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I CAPITOLO, OPRA E CUNTO PALERMITANO I.1 DIALOGO FRA DUE TRADIZIONI

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Academic year: 2021

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I CAPITOLO, OPRA E CUNTO PALERMITANO

I.1 DIALOGO FRA DUE TRADIZIONI

Il rapporto storico e artistico fra queste due tradizioni, parallele e compresenti nello scenario siciliano, ha vissuto varie fasi di contatto, alternandosi fra collaborazione e concorrenza. Si fa risalire l’origine ufficiale dell’opera dei pupi nella prima metà dell’Ottocento, quando il repertorio del cunto, arte orale per eccellenza, prende corpo nei vari teatrini della città di Palermo. Si pensa che l’abilità dei pupari derivasse da quella dei marionettisti siracusani, al tempo di Socrate e Senofonte, abilità nel costruire e manovrare marionette.1

Nella seconda metà dell’Ottocento in tutta la Sicilia sono attivi venticinque teatrini di cui nove a Palermo, definita «la città santa della cavalleria romanzesca» e luogo dove nascono e partono quasi tutti gli opranti.2 In particolare a Palermo sono maggiormente riconosciuti due pupari, considerati una sorta di riformatori, poiché sono coloro che hanno introdotto i pupi armati e le storie epico-cavalleresche nel repertorio dell’Opra: Don Gaetano Greco, «il Cristoforo Colombo dell’opra» e Don Alberto Canino, «il Robespierre dell’opra» (detto Don Libertu).3 Prima di Don Gaetano i pupi erano vestiti secondo i costumi del popolo, lui li ricoprì di armatura di rame bianco consacrandoli a paladini ed eroi dell’immaginario collettivo siciliano. La riforma più significativa di Don Libertu fu quella di aver costruito per la prima volta la corazza e l’elmo di metallo e nell’aver fatto diventare il teatrino dell’Opra più accessibile al pubblico, adesso «meno scamiciato e meno biricchino».4

1

Cfr. M.CUTICCHIO, in Guida all’opera dei pupi. Venticinque anni di attività del teatro dei pupi S. Rosalia, Palermo,

28 luglio 1973-28 luglio 1998, Palermo 1998.

2

Cfr. G.PITRÈ, in Le tradizioni cavalleresche popolari in sicilia 3

Cfr. PITRÈ,in Op. cit. 4

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Si racconta che tra i due pupari vi era competizione e contrasto, ma la realtà e la necessità fu più forte delle velleità narcisistiche e subendo entrambi in quel periodo le censure del dominio Borbonico sui testi degli spettacoli, i due pupari decisero di mettere da parte le controversie e fecero il «comparato», una sorta di parentela in presenza di amici e parenti. È la tradizione che si assume il compito di superare la crisi e combattere i veri conservatori di questa lunga storia

Per l’arte del cunto non è altrettanto lineare l’individuazione di un punto di inizio, sembra comunque nascere intorno al primo Ottocento, in Sicilia, sviluppandosi, poi, nel primo trentennio di questo stesso secolo.5 Una prima significativa testimonianza, letteraria e antropologica, risale a Giuseppe Pitrè, che svolge una specifica indagine sui fabulatori siciliani tra il 1874 e il 1884, raccolta nel volume Tradizioni cavalleresche popolari in Sicilia, nel 1884. All’interno di questo compendio si trova anche un’approfondita ricognizione dell’opera dei pupi, di cui Pitrè annotò tutto quello che dagli opranti viene definito «mestiere»: l’insieme delle storie, le caratteristiche dei pupi, gli strumenti e gli effetti scenici, teloni e fondali, le musiche, il tipo di pubblico, i vari luoghi di rappresentazione.6 Dell’arte del cunto, attraverso una osservazione scientifica, mette in evidenza la funzione ideologica e contestuale svolta da questi maestri della parola. Cuntista come rapsodo, poeta dell’animo siciliano, portavoce di istanze popolari, le cui storie sono il vocabolario di comportamenti e valori locali. Secondo un’impostazione positivista, la presenza dei contastorie (termine coniato dal novellista Linares nel 1837) sarebbe una sopravvivenza della letteratura cavalleresca, collegandosi alle figure dei trovatori e dei giullari medioevali, indietro fino agli aedi e ai rapsodi della Grecia arcaica. Il repertorio dei cuntisti deriverebbe dall’epica francese cavalleresca medievale, rivissuta poi nei vari poemi cavallereschi. Come tiene a precisare Guido Di Palma, in realtà, questa filiazione sarebbe una forzatura:

