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La mediazione `forzata` - Judicium

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Academic year: 2022

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GIROLAMO MONTELEONE

La mediazione “forzata”

1) Il Consiglio dei Ministri ha recentemente approvato lo schema di decreto legislativo che, in attua zione dell’art. 60 della L. 19-6-2009 n. 69 (c.d. riforma del processo civile), introduce in forma ge neralizzata nel nostro ordinamento giuridico gli istituti della mediazione e conciliazione per qualsia si controversia “civile e commerciale vertente su diritti disponibili” (art. 2). Al qual proposito il co mune lettore si pone subito due quesiti: quali siano le controversie “commerciali”

distinte da quelle civili, posto che da numerosi decenni non esistono più in Italia nè il codice nè i tribunali di commercio; quale necessità vi sia di circoscrivere puntigliosamente l’oggetto dei nuovi istituti ai “diritti disponibili”, posto che fino ad ora si è sempre ritenuto che i diritti indisponibili, proprio perchè tali, non possono giammai costituire oggetto di un negozio giuridico dispositivo (come la conciliazione).

Superati gli iniziali dubbi, si nota che la nuova legge in fieri si preoccupa in più luoghi di assicurare l’imparzialità dei futuri mediatori, ai quali il postulante deve rivolgere una “domanda di mediazio ne”, che deve indicare l’organismo adito, le parti, l’oggetto e le ragioni della pretesa e che, dopo la comunicazione ai controinteressati, “produce sulla prescrizione i medesimi effetti della domanda giudiziale”, ovvero impedisce la decadenza. Si tratta, quindi, dell’equivalente dell’atto introduttivo vo di un processo civile (citazione o ricorso).

L’avvocato è obbligato ad informare chiaramente e per iscritto il proprio cliente dell’esistenza del procedimento di mediazione “a pena di nullità del contratto concluso con l’assistito”,e tale documen to deve essere prodotto nell’eventuale giudizio. Dopo tale solenne avvertimento, egli lo informa pure che, se intende esercitare un’azione in materia di “condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo, contratti assicurativi, bancari e finanziari” è obbligato a pena di improcedibilità a chiedere la mediazione preventiva a fini conciliativi. Non basta, perchè il giudice nel corso del processo “può invitare le particon ordinanza a procedere alla mediazione”, rinviando la causa a data posteriore al suo compimen o. Tutto ciò rende per lo meno dubbia l’opportunità dell’avvertimento preliminare imposto all’avvocato con il corredo delle sanzioni di legge.

In teoria il procedimento di mediazione non può durare più di quattro mesi (non computabili ai fini della ragionevole durata del processo anche quando è obbligatorio!), ma la legge non precisa quale sia la conseguenza derivante dal suo infruttuoso decorso, specie quando condiziona la procedibilità della domanda giudiziale. Questa dovrebbe essere liberamente proponibile, ma siccome lo schema legislativo non lo stabilisce espressamente, potrebbe ritenersi anche il contrario e cioè che il blocco resti finchè il mediatore non formuli la proposta conciliativa anche se siano stati superati i quattro mesi.

Fisiologicamente la mediazione può concludersi: o con un accordo amichevole (sic ?!) tra i contendenti; oppure, in suo difetto, con una proposta di conciliazione comunicata per iscritto, che le parti sono obbligate ad accettare o rifiutare entro sette giorni. Della mancata conciliazione e delle sue ragioni si forma processo verbale, che resta depositato agli atti dell’organismo adito in vista dei futuri effetti punitivi che il rifiuto potrà produrre.

In caso di mancata conciliazione, se il contenuto del provvedimento che definisce il successivo giudizio coincide interamente con la proposta rifiutata, la parte vittoriosa, ma

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responsabile del gran rifiuto, viene condannata alle spese. Qui nascono, però, altri dubbi. Se il contenuto del provvedimento giudiziario non corrisponda interamente, ma per difetto, alla proposta conciliativa, nel senso che riconosce alla parte, pur sempre vittoriosa, qualcosa in meno, chi e come sarà condannato alle spese? Ed ancora e più radicalmente: come è possibile che l’accertamento giudiziale possa coincidere interamente con la proposta conciliativa, se questa procede da un’asserita mediazione, che in quanto ta le deve mediare, cioè contemperare, le opposte pretese scegliendo appunto una linea di reciproche concessioni?

