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Proporzione e ragionevolezza nella pattuizione del compenso dell’avvocato e nell’evoluzione delle norme di legge e deontologiche: dalle tariffe forensi alle “tariffe di mercato”. - Judicium

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RICCARDO BOLOGNESI

Proporzione e ragionevolezza nella pattuizione del compenso dell’avvocato e nell’evoluzione delle norme di legge e deontologiche: dalle tariffe forensi alle

“tariffe di mercato”.

La recente sentenza della Cassazione a sezioni unite, 25 novembre 2014, n. 25012, offre l’occasione per fare il punto sullo stato dell’arte degli accordi tra avvocato e parte assistita sulla definizione del compenso, con particolare riguardo al patto di quota lite ed alla percentuale convenuta sul valore dell’affare o sulla previsione circa l’esito della lite, anche alla luce della nuova legge professionale n. 247/2012; per sviluppare alcune riflessioni sull’art.45 del Codice Deontologico Forense, prima e dopo le modifiche del 18 gennaio 2007 e del 12 giugno 2008 e sull’attuale art.25 (“accordi sulla definizione del compenso”) del nuovo Codice Deontologico Forense, approvato dal Consiglio Nazionale Forense nella seduta del 31 gennaio 2014, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 241 del 16 ottobre 2014 e in vigore dal 15 dicembre 2014; ma anche per condividere una proposta di legge che integri l’art.2233 c.c. e risolva il problema delle pattuizioni di compensi palesemente sproporzionati in danno del professionista.

Il caso al vaglio delle Sezioni Unite, come deciso dal CNF.

Nella sentenza n.25012, pubblicata il 25 novembre 2014, le Sezioni Unite della Cassazione, affrontano la vicenda disciplinare di un avvocato che in data 27 settembre 2008 aveva fatto sottoscrivere all’assistito un «patto di quota lite». Quest’ultimo si era obbligato a corrispondere – appena ottenuto il risarcimento, anche parziale a titolo provvisionale, dei danni subìti in occasione di un sinistro stradale causato dal conducente del motoveicolo su cui l’assistito era trasportato – il 30% di quanto incassato, oltre alla rifusione di tutti i costi anticipati (prima e dopo la sottoscrizione del patto). L’esposto era stato inoltrato al Consiglio dell’Ordine competente dal legale fiduciario della compagnia di assicurazione che aveva ricevuto la richiesta di pagare direttamente al legale ben 240.000 euro rispetto alla provvisionale liquidata, pari ad 800.000 euro.

Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Trento, con decisione del 24 gennaio 2012 (resa, invero, su un capo di incolpazione che aveva riguardato anche le condizioni soggettive e psico-fisiche dell’assistito al momento della sottoscrizione, “invalido” al 95% in conseguenza del sinistro, incarcerato per l’effetto di precedenti condanne penali e, pertanto, con obiettive difficoltà di comprensione del documento sottoscritto), aveva ritenuto che tale patto fosse in contrasto con l’art. 38 della legge professionale forense (approvata con il r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito con modificazioni nella

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legge 22 gennaio 1934, n. 36) e con gli artt. 5, 6 e 45 del codice deontologico forense (testo approvato nella seduta del 17 aprile 1997 e successive modifiche, applicabile ratione temporis), condannandolo alla sospensione dell’esercizio della professione per due mesi.

Secondo il Consiglio dell’Ordine, al momento della sottoscrizione del patto, non esisteva alcuna aleatorietà in ordine alla responsabilità (non essendovi margini di incertezza sulla colpa del conducente del motoveicolo assicurato sul quale viaggiava come trasportato l’assistito) ed alla rilevante quantificazione del danno che sarebbe derivata, che non sarebbe potuta scendere al di sotto dell'importo del massimale, pari ad Euro 1.500.000. Di qui il giudizio di manifesta sproporzione della percentuale pattuita del 30% e ciò, sempre a giudizio del Consiglio, anche tenendo conto di tutta l'attività stragiudiziale pregressa svolta dall’avvocato per la regolarizzazione della posizione dell’assistito, che viveva in condizioni di clandestinità.

