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19 Condizioni per il trattamento rieducativo Adriano Ferrari, Manuela Lodesani, Simonetta Muzzini, Silvia Sassi

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Al momento di accogliere il bambino affetto da paralisi cerebrale infantile (PCI) e di sti- pulare con la sua famiglia il contatto terapeutico, il primo compito importante ed a vol- te il più difficile che impegna il medico riabilitatore è rappresentato dalla necessità di trasformare e di trasferire il concetto di lesione, con quanto di oggettivo e di provato lo accompagna, nel concetto di paralisi, condizione soggettiva e potenziale il cui tratta- mento si rivela pieno di se, di ma, di forse e di però. Questo compito risponde all’esi- genza di comprendere i problemi del bambino e di definire, in una prima ipotesi dia- gnostico-prognostica, il rapporto esistente tra l’avvenuta lesione e la paralisi cerebrale che ne conseguirà, di descrivere la natura di questa, cioè di esplicitare in che cosa e co- me quel bambino sarà diverso, e di tracciare i confini del processo di recupero, distan- ziandolo sia dalla storia naturale (cosa cambierà, quando e come ciò sarà possibile) sia dall’attesa di guarigione (cosa non sarà possibile modificare, cosa resterà per sempre).

Punto di partenza del ragionamento riassunto nello schema è considerare che la paralisi consegue al fatto che la struttura sistema nervoso centrale (SNC) del bambino ha subito una lesione (struttura → lesione → paralisi).

La semeiotica neurologica e quella neuro-ortopedica sanno interrogare la struttura per rilevare la presenza, la sede e a volte la natura della lesione (segni per la diagnosi: ri- flessi patologici, spasticità, cloni, schemi motori alterati, contratture, deformità, distri- buzione topografica del danno, ecc.). Nella PCI la lesione del SNC costituisce una con- dizione inemendabile (turba persistente).

Compito fondamentale del SNC è costruire funzioni (autonomiche, adattive, comu- nicative, ecc.) che rappresentano la componente operativa deputata all’interazione con l’ambiente. Anche il SNC del bambino con PCI è chiamato a costruire funzioni, che non potranno però risultare normali per la presenza della lesione e delle sue conseguenze (per le componenti top down e bottom up vedi cap. 14).

La semeiotica riabilitativa deve saper interrogare il sistema per conoscere in che co- sa, come e, se possibile, in quale misura la funzione considerata risulterà diversa da quella attesa. La semeiotica neurologica e quella neuro-ortopedica, che indagano i defi- cit del SNC e dell’apparato locomotore (AL), non risultano idonee per giudicare come avverrà la ri-organizzazione della funzione esplorata, perché per questa indagine oc- corre necessariamente tener conto delle risorse ancora possedute dall’individuo come dell’influenza che l’ambiente (fisico, sociale, culturale) esercita su di lui, e viceversa.

Nella PCI la paralisi rappresenta la forma alterata e stabile delle funzioni messe in at- to da una struttura (il SNC) che è stata irreparabilmente lesa.

La parte più importante dello schema raffigurato nella pagina seguente è rappresen- tata dalla freccia che non c’è: non esiste, infatti, una relazione diretta tra lesione e para- lisi, perché, come abbiamo visto, almeno concettualmente la paralisi non è la conse- guenza della lesione, ma il diverso modo di funzionare dell’intero sistema. Tra sede, na-

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tura e misura della lesione, paralisi e processi di recupero non è possibile stabilire che correlazioni ipotetiche. Si può tuttavia pensare che la riabilitazione, incidendo sul mec- canismo del recupero postlesionale del SNC supportato dalla plasticità, possa in qual- che modo influenzare la “riparazione” della lesione, concorrendo a contenerla e a com- pensarla. È dimostrabile che una struttura lesa (il SNC) sottoposta a un certo tipo di training (la rieducazione) tende a riorganizzarsi più facilmente, meglio e in minor tem- po che non una struttura impoverita, deprivata e abbandonata a se stessa. Questi con- cetti, sostenuti dagli esperimenti condotti da Windle (1966) sulla scimmia Rhesus, han- no profondamente influenzato l’approccio riabilitativo alla PCI, introducendo già negli anni 60-70 il principio del trattamento precoce.

