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Patologia neoplastica nell’anziano C 6

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Academic year: 2022

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Patologia neoplastica nell’anziano

Oscar Bertetto, Daniela Marenco, Fabio Gaspari

Introduzione

Il 15% della popolazione europea è ultrasessantacinquenne e il 55% dei casi di tumo- re si riscontra in questo gruppo di età.

L’età è un importante fattore di rischio per la malattia neoplastica. Negli Stati Uniti l’incidenza di neoplasie per i pazienti di età inferiore a 65 anni è di 222,9 per 100.000, per quelli di età uguale o maggiore di 65 anni è di 2196,1 per 100.000, con un rischio quin- di 10 volte superiore [1]. L’impatto del fattore di rischio età è ancora più evidente quan- do si considerano alcuni specifici tumori. Infatti, negli uomini, l’84% dei casi di tumo- re della prostata, il 73% dei casi di tumore del colon e il 63% dei casi di tumore del pol- mone si riscontra in questa fascia d’età. Nelle donne ultrasessantacinquenni i dati rela- tivi al tumore del colon (78%) e del polmone (61%) sono simili a quelli maschili, inol- tre il 50% dei casi di tumore delle mammella e il 49% dei tumori dell’ovaio colpisce tale fascia d’età. I dati del registro tumori americano rivelano che la vecchiaia è il “nor- male” momento della vita in cui si sviluppa un tumore. Si discostano da tale tendenza alcuni tumori che registrano il maggior picco di incidenza nei giovani, come il melanoma, alcuni tumori del sistema nervoso centrale, i tumori del testicolo, il linfoma di Hodg- kin, alcuni linfomi non Hodgkin e infine alcune forme di tumore tiroideo.

Il 67% di tutte le morti per cancro negli USA riguarda la fascia d’età ultrasessanta- cinquenne ed è significativamente aumentata negli ultimi 10 anni (meno di dieci anni fa, la percentuale era del 60%) con una punta del 90% per quanto riguarda il tumore della prostata [2].

Per quanto concerne l’Italia, prendendo in considerazione i dati dei Registri Tumo- ri di Genova, Torino, Trieste e Varese, si può osservare che la percentuale delle neopla- sie maligne è massima nella fascia d’età superiore ai 65 anni [3].

Inoltre è stato evidenziato che il numero di casi di malattia neoplastica non dia- gnosticati nel corso della vita del paziente aumenta con l’età. In uno studio di Suen su 3535 pazienti ultrasessantacinquenni, la percentuale di tumori diagnosticati solo al momento dell’autopsia era del 20,7% nella fascia di età compresa tra 66 e 75 anni e addirittura del 36,2% nel gruppo degli ultraottantaseienni [4]. Questo può suggerire che esistono negli anziani tumori relativamente “indolenti”, forse in relazione al loro ele- vato grado di differenziazione cellulare.

Da uno studio epidemiologico di Smith è emerso che la patologia neoplastica è responsabile del 40% dei decessi nella fascia di età compresa tra i 50 e i 69 anni, ma solo del 4% nei centenari [5]. Tale dato potrebbe essere in parte dovuto alla percen- tuale relativamente alta di casi non diagnosticati nei pazienti più anziani, ma viene confermato anche da uno studio autoptico italiano in cui si evidenzia una significati-

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va riduzione dell’incidenza di lesioni neoplastiche maligne dopo i 95 anni d’età [6]. In questa fascia di età estrema, inoltre, là dove presente, la patologia neoplastica diventa meno rilevante come causa di morte.

Peculiarità in oncologia

Nonostante il rischio di cancro aumenti con l’età, vi è scarso interesse clinico nei con- fronti di questo problema, dimostrato sia dall’elevata percentuale di casi non studiati o non diagnosticati sia dalla frequente esclusione dei pazienti anziani dai trial clinici.

