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Antonio Renzi. Valore, Struttura Finanziaria e Costo del Capitale Dispensa di Finanza Aziendale (Canale M-Z) A.-A

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Antonio Renzi

Valore, Struttura Finanziaria e Costo del Capitale Dispensa di Finanza Aziendale (Canale M-Z)

A.-A. 2020-2021

- Primo Capitolo – Finanza, Impresa e Valore. Un Quadro d’Insieme - Secondo Capitolo – Struttura Finanziaria, Redditività e Valore - Terzo Capitolo – Analisi Rischio-Rendimento e Costo Dell’equity

- Quarto Capitolo – Analisi Rischio-Rendimento e Costo dell’Equity in una Prospettiva Manageriale. L’Approccio Bottom-Up

Ottobre 2020

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Capitolo Primo

FINANZA, IMPRESA E VALORE. UN QUADRO D’INSIEME

1.1. Introduzione

L’impresa acquisisce input reali per trasformarli in prodotti finiti da col- locare, ad un dato prezzo, presso il mercato di sbocco. L’acquisizione dei fattori della produzione, anticipata rispetto al perseguimento dei ricavi, im- plica per le imprese una condizione di fabbisogno finanziario da cui scatu- risce la raccolta di capitale, sottoforma di debito e/o pieno rischio, che dal punto di vista del finanziatore (o finanziatori) si qualifica come attività fi- nanziaria (Giovannini, 1982).

Il capitale, dunque, rappresenta il primo input necessario all’attività di impresa, in quanto la sua acquisizione si pone a monte rispetto ai processi di approvvigionamento, trasformazione e vendita mediante i quali il management aziendale persegue obiettivi di profitto.

Lo studio della dimensione finanziaria dell’impresa non può, dunque, prescindere dal contesto di riferimento, in particolare dai rapporti tra l’impresa e il sistema finanziario.

Da un punto di vista teorico, gli studi in materia finanziaria assumono valenza sia a livello macro che microeconomico: scopo generale della teo- ria finanziaria è l’analisi dei flussi di capitale che si manifestano all’interno del sistema economico, e nell’ambito di ciascun operatore che lo compone.

In particolare, tale ambito di studi attiene alla teoria dei mercati finanziari, alla finanza d’impresa e all’economia degli intermediari finanziari. Si tratta di filoni di studio tra loro interdipendenti, nel senso che la struttura e il funzionamento del mercato finanziario, la dinamica finanziaria delle a- ziende e l’attività svolta dalle società che intermediano i flussi di capitale rappresentano tre aspetti propri di un’economia in cui alle posizioni in a- vanzo finanziario si contrappongono quelle in disavanzo finanziario (Mon-

Il presente Capitolo è tratto liberamente da: RENZI A., 2005, Criteri di analisi finan- ziaria nell’economia d’impresa. Flussi finanziari, mercati e valore, Giappichelli, Torino;

RENZI A., VAGNANI G., 2018, Fabbisogno finanziario, equilibrio e redditività, Giappi- chelli, Torino.

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ti, Onado, 1982, pp. 22-25).

Sono quindi, propedeutici allo studio della finanza d’impresa alcuni concetti base relativi al sistema finanziario quale insieme di mercati, in- termediari e strumenti posti a supporto delle attività produttive e dei ri- sparmiatori attraverso lo svolgimento di una funzione di intermediazione nell’ambito delle transazioni finanziarie.

Scopo del presente Capitolo è descrivere la dimensione finanziaria dell’impresa a partire dal suo contesto di riferimento. In particolare, il Ca- pitolo prende le mosse da una descrizione generale dei meccanismi propri del sistema finanziario e del suo ruolo rispetto all’economia reale e alle imprese.

Una volta inquadrata la relazione tra sistema finanziario e impresa, il presente Capitolo si focalizza, da un lato, sulla finanza d’impresa attraver- so la descrizione generale delle tre fasi caratterizzanti il management fi- nanziario, ossia l’acquisizione, l’allocazione e la remunerazione del capita- le, dall’altro, sulla funzione finanziaria nell’economia di impresa.

Il passo successivo riguarda il tema del fabbisogno finanziario e della sua copertura con un particolare focus sul ruolo svolto dal capitale rischio rispetto al finanziamento di progetti imprenditoriali innovativi.

Infine, viene proposto un inquadramento generale del concetto di valore d’impresa nella prospettiva finanziaria. Si tratta di un concetto fondamen- tale negli studi che approfondiscono la finanza d’impresa, giacché le deci- sioni finanziarie, che si concretano in processi integrati di investimen- to/finanziamento, sono finalizzate alla creazione di valore economico, da intendersi come valore attuale dell’impresa derivante da prospettive future circa la combinazione tra performance attese e aleatorietà delle stesse.

I temi trattati nel presente Capitolo hanno carattere introduttivo, nel sen- so che sono propedeutici ad una migliore comprensione di tre argomenti, tipici della finanza aziendale, che formano oggetto del presente lavoro, ov- vero la struttura finanziaria, il valore economico e il costo del capitale.

1.2. Sistema finanziario e trasferimento dei fondi dalle unità in surplus alle unità in deficit

Nell’economia moderna le transazioni dei beni si realizzano per mezzo della moneta che si qualifica come attività finanziaria, la cui emissione av-

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viene, cioè, in assenza di una contropartita di beni reali (Ferrari et al., 2012, p. 58).

La moneta, infatti, creata attraverso l’emissione di biglietti da parte del- la Banca Centrale e generata dai conti correnti bancari, emerge come pas- sività finanziaria del soggetto emittente e come attività finanziaria del sog- getto che la detiene sotto forma di risparmio liquido, quindi direttamente utilizzabile come strumento di pagamento.

Storicamente il passaggio da moneta come bene reale avente un suo va- lore intrinseco a alla moneta rappresentativa di beni reali1 ha determinato la corrispondenza tra flussi reali e finanziari all’interno del sistema econo- mico: ad ogni transazione commerciale corrisponde un flusso finanziario tra due operatori. Per esempio, nel cedere una quantità prestabilita di una merce il venditore otterrà dall’acquirente o una quantità equivalente di mo- neta o la promessa a cedere detta quantità di moneta a una data futura. Nel secondo caso si crea in capo al venditore una posizione creditoria e in capo all’acquirente una debitoria.

Emergono così rapporti di debito e di credito che costituiscono flussi di finanziamento all’interno del sistema economico. In particolare, si deter- minano posizioni debitrici, alle quali corrispondono speculari posizioni creditrici, per effetto, da un lato del collocamento di mezzi di pagamento e, dall’altro, dell’insorgere di sfasamenti temporali tra il trasferimento dei be- ni reali e la contropartita monetaria. L’economia moderna, dunque, si qua- lifica come creditizia, essendo i movimenti dei beni reali speculari ai flussi di attività finanziarie costituite da moneta o da titoli rappresentativi della stessa.

Gli sfasamenti temporali originati dalle modalità di regolamento degli scambi implicano, per gli operatori del sistema economico, la necessità di riequilibrare, mediante il ricorso a strumenti finanziari, i flussi monetari in entrata con quelli in uscita.

In tale quadro, il sistema finanziario svolge la funzione di infrastruttura necessaria a soddisfare le esigenze finanziarie dei risparmiatori e delle im-

1“La creazione di moneta assunse in pieno le caratteristiche dell’attività finanziaria con il passaggio dalla stadio di moneta merce a quello di moneta carta: cioè nel momento nel quale gli strumenti che venivano utilizzati per gli scambi non erano più beni reali, ma dei titoli rappresentativi e in forma via via minore e sempre più generica dei beni reali”

(De Mattè , 1990, p. 6).

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prese (Ferrari et al. p.2). I circuiti finanziari propri dell’economia moder- na consentono, infatti, di combinare, mediante meccanismi di trasferimento dei fondi, l’esigenza di allocazione del risparmio con quella di raccolta del capitale finalizzata alla costituzione, al mantenimento e allo sviluppo delle attività produttive.