La terapia rieducativa, pur non potendo stravolgere il programma geneticamente 388 Le forme spastiche della paralisi cerebrale infantile

STRUTTURA FUNZIONE

LESIONE PARALISI

Segni e sintomi Segni e sintomi

Semeiotica neuro-ortopedica Semeiotica riabilitativa

Semeiotica neuro-radiologica Analisi strumentale del movimento

Deficit (cosa manca) Risorse (cosa resta)

Oggettivo Soggettivo (adattivo)

- individuo - comunità - ambiente

Provato Potenziale

Ripetibile Irripetibile

Diagnosi Prognosi

- motivazione - apprendimento - modificabilità

Terapia medica Terapia rieducativa

AVERE ESSERE

Oggettivo: nella PCI, interrogando la struttura, è oggettivamente dimostrabile l’esistenza della lesione.

Le neuroimmagini forniscono a questo proposito quasi sempre un chiaro esempio.

Soggettivo: indica come, nell’organizzazione della funzione, occorra tenere conto tanto della dotazione individuale quanto delle caratteristiche dell’ambiente fisico, sociale e culturale in cui l’individuo si sviluppa.

Provato: indica quanto non è possibile modificare, cioè la diagnosi.

Potenziale: indica la possibilità di indurre modificazioni stabili e migliorative nelle funzioni del pa- ziente rispetto a quanto previsto dalla storia naturale della forma clinica considerata, cioè la sua pro- gnosi.

Le due colonne distinguono idealmente la neuro-ortopedia dalla riabilitazione

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fronte all’interazione con l’ambiente, e un’eliminazione di quelli “superflui” (Occhi et al., 1996). La plasticità permette dunque una riorganizzazione, almeno parziale, della struttura che è stata lesa secondo nuove coalizioni operative. Ne fa fede la difficoltà di applicare al bambino i modelli neuropsicologici dell’adulto: si pensi ad esempio alla combinazione emiparesi-afasia (vedi cap. 10). Il rovescio di questa medaglia è però rappresentato dal fatto che, nella riorganizzazione del sistema, nessuna funzione può rimanere totalmente estranea al processo. In altre parole, nella PCI nessuna delle fun- zioni prodotte dal SNC può essere considerata virtualmente normale.

Riabilitazione lesione

Se la riabilitazione venisse intesa come uno strumento idoneo a modificare la lesione, la scelta del trattamento dovrebbe avvenire in funzione della natura, della sede, dell’epo- ca di comparsa (timing) e della misura del danno subito dal SNC (atrofia, agenesia, malformazione, ecc.). Dovremmo adottare cioè un trattamento rieducativo diverso per ogni tipo di lesione. Inoltre, se trattando la paralisi potessimo modificare in qualche modo la lesione, la terapia rieducativa dovrebbe produrre come risultato finale il cam- biamento della diagnosi.

È significativo osservare, invece, come molteplici cause, epoche di insorgenza e qua- dri anatomo-patologici possono sottendere a forme cliniche di PCI sostanzialmente so- vrapponibili fra loro. Come sostiene Ponces Vergé (1991), la complessità dei disturbi presentati da un bambino con PCI fa sì che sia difficile attribuire tutta la situazione uni- camente ed esclusivamente alla lesione o alla malformazione cerebrale che leggiamo in una TAC o in una RMN. Per confermare queste affermazioni basterebbe ricordare come molti pazienti emiplegici presentino dal punto di vista anatomo-patologico lesioni emi- sferiche bilaterali (vedi cap. 18).