«Il prevalere degli interessi letterario testuali negli studi sulla fabulazione permette non solo l’appiattimento delle differenze performative tra una serie di figure che vanno dai Circulatores,

5

Cfr. G.DI PALMA, in Fascinazione della parola 6

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dagli Istriones ai Joculatores, ma la sostanziale indifferenza dei modi di produzione della materia narrativa e spesso produce delle sfasature nella valutazione dei ruoli sociali di queste figure». 7

La persistenza di tematiche e di repertori narrativi attesterebbe un uso, ma non giustificherebbe le diversità stilistiche, pratiche e performative tra fabulatori palermitani e presunti antenati. La stessa storia del cunto, dall’Ottocento ad oggi, non ha una continuità evidente di trasmissione e di conservazione, vi sono dei vuoti documentari significativi, delle rotture stilistiche e dei cambiamenti sociali, e di conseguenza una metamorfosi del ruolo svolto da questi fabulatori. Nel Settecento non ci sono testimonianze sull’arte del cunto, sembra quindi non esistere o almeno non essere istituzionalizzata come mestiere, neanche fra le stesse classi popolari.

Questo sarebbe un ulteriore elemento che confermerebbe la teoria secondo cui non c’è un vero collegamento fra cuntisti e arte dei fabulatori più antichi.

Di Palma sostiene che il cunto si sviluppa tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento sulla scia dell’arte dei Rinaldi, cantastorie napoletani, nomadi e vivaci, che hanno probabilmente trasportato i loro repertori e la loro pratica in Sicilia.

«La materia narrativa dei fabulatori viene indicata prevalentemente con l’espressione “il cunto di Rinaldo”. Ciò significa che alla tradizione cavalleresca autoctona, ricca di un repertorio popolare a stampa, si aggiunge una consistente presenza del repertorio napoletano comprendente la materia cavalleresca da Costantino a Carlo, e le gesta dei paladini contenute nell’orlando furioso e nell’orlando innamorato».8

Anche la fase storica del romanticismo e del Risorgimento sembra aver contribuito l’incrementarsi della passione verso l’epica cavalleresca, innestandosi nella cultura popolare. La pratica performativa dei Rinaldi napoletani era caratterizzata dall’uso di un testo, un supporto scritturale che da un lato permetteva una declamazione più ricca e varia, dall’altro però limitava le possibilità gestuali e fisiche, nell’interpretazione delle storie. L’analfabetismo dei primi cuntisti determinò un

7

Cfr. DI PALMA, in Op. cit. 8

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diverso modo di praticare quel tipo di declamazione orale: i repertori venivano memorizzati ad orecchio e imitati secondo quanto la memoria orale permetteva di riprodurre (da questo punto di vista il formulario, la ripetizione di frasi e parole chiave, tipico di quest’arte, testimonia la strategia mnemonica messa in atto in un contesto orale).9 In effetti la peculiarità dei cuntisti siciliani è la maggiore attenzione alla gestualità mimico-facciale e del corpo, come arricchimento e ritmicità del racconto, se si considera, inoltre, che non possedevano un supporto testuale. Già questo primo aspetto delinea un fatto importante e cioè che il fenomeno del cunto dipende dalla performance personale di ognuno dei fabulatori, al singolo è principalmente affidata la resa e la rielaborazione della pratica narrativa, in relazione al contesto in cui si inserisce l’evento del cunto.

