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Stati Generali dell'Esecuzione Penale - Documento finale

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Academic year: 2021

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STATI GENERALI SULL’ESECUZIONE PENALE Documento finale

Indice pag. 1

Parte prima

Ragioni e obiettivi di una scelta metodologicamente inedita pag. 5

1. Premessa pag. 5

2. L’approccio metodologico pag. 7

3. Un modello “costituzionalmente orientato” di esecuzione delle pene pag. 9

4. Linee per una riforma pag. 11

Parte seconda

Dignità e diritti: una reciproca implicazione pag. 16

1. Per l’effettività dei diritti pag. 16

2. Il nocciolo duro della dignità pag. 16

3. Il diritto al mantenimento dei rapporti con il mondo esterno pag. 18 3.1. Territorialità della pena e rapporti familiari pag. 18

3.2. Il preminente interesse dei minori pag. 19

3.3. I permessi pag. 20

3.3.1. Eventi di particolare rilevanza esistenziale pag. 20 3.3.2. Eventi di particolare rilevanza soggettiva pag. 20

3.3.3. Permesso di affettività pag. 21

3.4. Colloqui e corrispondenza pag. 21

3.4.1. Colloqui, corrispondenza elettronica e

collegamenti audiovisivi pag. 21

3.4.2. Visite senza controllo visivo pag. 22

3.4.3. Liberalizzazione dei colloqui telefonici pag. 23

3.4.4. Colloqui con il difensore pag. 23

3.5. I rapporti con gli Enti locali, con il volontariato e con il mondo

esterno pag. 23

4. Il diritto al lavoro pag. 24

4.1. “Normalizzazione” del lavoro penitenziario pag. 24 4.2. Rilancio delle lavorazioni negli istituti penitenziari pag. 25 4.3. Valorizzazione delle attività funzionali al progresso della società pag. 25

5. Il diritti inerenti al bene salute pag. 26

5.1. L’incompiuto processo di riforma della medicina penitenziaria pag. 26 5.2. Cartelle cliniche digitali e telemedicina pag. 27

5.3. Il trattamento dei dati sanitari pag. 27

5.4. La tutela dei soggetti con disagio psichico pag. 28 5.5. Integrità psico-fisica e spazio della pena pag. 28 5.6. Divisione di competenze e conquiste “culturali” pag. 29

6. Il diritto all’istruzione pag. 29

7. I diritti inerenti alla sfera religiosa pag. 30

8. I diritti politici pag. 30

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Parte terza

La tutela dei soggetti vulnerabili pag. 32

1. Premessa pag. 32

2. Minorità sociale e vulnerabilità dietro le sbarre pag. 33 2.1. Soggetti affetti da dipendenza patologica pag. 34 2.2. Soggetti a rischio di autolesionismo e di suicidio pag. 36

2.3. Sex offenders pag. 37

2.4. Vulnerabilità inerenti all’orientamento sessuale e/o all’identità di

genere pag. 37

2.5. White collars pag. 38

2.6. Fragilità sociali e rientro nella vita libera pag. 39

3. Minorenni autori di reato pag. 39

3.1. Sanzioni di comunità pag. 40

3.2. Rischio di reclutamento da parte della criminalità organizzata pag. 41

3.3. Mediazione tra reo e vittima pag. 41

3.4. Una nuova normativa penitenziaria per i minori pag. 42 3.5. Sanzioni disciplinari nei confronti di giovani detenuti pag. 43

3.6. Stranieri pag. 43

3.7. Madri in Istituti minorili con figli pag. 43

4. Donne pag. 43

4.1. Istituzione di un “Ufficio detenute” pag. 44

4.2. Vita quotidiana e salute pag. 44

4.3. Affettività pag. 44

5. Stranieri pag. 45

5.1. Difficoltà linguistiche e problematicità dei rapporti familiari pag. 46

5.2. Permesso di soggiorno “premiale” pag. 47

5.3. Misure alternative e housing sociale pag. 48

5.4. Radicalizzazione ideologica pag. 48

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Parte quarta

L’esecuzione penitenziaria:

responsabilizzazione e nuova vita detentiva pag. 50

1. La progressiva residualità del carcere pag. 50

2. Ubicazione e connotati architettonici delle strutture custodiali pag. 50

3. Verso una detenzione meno “carceraria” pag. 52

3.1. Una diversa quotidianità detentiva pag. 52

3.2. La responsabilizzazione del detenuto pag. 55

4. La valorizzazione degli elementi del trattamento pag. 56 5. Gli strumenti di contrasto nei confronti dei detenuti “pericolosi” pag. 58