In generale, dunque, il sistema finanziario emerge come entità strumen- tale e di supporto al funzionamento dell’economia reale. Esso svolge mol- teplici funzioni che impattano in modo decisivo, a livello sia macro che microeconomico, sui processi di produzione e scambio di beni e servizi, sull’accumulazione del risparmio e sulle dinamiche monetarie. Più in det- taglio, il sistema finanziario contribuisce:

- a svolgere la funzione monetaria;

- alla raccolta del risparmio e alla sua riallocazione a favore di inve- stimenti produttivi;

- alla diversificazione dei rischi connessi alle decisioni di investimen- to/finanziamento;

- alla creazione di meccanismi di trasmissione delle scelte di politica monetaria;

- alla definizione di regole comuni in ordine alle transazioni finanzia- rie;

- al controllo della stabilità nei processi di trasferimento delle risorse finanziarie.

L’espletamento di tali funzioni si estrinseca mediante una variegata gamma di strumenti, operatori, mercati e istituzione che qualificano il si- stema finanziario come entità composita e complessa, caratterizzata da un vasto perimetro di relazioni di tipo sia orizzontale che verticale. Le prime sottendono alla necessità degli attori del sistema economico di dar luogo a transazioni finanziarie. Le relazioni verticali si riferiscono, invece, alla ge- rarchia tra gli organi deputati al governo e controllo del sistema finanziario e l’insieme di operatori che agiscono all’interno dello stesso con diversi ruoli e diversi ambiti geografici (sia nazionali che internazionali).

Come evidenziato in figura 1.1, le transazioni finanziarie si realizzano tra unità in surplus e unità in deficit.

Sul piano finanziario un operatore è definito in surplus ove risulti posi- tivo il saldo tra i finanziamenti dallo stesso rispettivamente concessi e at- tinti. In altri termini, le unità in surplus identificano attori economici che, in un dato arco temporale, hanno accumulato risparmio, in virtù di un dif-

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ferenziale positivo tra attività finanziarie e passività finanziaria.

Le unità in deficit si caratterizzano, invece, per un saldo finanziario ne- gativo, quindi per un volume di attività finanziarie inferiore rispetto al vo- lume delle passività finanziarie. Tale condizione riguarda tipicamente le imprese che, in ragione delle attività reali programmate, necessitano di ri- sorse finanziarie eccedenti a quelle prodotte dalla gestione.

Figura 1.1. – Le componenti del sistema finanziario

Comitato di Basilea Fondo Monetario inter-

nazionale Banca Centrale Europea

Banca d’Italia Consob

Isvap Antistrust

Intermediari finanziari

Mercati finanziari

Unità in deficit Unità

in surplus

Depositi Polizze Azioni Obbligazioni

Organo di governo su scala mondiale

Organo di governo su scala nazionale

Struttura operativa

Fonte: Adattato da Golinelli, Gatti, Proietti, Vagnani, 2011, p. 256.

Si osserva, inoltre, che la formazione di un fabbisogno finanziario è connaturata all’attività di impresa ove la formazione dei ricavi si realizza in via posticipata rispetto alla formazione dei costi che sottendono all’espletamento della funzione di produzione intesa in senso lato. Al con- trario, l’aggregato famiglie si qualifica come strutturalmente in surplus, per effetto della possibilità di anticipare i ricavi ai costi. Ciò naturalmente vale a livello generale, nel senso che specifiche famiglie assumono la veste di operatori in deficit, allorquando gli investimenti e/o le spese ordinarie so- stenute dalle stesse richiedono una liquidità aggiuntiva rispetto ai flussi di ricavi precedentemente incassati.

Un discorso a parte merita lo Stato che emerge come unità potenzial- mente in surplus, posto che gli incassi erariali non necessitano di un pro- cesso produttivo. In altre parole, lo Stato potrebbe, in linea teorica, operare in surplus nell’ipotesi in cui i costi connessi al funzionamento della Pub-

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blica Amministrazione fossero inferiori alle entrate tributarie. Tuttavia, come è noto, gli Stati moderni operano con un saldo negativo tra attività e passività finanziarie, giacché il costo derivante dai servizi pubblici e dagli investimenti di natura infrastrutturale non trovano piena copertura nelle imposte dirette ed indirette.

Al sistema finanziario spetta dunque il compito di collegare gli operatori che necessitano di risorse finanziarie con gli operatori che accumulano ri- sparmio e che quindi esprimono necessità di impiego dello stesso. In so- stanza, i meccanismi di trasmissione del risparmio dalle unità in surplus a quelle in deficit soddisfano due esigenze contrapposte: il finanziamento delle imprese e della Pubblica amministrazione da un lato; l’impiego dei surplus finanziari accumulati dalle famiglie dall’altro lato. A livello ma- croeconomico ciò determina un processo circolare che assicura continuità al ciclo dell’economia reale, favorendo altresì la crescita del risparmio ag- gregato. Quest’ultimo, infatti, se non adeguatamente impiegato in attività remunerative tende a ridursi nel tempo in funzione del suo utilizzo e per effetto dell’inflazione.

L’allocazione del risparmio a favore delle attività produttive implica, tuttavia, il rischio di perdita totale o parziale del capitale investito la cui en- tità è inversamente correlata (come sarà meglio chiarito nel paragrafo suc- cessivo) ai meccanismi di trasferimento del risparmio e alla connessa effi- cienza allocativa del sistema finanziario.

I flussi finanziari tra gli operatori in surplus (tipicamente famiglie) e quelli in deficit (tipicamente imprese) possono realizzarsi per via diretta ovvero indiretta. Nel primo caso, il trasferimento delle risorse finanziarie si concreta mediante i meccanismi di mercato, ossia attraverso l’acquisizione, da parte degli operatori caratterizzati da un saldo finanziario netto positivo, dei titoli di debito e di rischio emessi dalle imprese (figura 1.2). Tale forma di intermediazione può essere realizzata secondo due modalità generali: 1) mediante scambi diretti e autonomi, quando i soggetti interessati (prenditore e datore di fondi) non ricorrono al supporto di nessuna forma di intermedia- zione da parte di operatori specializzati nel collegare domanda e offerta di risparmio; 2) mediante scambi assistiti da intermediari specializzati nella mediazione finanziaria, ovvero in spazi organizzati e regolamentati.

L’intermediazione diretta nell’economia si realizza attraverso mercati primari da cui poi originano i cosiddetti mercati secondari. Nei secondi so- no oggetto di negoziazione attività finanziarie che sono state già emesse nel mercato primario (o mercati di primo collocamento). La principale fun- zione del mercato secondario è quella di consentire agli investitori di man-

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tenere un elevato grado di liquidità dei propri investimenti. Ciò determina una sostanziale riduzione delle scadenze associate ai titoli emessi, nel sen- so che la rapida negoziabilità dei titoli durevoli presso il secondario fa si che gli stessi abbiano un grado di liquidità similare alle attività finanziarie aventi una vita residua breve. Inoltre, l’esistenza di un mercato secondario sufficientemente sviluppato garantisce a tutti gli operatori la possibilità di investire eventuali eccedenze di liquidità nel momento in cui queste si ma- nifestano.

Figura 1.2. – Schema d’intermediazione finanziaria diretta e ciclo finanziario del sistema economico

Unità in deficit Titoli di rischio e di debito

Unità in surplus

Risparmio

Investimenti Reddito

Autofinanziamento

Remunerazione del capitale

Imposte Risparmio

Fonte: Renzi, 2005, p.18.

Nella prospettiva delle unità surplus sia il mercato di primo collocamen- to che il mercato secondario offrono opportunità di investimento del ri- sparmio che consentono la ricerca di un giusto trade-off tra consumi cor- renti e consumi attesi (Van Horne, 1984). Al riguardo, è stato osservato che ogni operazione di investimento scaturisce dalla “decisione di non con- sumare oggi una data dotazione di capitale, con l’obiettivo di poter con- sumare di più in futuro” (Copeland, Weston, 1994.)2.