Avverso il ricorso dell’avvocato, il Consiglio Nazionale Forense, con sentenza del 18 marzo 2014, pur riducendola sanzione inflitta dalla sospensione dell’esercizio delle professione alla censura, aveva condiviso il giudizio circa la sussistenza della responsabilità disciplinare cui era pervenuto il Consiglio dell’Ordine, anche alla luce della nuova disciplina dell’ordinamento forense ed in particolare dell’art. 13 della legge n.247/12. Norma che, da un lato, ha reintrodotto il divieto del patto di quota lite, precedentemente abrogato dal d.l. n. 223/2006, conv. in legge n. 248/2006 (meglio noto come decreto Bersani) e, dall’altro, ha previsto la validità della pattuizione con cui si determini il compenso al difensore «a percentuale sul valore dell'affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione».

Secondo il Consiglio nazionale Forense tale percentuale, anche allora, avrebbe potuto essere rapportata al valore dei beni o degli interessi litigiosi ma non al risultato, in tal senso dovendo interpretarsi l'inciso «si prevede possa giovarsene», che evocherebbe un rapporto con ciò che si prevede e non con l’effettivo risultato della prestazione professionale.

Questa interpretazione – sempre ad avviso del CNF – avrebbe a suo favore, oltre che la conformità alla littera legis, anche la coerenza con la ratio del divieto, dal momento che accentuerebbe il distacco dell’avvocato dagli esiti della lite, diminuendo la portata dell’eventuale commistione di interessi quale si avrebbe se il compenso fosse collegato, in tutto o in parte, all'esito della lite, con il rischio così della trasformazione del rapporto professionale da rapporto di scambio a rapporto associativo.

Il patto di quota lite – precisava ancora il CNF – non potrebbe tradursi in un’illegittima ed illecita cessione della res litigiosa: interpretazione, questa, che sarebbe coerente con la ratio della normativa del 2006 e del codice deontologico e troverebbe oggi una conferma, autentica e retrospettiva, nella nuova legge professionale n. 247/2012.

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Muovendo da tali premesse il CNF ha, poi, osservato che il patto di quota lite integra un contratto aleatorio in quanto il compenso varia in funzione dei benefici ottenuti in conseguenza dell’esito favorevole della lite e il suo tratto caratterizzante è dato, appunto, dal rischio, perché il risultato da raggiungere non è certo nel quantum né, soprattutto, nell'an. Il testo dell’art. 45 del codice deontologico forense, applicabile ratione temporis, come modificato a seguito del decreto Bersani, sotto la rubrica

«accordi sulla definizione del compenso», avrebbe consentito all’avvocato e al patrocinatore di determinare il compenso parametrandolo ai risultati perseguiti, ma fermo il divieto di cui all’art. 1261 c.c. e fermo restando che, nell'interesse del cliente, tali compensi avrebbero dovuto essere comunque proporzionati all'attività svolta.

Ha infine concluso il CNF che il rispetto della proporzionalità della pretesa costituisce canone deontologico che deve improntare la condotta dell’avvocato mentre, nel caso di specie, nemmeno con la più benevola prognosi ex ante avrebbe potuto ipotizzarsi che fosse proporzionato un compenso pari al 30% della res litigiosa, soprattutto in un giudizio dall'alea assai ridotta. In particolare, osserva il CNF, «l’eccessività sta nell’abnorme percentuale del compenso rispetto al complessivo risarcimento in relazione ad una controversia dall’esito ben prevedibile e di non così rilevante difficoltà».

L’originario divieto di patto di quota lite.

Come noto, fino all’entrata in vigore del decreto Bersani, il legislatore, oltre alle altre garanzie a favore dei clienti nella determinazione dei compensi dei professionisti intellettuali, aveva posto un garanzia specifica nell’ambito della professione forense, stabilendo, con l’art. 2233, comma 3°, c.c., che gli avvocati, i procuratori e i patrocinatori non potessero, neppure per interposta persona, stipulare con i loro clienti alcun patto relativo ai beni che formavano oggetto delle controversie affidate al loro patrocinio, «sotto pena di nullità e dei danni».

La ratio del divieto del patto di quota lite veniva indicata nella necessità che il professionista forense fosse totalmente estraneo alle sorti della lite del soggetto al quale offriva assistenza 1, anche in funzione della tutela della dignità e del decoro della professione, nonché del destinatario della prestazione, con la conseguente inderogabilità assoluta della norma 2.