5.1. L’art. 41-bis o.p. pag. 58

5.2. Il circuito Alta Sicurezza (A.S.) pag. 59

5.3. L’isolamento continuo pag. 61

6. Le sezioni a custodia attenuata pag. 61

7. L’ineludibile riconfigurazione delle misure di sicurezza pag. 63

7.1. I soggetti imputabili pag. 63

7.2. I “pazienti psichiatrici giudiziari” pag. 63

7.3. L’esigenza di una disciplina uniforme nelle REMS pag. 64

Parte quinta

L’esecuzione esterna: meno recidiva e più sicurezza pag. 65

1. Oltre il carcere pag. 65

2. Gli attori istituzionali delle misure di comunità pag. 66

2.1. L’Amministrazione penitenziaria pag. 66

2.2. La comunità e il territorio pag. 67

2.3. La Magistratura di sorveglianza pag. 68

3. Verso una gestione sociale delle misure di comunità pag. 68

3.1. La revisione delle misure alternative pag. 69

3.2. Nuovi modelli di esecuzione esterna pag. 71

3.3. Superamento delle preclusioni e degli automatismi normativi pag. 71

4. La fase post-penitenziaria pag. 73

5. Proposte di modifica a livello operativo ed organizzativo pag. 74

5.1. Risorse finanziarie pag. 74

5.2. L'inserimento lavorativo di persone svantaggiate pag. 74 5.3. Accoglienza di persone prive di domicilio pag. 75 5.4. Residenza anagrafica per le persone senza dimora pag. 76

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Parte sesta

La giustizia riparativa pag. 77

1. Una diversa gestione del conflitto che nasce dal reato pag. 77

2. Gli elementi connotativi pag. 79

3. Il ricorso alla giustizia riparativa in ogni stato e grado del procedimento pag. 80 4. I ruoli della vittima e dell’autore di reato pag. 81

5. Le modalità attuative pag. 81

6. Le modifiche ordinamentali pag. 82

7. La formazione dei mediatori penali pag. 82

Parte settima

Organizzazione, personale, volontariato e formazione pag. 84 1. Sicurezza e trattamento rieducativo in un sistema complesso pag. 84

2. Un nuovo modello di esecuzione penale pag. 85

3. Il personale pag. 85

3.1. La valorizzazione delle professionalità pag. 85 3.2. Le professionalità nell’area giuridico-pedagogica pag. 86 3.3. La previsione organica dei mediatori culturali pag. 87 3.4. Una professionalità per la mediazione dei conflitti interni pag. 88 3.5. Il potenziamento numerico degli operatori pag. 89

4. Il ruolo del volontariato pag. 89

5. La formazione pag. 90

5.1. Le basi degli interventi formativi pag. 90

5.2. Bisogni formativi specifici pag. 92

5.2.1. La prevenzione del suicidio pag. 92

5.2.2. L’esecuzione penale femminile pag. 93

5.2.3. Il supporto alle relazione familiari pag. 93 5.2.4. Il rispetto delle differenze di orientamento sessuale pag. 94

5.2.5. Gli stranieri pag. 94

5.2.6. Il reinserimento sociale pag. 95

5.2.7. La tutela dei diritti umani pag. 96

5.2.8. La mediazione dei conflitti interni pag. 96

5.2.9. La tutela della salute pag. 97

Parte ottava

Una nuova cultura della pena pag. 98

1. L’esigenza di un radicale cambiamento culturale pag. 98 2. Il determinante apporto dei mezzi di comunicazione pag. 100 3. Un efficace antidoto al pregiudizio:

la conoscenza diretta della realtà carceraria pag. 101

4. Istruzione, arte, sport: terreni elettivi di conoscenza e di incontro pag. 101

5. La rotta è segnata pag. 102

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PARTE PRIMA

RAGIONI E OBBIETTIVI DI UNA SCELTA METODOLOGICAMENTE INEDITA

1. Premessa

Preceduto dall’umiliante condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamento inumano e degradante di persone detenute1, il quarantennale della riforma dell’ordinamento penitenziario è stato occasione per un ineludibile, sconfortante bilancio. La concitata novellazione seguita alla condanna di Strasburgo ha meritoriamente posto rimedio soprattutto alla fase acuta del fenomeno del sovraffollamento carcerario2 e alla censurata mancanza di strumenti a tutela dei diritti dei detenuti (c.d. rimedi preventivi e compensativi) 3 . Alcuni provvedimenti dell’Amministrazione penitenziaria hanno introdotto, altresì, apprezzabili miglioramenti nella gestione della vita penitenziaria4.

Ma se è doveroso ammettere che molto è stato fatto negli ultimi tempi sia a livello legislativo, che amministrativo, lo è altrettanto riconoscere che la realtà carceraria, salvo circoscritte eccezioni, è ancora distante dalle connotazioni e dal compito che alla pena assegna la Costituzione.

Basterebbe ricordare il diminuito, ma sempre troppo alto numero di suicidi e di gesti autolesionistici, gli episodi di violenza e di sopraffazione, le carenze igieniche e la sostanziale inadeguatezza dell’assistenza sanitaria, l’amputazione della dimensione dell’affettività, l’assenza di privacy, l’endemica mancanza di lavoro intra ed extra murario, la frequente de-territorializzazione della pena, l’aumentato, ma ancora insoddisfacente, ricorso alle misure alternative, le carenze dell’assistenza post- penitenziaria, l’elevata percentuale dei casi di recidiva.

Che vi sia, del resto, piena consapevolezza politica sia dello sconfortante bilancio, sia dell’indifferibilità di un profondo rinnovamento, è attestato dal disegno di legge delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario all’esame del Parlamento5, che già

1 Corte Europea dei diritti dell’uomo, sent. 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c. Italia (def. 26 maggio 2013). Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha ritenuto che l’Italia abbia dato piena esecuzione alla sentenza ed ha chiuso il caso in data 8 marzo 2016.

