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Academic year: 2022

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LA FELICITÀ E IL MALE

T53 Platone • Conoscere il bene e il male Gorgia, 468 D - 470 C; Carmide, 173 D - 174 E T54 Aristotele • Il fine ultimo delle azioni umane

e l’esercizio della razionalità

Etica Nicomachea, I, 7, 1097 a - 1098 a; X, 7, 1177 a - 1178 a

T55 Epicuro • Il tetrafarmaco: la filosofia e la felicità dell’anima

Lettera a Meneceo

T56 Seneca • La felicità deriva dalla virtù La felicità, 4

T57 Plotino • La vita perfetta dell’intelletto e il male come privazione

Enneadi, I, 4, 3; I, 8, 3

T58 Proclo • L’esistenza accidentale del male Sull’esistenza del male, 50

T59 Agostino d’Ippona • Il male come assenza di bene L’ordine, I

T60 Severino Boezio • La sapienza è la vera felicità

La consolazione della filosofia, II, 4; IV, 2 T61 Avicenna • L’ideale del filosofo:

diventare un mondo intelligibile Metafisica (dal Libro della Guarigione), X, 7 T62 Mosè Maimonide • L’origine del male

dalla materia

Guida dei perplessi, III, 10

T63 Boezio di Dacia • La felicità intellettuale del filosofo

Il sommo bene

T64 Dante Alighieri • La conoscenza è il nutrimento dell’uomo felice Convivio, I, 1

Bibliografia

PERCORSO

TEMATICO

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a felicità ha giocato un ruolo essenziale nel modo in cui i Greci hanno inteso la pratica della filosofia: la vita filosofica è infatti apparsa spesso come l’unica via che, risponden- do all’essenza più propria dell’uomo (quella di animale razionale), fosse in grado di condurlo alla sua autentica felicità. L’avvento delle grandi reli- gioni monoteistiche ha indubbiamente incrinato – senza tuttavia determinarne la scomparsa – que- sta convinzione, nella misura in cui ha collocato il conseguimento della felicità in un orizzonte che non dipendeva più esclusivamente dalle decisioni umane.

Direttamente (o specularmente) collegato al discorso sulla felicità è quello sul male; ma il pro- blema in questo caso è tutto sommato simile sia per gli autori pagani sia per quelli islamici o cri- stiani: come si spiega la presenza del male in un mondo che si presuppone ordinato e razionale, di per sé (intrinsecamente), oppure in quanto pro- dotto da uno o più princìpi, a cui sembra impossi- bile attribuire una qualsiasi imperfezione?

Nel Gorgia, che è tra i dialoghi giovanili di Platone [uT53], la questione del male si inseri- sce in un discorso più ampio – quello del potere esercitato dal tiranno e dell’invidia che esso

genera in quanti considerano un bene l’agire esclusivamente sulla base della propria volontà.

Non esiste, invece, secondo uno dei protagonisti del dialogo, Socrate, male peggiore dell’essere artefici di ingiustizie. A questo si potrebbe colle- gare un altro passo platonico, tratto anch’esso da un dialogo giovanile, il Carmide, in cui si legge che è felice solamente colui che agisce conoscen- do cosa siano il bene e il male.

La felicità è invece secondo Aristotele [uT54] l’unico bene che venga perseguito in vista di sé stesso e sia, in quanto tale, assolutamente auto- sufficiente. Ma nella caratterizzazione aristotelica della felicità c’è anche altro: essa viene esplicita- mente presentata come l’attività dell’anima che si esplica secondo la disposizione più eccellente di ciascuno, con il risultato che la felicità maggiore consiste nell’esercizio che divinizza l’uomo, e cioè quello dell’attività speculativa.

La Lettera a Meneceo di Epicuro [uT55], gene- ralmente nota come Lettera sulla felicità, è tra le più celebri testimonianze ellenistiche intorno a questo tema: è possibile raggiungere la felicità – sostiene Epicuro – attraverso la filosofia, concepi- ta come una vera e propria pratica di vita, che si specializza in quattro “esercizi” fondamentali.

L

La felicità

e il male

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Affrontando il tema della felicità da una pro- spettiva essenzialmente stoica, Seneca [uT56] fa coincidere nella Felicità la vita beata con la virtù:

è quest’ultima che pone nell’animo umano “fon- damenta” talmente “salde” da far perdere di valo- re ogni altra cosa al di fuori di sé, garantendo in questo modo la liberazione dal dominio delle pas- sioni e dai turbamenti che ne conseguono.

Nel quarto trattato della I Enneade, Plotino [u T57] pone invece una perfetta corrispondenza fra contemplazione e felicità: la felicità è la vita pro- pria dell’intelletto, di cui partecipa ogni altro genere di vita. Quanto al male, secondo Plotino, esso non è che il risultato del depotenziarsi del bene; e non si darà, allora, se non un solo modo per descriverlo, e cioè quello di considerarlo come privazione, mancanza di misura, o povertà – tutti caratteri antitetici al bene.

Distaccandosi da Plotino, Proclo [u T58] ritie- ne che il male non derivi in alcun modo dai princì- pi superiori (nel caso di Plotino, dall’anima-natu- ra). Proprio perché non possiede un’esistenza reale, ma solo una “quasi-esistenza”, il male deri- va solo (come un effetto collaterale) dal mancato raggiungimento del fine che gli agenti si erano proposti.

Anche Agostino [uT59] si chiede come sia pos- sibile giustificare la presenza del male nell’ordine universale voluto da Dio. Più che essere una real- tà sussistente, il male indica l’assenza di quel bene che ogni cosa potrebbe possedere in misu- ra maggiore.

Ritroviamo nella Consolazione della filosofia di Severino Boezio [uT60] tanto il tema tipicamen- te greco-pagano della filosofia come unica attivi- tà che garantisca di per sé (e cioè a prescindere dalle circostanze esterne) il raggiungimento della felicità, quanto la tesi neoplatonica del male come privazione e mancanza di ordine.

La filosofia continua ad essere esplicitamente associata alla felicità anche nella riflessione di Avicenna [uT61]: l’anima raggiunge la perfezio- ne quando, conoscendo gradualmente ogni livel- lo del reale, diventa essa stessa un “mondo intel- ligibile”, in cui si ridisegnano (sono cioè presenti) la forma e l’ordine di tutto l’esistente.

Il discorso sull’origine del male conduce Maimònide [u T62] nella Guida dei perplessi a concludere che il male non può derivare da Dio, perché Dio causa soltanto ciò che è esistente. Si dovrà dunque far derivare il male, che è privazio- ne, da altro, e cioè dalla materia.

Dell’ideale della felicità intellettuale resta un’im- portante (se non la più importante) traccia nel Sommo bene di Boezio di Dacia [uT63]: il filoso- fo è presentato in questo contesto come l’unico che sia in grado di realizzare appieno l’esercizio della razionalità. L’implicazione è anche un’altra, e cioè che il filosofo sia per di più il solo a vivere secondo il giusto ordine di natura e a non peccare.

A chiudere questo percorso è un passo del Convivio di Dante [u T64]: la felicità procede in parallelo con il soddisfacimento del naturale desi- derio di conoscere, che è comune a tutti gli uomini.

Secondo uno dei protagonisti del Gorgia, Polo, il tiranno è oggetto di invidia, perché ha il potere di fare qualsiasi cosa desideri. Diversa è l’opinione di Socrate: il tiranno, non attenendosi a criteri stabili di giustizia e di ingiustizia, e quindi agendo soltanto sulla base della propria volontà,

non può affatto essere oggetto di invidia;

egli si macchia, anzi, del peggiore dei mali – quello di commettere ingiustizia. La conclusione socratica è a questo punto inequivocabile:

è preferibile subire ingiustizia, piuttosto che esserne responsabili.

T 53 Platone Conoscere il bene e il male

Gorgia, 468 D - 470 C; Carmide, 173 D - 174 E

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Socrate Una volta accordatici su questo, se uno uccide o manda in esilio o confisca beni, tiranno o retore che sia, pensando che per lui questo sia meglio, e gli accade invece che sia male, costui fa senza dubbio quello che gli sembra. O no?