Lesione e paralisi vengono messe indirettamente in relazione fra loro attraverso l’au- torganizzazione di un sistema che non rinuncia al suo compito primario di cercare nuove soluzioni all’esigenza interna di divenire adatto e al bisogno esterno di adattare a sé il mondo che lo circonda. In questo processo di autopoiesi, ciò che conta non sono le proprietà dei componenti del sistema, ma i processi e le relazioni tra i processi rea- lizzati attraverso questi componenti (Maturana e Varela, 1985). La coerenza interna dell’autorganizzazione rappresenta la direttrice della storia naturale della forma clinica considerata. Le nostre proposte terapeutiche risulteranno tanto più efficaci quanto più esse riusciranno a inserirsi nell’autorganizzazione del sistema, seguendone la coerenza interna, per deviarla a proprio favore attraverso modificazioni stabili favorevoli. Modi- ficare significa in questo caso adattare la funzione patologica per una sua maggiore ef- ficacia nei confronti del problema da risolvere, o del desiderio da realizzare, e per una sua maggiore efficienza nei confronti del risultato da raggiungere. Potremmo parlare di approccio empatico al trattamento rieducativo per la necessità di immedesimarsi nel bambino con PCI attraverso l’osservazione, l’ascolto e la riformulazione del suo modo di pensare e di agire. Nella PCI, per ogni forma clinica identificabile (autorganizzazio- ne) esiste perciò, dal punto di vista terapeutico, un massimo risultato raggiungibile.

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Modificabilità e capacità di apprendimento, di acquisizione e di progresso sono le carte che il bambino con PCI può giocare, secondo le regole iscritte nell’architettura delle sue funzioni (vedi cap. 14), per vincere la sua partita contro il rischio di una au- torganizzazione comunque presente ma non necessariamente indirizzata positivamen- te. Accompagnare il bambino in questo suo viaggio significa, presuntuosamente, dialo- gare con il suo cervello. E quindi non solo saper fare terapia, ma poter essere conside- rati davvero terapeuti.

Riabilitazione struttura

La storia del trattamento della PCI è strettamente legata all’evoluzione del pensiero scientifico relativo allo sviluppo motorio normale, secondo l’idea che la rieducazione debba attingere ed attenersi rigorosamente al percorso seguito, forzandone se necessario le tappe. Nella quasi totalità, i “metodi” rieducativi proposti per il trattamento della PCI possono venire idealmente scomposti in tre frazioni sequenziali:

lo sviluppo neuro-psicomotorio normale, le conseguenze prodotte dal danno biologico avvenuto nel SNC e la prassi riparativa necessaria per accomodarle. “L’obiettivo generale della Medicina Riabilitativa è la rimozione degli ostacoli ad un comportamento “normale” che sono generati dalla patologia, sia essa centrale o periferica, per il recupero, ove possibile, della funzione perduta. Una teoria riabilitativa in base alla specifica patologia, cioè allo specifico patologico, deve quindi individuare gli ostacoli da rimuovere per poi selezionare, tra le possibili strategie di intervento, la condotta terapeutica adatta all’acquisizione o riacquisizione di quanto è stato perso o danneggiato” (Perfetti e Starita, 1987). Compito del terapista dovrebbe essere quindi quello di “costringere” la struttura lesa del SNC a sostituire le condotte motorie patologiche con modalità assunte dal repertorio motorio del bambino normale, se necessario anche “forzatamente” (inibizioni e facilitazioni terapeutiche).

Resta da definire cosa significhi normalità:

normalità può essere un’idea di riferimento a cui ispirarsi: in questo caso si parla di sviluppo ideale come concetto di potenzialità assoluta della struttura cui tutti gli in- dividui dovrebbero tendere, ma che nessuno ha mai potuto raggiungere pienamen- te (normalità ideale);

normalità può essere una misura statistica, sinonimo di più frequente: in questo ca- so lo sviluppo normale finisce per essere una combinazione in cui tutti possono par- zialmente rientrare, ma che solo casualmente può essere pienamente realizzata (nor- malità statistica);

normalità può essere l’esperienza che ciascun riabilitatore ha raccolto sul campo (fi- gli, nipoti, comunità infantili, ecc.), ma inevitabilmente destinata a restare patrimo- nio soggettivo e non confrontabile (normalità reale);

normalità può essere un modello teorico di funzionamento del SNC, in cui ad ogni costo si vorrebbero trovare le giustificazioni dei fenomeni osservati (normalità im- maginaria).

