma non è nemmeno grigio. Un bianco che non apparteneva più da tempo al mondo dei vivi.

***

Quando il cellulare squillò, l’ispettore Massimo Greco era già sveglio da un pezzo. L’assenza perenne del suo capo, il vicequestore Oscar Giannetti, noto in questura come “Jameson” Giannetti, per via della sua dipendenza dal whisky, costringeva lui e i suoi colleghi ad aumentare i turni domenicali. La cosa non gli dava fastidio più di tanto.

Pensava che per un uomo solo lavorare la domenica non fa alcuna differenza. Sua figlia Federica viveva a Milano con la mamma.

Dopo la separazione, l’ex moglie di Massimo, traslocando di fretta e furia, aveva deciso di portare con sé anche la loro bambina. Il giudice le aveva dato ragione e i fine settimana, alternati con la mamma di Federica, e le ferie erano gli unici momenti in cui Massimo poteva vedere sua figlia.

Qualche anno dopo la separazione, aveva chiesto il trasferimento che, come promesso, era arrivato in un attimo e lui aveva accettato la prima destinazione offertagli: Lucca.

Milano gli aveva dato l’unica cosa veramente bella che aveva al mondo, ma gli aveva anche aperto una ferita che mai si sarebbe rimarginata.

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13 Lui e sua figlia avevano trascorso la prima quindicina di agosto insieme. Federica era venuta da Milano per conoscere la famigerata Versilia.

Massimo aveva affittato una casetta a Lido di Camaiore e a Federica non era sembrato vero di potersi alzare la mattina e andare in spiaggia attraversando semplicemente la strada, di pattinare su quel lungomare lunghissimo e liscio, di specchiarsi nelle vetrine dei negozi con il mare e la spiaggia alle sue spalle.

Massimo si era reso conto di quanto fosse cresciuta sua figlia.

La piccola bambina sempre imbronciata, si era trasformata in una ragazza sorridente ed entusiasta della vita. Vederla felice e spensierata, gli aveva riempito il cuore.

Con la sua ex moglie non si parlavano quasi più. Tutto quello che sapeva di sua figlia, glielo raccontava Federica stessa nei pochi momenti che condividevano o nelle veloci telefonate serali. Durante la vacanza gli aveva raccontato milioni di storie, della scuola appena conclusa, delle sue amiche, delle loro uscite, delle risate in metropolitana. Massimo si era ubriacato con quelle parole che uscivano a velocità supersonica dalla bocca di sua figlia. Sapeva che gli voleva bene, che aveva metabolizzato la separazione dei genitori senza traumi apparenti, ma non avrebbe mai immaginato che Federica potesse vedere in lui una persona a cui raccontare tanti particolari della sua giovane vita. Una sera gli aveva confidato anche che gli piaceva Matteo, uno dell’ultimo anno. Che non aveva mai trovato il coraggio di parlargli. O meglio, lo aveva fatto, ma solo tramite cellulare perché, gli aveva spiegato, entrambi erano nella chat del gruppo del “progetto biblioteca”.

Quando si erano salutati, sotto casa dei nonni materni, a entrambi era scappata qualche lacrima. Federica aveva promesso al padre che sarebbe tornata a trovarlo quanto prima e Massimo aveva fatto lo stesso.

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«Pronto» disse facendo rimbombare la sua voce in tutto l'appartamento.

«Capo, sono Giorgetti. Mi scusi se disturbo a quest'ora, ma dovrebbe venì subito in questura»

«Giorgè, e io questo stavo facendo. Ma che è successo?»

«Boia, un casino. Stavorta è successo un casino non da nulla. Hanno trovato un morto. Anzi, per ora, a quanto pare, hanno trovato solo una mano. Ha chiamato un uomo e ha detto che ha trovato una mano dalle parti di Borgo a Mozzano. Boia, non s’è capito un granché di quel che ha detto. Sembrava sconvolto davvero»

«Una mano? Ma che cazz... Vabbuò. Stammi a sentire. È inutile che io venga in questura. Vienimi subito a prendere. Da casa mia facciamo prima»

«Cinque minuti e sono da lei. Faccio di volata» e riattaccò.