Polo Sì.

[...]

Socrate Già, ma come si potrà dire allora ch’egli abbia gran potere nelle città, se il gran pote- re, come tu stesso hai ammesso, è un bene?

Polo Non si può dire.

Socrate Ero nel vero, allora, quando dicevo che può darsi il caso di un uomo che faccia nella città tutto quel che gli sembra, senza, con questo, avere gran potere né fare quello che vuole.

Polo Ma via, Socrate, come se poi non t’importasse nulla di avere o no la possibilità di fare nella città tutto quello che ti sembra, e non avessi invidia quando vedi uno mandare a morte chi gli pare o confiscargli i beni o cacciarlo in prigione!

Socrate Ma giustamente o ingiustamente: che dici?

Polo Comunque lo faccia, nell’uno o nell’altro caso non è ugualmente oggetto di invidia?

Socrate Sta attento a come parli, Polo!

Polo Perché?

Socrate Perché non bisogna invidiare chi non è affatto da invidiare, né invidiare bisogna i miserabili, né compiangerli.

Polo Ma come, ti sembra che debbano essere compianti gli uomini di cui parlo?

Socrate Come no?

Polo Qualsivoglia uomo, dunque, manda a morte chi gli pare, e giustamente, ti sembra un miserabile, degno di compianto?

Socrate No! Ma neppure da invidiare.

Polo Ma non sostenevi proprio ora che è un miserabile?

Socrate Chi ingiustamente uccide, sì, mio caro compagno, è anche oggetto di compianto!

Mentre chi manda a morte giustamente non è certo da invidiare.

Polo Davvero degno di compianto, miserabile davvero, è chi viene ucciso ingiustamente!

Socrate Meno di chi uccide, Polo, e meno di chi è giustamente ucciso.

Polo Ma che vuoi dire, Socrate?

Socrate Che il supremo male, il male peggiore che possa capitare, è commettere ingiustizia.

Polo Ma come, questo il male supremo? Ma non è un male ancora più grande patire ingiu- stizia?

Socrate Niente affatto!

Polo Ma tu, tu vorresti piuttosto patire che commettere ingiustizia?

Socrate Non vorrei né patirla né commetterla, ma, tra le due, se fossi costretto a scegliere, preferirei piuttosto patire che commettere ingiustizia.

Polo Tu, dunque, non vorresti essere tiranno?

Socrate No! Se dài a tiranno il significato che a tiranno do io.

Polo Ma io do a tiranno il significato che già ora dicevo: esser tiranno significa, per me, avere il potere di fare nella città quello che a uno sembra, mandare a morte, in esilio, far, insomma, tutto secondo il proprio arbitrio.

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Ritroviamo nel Carmide la questione di cosa renda effettivamente beato l’uomo. Ciò che dà la felicità è per Platone il fatto di vivere secondo la conoscenza

del bene e del male e regolare le proprie azioni sulla base di questa conoscenza.

«Eppure», riprese quello, «non troverai facilmente qualche altro fine della felicità se rifiuti quello di vivere secondo scienza.»

«Un momento. Una piccola spiegazione ancora», dissi. «Secondo scienza di che cosa, vuoi dire? Scienza di tagliare il cuoio?»

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«No, per Giove.»

«Di lavorare il bronzo?»

«Neppure.»

«La lana, il legno o simili?»

«No certo.»

«Ma allora», dissi io, «non stiamo più nel nostro ragionamento per il quale è beato chi vive secondo scienza. Vedi, costoro, che pur vivono secondo scienza, tu non li consideri beati, ma, a quanto mi sembra, limiti l’uomo beato a quello che vive secondo una ben determinata scienza. E forse tu pensi a quello che nominavo poco fa, colui che conosce il futuro, l’indo- vino. A questo pensi o a un altro?»

«Anche a questo», disse, «e anche ad altro.»

«Chi?», ripresi. «Forse uno che oltre al futuro conoscesse anche il passato e il presente e non ignorasse nulla? Supponiamo che un tale uomo esista. Ecco: un uomo con più scienza di lui non vive sulla Terra; penso che lo potresti ammettere.»

«Certo.»

«Un’altra cosa desidero. Quale delle scienze lo fa beato? O contribuiscono tutte ugualmen- te alla sua felicità?»

«Non ugualmente.»

«E allora quale più di tutte? Quella attraverso la quale conosca una determinata cosa del presente, del passato e del futuro? Forse quella attraverso la quale conosca il gioco dei dadi?»

«Ma che dadi!», disse.

«Quella attraverso la quale conosca il calcolo?»

«Neppure.»

«La salute?»

«Piuttosto», rispose.

«Ma quella che io dico, quella che più di tutte è in grado di farlo beato, qual è?»

«Quella attraverso la quale egli conosca il bene e il male.»

«Disgraziato!», esclamai. «Da un pezzo tu mi fai girare attorno e mi nascondi che non è il vivere secondo scienza a fare la felicità e la beatitudine e nemmeno la scienza di tutte quan- te le altre scienze, ma una sola scienza, quella del bene e del male. Perché se tu togli questa scienza dal novero delle altre scienze, forse la medicina sarà meno capace di guarire, la calza- tureria di calzarci, la tessitura di vestirci, e la nautica ci impedirà di morire nel mare come la strategia nella guerra?»

«Nient’affatto», rispose.

«Però, caro Critia, la buona esecuzione di ognuna di esse e l’utilità verrà meno quando questa manchi. È vero.»

«Ma, a quanto sembra, questa scienza, il cui compito è la nostra utilità, non è saggezza.

Infatti, questa scienza non è la scienza delle scienze e dell’ignoranza, ma è scienza del bene e del male: se dunque quest’ultima ci è

utile, la saggezza sarà qualcosa d’altro per noi.»

«E perché», disse, «non dovrebbe esserci utile anche la saggezza? Se infat- ti la saggezza è scienza delle scienze e presiede a tutte le altre scienze, appena essa governasse anche questa scienza del bene e del male, ci sarebbe utile.»

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guida alla lettura

1. Individua i concetti fondamentali alla base della discus- sione sul male.

2.Chi è davvero “miserabile” secondo Socrate?

3.Patire e commettere ingiustizia: spiega le posizioni dei due interlocutori a tal riguardo.

4.Che cosa si intende per “vivere secondo scienza”? Qual è la scienza in questione?

5.Le altre scienze dipendono in qualche modo dalla “scien- za del bene e del male”?

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Tuttavia, se pur il dire che la felicità è il sommo bene sembra qualcosa di ormai concordato, tuttavia si sente il bisogno che sia ancor detto qualcosa di più preciso intorno alla sua natura.

Potremo riuscirci rapidamente, se esamineremo l’opera dell’uomo. Come infatti per il flautista, il costruttore di statue, ogni artigiano e insomma chiunque ha un lavoro e un’attività, sembra che il bene e le perfezione risiedano nella sua opera, così potrebbe sembrare anche per l’uomo, se pur esiste qualche opera a lui propria. […] E quale sarebbe dunque questa? Non già il vive- re, giacché questo è comune anche alle piante, mentre invece si ricerca qualcosa che gli sia pro- prio. Bisogna dunque escludere la nutrizione e la crescita. Seguirebbe la sensazione, ma anche questa sembra esser comune al cavallo, al bue e ad ogni animale. Resta dunque una vita atti- va propria di un essere razionale. E di essa si distingue ancora una parte obbediente alla ragio- ne, un’altra che la possiede e ragiona. Potendosi dunque considerare anche questa in due maniere, bisogna considerare quella in reale attività: questa infatti sembra essere superiore. Se

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L’impostazione teleologica che è alla base della filosofia naturale di Aristotele contraddistingue anche la sua filosofia pratica: ogni azione umana tende verso un fine principale, che funge da “fuoco prospettico” per gli altri, nella misura in cui è a esso che gli altri si orientano. Questo fine ultimo

è la felicità, di cui fin dal I libro dell’Etica Nicomachea vengono presentati i caratteri fondamentali: la felicità – spiega Aristotele – è un bene perfetto e autosufficiente, ovvero un bene che si persegue sempre e solo in vista di sé (e mai di altro).