L’art. 2233 c.c., comma 3°, c.c. andava poi letto nel contesto normativo in quel momento vigente, che prevedeva un regime di tariffe professionali minime, e in combinato con l’art. 1261 c.c., tuttora vigente, secondo cui, di regola, «i magistrati dell'ordine giudiziario, i funzionari delle cancellerie e segreterie giudiziarie, gli ufficiali giudiziari, gli avvocati, i procuratori, i patrocinatori e i notai non possono, neppure per

1 Perulli, Il lavoro autonomo, in Tratt. Cicu, Messineo, XXVII, Milano, 1996, 685.

2 Giacobbe G., Professioni intellettuali, in Enc. Dir., XXXVI, Milano, 1987, 1079.

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interposta persona, rendersi cessionari di diritti sui quali è sorta contestazione davanti l'autorità giudiziaria di cui fanno parte o nella cui giurisdizione esercitano le loro funzioni, sotto pena di nullità e dei danni».

In tale contesto, l’art. 45 del Codice Deontologico – nel testo originario, antecedente alla modifiche apportate con delibera del CNF del 18 gennaio 2007 – era infatti rubricato «Divieto di patto di quota lite» e recitava: «è vietata la pattuizione diretta ad ottenere, a titolo di corrispettivo della prestazione professionale, una percentuale del bene controverso ovvero una percentuale rapportata al valore delle lite. È consentita la pattuizione scritta di un supplemento di compenso, in aggiunta a quello previsto, in caso di esito favorevole delle lite, purché sia contenuto in limiti ragionevoli e sia giustificato dal risultato conseguito».

L’art. 43, punto II, stabiliva inoltre che l’avvocato non potesse richiedere «compensi manifestamente sproporzionati all’attività svolta».

Su tali basi normative la giurisprudenza osservava che il divieto del cosiddetto «patto di quota lite» tra l’avvocato ed il cliente trovasse il suo fondamento nell’esigenza di assoggettare a disciplina il contenuto patrimoniale di un peculiare rapporto di opera intellettuale, al fine di tutelare l’interesse del cliente e la dignità e la moralità della professione forense. Valori che sarebbero risultati compromessi tutte le volte in cui, nella convenzione concernente il compenso, fosse, comunque, ravvisabile la partecipazione del professionista agli interessi economici finali ed esterni alla prestazione, giudiziale o stragiudiziale, richiestagli. E rinveniva tale (vietato) patto non soltanto nell’ipotesi in cui il compenso del legale consistesse in parte dei beni o crediti litigiosi, secondo l’espressa previsione della norma, ma anche qualora tale compenso fosse stato, comunque, convenzionalmente correlato al risultato pratico dell’attività svolta, realizzandosi, così, quella (non consentita) partecipazione del professionista agli interessi pratici esterni della prestazione 3.

Si riteneva invece ammissibile la previsione del pagamento, in caso di esito favorevole della lite, «di una somma di denaro (anche se in percentuale all’importo, riconosciuto in giudizio alla parte) purché non in sostituzione, bensì in aggiunta all’onorario, a titolo di premio (cosiddetto palmario), o di compenso straordinario per l’importanza e difficoltà della prestazione professionale» 4 e sempre che tale somma non si fosse tradotta in un’ingiustificata falcidia, a favore del difensore, dei vantaggi economici derivanti dalla vittoria della lite 5.

L’abrogazione del patto di quota lite con il decreto Bersani.

3 Cass., sez. II, 19 novembre 1997, n. 11485, in Giust. Civ., 1998, I, 3207, con nota di Gasbarri.

4 Cass., sez. II, 26 aprile 2012, n. 6519; Cass., sez. II, 18 giugno 1986, n. 4078.

5 Cass., sez. un., 19 ottobre 2011, n. 21585.

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Con legge 4 agosto 2006, n. 24835, di conversione del d.l. Bersani 4 luglio 2006, n.

22336, sono state introdotte misure di liberalizzazione nel settore delle professioni, anche in osservanza delle istanze comunitarie e dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, tra cui l’abrogazione delle disposizioni che prevedevano

«l’obbligatorietà di tariffe fisse o minime», nonché «il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti» (art. 2, comma 1, lettera a).