Infatti nel corso dell’Ottocento si costruisce molto gradualmente, e in modo relativo, una codificazione di regole e di codici, anche perché esiste una precipua forma di trasmissione che non rientra nelle forme tipiche di apprendimento tradizionale: «il furto ritualizzato». Tale forma di acquisizione da un «portatore attivo» ad un altro presupponeva un atteggiamento, da parte dei maestri accreditati, di poca disponibilità a trasmettere le proprie regole recitative, ma allo stesso tempo si manifestava una passività a farsi osservare e rubare tecniche e codici interpretativi; in fondo la presenza di allievi, anche se non scelti, era un elemento di prestigio. La continuità nel tempo del mestiere del cunto è affidata alla capacità, alla tenacia e alla vocazione di ciascun fabulatore ad apprendere e sperimentare. In questo secolo il cuntista è il detentore unico dell’epica cavalleresca, colui che gestisce e giustifica un sapere, i cui valori, principi e regole di comportamento, costituivano il modello esistenziale delle classi popolari. La maestria dei cuntisti era il suggello di una profonda sapienza:

« La maestria consiste nello strutturare una performance verbale secondo una strategia capace di

misurare gli strumenti della recitazione sulle attese del pubblico, e di calibrare di conseguenza gli

9

Per l’approfondimento della questione relativa alle caratteristiche dell’oralità, e nello specifico sul rapporto tra modalità orali e modalità scritturali rimando a due testi: W. J. ONG,in Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna 1986, e P. ZUMTHOR,in La lettera e la voce. Sulla «letteratura» medievale, Bologna 1990

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eventi narrativi sullo svolgimento dell’evento narrativo. Quindi non è la semplice conoscenza della materia cavalleresca».10

La drammaturgia performativa di ogni cuntista, dal punto di vista della competenza recitativa e della profonda conoscenza delle storie, dava credito inoltre ad una tendenza specifica popolare, quella di pensare che ci fossero connessioni e parentele con personaggi e figure storiche. Ad esempio si pensava che ci fosse una diretta discendenza di Santa Rosalia, patrona della città di Palermo, da Carlomagno.

In linea generale si possono focalizzare alcuni aspetti performativi di questi primi fabulatori: uso di un patrimonio formulatico, ritmo fonatorio ottenuto non tanto da una metrica ma dall’alterazione del respiro, narrazione spezzata in «mozze parole e tronchi accenti», loquela sincopata accompagnata dal battito del piede nelle parti più salienti della storia (ad. Esempio durante il racconto delle battaglie), uso di una pedana e di una sedia e, a volte, di una spada. Il cunto mette in atto una ricchezza fonico-vocale proprio per distinguersi dal livello quotidiano del discorso.11 Il mestiere dei cuntisti si distingue da quella dei cantastorie, i quali erano cronisti di storie realmente accadute, che andavano per i vicoli delle città con cartelloni, raffiguranti le varie parti della storia, e che accompagnavano la narrazione con una chitarra e una bacchetta.12 La differenza fra le due figure rimanda allo scarto esistente tra cronaca e storia, tra argomentazione e storia come mito.

«Se il cantastorie è […] il cronista della storia, il cuntista ne è il mago, il nano che, […], sale sulle spalle del gigante e innalza il pubblico alla sua altezza».13

In questa prima fase storica i pupari, «maniatori» professionisti di pupi, consideravano i fabulatori i maestri da cui poter attingere storie e conoscenza. Prima della nascita del pupo armato, fino alla prima metà dell’Ottocento, l’opera dei pupi rappresentava storie locali con personaggi appartenenti

10

Cfr. DI PALMA, in Op. cit. 11

Cfr. R. GIAMBRONE, in I sentieri dei narratori, Palermo 2004 12

Cfr. V.VENTURINI, in Dal Cunto all’Opera dei pupi. Il teatro di Cuticchio, Roma 2003 13

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al tessuto popolare palermitano (vere maschere popolari), in atti unici. Questo patrimonio costituiva il repertorio delle «Farse», rappresentazioni dissacranti, comico-grottesche, che si svolgevano nei «casotti di li vastasi», magazzini vicino al mare, luoghi di passaggio.14 Quando il popolo perse l’interesse verso questi personaggi, affascinato adesso dall’epica cavalleresca, i pupari ebbero l’esigenza di farsi contaminare da altre mode, in quel momento costituito dalle performance dei cuntisti. La reciprocità fra queste due arti, in questo periodo, è evidente e significativo perché è proprio adesso che l’opera dei pupi porta sul palcoscenico personaggi e storie fino a quel momento solo evocate e immaginate: il paladino e tutta la sua epopea diventa reale.