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Poiché dunque i fini appaiono esser numerosi, e noi scegliamo alcuni di essi solo in vista d’al- tri, […] è evidente che non tutti sono fini perfetti mentre il sommo bene dev’essere qualcosa di perfetto. Cosicché, se vi è un solo fine perfetto, questo è ciò che cerchiamo, se ve ne sono di più esso sarà il più perfetto di essi. Noi diciamo dunque che è più perfetto il fine che si persegue di per sé stesso che non quello che si persegue per un altro motivo e che ciò che non è scelto mai in vista d’altro è più perfetto dei beni scelti contemporaneamente per sé stes- si e per queste altre cose, e insomma il bene perfetto è ciò che deve essere sempre scelto di per sé e mai per qualcosa d’altro. Tali caratteristiche sembra presentare soprattutto la felicità;

infatti noi la desideriamo sempre di per sé stessa e mai per qualche altro fine; mentre invece l’onore e il piacere e la ragione e ogni altra virtù li perseguiamo bensì di per sé stessi […], tuttavia li scegliamo anche in vista della felicità, immaginando di poter esser felici attraverso questi mezzi. Invece la felicità nessuno la sceglie in vista di questi altri beni, né in generale in vista di qualcosa d’altro. […] Il bene perfetto sembra infatti essere autosufficiente. […]

Tale dunque pensiamo essere la natura della felicità, cioè il bene preferibile a tutti, senza che altri elementi gli si debbano aggiungere. Se infatti così fosse, è evidente che essa sarebbe suscettibile di diventar preferibile attraverso l’aggiunta di un altro bene, sia pure il più picco- lo; infatti l’aggiungere dei beni provoca aumento e, più grande è il bene, più esso è desidera- bile. Insomma la felicità appare essere qualcosa di perfetto e di autosufficiente, essendo il fine delle azioni.

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Aristotele Il fine ultimo delle azioni umane e l’esercizio della razionalità

Etica Nicomachea, I, 7, 1097 a - 1098 a; X, 7, 1177 a - 1178 a

Il bene – precisa a questo punto Aristotele – non è una forma (nel senso platonico), un oggetto da possedere, o un criterio valido per tutti: esso è piuttosto un’attività. e più precisamente, è l’attività dell’anima secondo la “virtù”, cioè secondo la disposizione o la funzione più eccellente di

ciascuno. Poiché esistono disposizioni diverse, esisteranno anche forme diverse di felicità.

La più elevata tra tutte (senza che le altre vengano in alcun modo annullate) sarà comunque la felicità che consegue dalla funzione più propria dell’uomo – l’esercizio della razionalità.

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Nel X libro della stessa Etica Nicomachea, l’attività speculativa viene presentata come ciò

che permette agli uomini, almeno entro certi limiti,

di partecipare del divino (nella misura

in cui quest’ultimo è pura attività del pensare).

Se dunque la felicità è un’attività conforme a virtù, logicamente essa sarà conforme alla virtù superiore; e questa sarà la virtù della parte migliore dell’anima. Sia dunque essa l’intelletto oppure qualcosa d’altro, che per natura appaia capace di comandare e guidare e avere nozione delle cose belle e divine o perché esso stesso divino o perché è la parte più divina di ciò che è in noi, comunque la felicità perfetta sarà l’attività di questa parte, conforme alla virtù che le è propria. Che essa sia l’attività contemplativa è stato detto. […] Quest’attività è infatti la più alta; infatti l’intelletto è tra le cose che sono in noi quella superiore, e tra le cose conoscibili le più alte sono quelle a cui si riferisce il pensiero. Ed è anche l’attività più continua; noi infatti possiamo contemplare più di continuo di quanto non possiamo fare qualsiasi altra cosa.

Pensiamo poi che alla felicità debba essere congiunto il piacere e si conviene che la migliore delle attività conformi a virtù è quella relativa alla sapienza; sembra invero che la filosofia apporti piaceri meravigliosi per la loro purezza e solidità; ed è logico che il corso della vita sia più piacevole per chi conosce che non per chi ancora ricerca il vero. E l’autosufficienza di cui abbiamo parlato si troverà soprattutto nell’attività contemplativa. […] Inoltre sembra che l’at- tività contemplativa sia la sola ad essere amata per sé stessa; infatti da essa non deriva alcun altro risultato all’infuori del contemplare, mentre dalle attività pratiche ricaviamo sempre qual- cosa, più o meno importante, oltre all’azione stessa. […] Se invece l’attività dell’intelletto, essendo contemplativa, sembra eccedere per dignità e non mirare a nessun altro fine all’infuo- ri di essa e avere un proprio piacere perfetto (che accresce l’attività) ed essere autosufficiente, agevole, ininterrotta […]: allora questa sarà la felicità perfetta dell’uomo, se avrà la durata inte- ra della vita. Infatti in ciò che riguarda la felicità non può esservi nulla di incompiuto. Ma una tale vita sarà superiore alla natura dell’uomo; infatti non in quanto uomo egli vivrà in tale maniera, bensì in quanto in lui v’è qualcosa di divino […]. Non bisogna però seguire quelli che consigliano che, essendo uomini, si attenda a cose umane ed, essendo mortali, a cose mor- tali, bensì per quanto è possibile, bisogna farsi immortali e far di tutto per vivere secondo la parte più elevata di quelle che sono in

noi; se pur infatti essa è piccola per estensione, tuttavia eccelle di molto su tutte le altre per potenza e valore. E se essa è la parte dominante e migliore, sembrerebbe che ciascuno di noi consi- sta proprio in essa; sarebbe quindi assur- do se l’uomo scegliesse non la vita a lui propria, bensì quella propria di altri […]. E questo modo di vita sarà dunque anche il più felice.

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propria dell’uomo è dunque l’attività dell’anima secondo ragione, o non senza ragione, e se diciamo che questa è l’opera del suo genere e in particolare di quello virtuoso […]; se è così, noi supponiamo che dell’uomo sia proprio un dato genere di vita, e questa sia costituita dal- l’attività dell’anima e delle azioni razionali, mentre dell’uomo virtuoso sia proprio ciò, compiu- to però secondo il bene e il bello, in modo che ciascun atto si compia bene secondo la propria virtù. Se dunque è così, allora il bene proprio dell’uomo è l’attività dell’anima secondo virtù, e se molteplici sono le virtù, secondo la migliore e la più perfetta. E ciò vale anche per tutta una vita completa. Infatti una sola rondine non fa primavera, né un solo giorno; così neppure una sola giornata o un breve tempo rendono la beatitudine o la felicità.

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guida alla lettura

1. Esiste, secondo Aristotele, un solo fine oppure una serie gerarchicamente ordinata di fini?

2.Quali sono le caratteristiche della felicità?

3.In che cosa consiste il bene più proprio dell’uomo?

4.Perché Aristotele afferma che quella contemplativa è l’at- tività più elevata?

5.Elenca i caratteri fondamentali dell’attività contemplativa.

6.Qual è l’implicazione dell’attività contemplativa, o di una vita felice?

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La Lettera a Meneceo di Epicuro si apre con un invito a filosofare, che rende subito chiaro il rapporto di perfetta simmetria sussistente fra la filosofia, da una parte, e la felicità o la salute dell’anima, dall’altra; la filosofia è, anche nel suo aspetto teoretico, una forma o una pratica di vita, che si specializza nel cosiddetto tetrafarmaco, un quadruplice rimedio in grado di assicurare di per sé la felicità: 1. non aver timore degli dèi; 2. non aver paura della morte;

3. ritenere il piacere facilmente conseguibile;

4. ritenere il dolore fisico facilmente tollerabile, o tale da scomparire con la morte stessa.