È stato ben dimostrato che la mammografia e l’esame obiettivo di screening nelle donne asintomatiche tra i 50 e i 74 anni sono in grado di ridurre la mortalità per tumo- re della mammella, e nello stesso tempo si è evidenziato che vi è una diminuzione della compliance età-correlata delle raccomandazioni di screening. Il fenomeno può essere in alcuni casi dovuto a problemi clinici (comorbidità) o socio-economici delle pazienti anziane, in altri può essere la conseguenza della sola valutazione, da parte del medico, dell’età cronologica più che dell’età biologica della paziente. In uno studio di Marwill del 1996 si è evidenziato che l’età superiore ai 75 anni, la collocazione in nursing home, una demenza anche di grado lieve-moderato condizionano la decisione del medico di non sottoporre le pazienti a screening mammografico più delle limitazioni funzionali e delle patologie croniche [7].

In un’indagine condotta su un campione di 1.762 medici si è evidenziato che nei confronti dei pazienti più anziani, nel caso di sospetto tumore del colon, vi è spesso la tendenza a non consigliare approcci diagnostici invasivi a prescindere dai problemi di comorbidità del paziente stesso [8].

In una recente rassegna che analizza la rappresentazione delle diverse fasce d’età nei trial clinici oncologici, si dimostra come rispetto all’incidenza dei tumori i pazien- ti anziani siano generalmente sottorappresentati: solo il 39% degli uomini e il 25% delle donne ha un’età superiore ai 65 anni. Ciò è particolarmente evidente per gli uomini nel caso di tumore del polmone, del colon-retto, del pancreas e delle leucemie; analo- gamente, per le donne, nel caso di tumore del polmone, della mammella, del colon- retto, del pancreas, dell’ovaio. Le possibili spiegazioni del fenomeno comprendono: la difficoltà a inserire pazienti anziani in protocolli terapeutici che potrebbero essere tos- sici; la frequente presenza di comorbidità; le scarse aspettative di efficacia a lungo ter- mine sia da parte del medico che del paziente; le difficoltà logistiche e socio-economi- che spesso presenti in questa fascia di popolazione [9].

Si è precedentemente riportato che il ritardo nella diagnosi o addirittura la man- canza di diagnosi sono più frequenti tra i pazienti anziani e come questi fattori possa- no condizionare un inadeguato trattamento e un aumento della mortalità. Samet ha recentemente dimostrato che il ricevere cure mediche regolari, l’avere buone cono- scenze (informazioni) sul cancro e un buono stato funzionale sono fattori associati a una più alta probabilità di diagnosi di malattia in fase localizzata [10]. Goodwin ha inoltre evidenziato come il deterioramento cognitivo e inadeguate informazioni sulla patolo- gia neoplastica siano fattori associati a un aumento della mortalità indipendentemen- te rispetto alla stadiazione e al trattamento effettuati [11].

Uno degli elementi più difficilmente valutabili e che maggiormente condiziona e complica la gestione del paziente oncologico anziano è rappresentato dalle patologie

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concomitanti. In un recente studio condotto su pazienti ultrasessantacinquenni affet- ti da tumore del colon si è evidenziato che oltre il 40% dei pazienti presentava 5 o più patologie associate e che l’80% dei pazienti aveva almeno una patologia associata, con- siderata di moderato o grave impatto per la salute. Significativi si sono dimostrati essere: 1) la correlazione tra l’aumento del numero medio di patologie associate e l’au- mento dell’età, e 2) il modo in cui la gravità della comorbidità condiziona significati- vamente la mortalità [12].

Al concetto di comorbidità si devono aggiungere alcune considerazioni fisiopato- logiche dell’invecchiamento. Sono infatti note variazioni/alterazioni di farmacocineti- ca (assorbimento, volume di distribuzione, clearance renale, metabolismo epatico) e farmacodinamica degli agenti antitumorali, una più limitata riserva fisiologica, una diminuita efficacia del sistema immunitario che si aggiungono agli spesso limitati sup- porti sociali. Tali situazioni aumentano la complessità dell’approccio terapeutico e la valu- tazione della sua efficacia. È necessario quindi esaminare lo stato di salute del pazien- te, la comorbidità, lo stato funzionale e cognitivo, parametri che possono influenzare sia la farmacocinetica che i rischi anestesiologici e radioterapici. A tale scopo è necessario un lavoro di équipe fra oncologi, geriatri, chirurghi, radioterapisti e medici di famiglia:

solo così è possibile un trattamento sicuro ed efficace nei vecchi come nei giovani [13].