Il decreto Bersani ha così abolito il divieto di patto di quota lite, abrogando e sostituendo il comma 3° dell’art. 2233 c.c. con il seguente testo: «Sono nulli, se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati ed i praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali». Quella riforma, invece, non ha interessato l’art. 1261 c.c., tuttora vigente, da cui tuttavia non si riteneva potesse trarsi l’ultrattività del divieto di patto di quota lite 6, come sostenuto da alcuni 7.

A seguito del decreto Bersani il CNF ha dovuto modificare anche l’art. 45, Codice Deontologico, prima con delibera del 18 gennaio 2007, che ha introdotto il seguente testo: «Accordi sulla definizione del compenso. - È consentito all’avvocato pattuire con il cliente compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, fermo il divieto dell’articolo 1261, c.c. e sempre che i compensi siano proporzionali all’attività svolta»; poi, con successiva delibera del 12 giugno 2008, n. 15 –sollecitata dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato 8 – che ha precisato infine la necessità di tenere «fermo il principio disposto dall’art. 2233 del Codice civile».

Rimaneva invece invariato il secondo canone dell’art. 43, secondo cui l’avvocato non poteva comunque richiedere «compensi manifestamente sproporzionati all’attività svolta».

La decisione delle Sezioni Unite: nullità del patto quotalizio manifestamente sproporzionato.

È il caso di precisare che la decisione delle Sezioni Unite n. 25012/2014 poggia sul quadro normativo successivo alle riforme introdotte dal decreto Bersani – e precedente alla nuova legge professionale – nel quale, come si è rilevato, sono venute meno le tariffe professionali forensi, è stato affermato il principio di libera determinazione scritta del compenso, è stato eliminato il divieto di patto di quota lite e consentita la pattuizione di compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, purché proporzionali all’attività svolta.

6 Cfr. Schlesinger, La nuova disciplina dei compensi professionali per gli avvocati, in Corr. giur. 2007, p.

449; Dittrich, Profili applicativi del patto di quota lite, in Riv. dir. proc. 2007, p. 1142, in nota.

7 Scarselli, Il decreto Bersani e le tariffe forensi, in Foro it. 2007, IV, 23.

8 Che aveva auspicato, quantomeno, l’introduzione della precisazione «fermo restando il principio di libera determinazione del compenso», sia nell’art. 43, punto II, che nell’art. 45.

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La decisione del CNF impugnata innanzi alla Cassazione ha preteso tuttavia di interpretare quel contesto normativo alla luce della nuova legge professionale che, invece, come osservato dallo stesso CNF, ha ripristinato il divieto di patto di quota lite.

Più opportunamente, anche costretta dall’ambito dell’unico motivo di ricorso proposto dall’avvocato avverso il provvedimento del CNF, la Cassazione si è soffermata, nella valutazione del provvedimento disciplinare adottato, solo sulla questione della sproporzione del compenso determinato nel patto di quota lite, in quanto la possibilità offerta dal decreto Bersani di pattuire tariffe speculative si è accompagnata all’introduzione di particolari cautele sul piano deontologico, tese a prevenire il rischio di abusi commessi a danno del cliente e a precludere la conclusione di accordi iniqui.

Secondo la Cassazione, nel regime post decreto Bersani, «la proporzione e la ragionevolezza nella pattuizione del compenso rimangono l’essenza comportamentale richiesta all'avvocato, indipendentemente dalle modalità di determinazione del corrispettivo a lui spettante», secondo quanto previsto dall’art. 45 e dall’art. 43, punto II, in quel momento vigente.

Ma, e qui il ragionamento della Corte di cassazione non può essere in alcun modo condiviso, la proporzione del compenso all’attività svolta, in regime di libertà di pattuizione del compenso ed in mancanza di tariffe di riferimento, può essere valutata solo dalle parti.

Infatti, se è vero che «l’aleatorietà dell’accordo quotalizio non esclude la possibilità di valutarne l’equità», tale valutazione non può consistere, come sostiene la Corte, nel verificare se «la stima effettuata dalle parti era, all'epoca della conclusione dell'accordo che lega compenso e risultato, ragionevole o, al contrario, sproporzionata per eccesso rispetto alla tariffa di mercato, tenuto conto di tutti i fattori rilevanti, in particolare del valore e della complessità della lite e della natura del servizio professionale, comprensivo dell'assunzione del rischio». E ciò per la semplice ragione che, dopo il decreto Bersani, non esisteva più una tariffa e, tanto meno, una “tariffa di mercato” cui poter fare obiettivamente riferimento 9.