La prima parte della Lettera a Meneceo – che qui riportiamo – si concentra su quelle credenze fallaci, dalle quali è opportuno liberarsi, perché

costituiscono inutili fonti di turbamento: il timore che gli dèi intervengano con premi e castighi nelle vicende umane e la paura della morte.

T 55

Nessuno, mentre è giovane, indugi a filosofare, né vecchio di filosofare si stanchi: poiché ad acquistarsi la salute dell’animo, non è immaturo o troppo maturo nessuno.

E chi dice che ancor non è venuta, o già passò l’età di filosofare, è come dicesse che d’es- ser felice non è ancora giunta l’età o già trascorse. Attendano dunque a filosofia, e il giovane ed il vecchio; questi affinché nella vecchiezza si mantenga giovine in felicità, per riconoscen- te memoria dei beni goduti, quegli affinché sia ad un tempo giovane e maturo di senno, per- ché intrepido dell’avvenire. Si mediti dunque su quelle cose che ci porgono la felicità; perché se la possediamo, nulla ci manca, se essa ci manca, tutto facciamo per possederla.

Medita perciò e pratica le massime che sempre ti diedi, ritenendole gli elementi di una vita bella. Anzitutto considera la divinità come un essere vivente incorruttibile e beato, secondo attesta la comune nozione del divino,– e non le attribuire nulla contrario all’immortalità, o discorde dalla beatitudine. Ritieni vero invece intorno alla felicità, tutto ciò che possa conser- varle la beatitudine congiunta a vita immortale. Poiché gli dèi certo esistono – evidente infat- ti n’è la conoscenza – ma non sono quali il volgo li crede; perché non li mantiene conformi alla nozione che ne ha. Non è perciò irreligioso chi gli dèi del volgo rinnega, ma chi le opi- nioni del volgo applica agli dèi. Pertanto dagli dèi ritraggono i maggiori danni gli stolti e mal- vagi, ed i maggiori beni i buoni e saggi; perché questi, adusati alle proprie virtù, comprendo- no e si fanno cari i loro simili, e ciò che vi discorda stimano alieno.

Abituati a pensare che nulla è per noi la morte: in quanto ogni bene e male è nel senso, laddove la morte è privazione del senso. Perciò la retta conoscenza che la morte è nulla per noi, rende gioibile la mortalità della vita: non che vi aggiunga indeterminato tempo, ma sgombra l’<immediato> rimpianto dell’immortalità. Nulla infatti nella vita è temibile, per chi sinceramente è persuaso che nulla di temibile ha il non viver più. È perciò stolto chi dice di temer la morte non perché venuta gli dorrà, ma perché prevenuta l’addolora: infatti quello che presente non ci turba, stoltamente, atteso, ci angustia. Il più orribile dei mali, la morte, non è dunque nulla per noi; poiché quando noi siamo, la morte non c’è, e quando la morte c’è, allora noi non siamo più. E così essa nulla importa, né ai vivi né ai morti, perché in quelli non c’è, questi non sono più. Invece, la maggior parte ora fuggono la morte come il maggio- re dei mali, ora <la desiderano> come requie <dei mali> della vita; <ma il saggio né ricusa la vita>, né accusa la morte; perché la vita non è per lui un male, né crede un male non più vive- re. Ma come dei cibi non preferisce senz’altro i più abbondevoli, ma i più gradevoli; così non il tempo più durevole, ma il più piacevole, gli è dolce frutto.

[...] Allora, si ricordi, che il futuro non è né nostro, né interamente non nostro: onde non abbiamo ad attender- celo sicuramente come se debba avveni- re, e non disperarne come se sicura- mente non possa avvenire.

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Epicuro Il tetrafarmaco: la filosofia e la felicità dell’anima

Lettera a Meneceo

guida alla lettura

1. Qual è, secondo Epicuro, la “comune nozione del divino”?

2.In che modo deve essere intesa la morte? E perché non bi- sogna temerla?

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Tra i Dialoghi che Seneca compone prima del suo congedo dalla vita pubblica ne figura uno dedicato a La felicità. Ciò che Seneca stabilisce in esso è una perfetta corrispondenza fra la felicità e la virtù,

intesa come l’unico bene che non sia soggetto alla sorte, e in quanto tale garantisca la liberazione dal dominio delle passioni e dei turbamenti che ne derivano.

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La definizione del sommo bene può essere alle volte ampliata ed estesa, alle volte concentra- ta e condensata. Sarà perciò la medesima cosa se dirò: “Il sommo bene è un animo che guar- da con disprezzo quanto dipende dalla fortuna, ed ha la sua gioia di vivere nella virtù” oppu- re: “è una forza d’animo invincibile, ricca di esperienza, che nell’agire associa la calma a molta umanità e sollecitudine per il prossimo”. Si può anche definirlo così: è felice l’uomo per il quale non ci sono altro bene e altro male che non siano l’animo buono e quello malvagio, l’uomo amante del bene morale, pago della virtù, che non può essere né esaltato né spezzato da quanto dipende dalla fortuna, che non conosce nessun bene più grande di quello che lui da solo può darsi, l’uomo per il quale il vero piacere sarà il disprezzo dei piaceri. Si può […]

ricorrere per il medesimo concetto a metafore sempre diverse, conservandone intatto il signi- ficato; che cosa, infatti, ci proibisce di definire “felicità” un animo libero e teso verso l’alto e intrepido e fermo, posto fuori della paura, fuori del desiderio; per il quale l’unico bene sia la conformità al bene morale, l’unico male l’immoralità, tutto il resto una massa di cose senza valore, che non toglie né aggiunge alcunché alla felicità, che viene e va senza accrescere né diminuire il sommo bene? Questo animo con così salde fondamenta è inevitabilmente, lo voglia o no, accompagnato da una allegria continua e da una gioia profonda e che viene dal profondo, giacché esso gioisce intimamente di ciò che è suo e non vuole avere cose più gran- di di quelle che sono sue proprie. Perché codesti beni non dovrebbero, per esso, compensare pienamente i movimenti, senza valore, importanza e durata, di un corpo da niente? Il giorno in cui esso sarà al di sotto del piacere, sarà anche al di sotto del dolore; e vedi di che cattiva e dannosa schiavitù sia destinato a esse-

re schiavo colui che piaceri e dolori, i tiranni più capricciosi, e i più prepoten- ti, avranno alternativamente in loro possesso: perciò bisogna uscirne, verso la libertà.

Seneca La felicità deriva dalla virtù

La felicità, 4

guida alla lettura

1. Definisci il sommo bene, sintetizzando le varie indicazio- ni fornite da Seneca.

2.Quale guadagno ottiene l’animo virtuoso?

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Nel quarto trattato della I Enneade di Plotino, la natura della felicità viene determinata in modo diverso a seconda della vita che si prende in considerazione. In senso stretto, la felicità appartiene soltanto al nùs: è la vita piena, reale

e perfetta dell’intelletto. Ma dell’abbondanza e della verità della vita intelligibile partecipa ogni altro genere di vita, così come la copia o il riflesso partecipa, sia pure in modo debole e imperfetto, del suo modello.

T 57 Plotino La vita perfetta dell’intelletto e il male come privazione

Enneadi, I, 4, 3; I, 8, 3

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Noi tuttavia vogliamo stabilire una volta per tutte cosa intendiamo per felicità, cominciando dall’inizio.

Supponendo che la felicità consista nella vita, se intendessimo “vita” univocamente, attri- buiremmo a tutti gli essere viventi la capacità di essere felici, ed il vivere bene in atto a quel- li in cui è presente un’unica e medesima capacità che tutti gli esseri viventi sono in grado naturalmente di acquisire, e non concederemmo questo potere all’essere razionale per poi negarlo all’irrazionale. La vita infatti sarebbe una caratteristica comune ad entrambi, che in virtù della sua stessa capacità tenderebbe alla felicità, se proprio si debba fondare la felicità su un certo genere di vita. Per questo, credo, quanti dicono che la felicità consiste nella vita razionale e non la pongono nella vita in generale, non si rendono conto di non ammettere più che la felicità sia la vita. Perciò sarebbero costretti a dire che la facoltà razionale, a cui è unita la felicità, è una qualità. Ma per loro il fondamento è la vita razionale; poiché la felicità è unita a questa come ad una totalità […].