Non è inutile sottolineare come i cosiddetti “metodi” di trattamento della PCI, prima ancora che per la natura degli esercizi suggeriti, differiscano per l’idea di normalità che propongono, la quale a sua volta giustifica gli esercizi terapeutici consigliati.

Anche ammettendo l’idea che possa esistere una matrice comune dello sviluppo de- finita normalità, resta aperto l’interrogativo se nella PCI l’obiettivo terapeutico debba 390 Le forme spastiche della paralisi cerebrale infantile

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Crediamo piuttosto che terapia debba essere la capacità di guidare il bambino con PCI ad affrontare i problemi che la crescita man mano gli propone sviluppando solu- zioni adattive coerenti con le regole della sua autorganizzazione (storia naturale), rea- lizzare cioè la persona con le sue differenze senza imporle la copiatura di irraggiungibili modelli ideali. Occorre per questo che alla conoscenza della normalità (teorica, statisti- ca o reale) il medico riabilitatore e il terapista sappiano affiancare una non minore co- noscenza della patologia e delle sue regole nella dimensione evolutiva (sviluppo della paralisi).

Bisogna quindi pensare a quali sono i bisogni ai quali il bambino deve saper dare ri- sposta attraverso il movimento, e quando questi si presentano nel corso del suo svilup- po (appuntamenti). Se c’è qualche cosa di identico nello sviluppo di due bambini non è infatti il repertorio delle risposte, cioè delle soluzioni adottate per ciascuna funzione (ad esempio strisciamento o gattonamento), ma il susseguirsi dei problemi affrontati e l’e- poca in cui il bambino, divenuto consapevole delle proprie esigenze (conquistare lo spazio), è stato in grado di organizzare una propria soluzione funzionale, dimostrando di aver acquisito le regole dei meccanismi e dei processi.

La paralisi rappresenta in positivo il tentativo del bambino con PCI di affrontare le esigenze che lo sviluppo via via gli sottopone e acquisisce per questo una dimensione evolutiva (sviluppo della paralisi piuttosto che paralisi dello sviluppo).

A fronte di una visione che condanna la riabilitazione per la sua incapacità di far produrre normalità alla struttura lesa (disciplina delle promesse non mantenute) si contrappone la visione di una riabilitazione tesa a guidare la realizzazione di funzioni adattive, privilegiando come discriminante l’azione piuttosto che il movimento e lo scopo piuttosto che la prestazione.

Riabilitazione funzione

Mentre i “problemi” restano gli stessi, cambiano fra bambino e bambino le “risposte”, ovvero le funzioni adattive messe in atto per risolverli, con una variabilità che nel nor- male sconfina nella ridondanza e nel patologico si contrae nella ridotta libertà di scelta.

Pensando a come queste “risposte” possano cambiare in relazione al soggetto, al conte- sto ed al momento, possiamo riconciliare la riabilitazione allo sviluppo motorio nor- male che abbiamo criticato affermando che la terapia rieducativa non può essere la somministrazione di soluzioni desunte dal repertorio dello sviluppo del bambino sano e imposte al bambino patologico come “pezzi di ricambio”. Quando obiettivo della te- rapia è “normalizzare” la funzione, per non voler assistere all’esplicitarsi della patolo- gia, si finisce per far disertare al bambino appuntamenti importanti del suo sviluppo.

