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Audizione del primo Presidente della Corte di cassazione dinanzi alle Commissioni riunire Affari costituzionali e Giustizia della camera dei Deputati nell’ambito dell’indagine conoscitiva sul d.d.l. costituzionale del Governo C. 4275 “

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Audizione del primo Presidente della Corte di cassazione dinanzi alle Commissioni riunire Affari costituzionali e Giustizia della camera dei Deputati nell’ambito dell’indagine conoscitiva sul d.d.l. costituzionale del Governo C. 4275 “Riforma del titolo IV della parte II della Costituzione.”

13 giugno 2011

Questo invito, di cui ringrazio le Commissioni e i loro Presidenti, è stato evidentemente indirizzato a me non a titolo personale, ma come Primo Presidente della Corte di cassazione, per cui mi è parso doveroso che in questa sede, al di là di opinioni personali, io sottoponga all’attenzione del Parlamento ciò che, sull’oggetto del disegno di legge costituzionale, ha maturato l’Ufficio del Massimario, che di fatto opera anche come centro di studi e di elaborazione giuridica al servizio della Corte.

Deposito pertanto la Relazione sul disegno di legge costituzionale recante

“riforma del titolo IV della parte II della costituzione” redatta dal predetto Ufficio, relazione che faccio mia in ogni parte e che illustrerò oralmente per gli aspetti più rilevanti.

1) Decostituzionalizzazione delle garanzie

Voglio sottolineare subito il dato che emerge con evidenza dalla lettura del testo del disegno di legge. La nostra è una Costituzione rigida, incentrata sul principio di legalità e sui diritti fondamentali dei cittadini, proclamati nella I^

parte della Carta ed affidati ad articolazioni istituzionali disciplinate nella II^

parte, con il raccordo delle garanzie costituite dalla riserva di legge e dalla riserva di giurisdizione.

Proprio affinché quest’ultima assolva al suo compito costituzionale con piena effettività, i Padri costituenti avevano sottratto i connotati fondamentali e portanti del sistema giurisdizionale alla legge ordinaria, ossia al potere della maggioranza, fissando direttamente in Costituzione principi e regole che hanno fatto del sistema giudiziario italiano quell’originale modello istituzionale, che viene qualificato come modello orizzontale, in contrapposizione al modello verticale di origine napoleonica.

Il disegno di legge muta quel modello in più punti, operando una

“decostituzionalizzazione” delle garanzie oggi previste.

L’impostazione di fondo del d.d.l. determina una mutazione strutturale del

Titolo IV della parte II della Costituzione, con inevitabili riflessi sull’impianto

generale di Costituzione che ne deriverà

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Con preoccupante frequenza si rinvia alla legge la configurazione dei contenuti della disciplina senza delineare con sufficiente e impegnativa definizione i principi di riferimento, evitando così di vincolare, nelle sue scelte di attuazione, il legislatore ordinario. Un legislatore - sia detto descrittivamente e senza intenti polemici - che non si è caratterizzato, negli ultimi anni, per sensibilità costituzionale, tanto che la Consulta è stata costretta a reiterate declaratorie d’illegittimità su norme che, pur espunte dall’ordinamento, ne hanno temporaneamente opacizzato il nitore costituzionale.

Suscita perplessità che il rinvio non è quasi mai fatto in favore della legge di ordinamento giudiziario, bensì alla legge ordinaria, senz’altra qualificazione. Si oscura così il senso della necessità d’interventi organici, sistematicamente coerenti in una materia di così spiccata sensibilità costituzionale. Ma ciò che più preoccupa è la carenza di vincolanti linee direttrici entro cui deve muoversi il legislatore ordinario.

La riserva di legge, che nella sua assolutezza è certo un fattore di garanzia per la tutela della fisionomia costituzionale della magistratura e della funzione giudiziaria, perde significato se il legislatore costituzionale sceglie di rimettere alla regolazione per legge ordinaria i necessari compiti di attuazione di valori e principi senza contenerne la discrezionalità regolativa con criteri, anche generali ma sufficientemente definiti.

La fedeltà al modello rigido, pur formalmente ribadita dalla Relazione al disegno di legge, rischia così di occultare la decostituzionalizzazione di vari aspetti della materia disciplinata nel Titolo IV.

La rinuncia di fatto alla struttura rigida in materia tanto sensibile per la garanzia dell’ordinamento democratico finisce per attribuire al legislatore ordinario - ossia alla contingente maggioranza parlamentare - un potere eccessivo, il cui esercizio - non assistito da una definita e stringente cornice costituzionale - potrebbe confliggere con la piena ed effettiva tutela dei diritti fondamentali.

Questa considerazione mi porta a sottolineare l’erroneità di una diffusa, ma schematica e superficiale opinione secondo cui, a differenza della prima parte, tutta la seconda parte della Costituzione sarebbe modificabile. Com’è stato ben evidenziato dalla dottrina, le due parti della Costituzione non sono sfere autonome e separate. Occorre pertanto massima cautela e rigore nell’introdurre cambiamenti della parte cosiddetta “organizzativa” che possono produrre effetti rilevanti anche sul piano dei diritti e dei principi elencati nella prima parte.

L’approvazione del disegno di legge, nel suo attuale contenuto, rischierebbe di determinare un grave indebolimento dei vincoli costituzionali per il legislatore ordinario.

2) L’obbligatorietà dell’azione penale.

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Non ripercorrerò tutti gli oggetti della proposta di revisione costituzionale, ma mi limiterò esemplificativamente a toccare qualcuno dei temi principali, a cominciare dalla riformulazione della norma sull’obbligatorietà dell’azione penale, che, pur incidendo direttamente sui contenuti dell’attività del pubblico ministero, tocca da vicino il contenuto e il ruolo della magistratura giudicante .

Il principio di obbligatorietà dell’azione penale è la pietra angolare di un sistema penale informato ai valori di legalità e di uguaglianza, come ha evidenziato la Corte costituzionale, affermando che il principio di legalità penale necessita, per la sua concretizzazione, della legalità nel procedere e questa, in un sistema «fondato sul principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge non può essere salvaguardata che attraverso l'obbligatorietà dell'azione penale. […]

Realizzare la legalità nell'eguaglianza non è concretamente possibile se l'organo cui l'azione è demandata dipende da altri poteri: sicché di tali principi è imprescindibile requisito l'indipendenza del pubblico ministero. Questi è, infatti, al pari del giudice, soggetto soltanto alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.) e si qualifica come un magistrato appartenente all'ordine giudiziario collocato come tale in posizione di istituzionale indipendenza rispetto ad ogni altro potere>, che non fa valere interessi particolari ma agisce esclusivamente a tutela dell'interesse generale all'osservanza della legge>[…] . Il principio di obbligatorietà è, dunque, punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale, talché il suo venir meno ne altererebbe l'assetto complessivo” (sentenza n. 88 del 15 febbraio 1991)..

L'art. 13 del disegno di legge conferma il principio di obbligatorietà dell'azione penale, ma riferisce l'obbligo non più al pubblico ministero, bensì all'ufficio del pubblico ministero. Si prevede che l'esercizio dell'azione penale debba avvenire «secondo i criteri stabiliti dalla legge», inciso eccessivamente vago che non consente di comprendere a quali criteri il legislatore ordinario dovrà attenersi per regolare l'obbligatorietà confermata in Costituzione.

Proprio per le ragioni sottolineate icasticamente dalla Corte costituzionale, in questa materia è essenziale un sicuro ancoraggio della discrezionalità del legislatore ordinario alla tutela effettiva degli interessi sottostanti alla previsione costituzionale. Nel delineare, ad esempio, criteri di priorità dell'azione penale, che è il temperamento a cui guarda la Relazione al disegno di legge, il legislatore ordinario dovrebbe esser assistito da definiti criteri di orientamento d'ordine costituzionale, apparendo altrimenti alto il rischio di eccessi di normazione ordinaria che finiscano col tradire, più o meno consapevolmente, il precetto costituzionale.

E’ necessario, inoltre, rimarcare che “obbligatorietà” significa sottrazione al principio di apprezzamento e di responsabilità politica nella gestione dell'azione penale, in opposizione al principio di opportunità, il quale giustifica intromissioni del potere politico nelle scelte, nella responsabilità di azione.