In ogni caso, la parte condannata alle spese dovrà anche versare all’erario una ulteriore somma pari al contributo unificato dovuto per la lite, cui si può aggiungere l’indennizzo che il giudice può di ufficio elargire ai sensi del nuovo ultimo comma dell’art. 96 c.p.c.

Le spese del procedimento di mediazione gravano sugli interessati e vengono stabilite secondo il regolamento interno dell’organismo adito in base a parametri ministeriali. In caso di successivo giudizio si sommano spese a spese.

Queste in sintesi e per sommi capi le caratteristiche del nuovo sistema dal punto di vista del cittadi no, che ritenendo di aver subito un torto vuole agire in giudizio per ottenere giustizia, e dell’avvocato incaricato di tutelarne i diritti.

Come valutarlo, ponendosi dal medesimo punto di vista e non da quello dei magistrati, che con il nuovo sistema sperano di vedere sostanziosamente alleggerito il proprio lavoro conservando, però, intatto il proprio trattamento retributivo?

2) Una lunga esperienza pratica ci dice che i tentativi di conciliazione, o di mediazione, sia preventivi che successivi, sia volontari sia forzosi perchè imposti a pena di improcedibilità, non hanno mai sortito l’effetto sperato di sfoltire i ruoli giudiziari e diminuire il numero delle liti. Già G.

Pisanelli nella sua Relazione al Libro I del Codice di procedura civile del 1865 osservava : “la conciliazione delle parti è un’idea che ha molte attrattive, ma conviene di non esagerarla, e molto più ancora di non forzarla: allora perde ogni pregio e si corre il pericolo di riuscire ad un fine opposto. Quando lo sperimento della conciliazione si volle rendere obbligatorio, come preliminare necessario del giudizio, non corrispose alle aspettative e degenerò in una vana formalità” ( cfr. G.

PISANELLI, Relazione ministeriale sul libro primo del progetto di codice di procedura civile, in Codice di procedura civile del Regno d’Italia,1865. Testi e documenti per la storia del processo a cura di N. Picardi e A.Giuliani, Milano 2004, pg.5).

L’autorità dell’insigne studioso ed uomo politico, tra gli artefici del Risorgimento nazionale, baste rebbe da se sola a liquidare la questione. Ma l’ammirevole ostinazione del nostro attuale legislatore, incurante dell’esperienza concreta e delle lezioni della storia, non ha mancato di darci ulteriore e ben più vicina prova sperimentale della esattezza dell’osservazione del Pisanelli. Infatti la recente, ed ancor vigente, reintroduzione del tentativo obbligatorio di conciliazione nelle cause di lavoro ha dimostrato nei fatti di non averne affatto diminuito il numero (che stando alle statistiche sembra addirittura aumentato, così contribuendo a consolidare un vertiginoso arretrato), ma solo di aver dato incentivo a complicazioni inutili ed a meschine eccezioni che fanno solo perdere tempo.

Or non si vede per quali nuove ragioni quel che è sempre accaduto da secoli dovrebbe oggi per incanto mutare, per apportare successo alla nuova legge sulla mediazione più o meno obbligatoria.

Vero è che essa prevede un apparato di sanzioni costrittive a carico degli avvocati e degli interessati, ma tali sanzioni, oltre a dar ingresso ad una serie di perplessità più propriamente giuridiche, nonsaranno idonee ad invertire una tendenza corrispondente ad una ragione di ordine naturale e sociale, che si compendia in questo. Il cittadino che ritiene di avere subito un torto e si

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reca da un avvocato per ricevere aiuto ed assistenza, specie in uno Stato libero di diritto, vuole un giudice, non un mediatore e neppure un conciliatore per l’evidentissima ragione che, se lo avesse voluto e fosse statopossibile, la lite poteva prevenirla da se stesso senza l’aiuto di terzi. Nessuno arde dal desiderio di impiegare tempo e danaro per impelagarsi in cause civili. Con la mediazione obbligatoria, invece, lo Stato gli nega il giudice e ciò non può avere altro effetto che esacerbare gli animi, creare chicane dilatorie, e alimentare nei cittadini una senso di frustrazione e di sfiducia verso le istituzioni.