2 Su questo drammatico problema, già prima della “sentenza Torreggiani”, vedi Sovraffollamento carceri:

una proposta per affrontare l’emergenza, Relazione della Commissione mista per lo studio dei problemi della Magistratura di sorveglianza, in Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura, 2013, n. 160.

3 Dopo una prima, assai parziale risposta normativa alla “sentenza Torreggiani” (Dl 1° luglio 2013, n. 78, conv. con modif. in l. 9 agosto 2013, n. 94), imperniata soprattutto sulla rimozione di numerosi automatismi e preclusioni che rendevano particolarmente problematico realizzare un trattamento rieducativo individualizzato per numerose tipologie di condannati, il legislatore (dl 23 dicembre 2013 n. 146, conv. con modif. in l. 21 febbraio 2014 n. 10), riprendeva – senza peraltro portarla a compimento – la sua opera di adeguamento ai dettami della Corte di Strasburgo, avvalendosi anche dei risultati del lavoro della Commissione di studio istituita con d.m. 2.7.2013 presso l’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia (v. il Documento conclusivo dei lavori, pubblicato in Dir.Pen. Contemp. www.penalecontemporaneo.it). Tra le novità più significative, la previsione di un procedimento giurisdizionale per garantire la tutela effettiva dei diritti (c.d. rimedio preventivo); l’introduzione della misura della liberazione anticipata speciale;

l’istituzione del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute. Solo con un provvedimento ulteriore, e sempre in via d’urgenza (dl 26 giugno 2014, n. 92, conv. con modif. in l. 11 agosto 2014 n. 117), è stato infine legislativamente confezionato l’ultimo tassello necessario per ottemperare alle prescrizioni imposte da Strasburgo: il rimedio compensativo per la detenzione patita in condizioni contrarie all’art. 3 C.e.d.u.

4 Si ricordano, a titolo esemplificativo: la circolare DAP (Dipartimento Amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia) n. 3649/6099 del 13.7.2013 recante linee guida sulla sorveglianza dinamica; la circolare DAP 2.11.2015 prot. n. 366755 sulla possibilità di accesso ad internet da parte dei detenuti; la circolare DAP 21.12.2015 n. prot. 425948 sulla conoscenza della persona attraverso i processi organizzativi; la costituzione della nuova Direzione generale della formazione del DAP nel contesto della riorganizzazione del Ministero della Giustizia a seguito del D.P.C.M. del 15.6.2015 n. 84. Più in generale, v. Relazione del Ministro Orlando per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2016.

5 XVII Legislatura, A.C. n. 2798 e A.S. 2067, d’ora in poi delega penitenziaria.

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nella sua intitolazione - “Modifiche … all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena” - contiene un’espressione che ben ne compendia ragion d’essere e finalità: dare reale attuazione ad una funzione evidentemente per gran parte e per troppo tempo soltanto enunciata.

Comprendere quali siano state le cause che rendono oggi necessaria, dopo quarant’anni, la “riforma della riforma” è essenziale per cercare di evitare che esse si riproducano, vanificando lo sforzo innovatore. Ha concorso sicuramente una molteplicità di fattori, dei quali forse è possibile però individuare un denominatore comune: si è preteso di versare il vino nuovo nei vecchi otri - per usare la metafora del sen. Mario Gozzini - cioè di calare la (allora) nuova normativa in strutture architettoniche e organizzative che rispondevano a mere istanze custodialistiche, alle quali erano prevalentemente formate le professionalità degli operatori che pure avrebbero dovuto farsi carico delle nuove istanze. Strutture edilizie, modalità di organizzazione del complesso universo penitenziario, abito mentale degli operatori penitenziari non potevano non opporre, preordinati come erano a gestire il recluso per forgiarne “un buon detenuto”, una naturale resistenza alla realizzazione di una riforma che avrebbe voluto invece fare del detenuto il responsabile attore del suo processo rieducativo, per riuscire a formare un “buon cittadino”. L’esistente, specie quando è frutto di secolare tradizione, non soltanto ha in genere tempi di adattamento molto più lenti di quelli necessari per elaborare una riforma legislativa, ma spesso ne metabolizza in modo improprio e distorto i contenuti, contaminandoli, anche linguisticamente, con gli schemi culturali pre-riforma: si pensi, quali emblematiche cicatrici testuali restate nell’attuale legge penitenziaria, a termini quali trattamento, sorveglianza, rieducazione, mercede.

A questa originaria refrattarietà “ricettiva” del sistema si è nel tempo andata aggiungendo, con il crescere del senso di insicurezza della società – giustificato o mediaticamente indotto, qui non rileva – una impropria strumentalizzazione securitaria dell’esecuzione penale, con accentuazioni diverse a seconda della spinta emotiva contingente. Sta di fatto che ormai, come è incisivamente scritto nella Relazione accompagnatoria al disegno di legge delega, nell’attuale ordinamento penitenziario

«convivono, con inevitabili frizioni interne, l’istanza rieducativa e di risocializzazione con quella di sicurezza sociale, che fin dai primi anni Novanta si è sovrapposta alla prima, piegando alcuni istituti alla funzione di incentivazione della collaborazione con l’Autorità giudiziaria ed escludendone altri dal trattamento rieducativo proprio in ragione di un incremento dell’efficacia meramente punitiva dell’esecuzione penale».