L’attenzione deve dunque passare dal movimento all’azione, strumento primitivamen- te cognitivo e solo secondariamente motorio, che nessuna analisi esclusivamente mo- toria, per quanto sofisticata, può esplorare esaustivamente. Vi sono affezioni, come le malattie neuromuscolari, dove si assiste a paralisi del movimento ma non dell’azione, ed altre, come le psicosi, dove si manifesta una paralisi della azione senza alcuna para- lisi del movimento. La PCI contiene elementi dell’una e dell’altra forma di paralisi ed è

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tanto più difficile da trattare quanto più la componente centrale prevale su quella peri- ferica (vedi cap. 14).

Il percorso riabilitativo deve iniziare identificando i problemi prioritari ai quali il bambino con PCI deve imparare a dare risposta attraverso l’elaborazione di una fun- zione adattiva sufficientemente competente. Un bambino senza bisogni, senza esigenze, senza desideri, non può giovarsi della fisioterapia, perché non ha in sé la condizione fondamentale per potersi modificare, la motivazione.

La storia dello sviluppo deve essere vista come storia dei problemi affrontati piutto- sto che come storia delle soluzioni adottate (come fare per alzarsi, come afferrare e manipolare, come spostarsi a terra e in piedi, ecc.). In questo senso la peculiarità dello sviluppo non deve essere più vista nella forma della funzione espressa dal bambino, ma nel superamento del problema a cui questa funzione fornisce una risposta sufficiente- mente adeguata (concetto di “good enough” da contrapporre a quello di “best perfor- mance”). Lo sviluppo di ciascuna funzione non prosegue infatti indefinitamente verso una prestazione ottimale (best performance), ma si arresta più o meno bruscamente a livello di quel buono abbastanza (good enough) che ciascun individuo stabilisce per se stesso, per i risultati cui ambisce, per la soddisfazione che prova, per le difficoltà che in- contra. La grafia di molti di noi costituisce una dimostrazione sufficientemente chiara di questo concetto.

La competenza di una funzione non è tuttavia il prodotto esclusivo dell’equazione bisogno-risposta, essa è influenzata anche dalle regole formali che la società in cui vi- viamo ci impone di rispettare (contestualità) e da valutazioni del tutto personali (con- sonanza), che fanno sì che certe prestazioni, per quanto efficaci, vengano comunque inibite perché considerate inadeguate rispetto all’immagine di abilità che ciascuno di noi intende trasmettere agli altri. Andare a gattoni all’asilo nido può essere un modo adeguato di spostarsi, farlo alla scuola elementare rappresenta una prestazione assolu- tamente inaccettabile. Sapendo di essere stonati, molti di noi rinunciano a cantare, o a ballare, se consapevoli della propria maldestrezza.

Al termine dell’analisi dei fattori che possono influenzare la competenza della fun- zione vanno considerati anche i cosiddetti aspetti contestuali, rappresentati dalle pos- sibilità offerte dall’ambiente e dalle occasioni concesse dalla comunità di esercitare quella determinata attività. Perché un bambino impari a mangiare autonomamente, non occorre solo che egli senta lo stimolo della fame (esigenza), che sia motivato a im- parare a mangiare, che sappia usare le mani e la bocca, ecc. Occorre anche che vi sia in giro qualche cosa di buono da mangiare (ambiente) e che gli adulti presenti gli consen- tano di provare a farlo, sciupando nel caso anche un po’ di cibo per permettergli di tro- vare una soluzione adeguata (funzione).

Per questo Milani Comparetti (1985) raccomandava che prima di giudicare una fun- zione come inadeguata, deficitaria o del tutto mancante, fossimo ben sicuri di aver of- ferto al bambino tutte le opportunità e tutte le occasioni necessarie per poterla appren- dere, perché le nostre manchevolezze non vengano ingiustamente considerate suoi di- fetti.

Riabilitazione paralisi

La paralisi come fenomeno evolutivo è sintetizzata dalla coerenza degli errori compu- tazionali compiuti dal SNC nel ri-organizzare le diverse funzioni (autorganizzazione).