Dal punto di vista delle unità in deficit, il mercato di primo collocamen- to offre la possibilità di raccogliere capitale, mediante emissione di titoli azionari e/o obbligazionari, da porre a copertura del fabbisogno finanzia-

2 A tal proposito, assume come vedremo, notevole rilevanza la teoreia della separazione di Fisher.

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rio, soprattutto in un’ottica di lungo termine; il mercato secondario, rappre- senta il “luogo” ove le unità in deficit vengono continuamente “prezzate”

in funzione del combinarsi tra domanda e offerta dei titoli dalle stesse col- locate sul mercato.

Mercato primario e mercato secondario si alimentano a vicenda: il nu- mero di sottoscrizioni di attività finanziarie (o titoli) realizzate presso il mercato primario si riflette, inevitabilmente, sulla quantità di titoli nego- ziabili presso il mercato secondario; a sua volta l’efficienza di questo ulti- mo si riflette sull’efficacia dei collocamenti dei titoli di debito, di rischio e degli altri strumenti finanziari.

Nel caso dell’intermediazione indiretta, invece, il collegamento tra le unità in surplus e in deficit avviene in virtù dell’intervento di intermediari finanziari (una banca o un intermediario finanziario non bancario). Questi ultimi assumono anche il rischio connesso al trasferimento delle risorse fi- nanziarie, giacché non si limitano a svolgere una semplice azione di me- diazione tra le parti, ma operano come prenditori e datori di fondi in pro- prio, ossia da un lato raccolgono capitale, dall’altro lo impiegano a coper- tura dei fabbisogni finanziari originati dalle attività di produzione, assu- mendosi così il rischio che il prenditore possa non adempiere alle proprie obbligazioni di rimborso del finanziamento ottenuto (figura 1.3).

In merito al nesso tra intermediazione finanziaria (diretta e indiretta) e sviluppo dei sistemi economici sono emerse tre principali visioni teoriche (Levine, 2002). Una prima visione, definita bank-based view, considera l’intermediazione indiretta basata sulla centralità delle banche (bank-based system) come fattore determinate rispetto alla crescita dei sistemi economi- ci. La market-based view, invece enfatizza il ruolo del mercato azionario, quale fattore chiave per la crescita dell’economia nel lungo termine, in ra- gione dell’adeguatezza del capitale di rischio rispetto ai progetti di svilup- po ed innovazione delle imprese. Inoltre detta visione vede nel mercato un fattore di trasparenza in ordine alla formazione dei prezzi e dei rendimenti.

Naturalmente, i sistemi market-based view non implicano l’assenza di in- termediari bancari, data l’importanza che questi rivestono rispetto al siste- ma dei pagamenti, alla creazione di moneta realizzata attraverso la costitu- zione di passività (depositi) in conto corrente e alla concessione di crediti finanziari finalizzati ad accrescere nel breve termine l’elasticità finanziaria delle unità in deficit.

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Figura 1.3. – Schema d’intermediazione finanziaria indiretta e ciclo finanziario del siste- ma economico

Unità in surplus

Unità in deficit

Investimenti Reddito

Autofinanziamento Intermediari

finanziari Forbice dei tassi

Imposte

Remunerazione del capitale Risparmio

Risp. Finan.

Reddito

Fonte: Renzi, 2005, p.18.

La distinzione tra bank-based view e market-based view riguarda prin- cipalmente le operazioni di investimento/finanziamento di medio/lungo termine. In un sistema, bank-based view la realizzazione dei progetti indu- striali durevoli è in buona parte legata al rapporto banca-impresa e si con- creta tipicamente mediante la concessione di mutui pluriennali da parte delle banche. Al contrario, nei sistemi market-based view le imprese ten- dono a finanziaria i propri progetti durevoli con l’emissione di titoli azio- nari e/o obbligazionari.

Tuttavia, negli ultimi decenni la distinzione tra bank-based view e market-based view si è fortemente attenuata in virtù del fatto che le banche hanno nel tempo incrementato la loro attività presso il mercati azionari e obbligazionari, da un lato aumentando gli investimenti mobiliari, dall’altro operando processi di securitization (cartolarizzazione) di parte delle attività finanziarie durevoli3. Inoltre, le banche hanno intensificato i servizi di con-

3 In sintesi, le operazioni di securitization rientrano nell’ambito delle tecniche di ingegneria finanziaria, volte alla minimizzazione dei rischi, alla creazione di liquidità aggiuntiva e/o alla generazione di profitti speculativi. Atttraverso le operazioni di securitization una banca può trasformare attività finanziarie a bassa liquidità (ad esempio mutui pluriennali) in liquidità effettiva, attraverso la costutuzione di un veicolo finanziario che si qualifica come entità giuridicamente ed economicamente distinta dalla banca.

Nell’attivo del veicolo finanziario confluiscono i crediti oggetto della cartolarizzazione

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sulenza e di mediazione a favore dei propri clienti interessati a investire o raccogliere capitale attraverso meccanismi di mercato.

In tale quadro è emerso un terzo orientamento all’intermediazione fi- nanziaria noto come financial services view. Secondo diversi studiosi la fi- nancial services view determina un’adeguata combinazione tra servizi di natura bancaria e meccanismi di mercato, favorendo in tal modo la corretta selezione, il controllo societario, la gestione del rischio e la produttività dell’imprese (Scholtens, Van Wensveen, 2003 p.13).

1.3. Efficienza allocativa ed informativa del sistema finanziario

L’efficienza con cui il sistema finanziario sostiene la nascita, il funzio- namento e lo sviluppo delle imprese rappresenta un passaggio nodale per la sopravvivenza e la crescita del sistema economico considerato nel suo complesso (Levine 1997). Il trasferimento delle risorse finanziarie operato dal sistema finanziario può determinare, quindi, un circolo virtuoso, ove la produzione di beni e la generazione di risparmio siano l’una funzionale dell’altra. In sostanza, “il sistema assicura processi di finanziamento e di accumulazione del capitale a livello macroeconomico, ridistribuendo le ri- sorse disponibili mediante una valutazione ed una selezione degli investi- menti reali programmati dalle unità economiche in disavanzo” (Ferrari et al., 2012, p. 5).

La relazione circolare tra sviluppo dell’economia reale e sistema finan- ziario incontra un vincolo nel grado di efficienza allocativa di quest’ultimo che si concreta nel trasferire il risparmio a favore di imprese che più soddi- sfino le aspettative rischio-rendimento dei diversi attori economici che agi- scono in qualità di prestatori di fondi.

Ciò premesso l’efficienza dell’intermediazione (diretta e indiretta) varia in funzione di diversi fattori, il più importante dei quali è la cosiddetta effi- cienza informativa. Un’adeguata circolazione delle informazioni viene considerata, da studiosi e operatori, come centrale rispetto all’efficienza

che trovano copertura finanziaria (passivo del veicolo finanziario) pricipalmente in obbligazioni che verranno remunerate attraverso il rendimento dell’attivo, ossia in virtù del servizio di debito a carico dei debitori della banca. Generalmente, l’entità del patrimonio netto del veicolo finanziario assume valori simbolici, nel senso che rappresenta una quota minima dell’attivo.

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del sistema finanziario nel selezionare le imprese migliori e soddisfare le soggettive aspettative rischio-rendimento dei diversi attori del sistema stes- so.

La richiamata selezione, da parte delle unità in surplus, degli investi- menti programmati dalle unità in deficit necessita, infatti, di un flusso in- formativo atto a valutare il profilo di rischio e la profittabilità delle diverse alternative di investimento/finanziamento. L’adeguatezza di detto flusso informativo, da un lato, agisce positivamente sulla possibilità per le fami- glie, gli intermediari finanziari e gli investitori istituzionali di ottimizzare le decisioni di allocazione del risparmio, dall’altro, premia in termini sia di maggiore capacità di acquisire capitale di credito e di rischio, sia di minor costo del capitale stesso, le imprese migliori, ossia le unità produttive che presentano un ottimale mix tra risultati economico-finanziari perseguiti e qualità dei nuovi progetti di investimento.