Se non si riesce a contrastare la diffusa convinzione che il carcere sia l’unica risposta alle paure del nostro tempo e la corrispondente tendenza politica – elettoralmente molto redditizia – ad affrontare ogni reale o supposto motivo di insicurezza sociale ricorrendo allo strumento, meno impegnativo e più inefficace, dell’inasprimento della repressione penale e della restrizione delle possibilità di graduale reintegrazione del condannato nel consorzio civile, ogni riforma normativa sarà fatalmente esposta a “scorrerie legislative” di segno involutivo e “carcerocentrico”, che torneranno a determinare sovraffollamento penitenziario e a minare la credibilità stessa della funzione risocializzativa della pena.

Il problema è culturale, prima ancora che normativo.

Una profonda azione riformatrice, dunque, non può risolversi nel pur necessario intervento legislativo, ma deve operare anche sui piani, strettamente interconnessi, delle strutture architettoniche, dell’organizzazione del regime penitenziario e della formazione professionale. I luoghi e gli spazi della pena, il modello di vita detentiva e la capacità degli operatori di relazionarsi con il detenuto incidono sul senso e sulla funzione della pena certamente non meno degli istituti giuridici deputati a connotarla in senso risocializzativo. Né l’attenzione può limitarsi all’espiazione intramuraria della condanna: la sua stessa funzione costituzionale, infatti, postula un graduale reinserimento del condannato nella collettività, e a questa sua “convalescenza sociale”

vanno dedicati altrettanto impegno e altrettante risorse, risultando quasi sempre decisiva per un effettivo recupero del soggetto alle regole della comunità in cui è destinato a tornare e per un conseguente, drastico abbattimento degli indici di recidiva.

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Ma un’effettiva attuazione del finalismo risocializzativo dovrebbe comportare un deciso spostamento del baricentro della risposta sanzionatoria penale, oggi sostanzialmente incentrata sulla pena detentiva, verso sanzioni di comunità, cioè di esecuzione nel territorio, meno onerose per lo Stato, meno afflittive per il condannato, più efficaci nella prospettiva di una sua riabilitazione sociale. L’art. 27 co. 3 Cost., del resto, parla significativamente non già di pena, bensì di pene che debbono tendere alla rieducazione del condannato, facendo intendere come la tensione rieducativa non debba contrassegnare soltanto il momento espiativo, ma anche la scelta della pena più consona al fatto e al reo: alla sanzione del carcere, essendo strutturalmente quella che meno può tendere alla rieducazione del condannato, si dovrebbe ricorrere quando ogni altra si appalesi inadeguata.

La quarantennale storia del nostro ordinamento penitenziario, dunque, non soltanto dimostra che qualsiasi riforma meramente normativa è destinata a rimanere in gran parte sulla carta, se non vi sono persone e luoghi che sappiano accoglierla.

Dimostra anche che, se non cambia la cultura sociale della pena e se non si debella il pregiudizio in forza del quale, limitando i diritti dei condannati, si ottiene maggiore sicurezza, qualsiasi progresso rimarrà precariamente esposto alla prima “risacca legislativa” giustificata con indifferibili esigenze di tutela della collettività.

2. L’approccio metodologico

Alla luce di queste consapevolezze, gli Stati generali, volendo perseguire l’ambizioso obbiettivo di dare nuovo senso ed assetto all’esecuzione della pena, hanno ritenuto indispensabile un approccio metodologicamente inedito.

Un metodo sostanzialmente caratterizzato da due scelte di fondo: da un lato, si è voluta dedicare alla realtà dell’esecuzione penale un’attenzione multifocale, orientandola sui suoi aspetti nevralgici e qualificanti; dall’altro, si è cercato di promuovere una mobilitazione culturale più ampia possibile sia nella fase dell’analisi, della riflessione e della progettualità, sia nel momento del dibattito e del confronto sulle soluzioni proposte.

In questa prospettiva, sono state individuate le problematiche più rilevanti della realtà dell’esecuzione penale costituendo altrettanti Tavoli di lavoro6 intorno ai quali sono state invitate a riflettere le professionalità ed esperienze che per ragioni diverse la intersecano. Per ogni Tavolo è stato raccolto 7 il materiale di documentazione legislativa, giurisprudenziale e amministrativa relativo al tema assegnato; è stato delineato un perimetro tematico; sono stati indicati i nodi nevralgici su cui intervenire e gli obbiettivi da perseguire8. In pochi mesi, i Tavoli, anche avvalendosi di audizioni di esperti, visite a penitenziari nazionali e stranieri, somministrazione di questionari, hanno elaborato una Relazione conclusiva, in linea di massima attenendosi ad un format9 che il Comitato10 ha predisposto con l’intento di garantire omogeneità di impostazione tra le diverse Relazioni e di favorirne la fruibilità. Le proposte formulate sono state sottoposte, quindi, ad un dibattito pubblico aperto soprattutto a soggetti istituzionali, associazioni, figure professionali, portatori di interesse.

6 Per l’elenco dei Tavoli con la relativa composizione vedi allegato 1.

7 Ad opera del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (DAP), con particolare riferimento all’Ufficio Studi, Ricerche, Legislazione e Rapporti Internazionali, e del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità (DGMC).