3) Veniamo ora alla perplessità giuridiche nascenti dal testo normativo. Si è visto che la legge, per indurre l’interessato ad avvalersi della mediazione preventiva e coartarne la volontà , quindi la libertà di determinazione (il che è già moralmente deplorevole perchè la costrizione resta sempre tale, anche se ammantata da veste legislativa), non si limita ad imporla a pena di improcedibilità in una vastissima categoria di controversie ma la circonda con un apparato sanzionatorio a carico degli avvocati e delle parti, che può sfociare in rovinose condanne alle spese e affini. Viene creato, inoltre,

un circuito paragiurisdizionale parallelo alla giurisdizione civile affidato ai mediatori, di cui viene proclamata l’imparzialità, come se si trattasse di veri e propri giudici. Ciò è manifestato con particolare evidenza dall’art. 18, che prevede l’istituzione facilitata presso ogni tribunale di organismi di conciliazione gestiti dagli ordini degli avvocati, i quali sono così elegantemente chiamati ad amministrare il proprio suicidio professionale ed economico. E che così stiano le cose è ulteriormente dimostrato da quella disposizione che punisce con la condanna alle spese e con un’ammenda la parte vittoriosa, quando abbia rifiutato una proposta conciliativa che poi venga per intero recepita nella pronuncia giudiziaria.

Ora, se veramente si trattasse di mediazione o di conciliazione, una simile ipotesi sarebbe per definizione impossibile, poichè necessariamente la proposta conciliativa dovrebbe bilanciare i contrappos ti interessi, dando e togliendo a ciascuno qualcosa, per potere essere accettata da tutti i contendenti. Ciò fa bene intendere, invece, che il cd. mediatore imparziale, quando le parti non si accordano, non formula in realtà una proposta di conciliazione, ma di decisione della controversia.

Solo in questo caso può accadere che nel giudizio successivo al rifiuto la sentenza corrisponda

“interamente al contenuto della proposta”, e solo in questo caso la parte può reputare conveniente accettarla per evitare il rischio della condanna alle spese ed accessori.

Ciò posto, sorgono evidenti problemi di legittimità costituzionale dell’ impianto normativo.

Anzi tutto per eccesso di delega, perchè sembra violato il principio contenuto nella lett. a) dell’art.60, 3°

comma, della L. 69/2009 secondo cui la mediazione non deve precludere l’accesso alla giustizia. Ma minacciare sanzioni e condanne alle spese alla parte vittoriosa, per il solo fatto che abbia rifiutato la proposta conciliativa poi recepita in sentenza, non ha altra funzione che ostacolarle l’accesso alla giustizia con strumenti di coazione indiretta. Manca il divieto diretto ed immediato di adire il

giudice, ma vi è la costrizione morale che porta allo stesso risultato.

Inoltre, se le osservazioni sopra esposte sono fondate, sembrano anche violati gli artt. 24 e 102 della Costituzione, sia perchè la mediazione preventiva così concepita e disciplinata intralcia il libero esercizio dell’azione civile, sia perchè il c.d. mediatore imparziale assume la veste di un giudice e da vita alla creazione di una giurisdizione straordinaria o speciale, così come è stato ripetutamente deciso dalla Corte costituzionale a proposito degli arbitrati obbligatori.

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Vada dunque per la mediazione preventiva, ma a condizione che essa sia liberamente scelta dal citta dino, ovvero che non sia forzata: in un processo civile degno di tal nome di forzato può esservi solo l’esecuzione, non la mediazione.

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