Non si comprende, allora, il senso della previsione di cui all'art. 11 del d.d.l.,

di modifica dell'art. 110 Cost., là dove affida al Ministro della Giustizia il compito

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di riferire annualmente alle Camere non solo sullo stato della giustizia (il che trova fondamento nella responsabilità per il funzionamento dei servizi), ma anche

«sull'esercizio dell'azione penale e sull'uso dei mezzi di indagine».

La previsione suscita non poche perplessità, perché sfugge la coerenza di un disegno che attribuisce un potere di relazione a un organo del tutto estraneo ai compiti di direzione e gestione dell'azione penale. Se si vuol dare un senso alle cose, questa previsione evoca l’implicazione necessaria della titolarità in capo al Ministro di un qualche potere sull’oggetto delle relazioni.

3) Il Pubblico Ministero

L’oggetto principale dell’iniziativa governativa è la posizione dei magistrati del PM, i cui poteri e il cui status vengono profondamente modificati.

Su tali modificazioni si soffermerà certamente il Procuratore generale presso la Corte di cassazione, per cui mi limito, per economia di tempo, a rinviare al testo della Relazione scritta che ho depositato.

Voglio tuttavia sottolineare che, al di là della prevista separazione delle carriere, le modificazioni proposte incidono profondamente sulla configurazione di

«un ordine autonomo e indipendente da ogni potere», che non è riferita più alla magistratura nel suo complesso, come previsto invece dall’attuale formulazione del primo comma dell’art. 104 Cost., bensì ai soli giudici, con estromissione del pubblici ministeri, che acquisiscono una anomala collocazione costituzionale. I pubblici ministeri, cessando di appartenere all’ordine giudiziario e non costituendo un ordine ulteriore e distinto, finiscono per incarnare una figura ibrida, dall’incerta identità costituzionale, a metà strada tra il giudice e il pubblico funzionario.

Tale incertezza si riflette anche sul terreno delle garanzie che la riforma vorrebbe assegnare al titolare dell’azione penale. Il mero rinvio alla legge di ordinamento giudiziario, in questo nuovo quadro di distacco dall’ordine giudiziario, con la netta accentuazione del carattere gerarchico dell’Ufficio e l’obbligo di esercitare l’azione penale “secondo i criteri stabiliti dalla legge” (ossia, dalla contingente maggioranza politica), espone istituzionalmente il pubblico ministero a rischi di eteronomia e rende instabile e precaria la sua indipendenza.

A ciò va aggiunto che autonomia e indipendenza sarebbero assicurate

esclusivamente «all’ufficio» e non al singolo magistrato requirente. L’assenza di

espresse forme di garanzia dell’indipendenza funzionale (nella sua duplice

proiezione interna ed esterna) del singolo magistrato requirente (peraltro

abitualmente previste anche negli ordinamenti continentali che prevedono la

separazione tra magistratura giudicante e magistratura requirente) rischia di

svuotare di contenuto la stessa previsione di un organo di governo autonomo della

magistratura requirente, atteso che storicamente la ragione per cui i costituenti

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istituirono il Csm corrisponde proprio all’esigenza di rendere effettiva l’indipendenza attribuita al singolo magistrato.

4) Il divieto di appello avverso le sentenze di proscioglimento

L'articolo 12 del d.d.l., introducendo un nuovo comma nell'art. 111 Cost., vorrebbe introdurre il principio dell'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento quale punto di equilibrio tra la libertà del cittadino e la pretesa punitiva statuale ed al fine, per come si legge nella Relazione, di evitare che perseguire ancora l'ipotesi accusatoria, pur dopo che questa non abbia trovato conferma processuale, faccia perdere all'azione pubblica i tratti della doverosa ricerca della verità e rischi di farle assumere, invece, «le vesti di un atteggiamento persecutorio».

In tal senso, la proposta sembra dimenticare le legittime aspettative della vittima del reato in ordine alla ricerca e affermazione della verità, nonostante le sempre crescenti pressioni che gli strumenti internazionali esercitano in proposito sul nostro ordinamento (v. anche, nel senso della particolare considerazione della posizione della vittima, le proposte di legge costituzionale n. 199/C e n. 1039/C, ambedue di modifica dell'art. 111). Ma, a parte ciò, è la stessa coerenza del testo normativo proposto con le ragioni che lo avrebbero ispirato a lasciare perplessi, atteso che la disposizione prevede che «le sentenze di proscioglimento sono appellabili soltanto nei casi previsti dalla legge», senza fornire alcuna indicazione sugli effettivi limiti posti alle scelte del legislatore ordinario e che dunque potrebbero rischiare di svuotare di significato il principio affermato.

5) La nomina del giudice per concorso

L'art. 8 del disegno di legge interviene sulle disposizioni costituzionali che dettano i principi per il reclutamento dei magistrati, in particolare sul comma 2 dell'art. 106, che prevede una delle due deroghe alla regola generale della selezione per concorso (l'altra è costituita dalla nomina per meriti insigni all'ufficio di consigliere di cassazione di avvocati e professori in materie giuridiche).

In particolare, il disegno di legge intende eliminare l'inciso «per tutte le

funzioni attribuite a giudici singoli», che nell'attuale assetto limita la possibilità di

fare ricorso a una magistratura onoraria, eventualmente reclutata elettivamente,

per la trattazione di affari giudiziari di maggiore importanza. Storicamente,

infatti, la monocraticità dell'organo (questo il significato del richiamo alle funzioni

dei giudici singoli) ha qualificato la giurisdizione c.d. minore, un tempo affidata a

giudici conciliatori e pretori.

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In proposito, occorre ricordare che nel dibattito che si sviluppò in sede costituente emerse la netta prevalenza per il sistema di reclutamento per concorso, e già l'ammissione di una nomina elettiva per la magistratura onoraria face registrare la diversa posizione di quanti (soprattutto Calamandrei, ma anche Leone) ritenevano che l'elezione fosse coerente con un ordinamento giuridico ispirato dal diritto libero, dove il magistrato è operatore della politica, e non con un ordinamento informato al principio di legalità, che postula la necessità di un magistrato tecnico reclutato attraverso un concorso capace di verificare l'adeguatezza del profilo professionale.

La netta preferenza per una magistratura legittimata non dalla selezione elettorale ma da quella concorsuale, e quindi sulla base di un'elevata qualità tecnico-professionale, emerge, nel testo costituzionale, dalla previsione di esordio dell'art. 106, comma primo, che, appunto, prescrive in linea generale tale forma di reclutamento.

Se la deroga di cui al comma successivo perdesse l'espresso limite del riferimento alle funzioni dei giudici singoli, si avrebbe un'incoerenza di fondo dell'assetto costituzionale, perché si smarrirebbe il senso, tra i due contrapposti canali di accesso, del rapporto “regola-eccezione”, con l'effetto di consegnare al legislatore ordinario il potere, non meglio delimitato, di invertire il rapporto magistratura professionale/magistratura onoraria, marginalizzando la prima in favore della seconda, eventualmente scelta col sistema elettorale, in sostanziale violazione della persistente previsione dell'accesso in magistratura per concorso.

La previsione dell'ampliamento della magistratura onoraria, quindi non professionale e non reclutata per concorso, collegata alla possibilità d'impiego della stessa anche oltre l'attuale limite costituito dall'attribuzione delle funzioni proprie dei giudici singoli, rende potenzialmente marginale la selezione dei magistrati per concorso, che costituisce nell'attuale sistema la garanzia migliore di reclutamento senza discriminazione e con accertamento dell'adeguata qualificazione tecnico- professionale.

6) La responsabilità civile dei magistrati

Il disegno riformatore prevede l'aggiunta in Costituzione dell'art. 113-bis, che va a comporre un'apposita sezione dedicata alla responsabilità dei magistrati.

La Corte costituzionale, già con la sentenza n. 2 dell’11 marzo 1968, rilevò

che, ferma restando la necessità di previsione di responsabilità, la singolarità della

funzione, la natura dei provvedimenti e la stessa posizione super partes possono

bene indurre a istituire condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati. Tale

affermazione fu ribadita dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 26 del 3

febbraio 1987 e n. 468 del 22 ottobre 1990.