Ai primi del Novecento si assiste ad un mutamento di ruoli e di funzioni sociali. La diminuzione dell’analfabetismo, il diffondersi di stampe e dispense sulle storie dell’epica cavalleresca, e il continuo perfezionamento della maestria dei pupari mette in crisi il prestigio dei cuntisti. L’esigenza di un ripensamento performativo e la ricerca di una nuova collocazione adesso spetta ai fabulatori orali, i quali per riconquistare un pubblico e un credito, decidono di trasferirsi dall’interno dei magazzini, luoghi di ritrovo costante e sicuro, all’aperto, nelle piazze e nei vicoli e di arricchire il proprio repertorio con altre storie, ad esempio quelle legate al brigantaggio e alla ribalderia.

Questo processo di commercializzazione tende a sminuire la professionalità dei cuntisti agli occhi dei pupari che conservano, invece, un’idea rigorosa e sacrale del proprio mestiere. Ma cosa più importante si indebolisce il sistema di trasmissione del sapere, con la conseguenza di una formazione più dilettantesca e meno controllata dei neo-fabulatori. Lo stesso rapporto con il pubblico, già meno configurabile rispetto al passato, perde quell’aurea di complicità e di serietà, prerogative ancora vive nell’opra. In questa seconda fase si spezza la solidarietà fra pupari e cuntisti, i quali da maestri diventano «intraprendenti dilettanti».15

Nel nuovo scenario, primo dopo guerra, è l’opera dei pupi, soprattutto nel nome di Greco, Canino e Argento, a essere modello di fabulazione e punto di riferimento dell’immaginario popolare, mentre

14

Cfr. DIPALMA, in Op. cit. 15

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gli ultimi veri cuntisti (i fratelli Camarda e Totò Palermo) chiudono una generazione di prestigio e autorità.

I vari neo-fabulatori attivi nella città palermitana (si ricordano in particolare Totò Lo Verde e Roberto Genovese), contribuiscono comunque ad una capillarizzazione di un sapere, e molti di loro hanno occasione di crescere ed esercitarsi all’interno dell’opera dei pupi, chiamati come supporto vocale. In effetti, per quanto lo snobismo dei pupari determinasse un coinvolgimento declassante per i cuntisti, questa pratica è alla base di un processo di contaminazione che arricchì entrambe le arti: i cuntisti acquisirono una gestualità e una vocalità nuova, più simile a quella degli attori inanimati (i pupi), e i pupari assimilarono un recitazione più declamatoria e dettagliata nei particolari. Nonostante la discontinuità trasmissiva di codici performativi, fra cuntisti, e le notevoli differenziazioni stilistiche è possibile schematizzare la drammaturgia del cunto, grazie anche alla tematizzazione critica svolta da Cuticchio:

«[…] il cunto è diviso in tre parti principali: l’introduzione, l’interpretazione e la parte ritmica. Nell’introduzione il cuntista presenta allo spettatore la situazione, come fosse un drammaturgo che descrive il contesto; l’interpretazione è la parte più propriamente attorale: monologhi, dialoghi a due voci, cori. È qui che viene fuori tutta l’abilità dell’interprete; il terzo momento è il raggiungimento del climax, dove viene fuori l’altra dote del cuntista, quella registica, perché bisogna saper costruire questo momento, bisogna saperci arrivare. Il cuntista-regista, arrivato a questo punto, deve saper togliere di mezzo l’attore che è in lui, mantenere il narratore e guidarlo alla scansione delle singole immagini, come se si trattasse di una sequenza cinematografica al ralenti. Il ritmo delle battaglie sembra accelerato, in realtà è il momento in cui si rallenta, per scandire, fotogramma per fotogramma, il racconto nei suoi momenti più drammatici, proprio come fanno i registi nel cinema quando vogliono evidenziare alcune sequenze».16