Pertanto, dato che il termine “vita” esprime una molteplicità di significati – la differenza si ha a seconda che sia una vita di primo grado, di secondo, e così via – e poiché il termine “vita”

è equivoco – è usato in un modo per le piante e in un altro per l’anima irrazionale; la diffe- renza in questo caso consiste nel maggior grado di chiarezza o di oscurità della loro vita –, è allora evidente che avviene lo stesso anche per il vivere bene. E se una cosa è immagine di un’altra, è evidente che anche il vivere bene dell’una è, a sua volta, immagine del vivere bene dell’altra. Se poi il vivere bene appartiene a chi ha un’abbondanza di vita – vale a dire a un essere in cui la vita non manca di nulla –, la felicità apparterrà unicamente al vivente che ha vita in abbondanza; poiché questo avrà veramente ciò che è ottimo, se è vero che tra gli esse- ri ciò che è ottimo si realizza nella vita, ed è appunto la vita perfetta. Così infatti il bene non sarà qualcosa di avventizio, né qualcosa di diverso dal proprio sostrato, che provenga da un altro luogo e lo porti nel bene. E cosa si potrebbe davvero aggiungere ad una vita perfetta per renderla ottima? […]

Si è detto molte volte che la vita perfetta, vera, reale, risiede in quella natura intelligibi- le, e che le altre vite sono imperfette, pallidi fantasmi di una vita né pura né perfetta: vite insomma che non hanno più vita del loro contrario. E adesso lasciateci dire, in breve, che finché tutti gli esseri viventi derivano da un unico principio, senza tuttavia che gli altri abbiano un eguale grado di vita di quello, è necessario che tale principio sia la prima e la più perfetta vita.

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La trattazione del male, a cui è dedicato l’ottavo trattato della I Enneade, può essere condotta, secondo Plotino, solo in negativo, cioè in antitesi al bene: se il bene è indipendenza, forma, misura, limite, autosufficienza, il male è dipendenza, privazione, mancanza di misura, povertà.

Questo tuttavia non significa che esso non abbia

un’esistenza reale: il male ha il suo fondamento ontologico nella materia (prodotta dall’anima nel suo aspetto inferiore), ed è non-essere nel senso di ciò che è privo di costituzione formale, ovvero ciò che si dà soltanto come residuo depotenziato del processo di espansione/propagazione del bene.

Ebbene, se questi sono gli esseri e tale è la realtà che trascende gli esseri, il male non può esistere tra gli esseri, e neppure nella realtà che li trascende, poiché queste cose sono buone.

Resta pertanto il fatto che il male veramente esiste, esiste nelle cose che non sono, come una sorta di forma del non essere, e deve concernere qualcuna delle cose che sono mescolate al non essere ed hanno, in un qualunque modo, comunanza con il non essere. Il non essere, d’altra parte, non è il non essere in senso assoluto, ma soltanto il diverso dall’essere; inoltre, si intende il non essere [...] come un’immagine dell’essere, o anche come qualcosa che è ancor più non essere. E questo non essere è l’intero mondo sensibile e tutte le affezioni che

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riguardano il sensibile, oppure qualcosa di più infimo di quelle cose sensibili, come i loro accidenti, o un loro principio, oppure uno qualunque dei componenti di un non essere di questo tipo.

Ora, dunque, si può giungere ad una nozione del male, intendendolo come il non misu- rabile rispetto al misurabile, l’illimitato rispetto al limite, l’informe rispetto al principio razio- nale, come ciò che è perennemente manchevole rispetto a ciò che è autosufficiente; sempre indeterminato, mai stabile, passibile di ogni affezione, insaziabile, assoluta povertà; e questi non sono semplicemente suoi accidenti, ma sono, per così dire, la sua essenza; e qualunque parte del male tu possa vedere, possiede tutte queste caratteristiche; inoltre le altre cose che partecipano in qualche modo di esso e a lui si assimilano, divengono a loro volta male, seb- bene non siano male in senso stretto. A quale realtà appartengono allora queste proprietà che non sono diverse dalla realtà, ma che sono identiche ad essa? Infatti, se il male sopravviene a qualcos’altro, è necessario che prima sia qualcosa in sé stesso, quand’anche non sia una sostanza. Perché come vi è il bene in sé, d’altro canto, il bene sopravvenuto, così vi è anche il male in sé ed il male già sopravvenuto ad altro in virtù di quello. Che cos’è, dunque la man- canza di misura, se non ha luogo in una cosa priva di misura? Ma come vi è una misura che non è nella cosa misurata, così anche la mancanza di misura non è nella cosa priva di misu- ra. Infatti se la cosa senza misura è qualcos’altro, allora o è in ciò che è privo di misura – ma così non ha bisogno della mancanza di misura dal momento che è in sé stessa priva di misu- ra – oppure è in una cosa misurata; ma non è possibile che ciò che è misurato, in quanto misurato, abbia mancanza di misura. Quindi, ci deve essere anche qualcosa di illimitato in sé e in sé stesso informe, che ha quelle proprietà richiamate in precedenza, che caratterizza- no la natura del male; e se dopo di lui vi è qualcosa dello stesso genere, allora quest’ultimo è tale o perché ha mescolanza con il male, o perché volge lo sguardo verso di lui, oppure ancora perché è produttivo di qualcosa di simile ad esso. E ciò che soggiace alle figure, alle specie, alle forme, alle misure, ai limiti,

di cui si adorna come di un abbellimen- to che appartiene ad altro, poiché non possiede nessun bene in sé stesso e in confronto agli esseri reali è solo un simulacro, ebbene quello, sì, è la sostanza del male; e proprio il ragiona- mento scopre che questo è il male pri- mario, il male in sé.

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40 guida alla lettura

1. C’è secondo Plotino un unico modo di darsi della felicità?

2.Quale vita appartiene in maniera essenziale al mondo in- telligibile?

3.È possibile che qualcosa abbia più vita di ciò che gli è ge- rarchicamente superiore? E perché?

4.Chiarisci se e come, secondo Plotino, esiste il male.

5.Che cosa si può dire del male, assumendolo in antitesi al bene?

Il tema del male segna uno dei principali punti di distacco tra Proclo e Plotino: per Proclo, infatti, il fondamento del male non può essere individuato nella materia in quanto questa dipende pur sempre dalle ipostasi superiori (direttamente dall’anima, ma indirettamente dall’Uno) e queste ultime sarebbero così di fatto rese responsabili del male stesso. Nel suo trattato Sull’esistenza del male,

Proclo nega che il male derivi da una causa prima (perché tutto ciò che è tale è positivo e tende verso un fine determinato), e abbia così un’esistenza reale. Il male ha solo una “quasi-esistenza”; la sua è un’esistenza accidentale o collaterale, parassitaria, che risulta dalla debolezza degli agenti, e pertanto (in negativo) dal mancato raggiungimento del fine o del bene che essi si erano proposti.

T 58 Proclo L’esistenza accidentale del male

Sull’esistenza del male, 50

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Bisogna ora analizzare in quale modo e come il male venga all’essere da queste cause sebbe- ne esse non abbiano consistenza ontologica, esplicando la nozione della cosiddetta “quasi- esistenza”. Infatti non può esistere in altro modo ciò che non procede da una causa principa- le di qualsiasi tipo, non possiede un termine definito in virtù del quale si possa porre in rela- zione con qualcos’altro, non può avere in quanto tale una crescita nell’essere, mentre ogni realtà che esiste deve derivare da una causa secondo natura – infatti è impossibile che qual- cosa venga all’essere senza una causa – e tendere nell’ordine a cui appartiene verso un qual- che fine.