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quale misura (prognosi). Conoscere la storia naturale significa capire e saper prevede- re i nodi e gli snodi possibili, i vincoli e gli svincoli concessi, le pause e i momenti criti- ci dell’intervento terapeutico (modificabilità come misura del possibile in terapia).

Quando non si dichiarano i modelli seguiti per dimostrare che cosa sia cambiato ri- spetto a che cosa, tutti possono ottenere buoni risultati, specie in età evolutiva dove cre- scita significa comunque cambiamento.

La possibilità di modificare la storia naturale è funzione della capacità di apprende- re del soggetto, intendendo per apprendimento il meccanismo geneticamente pro- grammato destinato a far conquistare quanto non sia già stato geneticamente previsto.

Si può apprendere la produzione di un gesto, il controllo di una postura, la capacità di compiere un’analisi percettiva, ma si apprende anche il non uso o il cattivo uso, l’inat- tenzione e la negligenza (vedi cap. 10), il compenso e la supplenza.

Parallelamente sul piano percettivo si può apprendere il piacere di percepire ma an- che la capacità di sopprimere le informazioni disturbanti (vedi cap. 7).

Resta da verificare in che misura le condotte apprese durante il setting terapeutico possano essere trasferite ad altri contesti di azione. Dove il paziente apprende? Solo nel laboratorio di fisioterapia? Quando il paziente apprende? Solo durante l’ora di tratta- mento? Cosa il paziente apprende? Soltanto l’esercizio terapeutico? Quanto il paziente apprende? Tutto ciò che gli insegna il suo fisioterapista? Quando è giusto cominciare? È ancora accettabile l’ideologia del trattamento precoce? Quando è giusto smettere? Per la stanchezza del terapista? Per la fatica della famiglia? Per l’opposizione del bambino? Per il superamento della fascia di età? Infine, il paziente può apprendere normalmente e so- prattutto può apprendere la normalità?

Nessun problema a iniziare “precocemente” il trattamento rieducativo consigliato (diagnosi, dunque terapia!), moltissimi a interromperlo, in quanto di per sé non verrà mai meno la condizione di partenza che ne ha decretato l’inizio, l’esistenza cioè di una lesione inemendabile del SNC. C’è allora bisogno di “terapia per tutta la vita”? O meglio si prospetta una “vita per la terapia”, come sostiene Bottos (2003) valutando la cosa dal- la parte del bambino disabile? La rieducazione deve necessariamente concludersi quan- do, in relazione alle conoscenze più aggiornate sui processi biologici del recupero, per un tempo ragionevole non si verifichino cambiamenti significativi né nello sviluppo né nel recupero delle funzioni adattive (Manifesto per la riabilitazione del bambino, 2000;

Ferrari, 2004). Questa posizione concettuale permette di decidere, nel modo più giusto per tutti, quando interrompere il trattamento rieducativo, senza timore che i familiari si sentano colpevolizzare per omissione di impegno, che gli operatori lo siano per sper- pero di risorse o che qualche medico o terapista “integralista” possa invocare la libertà di cura per giustificare una prosecuzione illimitata del trattamento rieducativo a moti- vo dei dogmi dettati dal metodo in cui vuole disperatamente credere.

Alla capacità di compiere un movimento si affianca idealmente la capacità di tolle- rarne le conseguenze sul piano percettivo, ma questo è sempre possibile nel bambino con PCI? Motorio o percettivo si equilibrano e si equivalgono o è possibile che alla ca- pacità di compiere definiti movimenti non corrisponda un’analoga capacità di tollerar- ne le conseguenze? (vedi cap. 7). La rinuncia come terza dimensione della paralisi nasce e si sviluppa nello spazio che divide il movimento dalla percezione. È facile capire come

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un movimento che venga compiuto senza piacere non possa essere un movimento con- servato e scelto e come questo fatto possa divenire un preciso limite alla possibilità del paziente di acquisire e di compiere progressi (vedi oltre). Non è possibile infatti porre rimedio alla mancanza di piacere.