La valutazione multidimensionale

Le considerazioni sopra citate rendono ragione del fatto che l’invecchiamento, fase della vita in cui si verifica la più alta incidenza di patologie neoplastiche, è allo stesso tempo caratterizzato da una maggior fragilità funzionale oltre che da una maggiore presenza di polipatologia. La rottura dell’equilibrio e la comparsa della non autosufficienza dipen- dono da una serie di fattori interferenti, con modalità assai diverse da caso a caso, con la salute fisica e mentale, con la condizione socio-economica e ambientale.

L’assessment multidimensionale è considerato uno dei principi fondamentali e uni- ficanti della medicina geriatrica e rappresenta la parte principale dei programmi geria- trici, indispensabile per l’organizzazione della valutazione iniziale del paziente, per la creazione del programma di cure e per il monitoraggio delle modificazioni cliniche nel tempo. Può essere definito come “un processo diagnostico interdisciplinare multidi- mensionale” che ha l’intento di individuare le condizioni mediche, psicosociali, fun- zionali e i problemi degli anziani fragili e di sviluppare un programma generale per il trattamento e il follow up del paziente [14].

La valutazione geriatrica multidimensionale (VGM) comprende, oltre alla raccolta dei dati anagrafici e sociali, due scale di valutazione dello stato funzionale (Activities of Daily Living, ADL, e Instrumental Activities of Daily Living, IADL) e una scala per la valutazione dello stato cognitivo (Short Portable Mental Status Questionnaire, SPMSQ o Mini Mental State Examination, MMSE). Data la complessità delle problematiche del paziente oncologico la valutazione deve essere implementata dall’utilizzo del Karnofsky Performance Scale (KPS) e da una scala di valutazione della comorbidità. Mentre per quanto riguarda i precedenti strumenti di valutazione citati esistono ampi consensi e omogeneità nel loro utilizzo, la misura della comorbidità è oggetto di ampia discus- sione nella letteratura geriatrica più recente. Tra gli strumenti maggiormente utilizza- ti citiamo la Cumulative Illness Rating Scale (CIRS) e la Charlson Comorbidity Scale;

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entrambe sono state usate in numerosi setting e prevedono un elenco di patologie sud- divise per organi e apparati con un punteggio indicante la gravità della patologia stes- sa [15, 16].

In ambito oncologico i vantaggi della VGM sono rappresentati dalla possibilità di:

– valutare la spettanza di vita, basata sullo stato funzionale, la comorbidità, lo stato cognitivo, la presenza o assenza di sindromi geriatriche. In generale, tale valutazio- ne è critica soprattutto per i trattamenti per i quali i vantaggi sono evidenziabili solo a distanza di tempo, come per esempio i trattamenti adiuvanti per i tumori mammari e colorettali, il trattamento primitivo per il tumore della prostata o l’uso dei che- mioterapici in caso di mielodisplasia;

– applicare un linguaggio comune per la valutazione dei pazienti anziani; tale lin- guaggio è essenziale per comparare i risultati di trattamenti diversi e per la corret- ta valutazione dei risultati.

Chemioterapia nei pazienti anziani

Il fallimento di una terapia oncologica deriva spesso da una decisione affrettata e indi- viduale presa da un singolo medico; talvolta la terapia non viene portata a termine e dun- que fallisce prima ancora che se ne possa valutare l’efficacia o meno. È importante non dimenticare che la tradizionale risposta antitumorale non si traduce necessariamente in un reale vantaggio per il malato. L’obiettivo del trattamento resta comunque quello di offrirgli la migliore qualità di vita e ciò comporta il confrontarsi con le sue esigenze e le sue abitudini quotidiane.

L’esclusione, finora prevalente, da studi clinici controllati di pazienti d’età superio- re a 70 anni e l’esiguo numero di lavori in letteratura che riportino risultati suddivisi per fasce d’età non consentono di stabilire precise correlazioni tra età, risposta terapeuti- ca ai farmaci chemioterapici e durata della sopravvivenza.