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La piena parificazione, senza alcuna distinzione, tra magistrati e funzionari dello Stato mi sembra che si ponga contro l’indipendenza e l’autonomia della funzione giudiziaria, tenuto conto che i funzionari non godono di tali prerogative.

Il collegamento tra queste prerogative e la responsabilità dei giudici è posto esplicitamente dalla Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa «sui giudici: indipendenza, efficacia e responsabilità» del 17 novembre 2010, al cui punto 67 si legge che «soltanto lo Stato, ove abbia dovuto concedere una riparazione, può richiedere l'accertamento di una responsabilità civile del giudice attraverso un'azione innanzi a un tribunale». L'intendimento di questo passo della Raccomandazione è chiaro: la previsione della responsabilità civile del magistrato, pur legittima, non può essere piegata a strumento d’indebita pressione, di ritorsione per decisioni non gradite, fermo restando che anche condotte che non raggiungono la gravità, oggettiva e soggettiva, meritevole di una responsabilità civile diretta, ma che causano danni ingiusti, devono trovare nella responsabilità dello Stato, salva l'azione di rivalsa, la risposta di tutela alle legittime pretese risarcitorie.

In questo contesto, la previsione espressa della responsabilità civile diretta dei magistrati presenta il concreto rischio di deprimere il ricorso, nella legge di attuazione, a forme di valutazione di ammissibilità dell'azione e alla principale esposizione dello Stato (fatta salva, per alcune ipotesi, l'azione di rivalsa), in potenziale contrasto con i valori di autonomia e indipendenza dei magistrati, posti in risalto dalla giurisprudenza costituzionale.

7) La posizione del Primo Presidente della Corte di Cassazione nell'ambito del C.S.M.

I nuovi artt. 104-bis e 104-ter, di cui all’art. 5, comma 1 del disegno di legge, hanno ad oggetto la composizione dei due Csm.

In dichiarata coerenza con la separazione delle carriere, quale oggetto specifico della previsione dell’art. 4, il disegno di legge istituisce due Csm, di cui uno “dedicato” alla magistratura giudicante e altro “dedicato” alla magistratura requirente.

La scelta di procedere a modificare l’attuale rapporto numerico tra membri laici e membri togati (che attualmente, come noto, è di 1 a 3) non è specificamente motivata dalla relazione governativa di accompagnamento del disegno di legge, limitandosi sul punto la stessa a chiarire che la presenza, quale membro di diritto, del Primo Presidente della Corte di cassazione e del Procuratore Generale presso la medesima continuerebbe a garantire la prevalenza numerica della componente

«togata».

La ripartizione a metà dei membri eletti caricherebbe di significati e

importanza impropri e obliqui la nomina del Primo presidente e del Procuratore

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Generale della Corte di Cassazione ai loro incarichi, così come improprie e difficilmente esercitabili diventerebbero le loro responsabilità in seno al Consiglio, tenendo anche conto del fatto che essi non fanno parte delle commissioni proponenti in cui il Consiglio si articola, non sono collocati fuori ruolo e devono dividere il loro impegno nel Consiglio, comprendente anche la partecipazione al Comitato di presidenza, con i gravosi compiti istituzionali presso la Corte di Cassazione.

8) Conclusione

Qualche mese fa, alla fine di gennaio, ho avuto l’onore e l’onere di presentare la Relazione sull’amministrazione della giustizia, che – a giudicare dai commenti e dalle attestazioni pervenutemi– sembra aver incontrato l’apprezzamento e il consenso della gran parte degli esponenti del mondo istituzionale e politico.

In quella Relazione avevo evidenziato il quadro drammatico dell’inefficienza del nostro sistema di giustizia, per come risulta sia dal basso (dal punto di vista del cittadino che aspetta risposte mai tempestive) sia dall’alto, dall’osservatorio della Corte europea dei diritti dell’uomo e del Consiglio d’Europa.

Le reiterate condanne a carico del nostro Paese, pronunciate dalla Corte di Strasburgo, hanno indotto il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa a rivolgere nuovamente la sua attenzione al «caso Italia» per ribadire che tempi eccessivi nell'amministrazione della giustizia costituiscono «un grave pericolo per il rispetto dello Stato di diritto, conducendo alla negazione dei diritti consacrati dalla Convenzione» e per sottolineare l'importanza di «impostare un'efficace strategia a medio e lungo termine per trovare una soluzione a questo problema strutturale che esige un forte impegno politico». La severa risoluzione approvata rivolge alle autorità italiane di più alto livello un nuovo appello «affinché mantengano fermo il loro impegno politico a risolvere il problema della durata eccessiva dei processi, e adottino tutte le misure tecniche e di bilancio necessarie in tal senso» (Risoluzione n. 224 del 2 dicembre 2010).

Quello della realizzazione della ragionevole durata dei processi, secondo le concordi previsioni dell’art. 6 della CEDU, dell’art. 111 della Costituzione italiana e dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, è infatti, un tema assolutamente prioritario e centrale:

- per il rispetto di un diritto umano fondamentale di ogni persona, il diritto alla giustizia, che costituisce una sorta di pre-condizione per la tutela di ogni altro diritto, una sorta di “diritto ai propri diritti”;

- per l’immagine dell’Italia nel panorama europeo e internazionale;

- per gli effetti sull’economia e sulla competitività internazionale del sistema

Italia, come ha recentemente ricordato anche il Governatore della Banca

d’Italia.

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Ciò non soltanto consiglia, anzi impone a tutti di bandire le contrapposizioni e le polemiche ricorrenti sulla giustizia, intesa come dimensione del potere istituzionale, e di concentrarsi piuttosto sulla dimensione della giustizia come servizio verso i cittadini e tutte le persone che vivono nel nostro Paese, che hanno diritto a ottenere in tempi ragionevoli risposte alle domande di giustizia.

In quella Relazione, riprendendo una saggia constatazione dell’onorevole Presidente della Commissione giustizia della Camera dei deputati– avevo sottolineato che le perduranti polemiche e le contrapposizioni su questioni di

“riequilibrio di potere” producono soltanto il risultato di sottrarre attenzione, tempo ed energia alla soluzione della crisi d’efficienza, questione concreta e pressante che riguarda tutta la comunità nazionale.

Non ho cambiato idea. Il mio suggerimento e il mio auspicio, in questa situazione drammatica d’inefficienza e nel clima di contrapposizione che ostacola quello spirito di condivisione che deve essere posto alla base di importanti riforme costituzionali, sono di concentrarsi su quanto è necessario per ridare efficienza e funzionalità al sistema di giustizia, nell’interesse dei diritti dei cittadini e di tutte le persone che aspettano risposta alle loro domande di giustizia.

Roma 13 giugno 2011

Ernesto Lupo

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CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE UFFICIO DEL MASSIMARIO

     

Prot. N. 259/M/2011

     

R E L A Z I O N E

SUL DISEGNO DI LEGGE COSTITUZIONALE RECANTE “RIFORMA

DEL TITOLO IV DELLA PARTE II DELLA COSTITUZIONE”

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SOMMARIO.

1.L’INDEBOLIMENTO DEI VINCOLI COSTITUZIONALI PER IL LEGISLATORE ORDINARIO……….PAG.2 2.AUTONOMIA E INDIPENDENZA DEL PUBBLICO MINISTERO E SEPARAZIONE DELLE CARRIERE……….PAG.4 2.1. L’eclissi della magistratura come soggetto costituzionale………...pag. 4 2.2. L’anomala collocazione costituzionale del pubblico ministero………..pag. 4 2.3. Dalla tutela del magistrato requirente a quella della funzione requirente………...pag. 5 2.4. La separazione delle carriere………....pag. 6

3.IL RAPPORTO DEL PUBBLICO MINISTERO CON LA POLIZIA GIUDIZIARIA………..PAG.8 3.1. Disponibilità e subordinazione………..pag. 8 3.2. Le ulteriori ragioni dell’intervento normativo e l’incoerenza del testo proposto……….pag. 9

4.LA COSTITUZIONALIZZAZIONE DELLAPPELLO……….PAG.11 4.1. Il diritto all’appello della sentenza di condanna………pag. 11 4.2. Il divieto di appello avverso le sentenze di proscioglimento………....pag. 11 5. CENNI SULLOBBLIGATORIETÀ DELLAZIONE PENALE E SUI POTERI MINISTERIALI DI RELAZIONE AL