8 Si veda, al riguardo, il format inziale (allegato 2).

9 Per la struttura del format vedi allegato 3.

10 Comitato di esperti per lo svolgimento della consultazione pubblica sulla esecuzione della pena denominata "Stati Generali sulla esecuzione penale".

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Con il presente Documento il Comitato, avvalendosi del prezioso lavoro dei Tavoli 11 , intende offrire un compendio delle linee di intervento che ritiene più qualificanti per dare un volto nuovo all’esecuzione penale, pienamente rispettoso dei principi costituzionali che informano questa materia e attento a nuove problematiche e a nuove potenzialità, inimmaginabili sino a non molto tempo fa. Si pensi, esemplificativamente, da un lato, alla necessità di riconsiderare norme che sono state concepite per una popolazione penitenziaria sostanzialmente omogenea da un punto di vista linguistico, culturale e religioso, a fronte di una “utenza” attuale composta per il 30% da stranieri di lingua, di cultura, e di religione diverse e “lontane”, e per questo più degli altri esposti alla emarginazione ghettizzante e al rischio di radicalizzazione.

Dall’altro, all’evoluzione tecnologica che può consentire, attraverso un accorto e diffuso ricorso alla telematica, se non di risolvere, almeno di rendere meno acuti i problemi legati alla scarsità di contatti affettivi, alle carenze dell’assistenza sanitaria, alle sempre insufficienti opportunità di acculturamento e di aggiornamento, alla penuria di lavoro intramurario, alle eventuali difficoltà di colloquio de visu con il difensore. Si pensi quanto le videoconferenze, ovviamente assistite dalle necessarie cautele, possano risultare preziose per attenuare lo sradicamento culturale e affettivo del detenuto, soprattutto straniero, appunto.

Al di là del valore e della condivisibilità delle proposte; al di là anche della misura e dei tempi con cui avranno traduzione politica, l’approccio seguito costituisce di per sé un risultato culturalmente molto importante.

Non solo perché ha prodotto un patrimonio di documentazione, di indagini conoscitive condotte in Italia e all’estero, di riflessioni critiche, di articolate proposte normative, di indicazione di prassi virtuose e di sperimentati modelli organizzativi, che resterà quale giacimento di conoscenze e di proposte a disposizione di chiunque – politico, studioso, operatore – intenda promuovere cambiamenti, riflettere, intervenire, in subiecta materia.

Non solo perché si è inaugurato un metodo di lavoro imperniato su un network di professionalità, culture, esperienze e linguaggi diversi, che appare l’unico modo per affrontare un problema complesso e poliedrico come quello dell’esecuzione della pena.

Più di duecento persone, che non avevano avuto né occasione, né intenzione di lavorare insieme hanno messo a disposizione, con generosa dedizione, le loro complementari competenze, trovando l’esperienza così proficua e stimolante che, pur dopo la consegna delle Relazioni finali, continuano a consultarsi e a progettare iniziative comuni. Ed è ragionevole ritenere che la rete delle conoscenze e delle interrelazioni sia destinata ad ampliarsi e ad essere replicata.

Non solo perché ha ispirato un’iniziativa, unica nella storia penitenziaria, di detenuti che, organizzati intorno a Tavoli tematici sulla falsariga di quelli degli Stati generali e coordinati da un professionista esterno nel ruolo di “facilitatore”, si sono confrontati, hanno discusso ed hanno elaborato un interessante documento di riflessioni critiche e proposte12.

Ma soprattutto perché pone al centro del dibattito pubblico il tema dell’esecuzione penale. Ciò può contribuire a determinare un copernicano mutamento di prospettiva:

dal carcere percepito come la soluzione per tutti i problemi e per tutte le paure sociali, al carcere come problema sociale. Anzi, all’intera esecuzione penale come problema sociale.

Nel nostro quotidiano il carcere subisce una sorta di rimozione, resta fuori – per così dire – dal campo visivo dello sguardo sociale. Gli Stati generali vorrebbero indurre, invece, la società a guardare, conoscere e capire. Vorrebbero sollecitare la collettività ad avvicinarsi al carcere e alla sua dolorosa realtà, invece di limitarsi ad invocarlo in

11 Lavoro che resta, peraltro, un autonomo, fondamentale contributo di documentazione, di analisi e di proposta in ciascuno degli ambiti tematici affrontati, non potendo e non volendo il presente Documento rappresentare una sintesi dei molteplici, approfonditi, contributi.

12 Convegno tenutosi presso la Casa di reclusione di Milano Opera il 7 novembre 2015 su “La pena vista dal carcere, riflessione dei detenuti sui temi degli Stati generali sulla esecuzione penale”.

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occasione dell’ultimo episodio cruento, dopo una scioccante zoomata sul dolore della vittima o in relazione al mancato rientro di un condannato da un permesso (evenienza molto rara, ancorché amplificata a dismisura), come il luogo dove rinchiudere illusoriamente le nostre paure.

3. Un modello “costituzionalmente orientato” di esecuzione delle pene Prima di illustrare le principali linee di un auspicabile intervento riformatore, preme precisare quali debbano essere le coordinate costituzionali entro cui si deve iscrivere qualsiasi modello di esecuzione penale e dalle quali l’attuale esorbita per più di un profilo. Si ritiene infatti che, anche sulla scorta della giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo, quest’ultima sempre più spesso imperniata su richiami ricettizi alle Regole penitenziarie europee 13 , si possano individuare talune connotazioni che debbono sempre improntare la fase dell’esecuzione penale, pur nel mutare delle scelte legislative ed organizzative attraverso cui si intenda declinarle e realizzarle.