L’efficienza informativa assurge ad effettivo driver dell’efficienza del sistema finanziario allorquando i diversi attori coinvolti nel trasferimento dei fondi assumono comportamenti orientati alla razionalità economica.

Come sarà meglio argomentato nel presente lavoro, detta razionalità emer- ge quando un operatore del sistema finanziario predilige investimenti che massimizzano il rendimento atteso per ogni dato livello di rischio, ovvero che minimizzano il rischio per ogni dato livello di rendimento atteso. Effi- cienza informativa e razionalità economica si influenzano vicendevolmen- te. Infatti, da una parte, la selezione delle unità in deficit da finanziaria se- condo una logica rischio-rendimento richiede la disponibilità di informa- zioni adeguate sul piano sia quantitativo che qualitativo; dall’altra, la pro- pensione ad un comportamento economicamente razionale degli operatori finanziari tende a migliorare i meccanismi di diffusione delle informazioni all’interno del sistema finanziario.

Tuttavia, la combinazione tra efficienza informativa e razionalità eco- nomica può essere limitata da diversi fattori legati sia alla natura delle tran- sazioni finanziare, sia alla caratteriste strutturali del sistema finanziario.

In generale, i contratti finanziari determinano intrinsecamente un dupli- ce problema informativo: l’incertezza in capo al prestatore di fondi riguar- do alle prospettive economico-finanziarie del prenditore di fondi e l’insorgere di asimmetrie informative. Si tratta di aspetti tra loro collegati, nel senso che le asimmetrie informative accentuano il livello di incertezza.

Ad esempio, nel caso di un contratto di credito “(…) vi sono due condizioni di imperfezione: l’adempimento del debitore avviene in data futura ed è quindi caratterizzato da incertezza; inoltre alla data iniziale del contratto,

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normalmente il creditore dispone di informazioni parziali sul debitore. Le asimmetrie informative tra creditore e debitore sono dunque il fattore principale che origina problemi di adverse selection (selezione della do- manda di credito non coerente con criteri di efficienza) e di moral hazard (comportamento opportunistico dei soggetti finanziati non coerente con gli interessi del creditore)”(Forestieri, p. 7.).

Il problema delle asimmetrie informative può essere considerato secon- do due prospettive: una prospettiva bilaterale che attiene al rapporto tra fornitori e prenditori di fondi; una prospettiva generale che emerge allor- quando gli operatori del sistema finanziario (banche, investitori istituziona- li, investitori informali ecc.) si differenziano sia sul piano della disponibili- tà delle informazioni rilevanti, sia in termini di capacità di interpretazione e trattamento delle stesse.

In generale, quindi, un sistema finanziario si qualifica come efficiente quando, in virtù anche di regole definite a livello di Istituzioni preposte alla vigilanza, agisce da diffusore delle informazioni al fine sia di mitigare il più possibile l’insorgere di condizioni di adverse selection e moral hazard sia di operare una sorta di livellamento, in termini di accesso alle informa- zioni rilevanti, tra diversi soggetti economici eterogenei sul piano struttura- le, organizzativo, del potere di mercato ecc.

L’ipotesi di massima efficienza informativa, unitamente a un compor- tamento sempre razionale degli operatori finanziari, determina condizioni di equilibrio ove i prezzi associati ai beni mobiliari catturano il valore in- trinseco delle attività reali sottostanti. Al verificarsi, cioè, della suddetta combinazione tra efficienza informativa e comportamento razionale degli investitori e degli intermediari finanziari i valori mobiliari (azionari e ob- bligazionari) scontano tutti i fattori che determinano la profittabilità attesa, il rischio e la solidità dei prenditori di fondi. All’efficienza informativa e alla razionalità comportamentale si collegano altri sotto-driver dell’efficienza allocativa, quali l’efficienza valutativa, la completezza dei contratti posti alla base delle transazioni finanziarie, l’efficienza organizza- tiva e la trasparenza sia dei mercati che degli intermediari finanziari.

Con particolare riferimento al mercato dei capitali (intermediazione di- retta), la completezza quali/quantitativa delle informazioni si riscontra quando l’aggiustamento dei prezzi di mercato coincide con il sopraggiun- gere delle stesse. In sostanza, l’ottimale diffusione delle informazioni e il loro razionale utilizzo da parte degli investitori fa si che i prezzi negoziati siano sempre in equilibrio. Ne consegue l’impossibilità di azioni speculati- ve basate sull’esclusività delle informazioni detenute da pochi investitori,

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non potendo nessun soggetto del sistema finanziario manovrare a proprio vantaggio le notizie concernenti singoli titoli o il mercato dei capitali con- siderato nel suo complesso.

Al riguardo, Fama (1970) distingue, in funzione del paniere disponibile di informazioni, tre diversi livelli di efficienza informativa del mercato dei capitali:

- efficienza informativa debole;

- efficienza informativa semiforte;

- efficienza informativa forte.

L’efficienza in forma debole si realizza quando i prezzi negoziati scon- tano tutte le notizie relative a variazioni di mercato già avvenute. In tal ca- so, quindi, i dati di natura storica rappresentano l’unica fonte di informa- zioni sui cui fondare la selezione degli investimenti in favore delle unità in deficit.

Con l’efficienza in forma semi-forte, oltre agli andamenti storici, vi so- no altre informazioni di pubblico dominio in grado di agire sulle quotazio- ni correnti.

Infine, l’efficienza in forma forte prevede che i dati del passato, le in- formazioni di pubblico dominio e quelle di carattere privato, siano a dispo- sizione di tutti gli operatori. In presenza, dunque, di efficienza in forma forte nessun soggetto del sistema economico può perseguire extraprofitti da negoziazione in ragione delle informazioni che possiede. Si tratta di un’ipotesi ideale cui corrisponde massima efficienza allocativa delle risor- se finanziarie e omogeneità delle aspettative da parte degli investitori.

A seguito di verifiche empiriche condotte dallo stesso Fama è emerso, in primo luogo, che il mercato dei capitali tende a collocarsi prevalente- mente nelle fasce di efficienza debole e semi-forte. In particolare, le per- formance passate rappresentano, in assenza della divulgazione capillare di nuove informazioni, l’unico paniere d’informazioni disponibili per tutti gli operatori. L’informativa su base storica non consente di definire pienamen- te l’andamento atteso dei prezzi che risulta, spesso, indipendente rispetto ai movimenti di mercato registrati nei periodi precedenti. In secondo luogo, si determina un’efficienza semi-forte in occasione di annunci ufficiali di na- tura societaria, concernenti ad esempio aumenti (o riduzione) del capitale.

In sostanza, al verificarsi di eventi inattesi e resi di pubblico dominio, le risultanze empiriche sembrerebbero dimostrare un comportamento raziona- le ed omogeneo degli investitori che, così come teorizzato da Fama, reagi-

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scono adattando immediatamente le scelte di portafoglio alla nuova realtà dell’impresa che ha diffuso presso il mercato elementi di discontinuità ri- spetto al proprio assetto societario e/o gestionale. Infine, dall’evidenza em- pirica emerge l’inesistenza di aree di mercato efficienti in forma forte. Ap- pare evidente del resto come in presenza di informazioni private non di- vulgate si determini la possibilità per pochi soggetti (insider) di realizzare speculazioni al rialzo o al ribasso, in virtù di un livello di conoscenza delle società emittenti superiore a ciò che è ufficialmente noto.

In ogni caso, gli studi proposti da Fama assumono un comportamento razionale di tutti gli investitori: ogni investitore utilizza le informazioni di cui dispone in modo razionale con l’obiettivo ultimo di massimizzare la propria funzione di utilità. Ciò presuppone che, a prescindere che si rientri nei casi di efficienza forte, semiforte o debole, tra gli investitori, siano essi persone fisiche o istituzioni finanziaria, sussista omogeneità nella capacità di analizzare le informazioni concernenti singoli prenditori di fondi e il mercato finanziario considerato nel suo complesso.