PARLAMENTO………..PAG.13 6.LA MAGISTRATURA ONORARIA………PAG.14 7. RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI……….PAG.15 7.1. La responsabilità diretta………..pag. 15 7.2. Le peculiarità della funzione giudiziaria: ricadute sulla disciplina della responsabilità civile……....pag. 15 7.3. Le possibili incoerenze del testo della riforma……….pag. 16 7.4. Le necessità di un ripensamento degli ambiti di responsabilità per atti giudiziari……….pag. 17 7.5. La responsabilità per atti lesivi della libertà personale………pag. 17

8.IL RUOLO DEL CSM NEL SISTEMA COSTITUZIONALE………...PAG.19 9.I DUE CONSIGLI SUPERIORI E LA LORO COMPOSIZIONE………..PAG.21 9.1. Il nuovo assetto………..pag. 21 9.2. La composizione…… ……….pag. 21

9.2.1. I membri elettivi…… ……….pag. 21 10.LE ATTRIBUZIONI DEL CSM………..PAG.23 10.1. Funzioni previste dalla Costituzione………pag. 23 10.2. Altre funzioni……….pag. 23 10.2.1. La legislazione ordinaria……….pag. 23 10.2.2. Le proposte di modifica………..pag. 24

11.LA CORTE DI DISCIPLINA DELLA MAGISTRATURA GIUDICANTE E REQUIRENTE………PAG.26 11.1. Il giusto processo disciplinare……….. pag. 28

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  2 1. L’indebolimento dei vincoli costituzionali per il legislatore ordinario

Prima di esaminare nel dettaglio le singole proposte di riforma costituzionale è doveroso soffermarsi sull’impostazione di fondo del disegno, che rischia di determinare una discutibile mutazione strutturale del Titolo IV del Capo II della Costituzione.

Con preoccupante frequenza, infatti, si rimette alla legge ordinaria la configurazione dei contenuti di disciplina in corrispondenza di una definizione poco impegnativa dei principi di riferimento, evitando così di vincolare le scelte di attuazione.

Quasi mai, peraltro, il rinvio è fatto in favore della legge di ordinamento giudiziario, prevalendo il richiamo alla legge, senz’altra qualificazione. Non si tratta di un marginale dettaglio, pur se la recente esperienza legislativa, con il ricorso finanche alla decretazione d’urgenza, di fatto ha negato al richiamo che in Costituzione più volte è fatto alla legge di ordinamento giudiziario il senso della necessità d’interventi organici, sistematicamente coerenti in una materia di così spiccata sensibilità costituzionale.

E, invece, il riferimento alla legge di ordinamento giudiziario dovrebbe significare che il legislatore ordinario, nel concretizzare le soluzioni attuative dei principi costituzionali, è vincolato anche alla ricerca di una coerenza di sistema, che sappia tradurre il senso pieno della pretesa di conformità alla Costituzione, secondo la previsione della VII disposizione transitoria, qualitativamente più intensa della mera non incompatibilità.

Ma la maggiore perplessità segue alla scelta di sostanziale disimpegno del legislatore costituzionale nella fissazione delle linee direttrici entro le quali potrà e dovrà muoversi il legislatore ordinario.

La riserva di legge, che nella sua assolutezza è certo un fattore di garanzia per la tutela della fisionomia costituzionale della magistratura e della funzione giudiziaria, vede fortemente scemata l’effettività del suo ruolo se il legislatore costituzionale sceglie di rimettere alla regolazione per legge ordinaria l’indispensabile compito di attuazione di valori e principi senza contenerne con criteri, anche generali ma sufficientemente definiti, l’ampia discrezionalità regolativa.

La fedeltà al modello rigido, pur ribadita formalmente dalla Relazione al disegno di legge, rischia di tramutarsi in una “decostituzionalizzazione” per vari aspetti.

Tanto si manifesta, e nel prosieguo se ne darà opportuna dimostrazione, in più punti dell’ordito della riforma, che ora brevemente si enumerano.

Il solido fondamento costituzionale, oggi assicurato dall’art. 104 Cost. all’autonomia e all’indipendenza di tutti i magistrati, ivi compresi quelli del pubblico ministero, è messo a rischio dalla previsione dell’art. 4 del disegno di legge che, riscrivendo il menzionato art. 104, affida alle norme di ordinamento giudiziario il compito di preservare autonomia e indipendenza dell’ufficio del pubblico ministero e non più anche dei magistrati che lo compongono.

Il principio di obbligatorietà dell’azione penale, posto dall’attuale art. 112 Cost., nell’assolutezza della formula, come pietra angolare di un sistema penale informato ai valori di legalità e di uguaglianza, trova nel disegno di legge una formale riaffermazione che lascia intravedere, con il generico richiamo alle forme di attuazione che la legge dovrà fissare in assenza di criteri–guida, il pericolo di un sostanziale indebolimento con non meglio specificate e prevedibili modalità di attuazione.

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La disponibilità della polizia giudiziaria, non dovrebbe essere più “diretta” in favore dell’autorità giudiziaria, e quindi con pienezza del vincolo funzionale; ancora una volta, la legge è chiamata a disciplinare, senza alcun vincolo finalistico o di contenuto, le modalità con cui il giudice e il pubblico ministero ne possono disporre.

La selezione dei magistrati per concorso, che costituisce nell’attuale sistema la garanzia migliore di reclutamento senza discriminazione e con accertamento dell’adeguata qualificazione tecnico-professionale, è resa potenzialmente marginale dalla previsione dell’ampliamento della magistratura onoraria, quindi non professionale e non reclutata per concorso, con la possibilità d’impiego della stessa anche oltre l’attuale limite costituito dall’attribuzione delle funzioni proprie dei giudici singoli.

Il venir meno del limite rappresentato dall’affidamento delle funzioni proprie dei giudici singoli, quindi di minor rilievo, può costituire la premessa per l’inversione dell’attuale rapporto di prevalenza della magistratura professionale, che dà, per le modalità di reclutamento, garanzie maggiori quanto meno di preparazione tecnico-professionale.

Non può allora tacersi come la rinuncia di fatto alla struttura rigida in materia tanto sensibile per la garanzia dell’ordinamento democratico finisca per attribuire al legislatore del momento (qualunque ne sia la sua ispirazione) un potere eccessivo, il cui esercizio non assistito da una definita e stringente cornice costituzionale potrebbe confliggere con la piena ed effettiva tutela dei diritti fondamentali.

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  4 2. Autonomia e indipendenza del pubblico ministero e separazione delle carriere

2.1. L’eclissi della magistratura come soggetto costituzionale.

Il nuovo art. 104 Cost. (art. 4 d.d.l.) stabilisce al comma 2 che «la legge assicura la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri». La disposizione concorre in maniera decisiva a definire l’opera di differenziazione, sul piano strutturale e non solo funzionale, della figura del pubblico ministero da quella del giudice, a cui sono peraltro rivolte la maggior parte delle modifiche proposte.

Il comma 1 dello stesso art. 104, nel testo proposto dal d.d.l., prevede invero che i magistrati si «distinguono in giudici e pubblici ministeri», apparentemente continuando a presupporre l’unitarietà dell’ordine giudiziario, ma in realtà così non è.

Innanzi tutto, secondo il disegno di legge, il Titolo IV della parte seconda della Costituzione dovrebbe mutare la rubrica dall’attuale «La Magistratura» a «La Giustizia», asseritamente al fine di rimarcare l’essenzialità del bene alla cui tutela è funzionale l’azione giudiziaria nel suo complesso considerata, sorvolandosi in tal modo sulle profonde ragioni che avevano alfine convinto i costituenti ad assumere l’intitolazione ancora vigente e che non possono essere riduttivamente circoscritte (come invece suggerito nella Relazione al d.d.l.) alla sola esigenza di non spezzare la continuità euritmica con le denominazioni assegnate ai titoli precedenti, dedicati al Parlamento e al Governo.

E in tal senso appare significativa anche la sostituzione della rubrica della Sezione I del Titolo IV, non più dedicata all’Ordinamento giurisdizionale, bensì più semplicemente agli

«Organi».