Affinché il finalismo risocializzativo che deve ispirare tale fase non resti una retorica declamazione, si debbono realizzare una pre-condizione negativa e alcuni positivi presupposti.

La pena non deve consistere mai, qualunque essa sia e per qualunque reato venga inflitta, «in trattamenti contrari al senso di umanità» (art. 27 co. 3, prima parte, Cost.).

Durante l’esecuzione della pena (e anche della custodia cautelare) è vietata «ogni violenza fisica e morale sulla persona sottoposta a restrizione di libertà (art. 13 co. 4 Cost.). «Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti» (art. 3 C.e.d.u.14)15.

Ogni vulnus ai diritti inviolabili del condannato, che non derivi dalle restrizioni strettamente indispensabili per la privazione della libertà, ne offende la dignità e preclude ipso facto la possibilità che la pena possa svolgere la funzione rieducativa, essendo impossibile rieducare alla legalità un soggetto illecitamente umiliato nella sua la dignità di uomo. In questi casi, peraltro, non viene soltanto meno la possibilità che la pena assolva il suo compito risocializzativo, ma persino che venga eseguita. In tal senso, almeno, il perentorio monito rivolto dalla Consulta al legislatore con riguardo alle condizioni degradanti dovute al sovraffollamento. Affrontando la questione di legittimità costituzionale dell’art. 147 c.p., nella parte in cui non prevede «l’ipotesi di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena quando essa debba svolgersi in condizioni contrarie al senso di umanità», la Corte costituzionale ha riconosciuto espressamente la fondatezza della questione, ma ne ha dichiarato l’inammissibilità per essere riservata al legislatore la scelta più acconcia tra le diverse soluzioni prospettabili. Non senza aggiungere, però, significativamente, che non sarebbe stato «tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al grave problema»16.

Rispettata questa pre-condizione, la funzione tendenzialmente rieducativa della pena comporta che si realizzino alcune condizioni positive, peraltro strettamente interdipendenti.

1) La principale implicazione del principio rieducativo è che esso può riguardare soltanto un uomo considerato come fine – meglio, come responsabile e “libero” artefice di quel fine – mai come mezzo di una strategia politica (sia essa di sicurezza sociale, di governo dell’immigrazione, di contrasto al terrorismo). Neppure se l’obbiettivo di tale strategia fosse la sua rieducazione: la “rieducazione d’autorità”, probabilmente un ossimoro anche da un punto di vista pedagogico, lo è di certo da un punto di vista costituzionale. L'idea che la restrizione della libertà personale possa comportare una

13 Consiglio d’Europa, Raccomandazione CM/Rec (2006)2.

14 Convezione europea dei diritti dell’uomo.

15 Norma testualmente recepita dall’art.4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

16 Corte cost., sent. n. 279 del 2013.

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capitis deminutio «è estranea al vigente ordinamento costituzionale, il quale si basa sul primato della persona umana e dei suoi diritti. I diritti inviolabili dell'uomo, il riconoscimento e la garanzia dei quali l'art. 2 della Costituzione pone tra i principi fondamentali dell'ordine giuridico, trovano nella condizione di coloro i quali sono sottoposti a una restrizione della libertà personale i limiti a essa inerenti (…), ma non sono affatto annullati da tale condizione»17.

2) Il principio rieducativo postula l’offerta di chances riabilitative, che possa tradursi anche in una rimodulazione della pena – sia pur nei limiti posti dalle concorrenti funzioni retributiva e generalpreventiva, che peraltro si attenuano in fase esecutiva – in ragione delle scelte e dei comportamenti del condannato, secondo un progetto individualizzato di risocializzazione. Il tempo della pena non deve mai essere una sorta di time out esistenziale, ma un tempo di opportunità per un ritrovamento di sé e di un proprio ruolo sociale.

3) Destinatario dell’offerta “trattamentale” deve essere un soggetto messo effettivamente nella condizione di fare scelte consapevoli e responsabili. In tanto la pena può tendere alla risocializzazione in quanto sia garantita e stimolata l’autodeterminazione del soggetto; un soggetto cioè che, consapevole dei propri doveri e dei propri diritti, sappia autogestirsi nel microcosmo sociale del carcere, le cui regole di vita e i cui strumenti quotidiani siano il più vicini possibile a quelli del mondo esterno18 in modo che possa prepararsi a vivervi19. Frustra irrimediabilmente qualsiasi finalità rieducativa, invece, un sistema che, per regole o prassi, produca forme di incapacitazione del soggetto che lo mettano in una situazione di mera soggezione passiva. Un sistema in cui il detenuto è sostanzialmente eterogestito, in larga misura privato degli strumenti di comunicazione e di conoscenza del mondo esterno (cellulare, video-telefonate, internet) destinatario di un approccio anche linguisticamente infantilizzante (domandina, spesino, scopino) o comunque estraneo al vocabolario dei liberi (mercede, portavitto, lavorante) è condannato a rimanere infecondo dal punto di vista della risocializzazione, anche ove quel sistema contemplasse misure progressivamente restitutive della libertà. Sottoporrebbe il condannato, infatti, a spinte

“schizofreniche”: da un lato, gli indicherebbe la strada per un graduale recupero della libertà, dall’altro opererebbe per renderlo inabile a percorrerla, procurandogli una sorta di analfabetismo sociale di ritorno, da spingerlo talvolta a preferire il più rassicurante, perché almeno più conosciuto, ambiente del penitenziario (c.d. sindrome carceraria), piuttosto che essere catapultato verso una libertà che non è o non gli appare da lui agibile.