La questione, trasposta nell’attuale contesto normativo, alla luce della nuova legge professionale e del nuovo codice deontologico forense.

Come noto, l’art. 9, comma 1°, del d.l. n. 1/2012 (conv. in legge n. 27/2012), ha portato effettivamente a compimento l’abolizione delle «tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico», già rese non obbligatorie dal decreto Bersani, abrogando inoltre, al comma 5°, le «disposizioni vigenti che per la determinazione del compenso del professionista rinviano alle tariffe».

9 È infatti noto l’esclusione dell’obbligatorietà delle tariffe e la loro definitiva abrogazione, ha consentito (o costretto) gli avvocati a richiedere compensi per importi assai differenti, sebbene in relazione a prestazioni professionali di medesima natura e difficoltà.

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Lo stesso d.l., al comma 2°, ha poi previsto che «nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista è determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del ministro vigilante», che è stato poi emanato con d.m.

del Ministro della Giustizia, 20 luglio 2012, n. 140 e successivamente aggiornato dal d.m. 10 marzo 2014, n.55.

Il 2 febbraio 2013 è, quindi, entrata in vigore la legge n. 247 del 31 dicembre 2012, la quale, all’art. 13, ha previsto che «il compenso spettante al professionista è pattuito di regola per iscritto all’atto del conferimento dell’incarico professionale» (comma 2°) e che «la pattuizione dei compensi è libera» essendo «ammessa la pattuizione a tempo, in misura forfettaria, per convenzione avente ad oggetto uno o più affari, in base all’assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per l’intera attività, a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione» (comma 3°). Per la legge tornano poi ad essere «vietati i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa» (comma 4°); mentre «i parametri indicati nel decreto emanato dal Ministro della giustizia, su proposta del CNF, ogni due anni», prevede il comma 6°, «si applicano quando all’atto dell’incarico o successivamente il compenso non sia stato determinato in forma scritta, in ogni caso di mancata determinazione consensuale, in caso di liquidazione giudiziale dei compensi e nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell’interesse di terzi o per prestazioni officiose previste dalla legge» 10.

A fronte della nuova legge professionale il CNF ha adottato un nuovo Codice Deontologico Forense, approvato nella seduta del 31 gennaio 2014, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 16 ottobre 2014 e in vigore dal 15 dicembre 2014. Il quale, all’art. 25, «Accordi sulla definizione del compenso», prevede che «la pattuizione dei compensi, fermo quanto previsto dall’art. 29, quarto comma, è libera. È ammessa la pattuizione a tempo, in misura forfettaria, per convenzione avente ad oggetto uno o più affari, in base all’assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per l’intera attività, a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene il destinatario della prestazione, non soltanto a livello strettamente patrimoniale» (comma 1°); «sono vietati i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso, in tutto o in parte, una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa» (comma 2°).

10 Tali parametri sono stati indicati con Decreto del Ministero della Giustizia, 10 marzo 2014 n. 55, pubblicati in Gazzetta Ufficiale del 2 aprile 2014.

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Tale articolo, come emerge ictu oculi «mutua la previsione da quella della legge n.

247/2012 e reinserisce il divieto del patto di quota lite» 11, restituendo forza all’art.

1261 c.c.., rimasto anche in questa stagione legislativa invariato, e richiamando comunque l’immutato principio di proporzionalità del compenso, oggi affermato dall’art. 29, comma 4°, con la formula «l’avvocato non deve richiedere compensi o acconti manifestamente sproporzionati con l’attività svolta o da svolgere».