In secondo luogo, l’intervento normativo intende elevare (all’art. 101, comma 2, Cost., secondo quanto previsto dall’art. 2 d.d.l.) i soli giudici a componenti di «un ordine autonomo e indipendente da ogni potere» e non più la magistratura nel suo complesso, come previsto invece dall’attuale formulazione del primo comma dell’art. 104 Cost.

Al pubblico ministero continua a essere attribuita la qualifica di «magistrato», dunque, ma tale qualifica cessa di determinarne l’appartenenza all’ordine giudiziario, perdendo di significato costituzionale la stessa “magistratura”, e diviene funzionale invece solo all’estensione al titolare dell’azione penale del vincolo concorsuale per la nomina (art. 106, comma 1, Cost., non toccato dal d.d.l.), di quello di distinzione solo per funzioni (art. 107, comma 3, Cost., anch’esso non interessato dall’intervento legislativo) e, soprattutto, del principio di inamovibilità (art. 107, comma 1 Cost.), che peraltro il d.d.l. intende attenuare, introducendo la previsione del potere consiliare di destinazione ad altre sedi, per casi eccezionali la cui individuazione e disciplina sarebbe rimessa, senza altre specificazioni, alla legge ordinaria.

2.2. L’anomala collocazione costituzionale del pubblico ministero.

Se solo i giudici costituiscono un ordine «autonomo e indipendente», rimane di non immediata comprensione quale sia l’effettiva “posizione” assegnata ai pubblici ministeri nel nuovo assetto costituzionale.

L’unico elemento realmente unificante della categoria è rappresentato dalla sottoposizione all’istituendo Consiglio della magistratura requirente. Ma al di là di ciò, essi,

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cessando di appartenere all’ordine giudiziario e non costituendo un ordine ulteriore e distinto, finiscono per incarnare una figura ibrida, a metà strada tra il giudice e il pubblico funzionario, dall’incerta identità costituzionale.

Il che rischia di accentuare quella “frammentazione” della funzione requirente che il d.d.l., secondo le parole della Relazione, auspica in tal modo di ridurre.

L’incertezza di cui si è detto si riflette anche sul terreno delle garanzie che la riforma vorrebbe assegnare al titolare dell’azione penale. È sì vero, infatti, che il progettato nuovo terzo comma dell’art. 104 Cost. dovrebbe prevedere che «l'ufficio del pubblico ministero è organizzato secondo le norme dell'ordinamento giudiziario che ne assicurano l'autonomia e l'indipendenza», ma è altrettanto vero che è lo stesso ricorso al filtro della legge ordinaria a suscitare perplessità.

Infatti, nell’assetto vigente il rinvio alle norme dell’ordinamento giudiziario (contenuto nell’art. 107, comma 4, Cost.) pacificamente riguarda l’organizzazione interna dell’ufficio del pubblico ministero, rimanendo quest’ultimo comunque garantito da interferenze esterne in forza dell’omologazione alla magistratura giudicante sotto questo profilo.

2.3. Dalla tutela del magistrato requirente a quella della funzione requirente.

Non solo, l’assicurazione dell’autonomia e l’indipendenza sarebbe assicurata esclusivamente «all’ufficio» e non al singolo magistrato requirente, come peraltro sottolineato anche nella stessa Relazione al d.d.l. Ed in tal modo il rischio che la modulazione delle norme ordinamentali nel senso di un’eccessiva gerarchizzazione dell’ufficio del pubblico ministero possa finire per compromettere in concreto la stessa tenuta ed effettività del principio di obbligatorietà dell’azione penale (soprattutto nella sua forma attenuata ipotizzata dal progetto di riforma) appare tutt’altro che remoto, anche alla luce della già segnalata incertezza che accompagna la collocazione istituzionale del pubblico ministero.

L’assenza di espresse forme di garanzia dell’indipendenza funzionale (nella sua duplice proiezione interna ed esterna) del singolo magistrato requirente (peraltro abitualmente previste negli ordinamenti continentali che coltivano la separazione tra magistratura giudicante e magistratura requirente) rischia di svuotare di contenuto la stessa previsione di un organo di governo autonomo della magistratura requirente, atteso che storicamente la ragione per cui i costituenti istituirono il Csm corrisponde proprio all’esigenza di rendere effettiva l’indipendenza attribuita al singolo magistrato.

Infine deve essere sottolineata l’aporia generata dal mancato intervento sull’art. 108 Cost., disposizione che impone alla legge ordinaria di assicurare «l’indipendenza» del pubblico ministero presso le giurisdizioni speciali. Posto che la norma di garanzia si rivolge in questo caso alla tutela del singolo magistrato requirente, verrebbe a determinarsi una non agevolmente giustificabile disomogeneità tra le prerogative di cui godrebbe il pubblico ministero “speciale” rispetto a quello “ordinario”.

In tal senso potrebbe essere allora utile valutare la soluzione adottata nel progetto varato dalla Commissione bicamerale istituita con l. cost. n. 1 del 1997, la quale, nell’affrontare il delicato tema, aveva individuato come punto di equilibrio quello di estendere anche ai magistrati requirenti la garanzia della soggezione soltanto alla legge - ora riservata dal secondo comma dell’art. 101 Cost. solo al giudice (inteso come singolo) – e, per assicurare un certo grado di unitarietà nello svolgimento delle relative funzioni, di prevedere altresì che le

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  6 norme sull'ordinamento giudiziario assicurassero il coordinamento e l'unità di azione degli uffici del pubblico ministero.

E nello stesso senso potrebbe essere utile prendere in considerazione anche l’emendamento presentato nel corso dei lavori della Commissione dal relatore di maggioranza, che continuava a riservare ai giudici il monopolio della soggezione alla legge - nel timore che la sua estensione finisse per interferire con l’efficacia della funzione requirente – ma al contempo stabiliva che «i magistrati del pubblico ministero sono indipendenti da ogni potere e godono delle garanzie stabilite nei loro riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario» e che «tali norme assicurano altresì il coordinamento interno dell'ufficio del pubblico ministero ed il coordinamento, ove necessario, delle attività investigative tra gli uffici del pubblico ministero».

In merito alla separazione della figura del giudice da quella del pubblico ministero, va ancora evidenziato che il d.d.l. interviene anche sul primo comma dell’art. 102 Cost., prevedendo che la «giurisdizione» (formula destinata a sostituire quella di «funzione giurisdizionale» vigente) non sia più esercitata dai «magistrati ordinari», bensì soltanto dai

«giudici ordinari». Disposizione questa che vorrebbe concorrere a garantire, anche e soprattutto nell’ottica dell’art. 111 Cost., la posizione di terzietà del giudice.

2.4. La separazione delle carriere.

In questo contesto la disposizione che impone alla legge di assicurare la «separazione delle carriere» dei giudici assume, come accennato in precedenza, un ruolo centrale nel progetto di riforma. Ad essa si vorrebbe, infatti, assegnare in via prioritaria il compito della definitiva affermazione della forma triadica del processo sancita dal menzionato art. 111 Cost., al fine della più completa garanzia dell’imparzialità della decisione giudiziaria.

In proposito va innanzi tutto osservato come la locuzione utilizzata («separazione delle carriere» per l’appunto) appaia poco felice e risenta più che altro della tralaticia semplificazione mediatica del risalente dibattito sull’assetto costituzionale del potere giudiziario.

Essa non esprime in modo compiuto l'oggetto dell’intenzione legislativa. La quale non è, all’evidenza, tanto quella di sottoporre i magistrati della decisione e i magistrati dell'accusa a differenti regimi per lo sviluppo delle rispettive carriere (come la lettera della formula suggerirebbe); bensì, in termini ben più ampi, quella di affermare che le due figure, del giudice e del pubblico ministero, debbano appartenere a distinte organizzazioni di ordinamento giudiziario e avere conseguentemente distinte configurazioni istituzionali.

In tal senso suscita allora qualche dubbio che la norma “manifesto”, contenuta nel secondo comma dell’art. 104, sia effettivamente necessaria, tenuto conto delle altre modifiche che l’intervento normativo intende introdurre e sulle quali si è ragionato in precedenza. Le stesse, infatti, sono già autonomamente in grado di realizzare compiutamente l’invocata

“separazione” delle organizzazioni giudiziarie, atteso che esse determinano inequivocabilmente ed in maniera vistosa l’espulsione del pubblico ministero dall’ordine giudiziario propriamente detto.