4) Non solo il trattamento penitenziario non deve mai determinare forme di inabilitazione sociale, ma deve ritenersi che sia compito dello Stato – come si evince da una lettura coordinata del principio rieducativo (art. 27, co. 3 Cost.) con il principio di uguaglianza sostanziale (art. 3, co. 2 Cost.) – rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto le opportunità di risocializzazione del condannato, impediscono alla pena di svolgere la funzione che la Costituzione le assegna. Sussiste un «obbligo tassativo per il legislatore di tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle»20. Produrrebbe un effetto ulteriormente desocializzante per il condannato dover costatare che, a parità di meriti e di volontà di partecipazione di altri, gli è di fatto preclusa la via delle misure alternative per cause indipendenti dal suo impegno e dalla sua volontà di reinserimento sociale (si pensi agli homeless, agli stranieri, ai Rom, ecc.).

5) Si deve ritenere che il condannato sia titolare di un diritto alla rieducazione. Il diritto, cioè, a che, «verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di

17 Corte cost., sent. n. 26 del 1999.

18 Par. 5 Reg. penit. eur.

19 Par. 6 Reg. penit. eur.

20 Corte cost., sent. n. 204 del 1974.

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accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo»21. Va da sé che il programma risocializzativo non può che essere individualizzato per “rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto” (art. 13 o.p.). Ciò comporta che ogni percorso rieducativo regolato per categorie di soggetti o di reati è da considerarsi una contraddizione in termini. Nessuna situazione soggettiva (tossicodipendente, immigrato, senza fissa dimora, ecc.) o nessun tipo di reato commesso può costituire di per sé esclusione dalle opportunità di recupero sociale. Ciò non significa che il legislatore non possa prevedere presupposti più rigorosi per l’accesso alle misure alternative in ragione della natura del reato e della gravità della pena (ad es. che sia espiata una parte più consistente della pena o che sia verificata l’eventuale sussistenza di ancora attuali rapporti con la criminalità organizzata). Ma il diniego della misura non può mai dipendere dal solo titolo di reato della condanna in esecuzione, anziché dalla condotta del soggetto. Il percorso risocializzativo deve essere modulato sull’uomo e non sul fatto commesso. Non sono ammesse presunzioni legali di irrecuperabilità sociale. Nessuna pena deve rimanere per sempre indifferente all’evoluzione psicologica e comportamentale del soggetto che la subisce. Postulati, questi, che debbono ritenersi impliciti nella funzione rieducativa assegnata alla pena dalla nostra Costituzione: quel dovere di “tendere” alla rieducazione significa che il risultato non deve mai essere né imposto, né certo, ma neppure deve essere mai ritenuto impossibile. In definitiva, va riconosciuto al condannato il diritto alla speranza, che peraltro si traduce sovente in una spinta motivazionale in grado di promuovere positive evoluzioni psico-comportamentali in vista di un proficuo, anticipato rientro nel consorzio civile. Il diritto alla speranza non può essere negato neppure al condannato all’ergastolo, come ha di recente statuito anche la Corte di Strasburgo, incardinandolo sull’art. 3 C.e.d.u.: il sistema deve sempre prevedere un riesame che permetta «di verificare se, durante l’esecuzione della pena, il detenuto abbia fatto dei progressi sulla via del riscatto tali che nessun motivo legittimo relativo alla pena permetta più di giustificare il suo mantenimento in detenzione»22.

In conclusione. Dalla nostra Costituzione e dalla normativa sovranazionale è possibile desumere una linea di confine invalicabile dal legislatore e dall’Amministrazione penitenziaria nel regolare l’esecuzione penale: niente può mai autorizzare lo Stato a togliere, oltre alla libertà, anche la dignità e la speranza.

4. Linee per una riforma

Nell’accingerci ad illustrare quelle che dovrebbero essere a nostro avviso le linee qualificanti di una riforma dell’esecuzione penale, siamo ben consapevoli che il progetto riformatore, essendo il nostro mandato circoscritto alla fase esecutiva, soffre di un importante limite “a monte”, in quanto non può investire, come dovrebbe, anche una rifondazione del sistema penale, sia riducendo il numero dei reati, sia introducendo sanzioni non detentive, cui dovrebbero seguire i necessari adeguamenti processuali23.

L’esecuzione penale è, infatti, l’ultimo segmento di un percorso e le sue problematiche – così come le sue potenzialità – risentono di altre criticità e sviluppi.

In questa sede ci si deve limitare a denunciare il rischio di un sistema penale che ha perso la sua connotazione di sussidiarietà rispetto ad altri meccanismi di regolazione dei conflitti e di ricomposizione sociale e che sempre più assume la veste di un intervento punitivo-simbolico, spesso dettato dall’urgenza di risposte emotive a

21 Corte cost., sent. n. 204 del 1974.

22 Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Chambre, 9 luglio 2013, Vinter e altri c. Regno Unito.