In questi pazienti, un corretto uso degli agenti antineoplastici deve essere precedu- to da una scrupolosa valutazione dell’età biologica (Performance Status, patologie e trattamenti farmacologici concomitanti, condizioni psico-sociali) e quindi delle varia- zioni farmacocinetiche e farmacodinamiche che tali agenti subiscono in relazione alla loro distribuzione intra- ed extracellulare, per esempio per l’aumento del tessuto adi- poso o per la riduzione dell’albumina plasmatica, oppure per la presenza di un’altera- zione del metabolismo epatico o dell’escrezione renale.

Ottenere terapeuticamente il controllo della malattia neoplastica, la regressione o quanto meno l’arresto evolutivo delle lesioni tumorali, rappresenta il modo più efficace per migliorare la qualità della vita dei pazienti; pertanto, oggi, l’età cronologica in sé non è più da considerare un motivo sufficiente per rifiutare a un paziente anziano un trattamento potenzialmente curativo o quantomeno capace di palliare i sintomi con- nessi alla malattia.

Come nell’adulto, anche nell’anziano l’efficacia del trattamento citostatico è legato a un dosaggio adeguato dei farmaci impiegati: così avviene che una riduzione dell’at- tività antineoplastica si manifesti frequentemente per la decisione, spesso non giusti- ficata, di erogare dosi subottimali di chemioterapia (anche se questo si traduce in una diminuzione degli effetti collaterali). Per contro, può avvenire che l’utilizzo di dosi piene

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di citostatici in schemi più aggressivi, soprattutto se impiegati in pazienti anziani in scadute condizioni generali, determini una più elevata tossicità, con maggiore rischio di morbilità e mortalità da correlare alla terapia instaurata (anche se rimane difficile chia- rire il ruolo delle polipatologie e delle plurifarmacoterapie) [17].

In particolare, negli anziani ad alto rischio è necessario individuare il profilo del che- mioterapico in grado di minimizzare gli effetti collaterali. Il farmaco ideale dovrebbe avere le seguenti caratteristiche: 1) bassa incidenza (< 15%) di tossicità di grado 3°-4°; 2) ampio spettro di azione antineoplastica; 3) farmacocinetica prevedibile che permetta aggiustamenti di dose in base alla funzionalità epatica e renale. Quindi è più che mai auspicabile dispor- re in futuro di trial clinici “tagliati” su misura per questa fascia di pazienti oncologici, che possano rendere i dati generalizzabili a tutta la popolazione anziana.

Chirurgia geriatrica oncologica

La valutazione dell’indicazione e del rischio chirurgico del paziente anziano candida- to a intervento oncologico deve essere effettuata dal chirurgo, dall’oncologo, dal geria- tra, dal fisiatra e dall’assistente sociale: eventuali consulenze specialistiche rappresen- tano un’integrazione e un supporto alla valutazione collegiale. Scopo dell’intervento, oltre alla guarigione clinica, se possibile, è quello di mantenere o ripristinare l’auto- sufficienza. Questa va valutata singolarmente e rapportata al performance status del paziente prima della malattia, e alle sue condizioni sociofamiliari. Oltre alla correzio- ne di eventuali patologie associate, la preparazione del paziente oncologico chirurgico anziano deve comprendere la valutazione e la relativa preparazione alimentare, moto- ria, respiratoria. Il ricovero ospedaliero preoperatorio deve essere ridotto e l’espleta- mento degli esami preoperatori e la preparazione devono essere effettuati, per quanto possibile, ambulatorialmente. L’indicazione verso esami strumentali invasivi o che richiedano preparazioni complesse deve essere limitata. L’esito dell’esame deve forni- re un reale apporto diagnostico e non rappresentare una conferma di precedenti esami.

È opportuno che l’anestesia sia concordata con il team geriatrico; è auspicabile che vi siano uno o più anestesisti dedicati alla chirurgia geriatrica (come avviene per la chi- rurgia pediatrica) per le peculiari reazioni del paziente anziano ai vari tipi di anestesia.