Massimo chiuse la chiamata facendo una carezza, con il pollice, a Federica, che gli sorrideva dal centro dello schermo. S’infilò lo Schott nero vecchio di quindici anni. Allungò la mano nella tasca destra alla ricerca del pacco di toscani comprato la sera prima. Era lì, ancora intonso. Si chiuse la porta di casa alle spalle, facendo attenzione a non farla sbattere. Attenzione che non aveva nessuno dei suoi vicini di casa. Le vecchie Gazelle bordeaux sfiorarono gli scalini con scioltezza, nonostante il metro e novanta e i cento e più chili che trasportavano ormai da anni. Massimo si mise un sigaro spezzato alla meno peggio in bocca. Non lo accese. Era troppo presto, ma sapeva che di lì a poco, avrebbe avuto bisogno del calore e del fumo del tabacco.

***

Lorenzo Giorgetti correva sulla strada deserta. Tagliava le curve

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15 come se stesse lottando contro un cronometro.

«Chi ha preso la telefonata?» chiese l'ispettore senza staccare gli occhi dalla strada.

«L'ho presa io, capo. Per fortuna D'Angelo non c'era ancora, se no ci toccava chiama’ l’interprete per capì cosa raccontava».

Salvatore D’Angelo era il collega conterraneo di Massimo che occupava, di solito, il corpo di guardia in questura. Lo occupava e basta insieme all’inseparabile amico Corriere dello Sport, il suo stargate che collegava il poliziotto panzuto all’amatissima squadra del Napoli.

«Hai avvisato la Scientifica?»

«Certo capo...» rispose Giorgetti decelerando un po', «...l'ho chiamata dopo aver attaccato con lei. Hanno detto che avrebbero fatto quanto prima»

«Bravo. Allora, a meno che fra i colleghi della Scientifica non ci sia Louis Hamilton, arriveremo sicuramente prima noi» disse Massimo ancorato alla maniglia sulla portiera alla sua destra.

***

In cima alla strada di sterrato che saliva leggera dalla statale, si allargava una piccola radura dalla quale si vedeva, a circa duecento metri, il vecchio rudere immerso nel verde dell’erba. A poca distanza dalla casa, un uomo e un cane passeggiavano svogliatamente.

Quando Massimo scese dalla macchina assaporò la stessa sensazione di gioia da pericolo scampato che provava ogni qualvolta toccava terra dopo un volo in aereo.

«Allora Giorgè, facciamo così. Tu aspettami qua. Io vado a dare un'occhiata. Appena arriva la Scientifica scendete giù e, mi raccomando, fate la stessa strada che farò io. Co’ ’sta terra bagnata c’è il rischio di lasciare mille impronte»

«Va bene» disse Giorgetti stiracchiandosi il braccio destro.

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Durante l’estate appena terminata, Massimo aveva scoperto il talento e l’attitudine di Manzini e Giorgetti. Due ragazzi svegli e appassionati. La loro amicizia e la loro complicità erano aspetti che gli ricordavano il giovane poliziotto che non era più da un pezzo.

Due ragazzi diversi in tutto, eppure amici leali. A luglio, durante le indagini sull’omicidio di Amerigo Andreucci, il povero Manzini ci aveva rimesso il setto nasale, distrutto da un pugno. Nei giorni a seguire, Giorgetti aveva ospitato il collega a casa sua a Livorno prestandogli la sua stanza e facendogli fare qualche bagno al mare.

La tesi secondo cui le persone che abitano in posti di mare siano predisposte maggiormente all’ospitalità e alla convivialità, era stata confermata appieno da Giorgetti e la sua famiglia.

Prima di incamminarsi, Massimo si rese conto che l’erba, vista da vicino, non era così fitta e alta come gli era sembrato dall’alto. Decise di percorrere la strada più lunga costeggiando il margine destro del campo, in maniera tale da evitare il più possibile di calpestare eventuali prove. L’erba era ancora umida di rugiada e se ne accorse ancora di più quando, senza sapere come, si ritrovò col culo a terra.

La suola logora delle sue scarpe aveva perso l’attrito col terreno e si era ritrovato seduto con la schiena che urlava di dolore. Si rialzò subito e si girò verso Giorgetti che, per fortuna, era rivolto verso la direzione opposta. Non poté dire la stessa cosa dell’uomo e del suo cane che guardavano proprio verso di lui. Si passò le mani sul didietro come per asciugarlo e imprecò di fronte alla certezza di doverlo portare in lavanderia per far scomparire le macchie di erba.