23 Vedi i lavori della Commissione ministeriale incaricata di elaborare proposte di interventi in tema di sistema sanzionatorio penale, istituita con d.m. del 10.6.2013 e presieduta dal prof. Francesco Palazzo; e della Commissione ministeriale nominata con d.m. del 27.5.2014 per l’elaborazione di proposte in tema di revisione del sistema sanzionatorio e per dare attuazione alla legge delega 28 aprile 2014 n. 67, in materia di pene detentive non carcerarie e di depenalizzazione, presieduta dal prof. Francesco Palazzo.

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problemi che potrebbero essere altrimenti affrontati. Un sistema con tali caratteristiche tende a scaricare sull’ultimo suo tratto, quello della esecuzione delle pene, le inefficienze e le incongruenze sia di una legislazione ipertrofica in materia penale, sia di un armamentario sanzionatorio incentrato sulla pena detentiva, sia di un processo di cognizione i cui tempi di svolgimento inducono ad un eccessivo ricorso alla custodia cautelare.

Un’ulteriore considerazione preliminare: l’ideale sarebbe che, come complessivo è stato l’approccio nell’analisi e nella proposta, così sia anche organica e compiuta la traduzione legislativa e organizzativa dell’intervento di riforma. Si è peraltro consapevoli che possono difettare le condizioni politiche per effettuare un intervento di così vasta portata come quello che si propone. L’importante, però, affinché non se ne smarrisca il disegno idealmente unitario, è che ogni intervento pur settoriale abbia un vettore di senso che lo conduca a quell’ideale punto di fuga indicato.

I risultati degli Stati generali si dovrebbero dispiegare essenzialmente su tre piani.

Sul piano legislativo, contribuendo, anzitutto, alla migliore attuazione della Delega penitenziaria, ma anche suggerendo novità non riconducibili ai criteri direttivi della stessa. Sul piano amministrativo, prospettando le linee di un nuovo modello di gestione del sistema dell’esecuzione penale, che investe profili diversissimi, ma funzionalmente complementari, come quello della configurazione delle strutture edilizie destinate all’esecuzione nelle diverse forme della pena, quello delle regole che debbono presiedere all’organizzazione intra ed extra muraria, quello della formazione di tutti gli operatori che a diverso titolo intervengono nel corso dell’esecuzione penale. Sul piano culturale, infine, fornendo informazioni, proponendo riflessioni e propiziando iniziative che dovrebbero contribuire a cambiare la percezione sociale del senso e del valore della pena.

Nell’esporre il percorso dell’intervento riformatore che si vorrebbe promuovere, tuttavia, si è preferito prescindere dalla triplice prospettiva appena indicata, in quanto avrebbe fatalmente determinato una esasperata parcellizzazione tematica, poiché quasi ogni argomento affrontato si presterebbe ad essere “collocato” su ciascuno dei tre piani sopra indicati. Si è preferito individuare, per maggiore comodità espositiva, talune macro-aree particolarmente qualificanti, dedicando una parte a ciascuna di esse. Si tratta, beninteso, di una ripartizione convenzionale, che non riuscirà del tutto a scongiurare frammentazioni e sovrapposizioni, peraltro in una certa misura forse inevitabili, attesa l’estrema poliedricità della materia e l’intima interconnessione di tutti gli aspetti, ma che meglio di altre è apparsa idonea ad evidenziare i tratti caratterizzanti di un nuovo volto dell’esecuzione penale, più in linea con la Costituzione, con la normativa sovranazionale e, soprattutto, con i valori della civiltà.

Prioritaria, anzi propedeutica ad ogni altra, è la tematica della dignità e dei diritti. Non vi è rispetto della dignità del condannato senza il rispetto dei suoi diritti, la limitazione del cui esercizio per contro, quando non strettamente indispensabile per l’esecuzione della pena, è un’offesa al suo diritto alla rieducazione. È di fondamentale importanza tracciare, come si cercherà di fare in questa parte, gli incomprimibili confini dei diritti compatibili con lo stato detentivo, tanto più bisognosi di intransigente tutela in quanto costituiscono l’ultimo ambito nel quale può espandersi la personalità del condannato e l’unico nel quale può “agire” il suo diritto alla risocializzazione.

Intimamente connessa con questa prospettiva è quella dei soggetti vulnerabili, locuzione nella quale si vogliono ricomprendere categorie assai eterogenee di detenuti accomunate dal fatto che nell’impatto con la realtà carceraria subiscono, per la loro particolare situazione soggettiva, un quid pluris di afflittività. Da un lato, soggetti che già prima del loro ingresso in carcere pativano una condizione di grave difficoltà personale e relazionale (ad es. perché alcool o tossicodipendente, perché sieropositivo, perché portatore di un disagio psichico). Questi individui presentano come dato comune uno statuto soggettivo che rende loro ancor più complesso ottenere il riconoscimento dei propri bisogni e dei propri diritti, e più arduo l’esercizio di quello alla risocializzazione. Dall’altro, soggetti appartenenti a categorie di diversissima natura, che nella vita sociale “libera” non palesano specifiche problematicità, – donne,

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