Non risulta dunque ben definito quale sia l’ambito del rinvio operato alla legge ordinaria, la quale, muovendosi in un quadro costituzionale già così ben definito, non potrebbe certo sovvertire, sul versante ordinamentale, quella separazione realizzata dalla normativa di rango superiore. Piuttosto la schematicità del principio, cui la legge nel disciplinare gli aspetti di dettaglio è chiamata ad uniformarsi, rischia per un verso di imporre irragionevoli disparità di

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trattamento tra le due categorie di magistrati e per l’altro di compromettere la stessa possibilità di scelte legislative quanto mai opportune.

Non è agevole ipotizzare, in un assetto come quello definito dalla disposizione di cui si tratta, quali possano essere gli effettivi spazi concessi al legislatore per configurare meccanismi che consentano, quantomeno, il transito dal “Corpo” requirente all’ordine giudiziario, la cui previsione appare invece quanto mai utile, garantendo di integrare il reclutamento primario della magistratura giudicante attraverso l’inserimento di magistrati professionalmente già qualificati.

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  8 3. Il rapporto del pubblico ministero con la polizia giudiziaria

3.1. Disponibilità e subordinazione.

Attraverso la modifica proposta all'art. 109 della Costituzione (art. 10 d.d.l.) si stabilisce che il giudice e il pubblico ministero dispongono della polizia giudiziaria «secondo le modalità stabilite dalla legge», e si attenua in tal modo la perentorietà della vigente formulazione della citata disposizione costituzionale, la quale prevede che l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria, senza concedere alla legge ordinaria spazi di modulazione del principio.

La laconicità del disposto normativo consiglia di ricordare come la modifica, per la Relazione al d.d.l., sia necessaria innanzi tutto perché «sul piano amministrativo e su quello organizzativo, non può esservi subordinazione della polizia giudiziaria alla magistratura».

Sul punto è peraltro doveroso ricordare come l’attuale art. 109 sia preordinato a dare compiutezza alle disposizioni della Carta che fissano le garanzie relative all’esercizio della funzione giudiziaria. Nella formulazione originaria non ha imposto la creazione di un Corpo autonomo di polizia giudiziaria alle esclusive dipendenze dell’autorità giudiziaria, ma, come unanimemente riconosciuto, nemmeno ha escluso tale eventualità, rimettendo in sostanza al legislatore ordinario la scelta della modulazione del principio.

Ciò da cui i costituenti non hanno inteso prescindere è la necessità che il collegamento tra polizia giudiziaria e autorità giudiziaria assuma carattere diretto, in modo da escludere innanzi tutto la possibilità d’interferenze in grado di compromettere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura; e ciò nella consapevolezza che la non precarietà del rapporto tra organo investigativo e autorità requirente è condizione irrinunciabile per l’effettività del principio di obbligatorietà dell’azione penale, atteso che la disponibilità dell’organo investigativo costituisce la premessa “tecnica” per l’attivazione dei poteri del magistrato requirente.

Come noto, il codice di rito vigente non ha preso in considerazione l’opzione di costituire un Corpo autonomo di polizia giudiziaria in rapporto di dipendenza organica con il pubblico ministero, e si è scelta una soluzione intermedia in grado di soddisfare il dettato costituzionale senza interrompere i legami strutturali della polizia giudiziaria con i Corpi di appartenenza, atteso che il rapporto di dipendenza diretta, come detto, non imponeva anche il carattere dell’esclusività. Una soluzione comunque equilibrata che negli anni ha nel suo complesso fornito una buona prova sotto il profilo della funzionalità e della tutela dei valori costituzionali presupposti.

In tal senso, dunque, non appaiono del tutto comprensibili le ragioni della modifica proposta. In primo luogo la soppressione del riferimento al carattere diretto del rapporto di dipendenza viene motivato nella Relazione, tra l’altro, con l’esigenza di escludere la possibilità di un rapporto di “subordinazione” tra polizia giudiziaria e magistratura.

Come si è già ricordato, tale carattere non è imposto dal testo vigente della norma costituzionale, ed è rimasto estraneo alla tradizione legislativa in materia processuale. In ogni caso, qualora l’intenzione sia quella di voler escludere anche solo l’eventualità di una futura subordinazione organica della polizia giudiziaria, è eccessivo darvi corso ridimensionando la relazione di dipendenza nel senso indicato.

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3.2. Le ulteriori ragioni dell’intervento normativo e l’incoerenza del testo proposto.

La Relazione, nell’illustrare le ragioni della modifica proposta, spiega altresì che si completerebbe «il disegno rivolto a perfezionare la capacità repressiva dello Stato attraverso una chiara distinzione dei ruoli che spettano alla polizia e alla magistratura (in particolare, quella inquirente). Alla prima dovrà essere riconosciuta piena autonomia nell'attività di

“preinvestigazione”, che tende a verificare l'esistenza e l'evoluzione dei fenomeni criminali e che consiste nel ricercare e acquisire liberamente le notizie di reato attraverso ogni strumento di conoscenza e osservazione della realtà (ad esempio, la conoscenza diretta del fatto, la confidenza privata, l'informazione giornalistica, il fatto notorio). All'ufficio del pubblico ministero sono riservate, invece, conformemente alla sua natura di autorità giudiziaria, le attività di carattere processuale relative alla valutazione dei risultati dell'investigazione, alle richieste da presentare al giudice, all'esercizio dell'azione penale, alla funzione di accusa nel dibattimento».

In altri termini la funzione assegnata al “nuovo” art. 109 Cost. sarebbe quella di introdurre un inedito vincolo costituzionale alla disciplina del profilo dei poteri del pubblico ministero, sostanzialmente privandolo della direzione dell’indagine e relegandolo al ruolo di

“avvocato dell’accusa”, atteso che allo stesso spetterebbe unicamente il compito di valutare le risultanze investigative ai fini dell’esercizio dell’azione penale.

È perfino superfluo sottolineare come l’ipotizzato assetto risulti estraneo alla tradizione processuale del nostro Paese e, soprattutto, in conflitto agli assetti delineati nel codice di rito vigente (che, dunque, sul punto dovrebbe essere totalmente riscritto contestualmente all’entrata in vigore della riforma costituzionale). L’osservazione potrebbe, infatti, essere ritenuta non dirimente, atteso che quella tratteggiata è una consapevole scelta di discontinuità con il passato.

Ciò che preme evidenziare, invece, è come nel testo della disposizione contenuta nell’art.

10 del d.d.l. non vi sia alcun diretto riscontro di questa visione del ruolo funzionale del titolare dell’azione penale (che dunque è arduo ritenere, in prospettiva, costituzionalmente imposta), mentre il rinvio – che a questo punto finisce con l’essere eccessivamente ampio -alla legge ordinaria non può ritenersi sufficiente a realizzarla. È evidente che il principio di autonomia ed indipendenza dell’ufficio del pubblico ministero (e dunque della funzione requirente), che pure la stessa riforma vuole assicurare, e soprattutto quello di obbligatorietà dell’azione penale rischiano di entrare in irrimediabile conflitto con eventuali disposizioni di legge la cui sostanziale finalità fosse quello di “isolare” la parte pubblica dalla fase investigativa.

E non meno problematica sarebbe la compatibilità delle stesse disposizioni con il principio di parità processuale delle parti sancito dall’art. 111 Cost. e con i principi previsti da numerosi strumenti internazionali vincolanti per l’Italia, che impongono che l’investigazione sia condotta da un’autorità indipendente, anche e soprattutto nell’interesse dell’indiziato.

In realtà, un assetto come quello immaginato è possibile solo in un sistema costituzionale che preveda la diretta dipendenza del pubblico ministero, al pari dei Corpi di Polizia, dall’Esecutivo ed è, infatti, recepito soltanto negli ordinamenti di quei Paesi che tale architettura costituzionale hanno eletto. Se invece, come lo stesso disegno di legge afferma di voler ribadire, la collocazione costituzionale del titolare dell’azione penale è altra, non è possibile confinare il medesimo nel ruolo passivo descritto in riferimento all’investigazione preliminare, se non negando nei fatti ciò che si afferma invece in principio e cioè che di tale figura deve essere garantita l’indipendenza funzionale esterna.