Il male deve essere annoverato fra le realtà che hanno l’essere in modo accidentale, in virtù di un altro fattore e non a partire dal proprio principio, poiché agiamo e facciamo tutto ciò che facciamo in prima persona in virtù del bene, tendendo ad esso, cercando di raggiungerlo e desiderandolo; comportandoci in questo modo a volte agiamo correttamente a volte scor- rettamente. Può accadere infatti che riteniamo, in modo scorretto, ciò che non è buono, buono, pur agendo correttamente e cioè con il fine di raggiungere il bene. Finché cerchiamo di ricongiungerci con l’universale la nostra azione è giusta ma quando ci volgiamo al partico- lare agiamo scorrettamente. Pertanto una cosa è ciò che desideriamo e una cosa diversa è ciò che otteniamo; nel primo caso infatti il nostro oggetto è la natura del bene, nel secondo ciò che è contrario ad essa. Allora il verificarsi di ciò che è contrario, in qualsiasi modo, al bene dipende dalla debolezza di colui che agisce e dalla mancanza di proporzione tra ciò che si ottiene e ciò che si desidera, dal momento che ciò che si ottiene possiede una quasi esisten- za e non un autentico essere.

L’esistenza autentica, infatti, è propria di quelle realtà che derivando da un vero principio tendono ad un fine, mentre la quasi-esistenza appartiene a tutto ciò che non procede da un principio conformemente alla natura e che non raggiunge la sua pienezza in un fine determi- nato. La generazione del male non deriva da una cosiddetta causa principale alla quale si pos- sano ricondurre una serie di effetti – infatti la natura non è causa di ciò che è contrario alla natura stessa così come la ragione non produce ciò che è contrario alla ragione stessa – né tende ad un determinato fine in vista del quale tutto ciò che è nasce. Pertanto la quasi-esi- stenza deve essere definita come un venire all’essere imperfetto, privo di fine, senza una causa reale di qualsiasi natura e indeterminata.

Non esiste infatti una causa unica del male; non esiste né una causa in sé del male che lo ponga in essere direttamente e lo produca volontariamente né una causa del male non in sé e prima. Invece si dà la situazione opposta; tutto ciò che è esiste in virtù del bene, mentre il male è qualcosa di estraneo che si impone dall’esterno, assenza del giusto fine per ogni ente.

Tale assenza è dovuta alla debolezza di colui che agisce, il quale avendo una natura dove bene e male sono separati, a volte tende al peggio a volte al meglio.

Dove c’è l’uno infatti c’è anche il bene;

il male, invece, si trova nella natura disgregata sotto l’azione del molteplice e non nell’unità. La mancanza di propor- zione e di armonia, il conflitto è proprio solo del molteplice e da questa condizio- ne deriva poi la debolezza e la povertà.

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guida alla lettura

1. Spiega che cosa intende Proclo per “quasi-esistenza”.

2.Di quali realtà si predica l’esistenza autentica?

3.Da che cosa, in definitiva, deriva il male?

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Il problema del male in Agostino concerne la giustificazione della sua presenza all’interno di un ordine, che pure è stato voluto da Dio: se tutto è stato creato da Dio secondo ragioni ben precise, non c’è evidentemente spazio per il male come realtà sussistente. Ci troviamo quindi di fronte a una diversa declinazione del tema neoplatonico del male in quanto privazione: anche per Agostino (almeno, per il giovane Agostino) il male non ha alcuna consistenza ontologica, ma è da intendere piuttosto come l’assenza di quel bene che ciascuna cosa potrebbe possedere in misura maggiore.

Tutto ciò che appare ai nostri occhi come un male,

più che essere tale, è allora solo un’imperfezione, una mancanza, che non intacca o non compromette in alcun modo l’armonia dell’Universo, e anzi vi contribuisce in modo essenziale (se l’armonia è armonia di contrari). L’Agostino maturo, dopo la svolta sulla grazia, insisterà molto di più sull’identificazione tra male e peccato:

il male è stato introdotto concretamente nel mondo dagli angeli caduti e dai primi uomini. Il peccato di questi ultimi si è trasmesso all’intera umanità, rendendola di fatto incapace (senza il soccorso della grazia divina) di operare il bene.

T 59

7. 17. Io ero meravigliato e tacevo. Ma Trigezio, quando s’accorse che l’altro, come smaltita una ubriachezza, s’era reso disposto a farsi rivolgere la parola e pronto al dialogo, disse:

«Ritengo assurdo, o Licenzio, e molto lontano dalla verità quanto stai dicendo. E, ti prego, lasciami dire per un po’ e non m’interrompere con le tue enfasi». «Dì pure», quegli rispose;

«non temo che mi sottrai la verità che scorgo e quasi posseggo». «Magari», rispose Trigezio,

«non ti fossi allontanato dalla razionalità che difendi. Non mancheresti di riguardo verso Dio.

E parlo con moderazione. Cosa infatti si è potuto dire di più irreligioso che anche il male rien- tra nell’ordine? Ora Dio ama l’ordine». «Certo che l’ama», rispose l’altro; «da lui deriva e in lui si fonda. Ma, per favore, medita nel tuo intimo se si possono esprimere concetti più con- venienti su un problema tanto difficile. Io non sono ancora preparato ad insegnarteli». «Che dovrei meditare?», rispose Trigezio. «Comprendo bene la tua tesi e mi basta ciò che capisco.

Ora tu hai detto che il male rientra nella legge razionale e che essa deriva dal sommo Dio e che è da lui voluta. Ne consegue che il male procede dal sommo Dio e che egli lo vuole».

7. 18. Una dimostrazione simile mi fece temere per Licenzio. Ma egli era contrariato dalla difficoltà ad esprimersi e non cercava affatto una risposta ma la formulazione conveniente della risposta. Disse: «Dio non vuole il male se non altro perché non appartiene a razionalità che anche Dio voglia il male. E per questo vuole la legge razionale, poiché mediante essa non vuole il male. Ma se Dio non vuole il male, com’è possibile che il male non rientri nell’ordi- ne? Infatti giustificazione del male è che esso non è voluto da Dio. E tu non puoi ritenere che si ha un’insufficiente legge razionale del mondo nel principio che Dio vuole il bene e non vuole il male. Quindi il male che Dio non vuole non è fuori della legge razionale che Dio vuole. Infatti egli vuole che si voglia il bene e non si voglia il male; il che è l’essenza della razionalità del tutto e dell’ordinamento divino. E poiché questa razionalità e questo ordina- mento garantiscono, per il dissidio stes-

so, l’armonia dell’Universo, ne consegue la necessità dell’esistenza del male. Così in certo senso l’armonia dell’Universo si manifesta nei termini di un’antitesi, nei contrari. Ed essa è figura di armonia anche nel nostro discorso».

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Agostino d’Ippona Il male come assenza di bene

L’ordine, I

guida alla lettura

1. Come è possibile giustificare il male nell’ordine dell’Universo?

2.Qual è l’essenza della razionalità voluta da Dio? E che co- sa determina?

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Nella Consolazione della filosofia Boezio riprende il tema tipicamente greco-pagano della filosofia come unica attività in grado di assicurare la felicità in modo del tutto autosufficiente, a prescindere cioè dalle circostanze esterne, che possono essere – come appunto nel caso di Boezio – persino drammatiche (La consolazione della filosofia

fu composta quando Boezio era in prigione, in attesa di essere giustiziato). Nel passo che segue la Filosofia stessa spiega a Boezio che la vera felicità risiede dunque nella sapienza, concepita come il solo bene che non possa essere in alcun modo strappato all’uomo, perché gli appartiene (o almeno dovrebbe appartenergli) intrinsecamente.