Nel secondo dopo guerra, lo scenario sociale è depresso e disorientato dal conflitto; l’urgenza della sopravvivenza e la realtà delle macerie distoglie l’attenzione del pubblico dalle storie fantastiche dell’opra, la quale non avendo un riconoscimento istituzionale, né un introito se non quello

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derivante direttamente dal pubblico, entra in profonda crisi. Gli anni cinquanta e sessanta, periodo in cui si diffondono anche altre forme e pratiche di intrattenimento, tra cui la televisione, e in cui si sgretola «il tessuto di connessione che collegava la scena e la sala»,17 molti pupari si vedono costretti ad abbandonare il proprio mestiere, a smembrarlo e venderlo sottocosto, mentre alcuni, invece, decidono di intraprendere l’arte del cunto, come possibilità di sostentamento, per sbarcare il

lunario.

I cuntisti del primo novecento avevano già rielaborato e trovato una soluzione performativa che li rendesse ancora interessanti e fruibili, una tradizione di cambiamento che preparò il terreno a successive sperimentazioni fabulatorie, come nel caso di Peppino Celano, futuro maestro di Cuticchio.18

Parallelamente alle pratiche fabulatorie, il mestiere dell’opra tentava di equilibrarsi fra mutamenti sociali e precarietà economica. Nella seconda metà del Novecento, non essendoci alcun significativo sostentamento economico, perché non si sviluppa una politica di recupero dell’opra a cui è disconosciuto uno statuto d’arte, lo scenario di questo mestiere è quasi desolante e al limite della sua esistenza.

I.2 MIMMO CUTICCHIO

Mimmo Cuticchio è figlio, continuatore e sperimentatore di queste due arti antiche. Come abbiamo visto, durante il secondo dopo guerra, in un scenario di miseria e depressione, le famiglie dei pupari palermitani non hanno nessuna forma di protezione da parte delle amministrazioni locali, le quali non pensano di proteggere questi mestieri ma al contrario contribuiscono al loro smembramento spingendo molti pupari a vendere i loro teatrini, con

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Cfr. C.ALBERTI, Mimmo Cuticchio, l’enigma dell’attore naturale, in GIAMBRONE, Op. cit. 18

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tutto quello che c’è dentro, soprattutto i pupi, ad acquirenti privati o pubblici (famiglie borghesi o musei). Molti pupari sono costretti a chiudere i loro teatrini e diversi figli d’arte anziché continuare la tradizione cambiano lavoro o lasciano Palermo. Disorientamento economico aggravato da quello sociale e culturale. Gli opranti non solo non hanno più spazi per le proprie rappresentazioni ma anche il pubblico affezionato e di riferimento è sempre più assente. Delle famiglie di pupari più importanti (Canino, Argento, Greco, Cuticchio) l’unica che riesce a sopravvivere e a continuare il proprio mestiere è la famiglia del puparo Giacomo Cuticchio. Giacomo Cuticchio, allievo del puparo Greco; tenne il suo primo teatrino stabile fino all’inizio della seconda guerra mondiale, a Palermo. Come occasionali collaboratori ebbe il cuntista e puparo Peppino Celano il quale costruiva alcune ossature di pupi e, occasionalmente, prestava la sua voce ad alcuni personaggi. Alla fine della guerra Giacomo Cuticchio, tornato dalle armi, si ritrovò senza il suo teatrino perché, in sua assenza, era stato chiuso. Anche per lui fu un momento di crisi, Palermo era cambiata, il pubblico della città non era più lo stesso e la pressione delle amministrazioni locali era forte. Pina Patti Cuticchio, la fedele compagna del puparo, convinse il marito a resistere, a non vendere niente e a cercare nuove soluzioni. Giacomo decise di lasciare la città di Palermo e, diventando nomade, andò alla ricerca di altro pubblico, nell’entroterra siciliano, nei paesini di mare e di montagna, la gente ancora interessata ai suoi spettacoli. Qui la gente era ancora pronta ad accogliere nel proprio immaginario fecondo le storie di sempre, storie di pupi e personaggi fantastici. Se prima il luogo stabile del teatrino attirava la gente anche da fuori, adesso è il puparo che viaggia per raggiungere il suo pubblico, quello che si riconosce nel mondo dell’opera dei pupi. Il pubblico della città era ormai poco motivato a uscire dalle proprie case e ritrovarsi, per due ore, nella casa-teatro dei pupari, perché adesso l’ immaginazione è nutrita nel proprio privato da altre forme di evasione. Il puparo Cuticchio aveva diversi malazeni (magazzini) dove costruiva i suoi teatrini e pupi e precisamente nelle province di Trapani, Caltanissetta e Agrigento. Da questi laboratori-magazzini, quando uno spettacolo era pronto, si spostava e