Successivi sviluppi teorici hanno contestato le conclusioni di Fama. In particolare, Grossman e Stigliz (1976) hanno analizzato l’efficienza infor- mativa in funzione del cosiddetto “noise” ossia di un fattore casuale della domanda e dell’offerta che influisce sui prezzi unitamente all’influenza e- sercitata dagli investitori che i due Autori articolano in informati e disin- formati (Zanda et al, 2001, p. 41). Assumendo che tutti gli operatori finan- ziari agiscano secondo regole di razionalità economica, i soggetti disinfor- mati dovrebbero assimilare i comportamenti trasmessi ai prezzi da parte dei soggetti informati. Ciò in realtà non accade in quanto il fattore “noise”

genera confusione in modo tale da impedire ai soggetti meno informati di cogliere la misura delle variazioni di prezzo riconducibile ad un compor- tamento razionale di coloro che possiedono le migliori informazioni.

Inoltre, ricerche più recenti legati al filone di studi definito behavioral finance, hanno posto l’accento sulla razionalità limitata degli operatori e- conomici e, quindi, sulla loro tendenza ad assumere decisioni di investi- mento spesso disallineate rispetto ad alcuni principi cardine della teoria e- conomica. In generale, nella logica behavioral finance le decisioni di inve- stimento/finanziamento sono spesso influenzate da fattori psicologici diffi- cilmente riconducibili alla tradizionale modellistica di matrice economica.

Le suddette considerazioni in merito all’emergere di inefficienza infor- mativa e/o di comportamento irrazionale degli operatori finanziari, non de- ve portare alla conclusione che le teorie e i modelli basati sull’ipotesi di equilibrio del mercato sia da scartare. Tali modelli, infatti, vanno comun-

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que assunti come importanti punti di riferimento per poi essere, se necessa- rio, modificate, riadattati o abbandonati in ragione della macro o micro re- altà oggetto di indagine. Al riguardo, si osserva che il bravo analista finan- ziario non possiede solo le competenze tecnico-quantitative circa l’utilizzo di modelli orientati alla valutazione del profilo rischio-rendimento di sin- gole imprese e del mercato dei capitali considerato nel suo complesso, ma anche la capacità di comprendere quando un dato modello è coerente con l’oggetto della sua analisi. Del resto, un modello teorico è corretto quando offre risultati soddisfacenti nel rispetto delle ipotesi su cui il modello stesso si fonda. Il venir meno di una o più ipotesi sottostanti il modello dovrebbe spingere l’analista a processi di contestualizzazione del framework teorico rispetto alle caratteristiche specifiche di una data analisi.

1.4. I presupposti teorici della finanza d’impresa

Nei paragrafi che precedono abbiamo chiarito come l’impresa si qualifi- ca, all’interno del sistema economico, come unità in deficit che in quanto tale interagisce con il sistema finanziario azionando meccanismi, diretti o indiretti, di raccolta del capitale necessari all’espletamento della funzione di produzione.

La finanza d’impresa, dunque, non può essere considerata come una di- sciplina a se stante rispetto agli altri ambiti teorici che hanno ad oggetto aspetti finanziari di natura sia macro che microeconomica.

In generale, la finanza d’impresa si focalizza principalmente su due a- spetti, da una parte la finanza operativa legata all’utilizzo di una variegata gamma di strumenti finanziari e alla gestione della tesoreria, dall’altra, la finanza strategica che assume una valenza manageriale, nel senso che at- tiene al nesso tra decisioni strategiche dell’impresa e le connesse decisioni di investimento/finanziamento. Al riguardo, si osserva che negli ultimi de- cenni gli studi in materia, di tipo sia divulgativo sia scientifico, si sono maggiormente focalizzati sul profilo strategico della finanza d’impresa.

Nella prospettiva strategica, gli studi rivolti alle questioni finanziarie d’impresa sottendono alla necessità di schematizzare più aspetti gestionali che nel corso degli anni hanno assunto rilevanza crescente. Un primo ele- mento che si qualifica come presupposto base degli studi in parola attiene alla circostanza che le risorse di capitale (a titolo di credito e di pieno ri- schio), al pari degli altri input dell’attività produttiva, sono onerose e scar-

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se. Ogni utilizzo di capitale comporta, dunque, un duplice costo: un costo finanziario e un costo opportunità. Il primo costituisce il prezzo sostenuto dall’impresa per disporre di mezzi finanziari adeguati alle esigenze gestio- nali. Il secondo rappresenta l’onere indiretto dovuto alla rinuncia dei bene- fici associabili a utilizzi alternativi del capitale, rispetto alle allocazioni fi- nanziarie che l’impresa sceglie di realizzare.

La teoria finanziaria d’impresa si è sviluppa come ponte tra scienze e- conomiche e scienze manageriali. Da una parte, infatti, tale teoria fonda le sue radici su modelli economici basati prevalentemente sulla prospettiva neoclassica che come è noto ipotizza condizioni di mercato ideali, ossia l’equilibrio tra domanda e offerta (sia dei beni reali che finanziari), quale conseguenza di efficienza informativa e comportamento razionale degli operatori economici; dall’altra, ha come fine quello di fornire il manager aziendale di strumenti di sintesi atti a governare le risorse finanziarie con l’obiettivo finale di creare valore economico.

L’adattamento di modelli economici alla gestione operativa e strategica delle imprese comporta, inevitabilmente, rivisitazioni e arricchimenti delle teorie originarie tanto più accentuati quanto maggiore è la complessità che accompagna l’attività manageriale. Di conseguenza i fenomeni che mag- giormente hanno intensificato il dibattito teorico sulla finanza d’impresa sono: l’esigenza di governare le variabili finanziarie in contesti sempre più incerti; la continua ricerca di nuovi modelli di analisi finanziaria finalizzati ad attenuare il divario tra la rigidità di alcune impostazioni teoriche e la di- namicità dell’impresa moderna; l’esigenza di includere il fenomeno finan- ziario all’interno del fenomeno strategico; lo sviluppo di nuovi strumenti finanziari che nel tempo hanno modificato le tecniche gestionali con rife- rimento, soprattutto, alla gestione della tesoreria e dei rischi (Comuzzi, Marzo, 2000, p. 651).

1.5. La finanza d’impresa come governo del capitale

La dimensione e l’evoluzione finanziaria dell’impresa, in termini di ri- sorse e flussi di capitale, sono il riflesso, statico e dinamico, delle decisioni strategiche ed operative assunte dal management (Golinelli, 1996). Le de- cisioni che impattano sulla dimensione reale della struttura aziendale sono, infatti, accompagnate da operazioni di investimento/finanziamento e gene- rano effetti di natura sia reddituale che monetaria, con ciò che ne consegue sul piano dell’equilibrio finanziario, cioè, della capacità dell’impresa di as-

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sicurare il costante bilanciamento tra la formazione e l’assorbimento della liquidità, ovvero tra le entrate e le uscite finanziarie (Sandri S., Bozzi S., 2004, p. 364).

La relazione tra finanza ed economia d’impresa si manifesta sia nel lun- go che nel breve termine: la nascita e lo sviluppo dell’impresa implicano scelte finanziarie durevoli; la gestione operativa, connessa ai processi di acquisto, trasformazione e vendita, produce effetti sulla dinamica finanzia- ria di breve periodo.

Al fine di cogliere il senso e il ruolo dell’analisi finanziaria in ordine all’azione di controllo e pianificazione dell’impresa è bene specificare, seppure in termini generali, i momenti caratterizzanti il governo finanziario delle organizzazioni imprenditoriali che, come riportato in figura 1.4, si ar- ticola nelle tre fasi di: acquisizione del capitale; allocazione del capitale;

remunerazione del capitale. In sintesi, dunque, la finanza d’impresa si so- stanzia nel governo del capitale con il duplice obiettivo di perseguire l’equilibrio finanziario e di massimizzare il valore economico del capitale stesso.