Le disposizioni appena richiamate, per quanto interessa in questa sede, tornano quindi ad imporre il divieto di patto di quota lite (a differenza del passato) in un regime di libera pattuizione scritta dei compensi e di abolizione delle tariffe professionali minime (ma con la previsione, in assenza di accordo scritto o comunque di mancata determinazione consensuale delle parti, di parametri ministeriali per la liquidazione del compenso in sede giudiziale); non ammettono (come invece in passato) il c.d. palmario, ossia «un supplemento di compenso, in aggiunta a quello previsto, in caso di esito favorevole delle lite», purché contenuto in limiti ragionevoli e giustificato dal risultato conseguito; consentono la determinazione del compenso «a percentuale» ma solo «sul valore dell’affare» oppure «su quanto si prevede possa giovarsene il destinatario della prestazione, non soltanto a livello strettamente patrimoniale». Disposizione, quest’ultima, che deve essere correttamente intesa per non risultare oltre che (all’evidenza e per lo più) impraticabile addirittura iniqua.

Invero il CNF, con orientamento di cui si dà atto anche nella sentenza qui commentata, ha già osservato che «l’accennata dicotomia legislativa deve essere intesa nel senso che la percentuale può essere rapportata al valore dei beni o agli interessi litigiosi, ma non lo può essere al risultato. In tal senso deve infatti interpretarsi l’inciso “si prevede possa giovarsene”, che appunto evoca un rapporto con ciò che si prevede e non con ciò che costituisce il consuntivo della prestazione professionale» 12.

Ebbene, posta la difficile praticabilità di un accordo che determini a priori il compenso in una percentuale rapportata al mero valore della controversia, deve (esclusivamente)

«ritenersi illecito l’accordo sul compenso stipulato (non a monte dell’incarico professionale, ma a valle di quest’ultimo, cioè) ad incarico pressoché terminato, ovvero allorché l’an ed il quantum della fattispecie contenziosa siano già stati di fatto delineati in entrambe le sue componenti 13.

Cosicché, ad esempio, deve invece ritenersi lecito l’accordo con il quale l’avvocato ed il cliente, al momento del conferimento dell’incarico e dunque ex ante, pattuiscano, oltre ad una somma a titolo di acconto e fondo spese, una percentuale del compenso

11 Presentazione ai Presidenti dei Consigli dell’Ordine e alle altre componenti dell’Avvocatura, CNF, Dossier n. 8/2014, p. 8.

12 CNF (Pres. f.f. Morlino, rel. Borsacchi), sentenza del 30 dicembre 2013, n. 225.

13 Come rilevato dallo stesso CNF, sentenza n. 225/2013 cit., che infatti, nel caso di specie, ha considerato illecito un accordo a percentuale sul compenso che era stato sottoposto al cliente per la firma allorquando il difensore già sapeva di aver raggiunto un accordo conciliativo di cui conosceva anche l’ammontare.

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parametrato all’importo che sarà riconosciuto in sentenza o comunque all’esito della lite (nell’evenienza di una transazione o di una conciliazione), poiché, evidentemente, ancora incerto nell’an e nel quantum prima di instaurare la controversia.

Rimane, tuttavia, ferma la necessità che il compenso o l’acconto siano proporzionati all’attività da svolgere, secondo quanto ora previsto dall’art. 29, comma 4° del nuovo Codice Deontologico, anche se, nel regime attuale, comunque improntato al principio di libera pattuizione del compenso, la valutazione di proporzionalità può non essere lasciata solo alle parti. Ed infatti, sebbene continuino a mancare delle tariffe professionali di riferimento, la sproporzione del compenso – che peraltro, è appena il caso di osservare, deve essere (per così dire) non mera ma manifesta – potrebbe essere valutata in relazione ai parametri ministeriali, oggi dettati da d.m. n. 55/2014.

Il tema assume ancor più interesse quando l’avvocato (nel contesto di crisi economica che caratterizza il nostro tempo, mancando un limite al possibile ribasso nella pattuizione del compenso), pur di ottenere un incarico da “grandi clienti” (normalmente Banche ed Assicurazioni), si abbandoni alle regole ed alle “tariffe di mercato” imposte da tali contraenti forti, costretto ad accettare (a volte in “stato di necessità”) una disciplina convenzionale dei compensi manifestamente sproporzionati rispetto alle prestazioni oggetto di incarico.

Conclusioni e prospettive de iure condendo.