T 60

Ma non posso sopportare la voluttà con cui in tanto pianto e in tanta ansietà ti vai lamentan- do che manchi qualche cosa alla tua felicità. Chi mai possiede infatti una felicità tanto priva di nubi che non contrasti in qualche cosa con la natura del suo stato? La condizione dei beni umani è invero cosa che dà angustia e tale che o non si realizza mai completamente o non dura mai per sempre. […]

Nessuno perciò si trova facilmente in sintonia con la condizione della propria sorte; in cia- scuno vi è sempre qualche cosa che è ignorata da chi non ne ha alcuna esperienza, e fa impau- rire chi l’ha avuta. Aggiungi poi che quanto più una persona è fortunata, tanto più delicata è la sua sensibilità, e che, se tutto non è pronto al suo cenno, non essendo avvezza a qualsiasi avversità, si abbatte di fronte alla più piccola di esse: tanto infinitesime sono le cose che pri- vano i più fortunati della felicità perfetta. Hai idea di quanti si crederebbero quasi in cielo se avessero in sorte una parte anche minima di ciò che resta della tua fortuna? Questo stesso luogo, che tu chiami esilio, è la patria per coloro che vi abitano. Tanto è vero che la miseria sta nell’opinione che se ne ha, e che al contrario felice è la sorte, quale che essa sia, di colui che la tollera con animo sereno. Chi è tanto felice da non desiderare di cambiare il proprio stato, quando si abbandona all’impazienza? Di quante amarezze è cosparsa la dolcezza del- l’umana felicità! Anche se essa può sembrare piacevole a chi ne gode, tuttavia non la si può trattenere dall’andarsene, quando lo voglia. È dunque evidente quanto sia miserevole la feli- cità data dalle cose mortali, che non dura per sempre neppure presso coloro che non se ne lasciano sedurre, né appaga completamente coloro che la ricercano affannosamente.

Perché, dunque, o mortali, cercate fuori di voi quella felicità che sta dentro di voi? L’errore e l’ignoranza vi confondono. Ora ti mostrerò in breve il fulcro su cui gravita la più alta felicità. Vi è qualche cosa per te di più prezioso di te stesso? No, risponderai; e dunque se sarai padrone di te stesso, possederai quel che tu non vorresti mai perdere né la fortuna ti potrebbe togliere. E perché tu riconosca che la felicità non può consistere in questi beni, così ragiona. Se la felicità è il sommo bene della natura dotata di ragione, e se non è sommo quel bene che in qualche modo può essere tolto, poiché gli è superiore quel bene che non può venir tolto, è manifesto che l’instabilità della fortuna non può aspirare a possedere la felicità. Oltre a ciò, colui che è dominato da questa caduca felicità, o sa che essa è mutevole, o non lo sa. Se non lo sa, può esse- re felice la sorte di chi vive nella cecità dell’ignoranza? Se lo sa, è necessario che tema di perde- re quel che è certo di poter perdere; e perciò il continuo timore non gli permette di essere feli- ce. O forse, se l’abbia perduto, pensa che sia trascurabile? Ma anche allora è ben insignificante quel bene la cui perdita può esser sopportata serenamente. E poiché so che tu sei persuaso e fer- mamente convinto da moltissime dimostrazioni che le menti degli uomini non sono in alcun modo mortali, e poiché è evidente che la felicità data dal caso finisce con la morte del corpo, non si può dubitare che, se questa felicità può recare la beatitudine, tutto il genere umano cada nell’infelicità al momento finale della morte. E se sappiamo che molti hanno ricercato il posses- so della felicità non soltanto con la morte, ma anche con sofferenze e sacrifici, in che modo essa con la sua presenza può rendere felici, se non rende infelici quando sia svanita?

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Severino Boezio La sapienza è la vera felicità

La consolazione della filosofia, II, 4; IV, 2

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Sempre nella Consolazione della filosofia Boezio fa sua anche la tesi neoplatonica del male come privazione (ovvero come mancanza di ordine

e costituzione formale), fino al punto di affermare (o meglio, di far affermare alla Filosofia che si rivolge a lui) che i «malvagi non esistono».

Potrà forse sembrare strana ad alcuno l’affermazione che i malvagi, i quali costituiscono la maggioranza degli uomini, non esistano; ma le cose stanno proprio così. Infatti non nego che i malvagi siano malvagi; nego puramente e semplicemente che siano. Come potresti chiamare

“cadavere” un uomo morto, ma non semplicemente “uomo”, così sono disposta1a concedere che i viziosi sono malvagi, ma non potrei ammettere che in assoluto siano. È2, infatti, quel che mantiene l’ordine e conserva la natura, ma ciò che si allontana da questa, abbandona anche l’essere che è riposto nella sua natura. Ma i malvagi, dirai tu, possono pur qualcosa; ed io non lo vorrei certo negare, ma questa loro possibilità non deriva dalla forza, bensì dalla debolezza.

Possono fare infatti il male, ma non sarebbero minimamente in condizione di farlo, se avesse- ro potuto conservare la facoltà di fare il bene. La possibilità di fare il male dimostra con tutta evidenza che essi nulla possono; perché, se il male è nulla, come poc’anzi abbiamo concluso, è evidente che non possono far nulla,

dal momento che sono capaci solamente di compiere il male.

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guida alla lettura

1. Che cosa, secondo Boezio, è all’origine di una felicità “mi- serevole”?

2.Da che cosa dipende la felicità più elevata? In che cosa consiste?

3.Spiega l’affermazione di Boezio: «I malvagi non esistono».

Nella falsafa (la ‘filosofia’ in lingua araba), la riflessione filosofica continua a essere

espressamente connessa con la felicità, come una delle due vie praticabili, insieme all’osservanza della legge religiosa, per assicurare all’anima razionale la beatitudine che le è propria. Avicenna

è particolarmente esplicito a tal riguardo:

cogliendo il senso delle cose, ripercorrendo cioè attraverso la conoscenza i vari livelli del reale, l’anima si perfeziona, fino a trasformarsi

essa stessa in un “mondo intelligibile”, parallelo al mondo esistente.

T 61 Avicenna L’ideale del filosofo: diventare un mondo intelligibile

Metafisica (dal Libro della Guarigione), X, 7

1. È infatti sempre la Filosofia a parlare.

2. Cioè: possiede l’essere in senso pieno.

Diremo, allora, che la perfezione propria dell’anima razionale è di divenire un mondo intel- lettuale in cui si disegni la forma del tutto, l’ordine intelligibile che è nel tutto e il bene che fluisce nel tutto; e ciò iniziando essa dal principio del tutto, procedendo verso le sostanze nobili, assolutamente spirituali, poi verso quelle spirituali vincolate in una qualche sorta ai corpi, poi verso i corpi celesti, con le loro disposizioni e le loro potenze, e così via, fino a che in sé stessa non si esaurisca la disposizione di tutto l’essere ed essa non si trasformi in un mondo intelligibile, parallelo a tutto intero il mondo esistente; e ciò, contemplando quel che è la bontà assoluta, il bene assoluto, l’assoluta e reale bellezza, unificandosi a questa, impri- mendo in sé il modello e la disposizione di questa, percorrendo la sua via e divenendo parte della sua sostanza. E se questa [perfezione] si rapportasse alle perfezioni amate che apparten- gono alle altre potenze, essa si troverebbe in un rango tale che sarebbe odioso dire che ne è

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Il discorso su cosa sia il male e da dove esso tragga origine trova spazio nella Guida dei perplessi di Maimònide come introduzione al tema della provvidenza divina, ovvero di come Dio si rapporti al mondo. Anche per Maimònide il male è innanzi tutto la privazione di qualcosa, di cui Dio non può essere la causa: da Dio, che è esistenza necessaria, non può che derivare direttamente solo ciò che

è esistente. Cos’è dunque all’origine del male?

Maimònide sembra riavvicinarsi, indirettamente, alla posizione plotiniana: il fatto che tutto ciò in cui non compare la materia non si corrompa e non conosca il male prova abbondantemente, secondo Maimònide, che il male si origina dalla materia, la quale è per sua stessa natura assenza di forma.