La fase di acquisizione del capitale, riconducibile alla condizione di fabbisogno finanziario in cui operano le imprese, scaturisce da un insieme di decisioni relative ai finanziamenti ottenibili da terze economie e ai pro- cessi di autofinanziamento (Amaduzzi, 1953, p. 111). Detta fase quindi, da una parte, determina la relazione tra sistema finanziario e impresa, dall’altra, dipende dalla capacità della stessa di autofinanziare le proprie attività. L’autofinanziamento, poiché causa un assorbimento totale o par- ziale del reddito (indicato come dividendo) potenzialmente spettante alla proprietà, può essere assunto come finanziamento non monetario realizzato dalla compagine sociale. I detentori di capitale di rischio essendo entità, economicamente e giuridicamente, separate dall’impresa hanno la facoltà di finanziare la stessa mediante apporti di capitale e/o la rinuncia ad eserci- tare il proprio diritto al reddito prodotto (figura 1.4).

Non tutto l’autofinanziamento, tuttavia, consegue a un’esplicita rinuncia al dividendo. Infatti, una parte del reddito generato dalla gestione è tratte- nuto dall’impresa sottoforma di ammortamenti e accantonamenti a fondi.

La fase di allocazione del capitale si concreta nelle decisioni d’investimento finalizzate al mantenimento o alla modifica della struttura aziendale nelle sue componenti reali.

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Figura 1.4. – Le tre fasi del governo finanziario dell’impresa

Allocazione del capitale Acquisizione

del capitale Capitale

DIMENSIONE FINANZIARIA DELLIMPRESA

Rendimento del capitale investito Autofinanziamento

Remunerazione del capitale Finanziamento non monetario da parte

della proprietà Stakeholder

finanziari

Da questo punto di vista, l’allocazione del capitale può assumere la forma di investimenti conservativi o strategici: i primi assolvono ad una funzione essenzialmente operativa, in quanto attengono alla ricostituzione delle risorse reali consumate nell’espletamento della funzione di produzio- ne e necessarie affinché il ciclo industriale si svolga senza soluzione di continuità. Gli investimenti strategici sono, invece, causa di discontinuità strutturale, cui conseguono effetti sia finanziari sia economici. Per esem- pio, la scelta di sviluppare nuovi punti vendita causa effetti sostanziali e durevoli sulla dinamica dei costi e dei ricavi. Da una parte, infatti, l’investimento in nuovi punti vendita genera la formazioni di costi aventi un durevole impatto strutturale sulla vita dell’impresa, quali, per esempio, quelli riconducibili ad ammortamenti, manutenzioni, dipendenti; dall’altra, lo sviluppo della forza commerciale dell’impresa aumenta le aspettative in termini di ricavi attesi.

Più in generale, le decisioni d’investimento si configurano nella fase i- niziale come trasformazione di disponibilità liquide in beni reali; general- mente, al deflusso iniziale di liquidità seguono flussi positivi generati dal rendimento dell’investimento e/o dal suo smobilizzo (figura 1.5. a).

Pertanto, l’impiego delle risorse di capitale produce due effetti finanzia- ri di segno opposto: un primo effetto immediato di segno negativo e un se- condo effetto, durante la vita e nella fase di smobilizzo dell’investimento, di segno positivo. Il deflusso iniziale conseguente a nuovi investimenti presuppone speculari operazioni di finanziamento (figura 1.5. b); i rimborsi

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del complesso dei finanziamenti attinti richiedono a loro volta movimenti monetari di segno opposto.

Figura 1.5. – Profilo finanziario dei processi di investimento/finanziamento

INVESTIMENTO

FINANZIAMENTO

RIMBORSI DEL FINANZIAMENTO RENDIMENTI DELL’INVESTIMENTO 2.1.a

2.1.b Flussi

Tempo Flussi

Tempo

Dunque, così come ad impieghi corrispondono operazione di raccolta, si determina un processo integrato anche tra il realizzo del capitale investito e le speculari operazioni di rimborso del capitale raccolto.

Dall’integrazione tra investimenti e finanziamenti consegue che il primo ruolo del financial manager consiste nel reperire capitale, mediante pro- cessi di intermediazione diretta e/o indiretta, sufficiente alla realizzazione degli investimenti in attività reali necessari alla vita dell’impresa (Quiry et al. 2014, p.1).

La terza fase del ciclo finanziario d’impresa, ossia la remunerazione del capitale, dipende da condizioni contrattualmente predefinite tra l’impresa e

1.5.a

1.5.b

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i fornitori di risorse finanziare, nonché dalle scelte che l’impresa assume in ordine alla distribuzione dei dividendi (figura 1.6).

Figura 1.6. – La remunerazione del capitale

In particolare, la fase di remunerazione del capitale concerne il rendi- mento offerto dall’impresa ai fornitori di capitale di credito e di rischio.

Tali fornitori si pongono a monte del ciclo di impresa e vengono remunera- ti a valle dello stesso. In altri termini, l’impresa remunera i suoi finanziato- ri a seguito della formazione di flussi economico-finanziari scaturenti dal processo input-trasformazione-output. Ciò implica, come vedremo, che il rendimento atteso dai finanziatori sia conseguenza dei fattori tempo e ri- schio.

La remunerazione del capitale è strettamente interconnessa con le fasi di acquisizione e allocazione dello stesso: la qualità degli investimenti si ri- flette direttamente sulla capacità dell’impresa di soddisfare, in termini di remunerazione, i creditori finanziari e la proprietà; le scelte in merito all’acquisizione del capitale impattano sull’onerosità del passivo dell’impresa e, con riferimento al trade-off tra autofinanziamento e capitali di provenienza esterna (ivi compreso il capitale di rischio), sulla remunera- zione monetaria della proprietà (dividendi).

Al riguardo è bene specificare che la remunerazione monetaria del capi- Impresa

Remunerazione degli investitori in capitale di rischio: distribuzione dei dividendi e/o formazione di

un capital gain Remunerazione dei creditori

finanziari: pagamento oneri finanziari in funzione di un

tasso di interesse contrattualmente definito Debiti

finanziati

Capitale di rischio

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tale di rischio, ossia il dividendo, rappresenta solo una componente del rendimento complessivamente offerto dai titoli azionari. Tale rendimento, infatti, include l’eventuale capital gain, cioè l’apprezzamento del valore azionario maturato in un certo arco temporale.

1.5. L’impresa come sistema di flussi finanziari

Negli studi in tema di management finanziario l’impresa è vista come struttura attraversata da continui flussi finanziari conseguenti al combinarsi di impieghi di capitale e fonti di finanziamento che si legano all’impresa stessa sia nel breve che nel medio-lungo periodo (Fanni, 2000, p. 3).

Dalla schematizzazione proposta in merito alle tre fasi del cosiddetto governo finanziario dell’impresa (figura 1.4) emerge, infatti, che la dina- mica finanziaria delle diverse realtà produttive può essere letta come un si- stema integrato di flussi finanziari in entrata e in uscita, le cui determinanti endogene sono: l’effetto combinato tra formazione del fabbisogno finan- ziario e politica degli investimenti; l’efficacia economico-finanziaria degli investimenti; la politica dei dividendi (figura 1.7).