La principale attenzione del legislatore dal 2006 ad oggi, nella prospettiva di liberalizzare il mercato, è stata quella di lasciare all’accordo scritto tra avvocato e parte assistita la libera pattuizione del compenso, abolendo, prima, i minimi tariffari e istituendo, poi, i parametri ministeriali, ai sensi dell’ultimo d.m. n. 55/2014, applicabili ove il compenso non sia stato determinato in forma scritta ed in ogni caso di mancata determinazione consensuale dello stesso.

Anche l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato è intervenuta in materia sanzionando il CNF, con il recente provvedimento del 22 ottobre /14 novembre 2014, in relazione alla circolare 22-C/2006 del 4 settembre 2006, con la quale – all’indomani del decreto Bersani, che ha reso non più obbligatorie le tariffe forensi – il CNF stesso aveva ammonito che nel caso in cui l’avvocato avesse concluso patti per un compenso inferiore al minimo tariffario, pur essendo il patto legittimo civilisticamente, essi avrebbero potuto risultare in contrasto con il codice deontologico, in quanto il compenso irrisorio, non adeguato, al di sotto della soglia ritenuta minima, avrebbe leso la dignità dell’avvocato e si sarebbe discostato dall’art. 36 Cost.

Come noto il CNF ha già comunicato l’intenzione di impugnare il provvedimento dell’AGCM innanzi al giudice amministrativo.

Il tema dei minimi tariffari (o del compenso minimo liquidabile in base ai parametri) è assai delicato, proprio dal punto di vista del decoro e della dignità della professione

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forense. Invero, in mancanza di minimi tariffari, il regime di libera pattuizione scritta del compenso, comporta il paradosso per cui se l’avvocato (spesso giovane) è contraente debole è costretto a firmare accordi capestro; se, invece, l’avvocato (spesso avviato) è contraente forte può imporre le proprie condizioni o evitare un accordo scritto, finendo poi per ottenere quanto meno l’applicazione dei parametri ministeriali, che rappresentano comunque il punto minimo di caduta dell’eventuale controversia giudiziale circa la determinazione del compenso.

Per tale ragione, da una parte, sarebbe ragionevole ripristinare meccanismi di riequilibrio della forza contrattuale delle parti che, già previsti in passato nella vigenza dei minimi tariffari e del divieto di patto di quota lite, sono tanto più auspicabili oggi, in un sistema che ha reintrodotto tale divieto, abolendo i minimi e lasciando alla pattuizione scritta delle parti la libera determinazione del compenso. E quindi, ad esempio, il c.d. palmario, ossia una somma di denaro, anche in percentuale all’importo riconosciuto alla parte in giudizio o comunque all’esito (transattivo o conciliativo) della lite, in aggiunta all’onorario.

Meritano, allora, di essere condivise le iniziative volte ad ottenere un necessario intervento legislativo, come quella elaborata dai Presidenti Distrettuali e delle Unioni territoriali degli avvocati e presentata all’ultimo Congresso Nazionale Forense (il XXXI, a Venezia, dal 9 all’11 ottobre 2014), del seguente tenore:

«All’art. 2233 c.c. è aggiunto il seguente comma 4:

È nullo qualsiasi patto nel quale il compenso sia manifestamente sproporzionato all’opera prestata ai sensi del comma II. Si presume manifestamente sproporzionata la pattuizione di un compenso inferiore rispetto ai parametri ministeriali applicabili alle professioni regolamentate nel sistema ordinistico o ai sensi dell’art. 13 comma VI della legge 247/2012 per la determinazione del compenso del professionista nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale. È altresì nulla qualsiasi pattuizione che vieti al professionista di pretendere acconti nel corso della prestazione o che gli imponga l’anticipazione di spese per conto del cliente. La nullità non opera nei rapporti professionali disciplinati dal codice del consumo».

Il successo di tale iniziativa potrà aiutare a ricondurre i compensi professionali in un quadro di certezze che le “fluttuazioni normative” e la crisi hanno fatto venir meno. E potrà evitare di spostare ingiustamente sul terreno disciplinare il tema del “giusto compenso”, dell’obbligo di corrispondere la remunerazione adeguata e proporzionata alle prestazioni professionali rese dal ceto forense, ridotto allo stremo dalla penuria di incarichi oltre che da balzelli, imposte e contributi.

Tanto che gli appartenenti all’antica ed eletta schiera, mentre si affermava il “mondo di mezzo”, sono stati definiti “proletariato avanzato”.

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