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girava con il proprio carretto, mezzo che utilizzò fino agli anni sessanta. I malazeni erano vere e proprie case-teatro, qui la famiglia Cuticchio viveva e qui Pina Patti cresceva i propri figli, nati durante i numerosi spostamenti del padre: Teresa, Anna, Mimmo, Piera, Nino e Guido. Il 30 Marzo 1948, nel teatrino di Gela (provincia di Caltanissetta), nacque Mimmo Cuticchio. Come già per le sorelle anche per lui l’infanzia subito si intrecciò alla vita dei pupi, con essi giocava e sognava ma apprendeva anche un mestiere rigoroso, masticando quotidianamente un patrimonio profondo. La vita nella casa-teatro iniziava la mattina molto presto in vista della preparazione dello spettacolo della sera, spolverando, aggiustando pupi e preparando quelli per le puntate successive o per spettacoli nuovi. Le armature venivano smontate tutti i giorni per essere oleate e asciugate. La manutenzione del teatrino impegnava l’intera famiglia. Pina Patti Cuticchio, che faceva da cassiera del teatrino, era anche l’autrice di molti fondali e varie scenografie, curando così un talento e costruendo una sua particolare arte pittorica. L’apprendistato dei figli è dunque prima di tutto artigianale, secondo i canoni della tradizione, infatti l’intero patrimonio non veniva trasmesso con esplicite spiegazioni ma attraverso la pratica diretta e l’osservazione dei movimenti e delle azioni del padre. L’apprendimento delle pratiche propriamente teatrali dell’opra, la manovra dei pupi e il parlare i vari personaggi seguiva invece, delle precise tappe. I figli del puparo, da piccoli, seguivano gli spettacoli da dietro le quinte (il retroscena del palcoscenico) o si limitavano a suonare il pianino a cilindro, che accompagnava le varie scene, oppure dare la voce agli angeli o passare oggetti di scena, finché il primo figlio maschio, Mimmo, cominciò a manovrare i pupi della quarta quinta, dal lato dei pagani (a destra), fino a giungere alla prima quinta, di fronte al padre, dove si svolgevano quasi tutti i combattimenti principali.19 Nel 1963, a quindici anni, Mimmo

19

Cfr. CUTICCHIO, in Op. cit, p.17: «(il palcoscenico) è diviso in quattro spazi, in ciascuno dei quali, i pupari, sistemati dietro le quinte e poggiando i piedi sul palcoscenico, nello stesso piano dove agiscono i pupi, possono muovere e far combattere parallelamente al proscenio i loro personaggi. La struttura è una vera e propria macchina scenica, coperta da una prospettiva, che con un’elaborata decorazione ottocentesca, raffigurante tornei e duelli, fa da cornice al sipario e al siparietto che si chiude all’occorrenza, tra una scena e l’altra. Sul palcoscenico sono appesi a sinistra, guardando dalla parte del pubblico, i cristiani, sul lato destro si trovano i saraceni, i giganti e altri personaggi secondari. Il primo puparo si trova sulla sinistra del palcoscenico e regge i fili dei cristiani: l’aiutante sta invece a destra movendo i saraceni e gli