Il suddetto sistema di flussi è, inoltre, influenzato da fattori esogeni qua- li: il grado di efficienza e di liquidità del sistema finanziario e, in particola- re, del mercato finanziario di riferimento; le caratteristiche strutturali e la propensione al rischio degli intermediari finanziari; l’andamento ciclico del settore produttivo d’appartenenza; la dinamica delle principali grandezze macroeconomiche. Il governo finanziario dell’impresa (o governo del capi- tale) implica, dunque, la progettazione e il controllo della dinamica finan- ziaria in relazione agli obiettivi strategici dell’impresa e a vincoli di natura endogena ed esogena. Ne deriva un processo decisionale complesso, ove il sistema di flussi di capitale, da una parte, emerge come adattamento del profilo finanziario dell’impresa alla implementazione di una o più strate- gie, dall’altra, implica verifiche di fattibilità economico-finanziaria di de- terminate politiche aziendali. Per esempio, la decisione di incrementare la capacità produttiva dell’impresa, nel momento in cui si ripercuote sul fab- bisogno finanziario e sulla redditività dell’attivo, implica effetti sulla di- mensione e la manifestazione temporale dei flussi finanziari in entrata e in uscita; dall’analisi prospettica di tale effetti potrebbe emergere l’incompatibilità del progetto di crescita rispetto alla possibilità di ottenere un adeguato sostegno dal sistema finanziario; oppure aspettative di rendi-

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mento dei potenziali finanziatori incompatibili con l’equilibrio economico dell’impresa; o ancora una capacità di autofinanziamento limitata rispetto all’obiettivo di realizzare lo sviluppo dimensionale senza accrescere la di- pendenza dal sistema finanziario.

Figura 1.7. – L’impresa come sistema integrato di flussi finanziari

Remunerazione del capitale Allocazione del capitale

Acquisizione del capitale

Rendimento del capitale Stakeholder finanziari

Flusso in uscita

Flusso in uscita Flusso

in entrata Flusso in entrata

DETERMINANTI ENDOGENE

Efficacia degli investimenti

Fabbisogno finanziario

Politica degli investimenti

Politica dei dividendi

1.6. La funzione finanziaria nell’economia d’impresa

Al pari delle altre funzioni aziendali, la funzione finanziaria necessita di specializzazione, in termini organizzativi, secondo il tradizionale principio della divisione del lavoro (Pochetti G., 1989, p. 17). Essa, tuttavia, assume connotati diversi, in funzione delle peculiarità gestionali e settoriali dei singoli operatori. In alcuni casi, specie nelle imprese minori o di piccola dimensione, la gestione finanziaria non si realizza per mezzo di apposite strutture, ma compete direttamente al proprietario-imprenditore, o conflui- sce nell’area amministrativa; in altri, invece, l’area finanza è operativa- mente distinta dalle altre funzioni aziendali sebbene sempre attentamente sottoposte alla gestione del proprietario-imprenditore. Negli ultimi decen- ni, comunque, è emersa una generale tendenza a sviluppare il ruolo auto-

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nomo della direzione finanziaria nei processi decisionali. Ciò è spiegabile con l’accentuarsi della criticità dell’area finanza per effetto del proliferare di nuovi strumenti finanziari e per le maggiori alternative d’impiego, dovu- te principalmente al processo di globalizzazione dell’economia. All’attuale complessità delle decisioni d’investimento e di finanziamento corrispon- dono opportunità e rischi crescenti che inducono le imprese a prestare una sempre maggiore attenzione ai processi di analisi volti a programmare e a controllare l’andamento delle variabili finanziarie.

La funzione finanziaria, soprattutto quando viene esercitata da un’apposita ed autonoma struttura, determina vincoli alle altre funzioni a- ziendali. Vincoli che sono fonte di dialettica tra coloro che si propongono di accrescere le performance commerciali e produttive e la direzione finan- ziaria, sempre tesa a sincronizzare i flussi monetari in entrata con quelli in uscita. Per esempio, se da un lato l’area marketing tende, per favorire in- crementi nelle vendite, ad allungare le scadenze relative ai crediti commer- ciali, dall’altro i responsabili della finanza esercitano pressioni per conte- nere il ricorso a tale leva commerciale foriera, come è noto, di tensioni monetarie (Dallocchio M., 1995, pp. 2-3).I rapporti di equilibrio tra la fun- zione finanza e le altre funzioni aziendali dipendono da fattori sia endogeni che esogeni. I primi derivano, essenzialmente, dall’importanza che la pro- prietà e il top management aziendale assegna alla gestione delle risorse fi- nanziarie. I secondi sono riconducibili principalmente al settore di apparte- nenza, all’andamento congiunturale dell’economia e alla liquidità disponi- bile in un dato momento presso il sistema economico.

In generale, i fattori esogeni sono spesso tra loro interdipendenti ed in- fluiscono maggiormente, rispetto a quelli endogeni, sul ruolo che nel tem- po assume la funzione finanziaria, soprattutto quando il loro andamento limita le risorse finanziare, attuali e potenziali, sulle quali l’impresa può fa- re affidamento. In altri termini, se l’impresa, per motivi non governabili dall’azione del management, opera con capitali sempre più scarsi, i vincoli propri della gestione finanziaria prevalgono sugli obiettivi di natura com- merciale e produttiva. Ciò non deve, tuttavia, indurre a pensare che, nel ca- so opposto di ampie disponibilità di capitale, la funzione finanziaria sia sempre rilegata ad un ruolo marginale. Nelle realtà d’impresa caratterizzate da elevata cultura manageriale, infatti, la pianificazione della tesoreria e delle decisioni durevoli d’investimento e di finanziamento sono considerati ormai da tempo elementi indispensabili affinché l’impresa stessasi sviluppi in condizioni di equilibrio economico-finanziario. Del resto una gestione delle risorse finanziarie poco razionale, quando viene percepita dai finan-

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ziatori esterni, provoca un peggioramento del cosiddetto merito creditizio, con la conseguente riduzione dei finanziamenti accordati a favore dell’impresa.

Ai fini di un giusto bilanciamento tra i limiti posti dalla funzione finan- ziaria, riguardo alla raccolta e alla allocazione del capitale, e gli obiettivi di crescita della struttura aziendale, è necessario disporre di un adeguato si- stema informativo che consenta un continuo scambio di dati e di informa- zioni. Poiché, mediante la gestione finanziaria le performance dell’impresa vengono espresse in valori monetari, i responsabili dell’area finanza hanno a disposizione un considerevole numero di dati storici sintetici, soggetti di utilizzo da parte di altre aree aziendali. Nello stesso tempo, le competenze e le informazioni attinenti alle diverse funzioni assumono rilevanza ai fini della valutazione finanziaria dei progetti d’investimento. Nelle imprese ca- ratterizzate da più sistemi informativi tra loro non convergenti le previsioni finanziarie sono poco attendibili in quanto, a prescindere dal modello quantitativo utilizzato, si basano su presupposti sbagliati, scollegati cioè dalla realtà oggetto di valutazione. In tal caso possono emergere vincoli fi- nanziari forvianti che impediscono lo sfruttamento di determinate opportu- nità, o al contrario vengono intraprese strategie di crescita che causano squilibri monetari e reddituali.

Il ruolo svolto dalla funzione finanziaria nell’economia d’impresa, quindi, se, da un lato, è bene che sia distinto in termini organizzativi dagli altri rami della gestione, dall’altro, deve con questi interagire il più possibi- le per evitare che il suo esercizio risulti slegato dalla reale dinamica delle variabili aziendali. Se ne deduce che i contorni della funzione finanziaria non sono standardizzabili per tutte le imprese, ma vanno adattati, oltre che alle peculiarità produttive e commerciali dei singoli operatori, anche agli strumenti e alle competenze di cui dispongono gli altri organi che compon- gono la struttura organizzativa dell’impresa (Brugger, 1979, p. 16).

Si deve inoltre osservare che la funzione finanziaria è cambiata nel tempo in ragione del susseguirsi di schemi interpretativi che ne hanno gra- dualmente ampliato gli orizzonti (Sandri S., Bozzi S., 2003, p. 391). Tale evoluzione, tuttora in atto, ha trasformato il ruolo della finanza d’impresa da mera gestione tecnica del denaro a componente fondamentale dei pro- cessi strategici. Nella sua accezione più moderna la funzione finanziaria concerne tutti i movimenti di capitale, originati da operazioni sia d’investimento, sia di finanziamento. Tale approccio si differenzia netta- mente da quello tradizionale, in base al quale i compiti della funzione fi- nanziaria si esauriscono nella ricerca delle risorse monetarie atte a soddi-

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sfare la copertura dei fabbisogni di capitale (Brusca L., Zampogna L., 1995, p. 5).