Sul sentiero che aveva tracciato la sua mente, non era ancora arrivato il sole e l’aria era carica di umidità. Il suo naso decifrò subito un leggero sentore di mentuccia selvatica misto a quello della terra bagnata. Cartucce di vario colore testimoniavano il passaggio dei cacciatori.

Quando si trovò a pochi metri da quello che, presumibilmente, era

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17 l’ingresso della vecchia casa, in direzione opposta da dove era venuto, vide l’uomo e il cane venirgli incontro.

«Buongiorno, sono l'ispettore Massimo Greco della questura di Lucca» disse porgendogli la mano.

Frida lo guardò con fare interrogativo. Appena vide allungare la mano si fermò e puntò lo sguardo sulla figura enorme del poliziotto.

Le bastò un gesto del suo padrone per abbassare subito la guardia.

«Salve, sono Michele Fanucchi» il palmo era freddo e Massimo avvertì un tremolio stanco.

«Signor Fanucchi, innanzitutto la ringrazio per la tempestività con cui ci ha chiamato».

Gli occhi dell’uomo si fecero lucidi. Con la mano destra accarezzò la testa di Frida che, nel frattempo, si era allungata sulla sua gamba, ricompensando l’uomo con una dolce leccata alle dita.

«Non è mia intenzione trattenerla. Immagino che non sia stato facile. Ma ho bisogno di alcune informazioni da parte sua».

L’ uomo si limitò a fare un cenno di assenso con la testa.

«Lì dove abbiamo parcheggiato noi non ci sono altre macchine.

Siete venuti a piedi, immagino»

«Sì, ispettore. Io e la Frida siamo venuti da lì...» e indicò un punto immaginario alle spalle di Massimo, il quale, d’ istinto, si girò, «... di solito lasciamo la macchina a circa due chilometri da qui».

Massimo si girò di nuovo verso la catapecchia: «Ha notato qualcosa di strano avvicinandosi, qualche particolare che possa averla colpita?»

«Niente. Mentre ci avvicinavamo al Faggione...» il cacciatore indicò l'enorme albero che quasi li sovrastava, «...Frida ha fiutato qualcosa e ha iniziato a correre come un demonio» si passò la mano sugli occhi come per scacciare tutta la stanchezza che si portava addosso.

«Signor...»

«Michele Fanucchi...»

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«Sì, mi scusi. Ecco, signor Fanucchi, il punto in cui, insomma, mi indica...»

«Sì, venga le faccio vedere» disse a voce bassa quasi come se non volesse farsi sentire.

«No, meglio di no. Meglio se lei e il suo cane rimanete qui» disse Massimo allungando la mano quasi a voler fermare Fanucchi.

L’ex cacciatore mostrò il punto a Massimo agitando il bastone a mezz’aria.

L’ispettore raggiunse il cumulo di terra velocemente seguendo con sguardo attento i suoi piedi che affondavano nell’erba. Si accovacciò per vedere meglio. Infilò la mano nella tasca destra del giubbotto e tirò fuori un accendino giallo. Strinse la parte superiore con l’indice e il pollice. La parte inferiore la utilizzò per pulire la mano dai residui di terra che la coprivano ancora in parte.

Nella sua carriera più volte aveva incrociato la morte, e ogni volta riusciva quasi a percepirne l’essenza. Come se gli penetrasse nel naso per insinuarsi dentro di sé, rimanerci qualche giorno, e poi andarsene così com’era venuta. E così fu anche alla vista di quella mano. Nonostante si trovasse in aperta campagna, circondato da una natura viva, sebbene ammaestrata dall’uomo, una specie di tanfo deprimente e triste s’impossessò del suo olfatto. Dentro di sé sapeva benissimo che non c’era nessuna puzza realmente e che era solo una costruzione del suo cervello, ma era il suo modo per ricordare sempre la netta separazione fra ciò che era vivo da ciò che non lo era più.

Liberò la mano dai piccoli detriti e subito notò che qualcosa non quadrava. Dalla posizione capì che si trattava di una mano sinistra a cui mancava una porzione dell’anulare. Inspirò profondamente e si alzò facendo leva con entrambe le braccia sulla gamba sinistra.

Ripose l’accendino e si strofinò le mani come a pulirle da qualcosa di invisibile.

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