L’acquisizione definisce la capacità del soggetto di integrare e conservare quanto è sta- to appreso: molte sono le cose che un bambino con PCI può apprendere e rendere possi- bili, assai meno quelle che può fare proprie e rendere probabili. L’acquisizione è infatti te- stimoniata dall’utilizzo funzionale spontaneo di quanto è stato precedentemente appre- so nel contesto terapeutico. Il passaggio dall’apprendimento all’acquisizione permette di ridurre il controllo cosciente del movimento per trasferirlo al significato dell’azione, cioè dallo strumento allo scopo. Se il bambino non è in grado di compiere questa operazione, per controllare il come (strumento) finisce per compromettere il perché (scopo). L’inca- pacità di acquisire, più che quella di apprendere, conduce gradualmente alla sospensione del trattamento (mancanza di cambiamenti nell’attività spontanea). Se l’elemento pecu- liare dell’acquisizione è la capacità di utilizzare spontaneamente quanto è stato appreso, il progresso rappresenta la capacità di scomporre per ricostruire, di selezionare per riuti- lizzare, di disordinare per riassemblare in nuove sequenze quanto è stato acquisito, in so- stanza la capacità di generalizzare le acquisizioni. È nei progressi che il bambino dimostra di saper essere protagonista attivo della propria riabilitazione e non contenitore passivo di azioni che altri considerano terapeutiche. Il progresso rappresenta perciò il fine ultimo del trattamento. “L’acquisizione dello schema di nuove competenze funzionali è possibile per un primitivo processo di generalizzazione (della sua evocazione su oggetti o comun- que situazioni motorie differenti da quella primitiva) e per la progressiva scomposizione- differenziazione dello schema stesso provocata dal processo. Una volta che tale differen- ziazione sia sufficientemente sviluppata e la competenza organizzatrice della nuova fun- zione sufficientemente strutturata, il comportamento motorio potrà mettere in atto coor- dinazioni di parti dello schema con parti di altri schemi nel frattempo modificati. Sarà quindi progressivamente la nuova funzione a strutturarsi in modo da permettere l’ab- bandono degli schemi, da cui primitivamente ha tratto la spinta maturativa, per favorire il processo organizzativo di schemi nuovi o più complessi” (Morasso et al., 1987). “La re- lazione ciclica tra differenziazione funzionale e differenziazione degli schemi sembra es- sere una costante della maturazione organizzativa del comportamento motorio. Si può anche rilevare come, in questi termini, plasticità intesa come adattabilità dello schema e plasticità intesa come capacità di organizzare risposte completamente nuove siano in realtà strettamente collegate. Consolidamento di uno schema e invenzione sono due aspetti dello stesso processo” (Whiting, 1980 citato da Morasso et al., 1987).

Occorre ammettere che non tutto ciò che si riesce ad ottenere dal bambino in una data situazione, in un dato momento e con una data persona (terapia e terapista) verrà acquisito e riutilizzato spontaneamente. Capita spesso che il bambino, al di fuori del setting terapeutico, appaia impoverito e svuotato della ricchezza dimostrata durante la relazione col terapista. Bisogna aver chiaro che l’accesso esterno (facilitazione del tera- pista) alle risorse del bambino ed alle sue capacità potenziali può risultare più facile, più libero e più aperto, e perciò più efficace, rispetto all’accesso interno (libertà di scelta) che il bambino possiede verso se stesso. Non tutto ciò che il terapista riesce a ottenere dal bambino diventerà perciò una competenza interiorizzata, cioè fatta propria (acqui- sizione) e riutilizzata (progresso). Se il trattamento non conduce a modificazioni stabi- li e ovviamente favorevoli non costituisce una terapia.

394 Le forme spastiche della paralisi cerebrale infantile

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Letture consigliate

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