Soprattutto nel grande vecchio, va privilegiata l’anestesia spinale anche per gli inter- venti endoaddominali (anestesia spinale alta) con posizionamento di catetere peridu- rale per l’analgesia postoperatoria al fine di evitare l’infusione sistemica di analgesici maggiori. Punto qualificante della chirurgia geriatrica è la dimissione precoce, se sus- sistono le condizioni cliniche e socio-ambientali favorevoli.

La radioterapia dei tumori dei pazienti in età senile

La radioterapia può rappresentare una valida metodica di cura per il paziente affetto da patologia oncologica [18].

Secondo dati raccolti dal Gruppo GROG (Gruppo Radioterapia Oncologia Geriatrica) il 55% dei pazienti radiotrattati ha un’età superiore a 60 anni e il 30% superiore a 70.

Esistono convincenti ragioni per considerare il paziente anziano eleggibile per una

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radioterapia primaria, per la mancata associazione di mortalità acuta al trattamento, per la possibilità di preservare la funzione dell’ organo di origine, a differenza di quello che può essere l’esito di un trattamento chirurgico.

Per contro gli svantaggi di un trattamento radiante possono essere rappresentati dalla durata (in genere, per i trattamenti radicali, da 6 a 7 settimane), dalla difficoltà, per motivi logistici, ad accedere al centro di radioterapia e dall’entità degli effetti collate- rali, che possono peggiorare la qualità di vita del paziente stesso.

La presenza di patologie concomitanti potrebbe amplificare il danno tissutale, e in caso di patologia d’organo cronica è consigliabile ridurre le dosi totali a tale organo per ridurre il rischio di danni permanenti. Anche in caso di irradiazioni di organi con campi ampi quali il polmone o l’intestino, è necessaria una riduzione della dose totale in presenza di patologie concomitanti quali il diabete, i disturbi vascolari o le patolo- gie infiammatorie croniche.

In assenza di queste condizioni la dose totale e il trattamento radiante non devono essere modificati nel paziente anziano.

Allo stesso modo, gli effetti collaterali sono sovrapponibili a quelli del giovane, anche se quando insorgono, se non trattati tempestivamente con farmaci sintomatici, possono avere un impatto maggiore per il particolare equilibrio generale del soggetto anziano.

La rete dei servizi

Le esigenze sanitarie della popolazione anziana sono spesso variamente intrecciate con problemi di ordine sociale e da essi in parte condizionate; inoltre, per la loro comples- sità e peculiarità, richiedono un’attenzione particolare. Tali considerazioni sono anco- ra più sentite nel caso di patologie croniche di importante rilievo quale quella neopla- stica. Il Progetto Obiettivo Anziani (POA), ripreso dal Piano Sanitario Nazionale per il triennio 1994-1996 [19], rappresentava un tentativo di rilanciare una filosofia di cura in cui la salute dell’anziano era vista come obiettivo globale dove gli aspetti fisici, menta- li, psicologici e sociali sono tra di loro integrati e inscindibili. Il Progetto partiva dal presupposto che un sistema sanitario basato sulla centralità dell’ospedale per acuti e il ricovero in istituzione come unica alternativa assistenziale per gli anziani disabili o privi di supporto familiare era troppo costoso e generalmente inadeguato alle nuove problematiche. Negli anni successivi questo problema si è ulteriormente aggravato. L’u- tilizzazione dei raggruppamenti diagnostici (DRG) nella valutazione di efficienza degli ospedali ha indotto dimissioni precoci e una generale contrazione delle degenze medie.

Questa tendenza è particolarmente problematica negli anziani, spesso dimessi in fase ancora instabile, affetti da malattie che richiedono cure continue. Sulla base di consi- derazioni sia etiche che economiche è stata generalmente avvertita l’esigenza di crea- re alternative al ricovero in ospedale e in istituto che permettessero di mantenere l’an- ziano al proprio domicilio in tutte le fasi della malattia. Da ciò è scaturito il concetto di rete di servizi, dove le componenti sociali e sanitarie della cura sono strettamente col- legate, cui hanno contribuito esperienze realizzate anche in altri Paesi europei.

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