T 62

Ricorderai ciò che è stato dimostrato a proposito del fatto che i mali sono mali in relazione a qualcosa, e che tutto ciò che è male rispetto a un ente è privazione di quella cosa o privazio- ne di uno degli stati adatti ad essa. Per questo ha valore assoluto la proposizione: tutti i mali

Mosè Maimonide L’origine del male dalla materia

Guida dei perplessi, III, 10

migliore e più completa. Non vi è con esse alcun rapporto, sotto nessun rispetto: né in eccel- lenza, né in completezza, né in abbondanza, né per quanto riguarda tutte quelle altre [cose]

in virtù delle quali si porta a compimento il piacere delle [cose] percepibili di cui abbiamo fatto menzione. Quanto poi alla durata, ebbene come si rapporterà la durata di quel che è eterno alla durata di quel che è mutevole e corruttibile? E quanto all’intensità del raggiungi- mento, come si potrà rapportare lo stato di quel che si raggiunge in virtù del contatto tra delle superfici a ciò che scorre nella sostanza di quel che lo riceve in modo tale da essere come quella [stessa sostanza], senza distinzione? L’intelligenza, l’intelligente e quel che è intelletto sono, infatti, una stessa cosa o quasi una stessa cosa. Quanto poi al fatto che colui che perce- pisce sia in sé stesso più perfetto, ebbene è qualcosa di evidente; che poi la sua percezione sia più intensa, anche questo è qualcosa che conoscerai meditando e ricordando appena quel che si è chiarito in precedenza. L’anima razionale, infatti, ha un numero maggiore di percezioni, percepisce più intensamente quel che è percepibile e più intensamente lo astrae da quelle cose che vi si aggiungono e che non rientrano – se non per accidente – nella sua intenzione. Ad essa appartiene di immergersi all’interno di quel che è percepito, come nell’esterno. Anzi, come si potrebbe rapportare questo modo di percepire a quell’altro, oppure come rapportare questo piacere al piacere provato in virtù del piacere sensibile e bestiale e irascibile? Tuttavia, in questo nostro mondo e in questo nostro corpo, essendo noi immersi nei vizi, non abbia- mo sensazione di quel piacere, quand’anche si produca in noi qualcuna delle sue cause; e a ciò del resto abbiam fatto allusione in alcuni dei “princìpi” che abbiamo introdotto. Per que- sto non lo ricerchiamo né ci rivolgiamo ad esso, a meno di non aver gettato via dalle nostre spalle il giogo della concupiscenza e dell’ira e delle loro sorelle e di non aver in parte gusta- to [quel piacere]! È allora che ne abbiamo un’immagine, seppure flebile e debole, specialmen- te quando si trova soluzione ai problemi [speculativi] e si chiariscono le questioni ricercate dall’anima. Ma il rapporto di questo nostro piacere, quaggiù, con il piacere che proveremo lassù è il rapporto che il piacere sensibi-

le [che si ricava] inspirando profumi dai gusti piacevoli ha con il piacere [procu- rato] dai loro sapori, e anzi è molto più lontano di quello, di una distanza che non si può determinare.

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guida alla lettura

1. La perfezione dell’anima razionale è il suo trasformarsi in un “mondo intelligibile”: spiega questo concetto avicen- niano.

2.In che cosa consiste il piacere? E perché si distingue un piacere di “quaggiù” da un altro di “lassù”?

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sono privazioni. Per esempio, per un uomo è male la sua morte, che è la sua privazione; e del pari sono mali la malattia, la povertà o l’ignoranza, che sono tutte privazioni di abiti; e se tu rintracci i casi particolari di questa proposizione generale, troverai che essa non sbaglia mai, se non per chi non fa differenza tra la privazione e l’abito da una parte, e i due contrari dal- l’altra, oppure per chi non conosce la natura di ogni cosa – per esempio, chi non sa che la salute in generale è un equilibrio, e rientra nell’ambito della relazione, e che la privazione di questa relazione è, in generale, la malattia, mentre la morte è la privazione della forma di ogni essere vivente. Parimenti, la distruzione di qualsiasi cosa in tutti gli enti è la privazione della loro forma.

Dopo queste premesse, si saprà con certezza che non si può assolutamente collegare a Dio l’affermazione che Egli faccia essenzialmente un male, ossia che Egli si ponga come scopo pri- mario di fare il male. Una tale affermazione non sarebbe vera; anzi tutte le Sue azioni sono bene puro, perché Egli non produce altro che esistenza, ed ogni esistenza è un bene, mentre tutti i mali sono privazioni alle quali non è collegata alcuna azione se non nel modo che abbiamo spiegato, ossia per il fatto che Egli ha fatto esistere la materia con quella natura che essa ha – vale a dire, sempre connessa alla privazione, come è noto. Quest’ultima è dunque la causa di ogni corruzione e di ogni male, e per questo tutto ciò in cui Dio non ha fatto esi- stere questa materia non si corrompe e non ha alcun male che ad esso inerisca. Quindi, la reale natura di ogni azione di Dio è un bene, perché si tratta di un’esistenza; e per questo il Libro che illumina le tenebre del mondo afferma esplicitamente: «E vide Dio tutto ciò che aveva fatto, ed ecco era molto buono». Persino l’esistenza di questa materia inferiore, così come risulta dalla sua connessione alla privazione, cui conseguono la morte e tutti i mali – ebbene, anche tutto questo è “buono”, a causa della perpetuità della generazione, e per la continuità dell’esistenza prodotta dal continuo avvicendamento; e per questo Rabbi Me’ir commentò: «Ed ecco era molto buono» – ed ecco, la morte era buona, nel senso cui abbiamo accennato. Ricorda ciò che ti ho detto in questo capitolo, e comprendilo: ti sarà chiaro tutto ciò che hanno detto i profeti e i “sapien-

ti” circa il fatto che tutto il bene è pro- dotto essenzialmente dall’azione della divinità; e afferma il Genesi Rabbah:

«Non c’è nulla di male che discenda

dall’alto». guida alla lettura

1. Che cosa intende Maimònide per “male”? Riassumi la sua spiegazione a tal riguardo.

2.C’è un legame fra Dio e il male, oppure no? E perché?

3.Che cosa c’è all’origine del male?

Il sommo bene di Boezio di Dacia potrebbe essere definito come il manifesto più significativo, nell’intero Medioevo, a favore della filosofia e dell’ideale della felicità intellettuale.

Il filosofo è per Boezio l’unico in grado di realizzare compiutamente, e per di più mediante le sue sole

forze, il fine ultimo della specie umana, e cioè l’esercizio della razionalità. Segue da qui una conclusione destinata a suscitare scandalo: solo il filosofo vive secondo il corretto ordine della natura, e pertanto solo il filosofo non pecca.

T 63 Boezio di Dacia La felicità intellettuale del filosofo

Il sommo bene

Nostro compito è allora quello di indagare razionalmente quale sia questo sommo bene che l’uomo può raggiungere: ora il Bene più alto che l’uomo possa ottenere, lo otterrà attraverso la più alta delle sue facoltà: infatti, non attraverso l’attività dell’anima vegetativa, che caratte- rizza le piante, e nemmeno attraverso quella dell’anima sensitiva, che caratterizza gli anima-

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Mi riferisco appunto a quella santità che solo si può raggiungere e vivere in qualità di consacrati da Dio alla missione salesiana: «La nostra vita di discepoli del Signore

E soltanto su queste basi d'ignoranza, ormai salde e granitiche, ha potuto levarsi fino ad oggi la nostra scienza; la volontà di sapere sul fondamento di una volontà molto più

( Molluschi, Glutine e derivati°, Sedano, Latte e derivati, Anidride solforosa). Riso riserva invecchiato 12-18 mesi, parmigiano

Il dottor Ansaloni si avvicinò, toccò anche lui la gamba e tutto il resto, poi mi sollevò dal cuscino; la ferita al fianco, che doveva essere la più profonda, mi fece stringere

dell'assolutismo moderato -con intenzione di promuovere riforme- e vede di buon occhio intellettuali progressisti), lo nomina prima direttore della Gazzetta di Milano, poi (1769)

Marcovaldo contemplava l'uomo di neve e, assorto nelle sue meditazioni, non s'accorse che dal tetto due uomini gridavano: “Ehi, signore, si tolga un po' di lì!”.. Erano quelli

Signore Gesù, in questo nuovo Tempo d’Avvento rinnova in noi l’essere vigilanti nella Tua Presenza, per Essere segno e luce per tutti coloro che hanno perso il senso di