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  10 La stessa Relazione appare contraddittoria sul punto, posto che, come si è illustrato, per un verso descrive l’improbabile scenario giustificativo di cui si è detto e per l’altro afferma invece che scopo della modifica costituzionale sarebbe solo quella di assicurare maggiore autonomia «nell’attività di “preinvestigazione”». A parte la dimensione più squisitamente criminologica che giuridica del concetto evocato, è appena il caso di evidenziare in proposito come la maggior parte delle attività che la Relazione riconduce nel suo perimetro non riguardano le funzioni di polizia giudiziaria, bensì quelle della polizia di sicurezza e sarebbero dunque per definizione già escluse dal fuoco della norma costituzionale così come attualmente configurata.

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4. La costituzionalizzazione dell’appello

4.1. Il diritto all’appello della sentenza di condanna.

L'articolo 12 del d.d.l., introducendo un nuovo comma nell’art. 111 Cost., riconosce il diritto all’appello dell’imputato dichiarato colpevole, intendendo così conferire rango costituzionale all’impugnazione di merito e ritenendo in tal modo di interpretare il diritto al doppio grado giudizio in materia penale previsto dall'articolo 2 del Protocollo n. 7 della CEDU.

Ma, come noto, l’interpretazione di tale disposizione non è unanime, ritenendosi in particolare che tale diritto non implichi la necessità dell’accesso ad un secondo giudizio nel quale il giudice abbia gli stessi poteri di cognizione di quello di prime cure, espressamente stabilendo la Convenzione che «l’esercizio di tale diritto, ivi compresi i motivi per cui esso può essere esercitato, è disciplinato dalla legge». In tal senso i legislatori nazionali rimangono liberi di restringere l’ammissibilità dell’impugnazione solo ad alcune tipologie di motivi, come effettivamente accade negli ordinamenti di alcuni degli Stati aderenti.

La scelta di costituzionalizzare l’appello sembra dunque andare oltre i motivi che dichiaratamente dovrebbero giustificarla. E tale scelta rischia di irrigidire oltremodo le coordinate costituzionali del sistema processuale delle impugnazioni, atteso che la stessa conservazione dell’appello nel merito, una volta impressa al processo un’impronta marcatamente accusatoria, è stata da più parti ritenuta incoerente. Non solo la fuga in avanti adottata dal disegno di legge appare incompatibile con l’unanime opinione secondo cui è proprio il sistema delle impugnazioni, così come attualmente configurato, a costituire una delle principali ragioni dei tempi della giustizia ed a necessitare di profondi interventi riformatori, all’evidenza compromessi in radice in tal modo.

Ed in tal senso la modulazione dell’esercizio del diritto rimessa alla legge ordinaria dal disegno di riforma appare ridimensionare solo marginalmente le illustrate obiezioni, in quanto la clausola di limitazione è espressamente condizionata a parametri (natura del reato, della pena o della decisione) che garantiscono solo un modesto contenimento dei casi d’appello (sostanzialmente replicando la situazione attualmente esistente sulla base delle norme del codice di rito).

La disposizione potrebbe assumere una diversa e maggiormente positiva valenza – e maggiore aderenza, come si è visto, al dettato della norma internazionale – qualora ai suddetti parametri selettivi venisse aggiunto anche quello del motivo d’impugnazione, consentendo al legislatore ordinario di modulare in maniera effettiva nei diversi momenti storici l’oggetto del giudizio d’appello.

4.2. Il divieto di appello avverso le sentenze di proscioglimento.

Sempre nello stesso nuovo comma dell’art. 111 Cost. il disegno di riforma vorrebbe poi introdurre il principio dell’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento quale punto di equilibrio tra la libertà del cittadino e la pretesa punitiva statuale ed al fine, per come si legge nella Relazione, di evitare che perseguire ancora l'ipotesi accusatoria, pur dopo che questa non abbia trovato conferma processuale, faccia perdere all'azione pubblica i tratti della doverosa ricerca della verità e rischi di farle assumere, invece, «le vesti di un atteggiamento persecutorio».

In tal senso la proposta sembra dimenticare le legittime aspettative della vittima del reato in ordine alla ricerca ed affermazione della verità, nonostante le sempre crescenti

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  12 pressioni che gli strumenti internazionali esercitano in proposito sul nostro ordinamento (v., però, nel senso della particolare considerazione della posizione della vittima le proposte di legge costituzionale n. 199/C e n. 1039/C, ambedue di modifica dell’art. 111). Ma a parte ciò è la stessa coerenza del testo normativo proposto con le ragioni che lo avrebbero ispirato a lasciare perplessi, atteso che la disposizione prevede che «le sentenze di proscioglimento sono appellabili soltanto nei casi previsti dalla legge», senza fornire alcuna indicazione sugli effettivi limiti posti alle scelte del legislatore ordinario e che dunque potrebbero rischiare di svuotare di significato il principio affermato.

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5. Cenni sull’obbligatorietà dell’azione penale e sui poteri ministeriali di relazione al Parlamento

L’art. 13 del disegno di legge conferma il principio di obbligatorietà dell’azione, riferendo l’obbligo non più al pubblico ministero ma all’ufficio del pubblico ministero, secondo la formula espressiva già oggetto di commento.

Alla previsione di tal tipo aggiunge che l’esercizio dell’azione penale deve avvenire

“secondo i criteri stabiliti dalla legge”, inciso eccessivamente vago che non fa comprendere a quali criteri il legislatore ordinario dovrà attenersi per regolare l’obbligatorietà confermata in Costituzione.

La stessa Relazione al disegno di legge riconosce che il tema dell’obbligatorietà è banco di prova, oltre che per efficacia dell’azione giudiziaria, per la tenuta del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. L’affermazione non fa che richiamare l’insegnamento della Corte costituzionale che, con la sentenza n. 88 del 15 febbraio 1991, ebbe a precisare che il principio di legalità penale necessita, per la sua concretizzazione, della legalità nel procedere e questa, in un sistema “fondato sul principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge non può essere salvaguardata che attraverso l’obbligatorietà dell’azione penale”.

Sulla premessa dell’indefettibilità del principio di obbligatorietà, non soddisfa, nei generici termini in cui è articolato, il rinvio alla legge ordinaria per la modulazione del concreto esercizio dell’azione, sì da evitare come si legge nella Relazione al disegno di legge, che temperamenti e inevitabili attenuazioni dell’obbligatorietà siano affidate a scelte soggettive casuali dei singoli uffici.

Resta senza risposta l’esigenza di un più sicuro ancoraggio della discrezionalità del legislatore ordinario alla tutela effettiva degli interessi sottostanti alla previsione costituzionale.

Nel delineare, ad esempio, criteri di priorità dell’azione penale, che è il temperamento a cui guarda la Relazione al disegno di legge, il legislatore ordinario dovrebbe esser assistito da definiti criteri di orientamento d’ordine costituzionale, apparendo altrimenti alto il rischio di eccessi di normazione ordinaria che finiscano col tradire, più o meno consapevolmente, il precetto costituzionale.

Non può poi passare inosservato che obbligatorietà significa irresponsabilità politica nella gestione dell’azione penale e che soltanto il principio di opportunità giustifica intromissioni del potere politico nelle scelte, nella responsabilità di azione.

Non si comprende, allora, il senso della previsione di cui all’art. 11 del d.d.l., di modifica dell’art. 110 Cost., laddove affida al Ministro della Giustizia il compito di riferire annualmente alle Camere non solo sullo stato della giustizia, il che trova fondamento nella responsabilità per il funzionamento dei servizi, quanto “sull’esercizio dell’azione penale e sull’uso dei mezzi di indagine”.

La previsione suscita non poche perplessità, perché sfugge la coerenza di un disegno che attribuisce un potere di relazione in capo a un organo del tutto estraneo ai compiti di direzione e gestione dell’azione penale.

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6. La magistratura onoraria

L’art. 8 del disegno di legge interviene sulle disposizioni costituzionali che dettano i principi per il reclutamento dei magistrati, in particolare sul comma 2 dell’art. 106, che prevede una delle due deroghe alla regola generale della selezione per concorso (l’altra è costituita dalla nomina per meriti insigni all’ufficio di consigliere di cassazione di avvocati e professori in materie giuridiche). In particolare, il disegno di legge intende eliminare l’inciso

“per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli”, che nell’attuale assetto limita la possibilità di fare ricorso a una magistratura onoraria, eventualmente reclutata elettivamente, per la trattazione di affari giudiziari di maggiore importanza. Storicamente, infatti, la monocraticità dell’organo, questo il significato del richiamo alle funzioni dei giudici singoli, ha qualificato la giurisdizione c.d. minore, un tempo affidata a giudici conciliatori e pretori.