Con l’approccio tradizionale, dunque, la gestione finanziaria attiene pre- valentemente alla negoziazione dei debiti e, nel caso delle realtà più evolute, all’emissione di titoli obbligazionari e azionari. L’azione della direzione fi- nanziaria, delimitata negli ambiti di cui sopra, assume natura prevalentemen- te descrittiva circa le modalità di approvvigionamento delle risorse finanzia- rie (Brunetti G., 1985). Di tale azione descrittiva ne beneficia il management che ha così modo di verificare l’effettiva possibilità di finanziare la realizza- zione dei piani strategici. Alla base di tale approccio vi è, dunque, l’idea di un fabbisogno finanziario esogeno rispetto alle scelte della direzione finan- ziaria la cui azione, circoscritta a favorire formalmente il collegamento tra impresa e sistema finanziario, non interagisce con i soggetti e con le attività incluse nelprocesso strategico d’impresa. Gli studi connessi al paradigma della finanza tradizionale hanno assunto, inevitabilmente, carattere istituzio- nalistico e normativo in quanto pongono l’enfasi, da un lato, sulle relazioni tra impresa e finanziatori, dall’altro, sulla descrizione tecnica sia delle ope- razioni di finanziamento sia del funzionamento degli intermediari finanziari e del mercato dei capitali (E. Comuzzi-G. Marzo, 2000, p. 652).

In ambito operativo, l’approccio tradizionale è stato dominante fino agli anni ’70, mentre a livello teorico l’idea di una finanza “allargata”, ossia concernente anche le decisioni d’investimento, si è affermata a partire dal secondo dopoguerra (Panati e Golinelli, 1991).

Il passaggio dalla finanza tradizionale alla finanza “allargata” ha esteso la gestione del capitale alle valutazioni degli investimenti durevoli, alla in- dividuazione di una sempre migliore composizione delle fonti di finanzia- mento e alla programmazione e al controllo dei flussi finanziari.

Le cause di tale evoluzione sono riconducibili a quei fattori forieri, a partire dalla fine degli anni ’60, di maggiore incertezza (Brusca L., Zam- pogna L., 1995, p. 7). Tra questi i principali sono l’incremento della con- correnza in molti settori produttivi, la maggiore rapidità con cui gli input della produzione diventano obsoleti per effetto delle spinte all’innovazione tecnologica, l’accentuarsi del rischio di tasso d’interesse e di cambio.

Il processo evolutivo, qui brevemente accennato, ha gradualmente spo- stato gli studi di finanza aziendale, da un lato, e l’esercizio della funzione finanziaria, dall’altro lato, da una mera analisi e gestione delle risorse di capitale, alla ricerca degli strumenti atti ad indagare i fenomeni finanziari, tenendo conto delle loro interdipendenze.

Al concetto di finanza “allargata” va, dunque, affiancato il concetto di

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finanza integrata, in base al quale le scelte relative agli investimenti e quel- le relative ai finanziamenti rappresentano parti di un unico processo deci- sionale che si riflette sulla dinamica dei redditi di esercizio correnti e sulla composizione del patrimonio dell’impresa. In particolare, la finanza inte- grata persegue un duplice obiettivo: la gestione delle scadenze, attive e passive, rispetto al rischio d’interesse; la gestione delle scadenze, attive e passive, rispetto al rischio di liquidità.

Da un lato, quindi, l’attuale approccio allo studio e alla gestione della finanza d’impresa postula che le scelte relative agli investimenti e quelle connesse ai finanziamenti rappresentano parti di un unico processo deci- sionale, avente come fine ultimo l’accrescimento del valore economico dell’impresa; dall’altro tiene conto degli effetti che le relazioni temporali tra le operazioni di acquisizione e di allocazione del capitale esercitano sul- la formazione dei risultati economici e dei saldi di liquidità. Finanza “al- largata” e finanza integrata non sono tra loro alternative ma complementari essendo la formazione del valore economico influenzata, oltre che dalla qualità intrinseca delle singole decisioni finanziarie, anche dalle interdi- pendenze esistenti tra le performance gestionali e la struttura per scadenze dell’attivo e del passivo.

La funzione finanziaria improntata sull’integrazione, non solo quantita- tiva ma anche qualitativa, tra i finanziamenti e gli investimenti, implica per i responsabili dell’area finanza disporre di conoscenze su tutto il ciclo d’impresa per assumere le decisioni in un’ottica strategica. Nello stesso tempo, però, l’innovazione relativa alle modalità di finanziamento azienda- le e l’accentuarsi dei rischi connessi alle fluttuazioni del mercato dei capi- tali hanno prodotto nuovi strumenti finanziari, il cui utilizzo richiede speci- fiche competenze tecniche. Da un lato, quindi, si è assistito in questi ultimi decenni ad un processo di despecializzazione dell’area finanza, sempre più coinvolta nella pianificazione strategica, dall’altro si sono affermate all’interno della stessa specifiche figure professionali qualificate nell’utilizzo di particolari strumenti di capitale.

1.7.

Funzione finanziaria, reddito e inflazione

In linea generale, la raccolta di capitale operata dalla direzione finan- ziarie è finalizzata alla copertura degli esborsi monetari legati alla ge- stione corrente e a favorire processi di espansione dell’impresa mediante la crescita degli investimenti. A tal proposito sono state sviluppate diver-

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se teorie che pongono in relazione l’andamento degli investimenti con la capacità dell’impresa di generare reddito (Marris R., 1972; Vender J.,1983). Tale relazione tra espansione e gestione finanziaria può essere analizzata tenendo conto o meno della svalutazione del potere di acqui- sto della moneta. Ipotizzando un tasso d’inflazione nullo, il rapporto che si instaura tra la crescita degli investimenti e la capacità di reddito è di tipo sia industriale che finanziario. Dal punto di vista industriale, il tasso di crescita del reddito è riconducibile allo sviluppo della funzione d’investimento, quando le nuove allocazioni di capitale generano un’espansione dei volumi sia di produzione sia di vendita. In altri termi- ni, la relazione industriale tra il tasso di crescita degli investimenti e il tasso di crescita del reddito è tanto più accentuata quanto più il mercato di riferimento dell’impresa offre l’opportunità di sfruttare economie di scala. In termini finanziari, invece, il tasso di crescita del reddito alimen- ta la possibilità di sfruttare la funzione d’investimento in condizioni di stabilità finanziaria. L’aumento dei mezzi finanziari prodotti dal ciclo economico riducono, infatti, a parità di altre condizioni, l’esposizione debitoria. Ne consegue che la relazione finanziaria tra reddito e investi- menti è inversa rispetto a quella di tipo industriale, nel senso che se, da un lato, l’espansione della capacità economica è riconducibile a politiche di crescita degli investimenti, dall’altro, le disponibilità di capitale origi- nate dal ciclo economico stabilizzano la dinamica finanziaria nelle fasi di sviluppo dell’attivo. Per ogni azienda sussiste un vincolo finanziario allo sviluppo dato dal massimo divario tra la crescita degli investimenti e la crescita del reddito, oltre il quale l’espansione della produzione pro- duce effetti destabilizzanti sull’equilibrio di gestione e sugli assetti pro- prietari. Durante i processi di espansione, dunque, il principale compito della direzione finanziaria consiste nel valutare, data una certa capacità di reddito attuale e prospettica, il livello massimo di crescita degli inve- stimenti. Il vincolo finanziario all’espansione può causare un duplice co- sto opportunità: un costo opportunità dovuto al mancato sfruttamento di nuove iniziative produttive e/o commerciali foriere di miglioramenti reddituali; un costo opportunità dovuto alla rinuncia totale o parziale ai dividendi da parte della compagine sociale, volta a contenere l’afflusso di capitali esterni in corrispondenza di incrementi significativi degli in- vestimenti.

Il perseguimento di un ottimale politica di allocazione del capitale non può, tuttavia, prescindere dal tasso d’inflazione. Durante i cicli eco- nomici caratterizzati da un’inflazione molto elevata la funzione finanzia-

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