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ORIETTA BERTI Tra bandiere rosse e acquasantiere

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Academic year: 2022

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ORIETTA BERTI

Tra bandiere rosse e acquasantiere

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da Mondadori Libri S.p.A.

Proprietà letteraria riservata

© 2020 Mondadori Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-17-14778-1 Prima edizione: settembre 2020

Crediti dell’inserto fotografico:

p. 1, 2 in alto, 11 in alto, 14 in alto, p. 16 in basso a sinistra © Orietta Berti p. 1 in basso a destra e 2 in basso © Dino Jarach

p. 3 © Lamberto Londi/Farabola

p. 4 in alto a destra e 12 in alto fotografia di Mimmo Dabbrescia © per gentile concessione di Art D2, Milano

p. 5 in basso a destra © Stefano Pilli p. 6 © Giancolombo

p. 13 in basso © Morena Brengola/Getty Images p. 15 in basso © Alessia Giuliani

p. 16 in alto © Roberto Brandi

p. 17 in basso a destra © Gianni Brucculeri

L’Editore ha fatto il possibile per reperire i proprietari dei diritti. Rimane a disposizione per gli adempimenti d’uso.

Pubblicato per

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Tra bandiere rosse e acquasantiere

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A mio marito Osvaldo

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La prima volta che mi sono tagliata i capelli corti corti avrò avuto una decina d’anni.

L’Ombretta, mia cugina, più grande di me di tre anni, aveva cominciato a portare il caschetto: è stata la prima, in famiglia, a fare una scelta così moderna.

Erano gli anni Cinquanta. Le donne, la sera, si pun- tavano i capelli con delle graffette, in modo da svegliarsi il mattino seguente con delle onde piatte (bellissime, in verità), che ancora ricordo in testa a mia madre. Ho una fotografia di lei pettinata così: è girata di tre quarti, fissa l’obiettivo con quei suoi occhi neri profondissimi e fiammeggianti. Il bianco e nero esalta il contrasto tra la sua carnagione lattea, le sopracciglia, truccate con un ombretto scuro per farle risaltare ancor di più, e il rossetto, che si intuisce rosso, come quello delle dive del muto.

Mentre mia madre riusciva a essere bella e carismatica con le onde anni Cinquanta, io portavo ancora le trecce.

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Orietta Berti

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Delle trecce stupende, castane e folte, che scendevano per un bel pezzo lungo la schiena, ma terribilmente infantili. Un caschetto, ecco quel che ci voleva. Come la Audrey Hepburn. Come la Ombretta.

In casa nessuno voleva che mi tagliassi i capelli: non mia madre, figuriamoci mio padre, nemmeno le nonne.

Dalla mia parte non avevo nessuno. Io però ero così sicura di me che mi sono ribellata, ho pianto, strepitato, e alla fine ho ottenuto quel che volevo.

Come diceva Oscar Wilde, ma anche mia nonna Roce, bisogna sempre stare attenti a ciò che si desidera, perché potrebbe avverarsi. Appena le trecce sono finite sul pavimento della parrucchiera, ho realizzato quanto fosse fastidioso quel ciuffo che mi pendeva davanti agli occhi. Non sapevo come appuntarlo, non stava a destra né a sinistra: l’ho odiato dal primo istante e ho odiato me stessa per aver voluto a tutti i costi fare di testa mia. Appena ho ripreso a disperarmi, mia madre mi ha rifilato uno scapaccione che mi ricordo ancora e, come se non bastasse, in paese mi hanno affibbiato il mio primo soprannome: Marlòn, come Brando, ma con l’accento sulla «o», alla emiliana, perché ero un pericolo pubblico.

Che fossi un maschiaccio era cosa nota.

Odiavo le bambole, il che suona davvero ridicolo

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per una che, oggi, ne possiede novanta. Da bambina, però, le bambole preferivo romperle, non collezionarle, così avevano smesso di regalarmele. Come tutti i bimbi di Cavriago, amavo stare all’aria aperta. Il paese aveva meno di cinquemila abitanti: non è un’esagerazione dire che, più o meno, ci conoscevamo tutti. I bambini potevano circolare liberamente, e liberamente esporsi a pericoli che oggi sarebbero inimmaginabili.

Una volta, mentre giocavo a nascondino con alcuni amici, sono caduta in una concimaia.

Ci eravamo infilati nel cortile della Cremeria Emilia- na, un’azienda che produceva latte, burro e formaggio.

Oggi è un centro di avviamento al lavoro. Sul prato oltre lo stabilimento c’era, non a caso, un allevamento di maiali, che sono golosi di siero.

Naturalmente, non avremmo dovuto spingerci fin là, ma l’abbiamo fatto comunque. Io mi sono nascosta in fondo in fondo, dietro un muro, con i piedi su quello che pensavo fosse terreno solido: in realtà era la con- cimaia mezza ghiacciata, per il freddo dell’inverno. La concimaia è un deposito a livello del terreno nel quale gli allevatori raccolgono lo stallatico che, nel tempo, si trasforma in concime. Mentre aspettavo che gli amici venissero a scovarmi andavo giù, sempre più giù, un centimetro per volta, come sulle sabbie mobili. Quando mi sono trovata con le ginocchia bloccate nel concime e mi sono resa conto che, da sola, non sarei riuscita a

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