Dal dibattito che si sviluppò in sede costituente emerse la netta prevalenza per il sistema di reclutamento per concorso, e già l’ammissione di una nomina elettiva per la magistratura onoraria registrò la diversa posizione di quanti (soprattutto Calamandrei, ma anche Leone) ritenevano che l’elezione fosse coerente con un ordinamento giuridico ispirato dal diritto libero, dove il magistrato è operatore della politica, e non con un ordinamento informato dal principio di legalità, che postula la necessità di un magistrato tecnico reclutato attraverso un concorso capace di verificare l’adeguatezza del profilo professionale.

La netta preferenza per una magistratura legittimata non dalla selezione elettorale ma da quella concorsuale, e quindi sulla base di un’elevata qualità tecnico-professionale, emerge dal testo costituzionale per la previsione di esordio dell’art. 106, comma primo, che, appunto, prescrive in linea generale tale forma di reclutamento.

Se la deroga di cui al comma successivo perdesse l’espresso limite del riferimento alle funzioni dei giudici singoli, si avrebbe un’incoerenza di fondo dell’assetto costituzionale perché si smarrirebbe il senso, tra i due contrapposti canali di accesso, del rapporto “regola – eccezione”, con l’effetto di consegnare al legislatore ordinario il potere, non meglio delimitato, di invertire il rapporto magistratura professionale – magistratura onoraria, marginalizzando la prima in favore della seconda, eventualmente scelta col sistema elettorale, in sostanziale violazione della persistente previsione dell’accesso in magistratura per concorso.

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7. Responsabilità civile dei magistrati

7.1. La responsabilità diretta.

Il disegno riformatore prevede l’aggiunta in Costituzione dell’art. 113-bis, che va a comporre un’apposita sezione dedicata alla responsabilità dei magistrati.

Il nuovo articolo è formato da disposizioni che, per la gran parte, riprendono il testo dell’art. 28 Cost., ove si stabilisce, è appena il caso di ricordarlo, che i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, anche civilmente, degli atti compiuti in violazione dei diritti.

La stessa formula della responsabilità diretta per gli atti compiuti in violazione dei diritti è ora ripresa dalla proposta di riforma e riferita espressamente ai magistrati. Ciò però è fatto senza riprodurre l’inciso che all’art. 28 qualifica la responsabilità diretta, con il richiamo alle leggi penali, civili e amministrative. Nel testo dell’articolo del disegno di legge, peraltro, i commi successivi a quello in cui è prevista la responsabilità diretta dei magistrati sono interamente ed esclusivamente dedicati alla responsabilità civile.

La disarmonia, che pure è evidente per l’assenza di valide ragioni volte all’esclusione del riferimento alle responsabilità penali e amministrative dei magistrati nella sezione dedicata genericamente alla loro responsabilità, non dovrebbe essere causa di ricadute interpretative dal momento che l’art. 28 Cost., completo nei richiami alle varie forme di responsabilità, ha riguardo anche ai magistrati.

7.2. Le peculiarità della funzione giudiziaria: ricadute sulla disciplina della responsabilità civile.

La Relazione al disegno di legge costituzionale ha piena consapevolezza della portata dell’art. 28 Cost. che, nel fissare il principio della responsabilità diretta, anche civile, dei funzionari dello Stato e degli enti pubblici ha inteso ricondurre a quest’ampia categoria soggettiva anche i magistrati.

Le iniziali incertezze che in dottrina erano state manifestate circa la possibilità di annoverare nella categoria dei funzionari dello Stato richiamata dall’art. 28 Cost. anche i magistrati furono superate dalla sentenza n. 2 dell’11 marzo 1968 della Corte costituzionale, di infondatezza della questione di legittimità degli artt. 55 e 74 del codice di procedura civile, che limitavano al dolo, alla frode e alla concussione (oltre che all’omissione di atti d’ufficio) la responsabilità personale dei magistrati, e quindi escludevano da responsabilità, secondo la prospettazione del giudice a quo, i danni derivanti da atti colposi del giudice.

La Corte chiarì che l’autonomia e l’indipendenza non pongono la magistratura al di là dello Stato, come se fosse “legibus soluta”, e non pongono i giudici al di fuori dell’organizzazione statale. La giurisdizione è, infatti, funzione dello Stato e i giudici, nell’esercizio della stessa, svolgono attività al servizio dello Stato.

Tanto premesso, la Corte aggiunse che, ferma restando la necessità di previsione di responsabilità, la singolarità della funzione, la natura dei provvedimenti, la stessa posizione, super partes, possono bene indurre a istituire condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati.

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  16 L’affermazione della legittimità di condizioni e limiti fu ribadita dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 26 del 3 febbraio 1987, di ammissione della richiesta di referendum popolare per l’abrogazione degli artt. 55, 56 e 74 del codice di procedura civile.

In tale occasione la Corte precisò che condizioni e limiti di responsabilità possono essere apposti in considerazione delle previsioni costituzionali a tutela dell’indipendenza e autonomia della funzione giudiziaria.

E successivamente, la Corte, con la sentenza n. 468 del 22 ottobre 1990 di scrutinio della costituzionalità della legge n. 117 del 1988 sulla responsabilità civile dei magistrati, individuò la concretizzazione delle condizioni e dei limiti alla responsabilità nei meccanismi di

“filtro” della domanda giudiziale, quale controllo preliminare della non manifesta infondatezza per l’esclusione delle azioni temerarie e intimidatorie nei confronti dei magistrati.

Nella stessa prospettiva, di una legislazione che si faccia carico delle prerogative della funzione giudiziaria, si è di recente mossa la Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa “sui giudici: indipendenza, efficacia e responsabilità” del 17 novembre 2010, al cui punto 67 si legge che “soltanto lo Stato, ove abbia dovuto concedere una riparazione, può richiedere l’accertamento di una responsabilità civile del giudice attraverso un’azione innanzi a un tribunale”. L’intendimento di questo passo della Raccomandazione è chiaro: la previsione di responsabilità civile del magistrato, pur legittima, non può essere piegata a strumento di indebita pressione, di ritorsione per decisioni non gradite, fermo restando che, come si dirà oltre, anche condotte che non raggiungono la gravità, oggettiva e soggettiva, meritevole di una responsabilità civile diretta, ma che causano danni ingiusti devono trovare nella responsabilità dello Stato, salva l’azione di rivalsa, la risposta di tutela alle legittime pretese risarcitorie.

In questo contesto interpretativo delle vigenti disposizioni costituzionali, il significato della previsione espressa della responsabilità civile diretta dei magistrati potrebbe essere quello di deprimere il ricorso, nella legge di attuazione, a forme di filtro di ammissibilità dell’azione e alla principale esposizione dello Stato, fatta salva, per alcune ipotesi, l’azione di rivalsa. Ma, ove mai fosse questo l’intendimento della riforma, dovrebbe porsi l’accento sull’imprescindibile considerazione dei concorrenti, e potenzialmente confliggenti, valori di autonomia e indipendenza dei magistrati, che militano nel senso dell’impossibilità che siano superati gli attuali confini operativi della disposizione dell’art. 28 Cost.

7.3. Le possibili incoerenze del testo della riforma.

Anche su questo aspetto, della piena costituzionalità di discipline della responsabilità civile dei magistrati diversificate rispetto a quelle di regolazione della responsabilità dei funzionari pubblici, la Relazione al disegno di legge costituzionale mostra continuità con quanto affermato a più riprese dalla Corte costituzionale, affermando testualmente che “restano riservate alla discrezionalità del legislatore tutte le scelte sulla concreta disciplina da adottare, nel solco delle prerogative della magistratura…”.

Non dovrebbe dunque essere introdotta alcuna rilevante innovazione se è la stessa Relazione a riprendere i contenuti dell’art. 28 Cost. e a confermare approdi interpretativi consolidati.

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