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partecipò con il padre al VI Festival dei Due Mondi, a Spoleto, sul teatro di figura; qui si rese conto che fuori Palermo e fuori il suo teatrino esisteva un mondo ricco di teatranti e artisti che possedevano tradizioni profonde e secolari come la sua. Questo primo confronto con altre realtà teatrali e artigianali si rifletterà in seguito nella personale poetica di Mimmo, eclettica e internazionale. All’età di venti anni, grazie a un’interiorizzazione lenta e continua, possiede già un importante patrimonio interiore di storie, tecniche e voci (suoni, vocalità, melodie ), ma il percorso di conoscenza non si è ancora concluso. Seguendo il padre nei vari spostamenti avvertiva con disagio il cambiamento dello scenario sociale e non approvava la scelta del padre di fare lo stesso spettacolo, tutte le sere, per un pubblico di turisti. Comincia a comprendere la grandezza e la potenzialità espressiva della sua tradizione e il vedere ridurre quest’arte a prodotto-residuo di un passato lo mise in crisi, prima di tutto con il padre-maestro.

Nel 1967 Giacomo Cuticchio fece una convenzione con l’albergo Méditerranée di Cefalù, che mandava i turisti al teatrino dei pupi con un buono, alla fine degli spettacoli il puparo cambiava i buoni raccolti in denaro. Cefalù fu l’ultima tappa degli spostamenti dei Cuticchio e in un certo senso la fine di un viaggio, quello della creazione artistica e dello spirito originario dell’Opra; il suo ultimo teatrino stabile fu l’Ippogrifo, in Vicolo Ragusi, a Palermo, inaugurato nel Maggio del 1969. Il 1967 è anche l’anno in cui Mimmo per un mese fu con il padre a Parigi; qui Giacomo aveva costruito un teatrino in una cave, ma non avendo interesse a modellare e adattare il suo repertorio a un pubblico straniero, alla fine decise di venderlo e tornare a Palermo. Durante il viaggio di ritorno Mimmo capì che voleva continuare per la sua strada, che desiderava sperimentarsi lontano dall’ombellico paterno e così, a Torino, scese dal treno e lasciò il suo primo maestro. Tornato a Parigi. nello stesso teatrino venduto dal padre e adesso messo a disposizione dal nuovo proprietario, il giovane puparo si cimentò, questa volta latri personaggi che via via si avvicendano. (…) Fra la seconda e la terza quinta, dove agiscono i primi due pupari, escono i protagonisti; lo spazio fra la terza e la quarta e quello fra la quarta e la quinta serve per introdurre i personaggi secondari e per realizzare le battaglie campali. In quest’ultimo spazio, vengono preparati gli effetti di scena come: letto, tavolo, trono, sedie, fontane, tombe, alberi…»

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da solo, nella rappresentazione del repertorio tradizionale del padre, ma in questo contesto lo adeguò (nella durata, nella lingua, nel testo) al nuovo pubblico ignorante della materia. Inizia in questi mesi la riflessione critica sulle potenzialità espressive di un’arte che sembrava destinata alla visibilità locale, ed in particolare, sull’autorialità del teatrante-puparo.

Nel 1968 di nuovo a Palermo, prese atto che lo scarto tra la sua personale concezione poetica della tradizione dell’opra e quella del padre era incolmabile. La differenza fra i due consisteva nel modo di essere dentro la stessa tradizione; l’uno, Giacomo, si sentiva al termine di un viaggio e viveva la fine senza più voler maturare altre intenzioni e tensioni artistiche (come in passato invece aveva espresso) l’altro è, invece, all’inizio del viaggio e avverte una forte tensione al cambiamento. La tradizione era la stessa per entrambi ma Mimmo voleva concepire un altro volto e un altro corpo. Lo stesso anno decise di andare a Roma; ragazzo curioso, fortemente caratterizzato nel fisico e nella voce non ebbe difficoltà ad avventurarsi nel mondo della televisione e del cinema in cui fece varie esperienze, da quella di comparsa in alcuni film a quella di macchinista. L’arricchimento personale va nutrendosi non tanto in termini di notorietà quanto in quelli di conoscenza di altri linguaggi espressivi e tecnici che successivamente, nel corso della sua vita, costituiranno fonti preziose. Successivamente entrò nella scuola per attori, l’Accademia Sharoff di Roma, diretta da Aldo Rendine. Mimmo modificò il suo parlato, studiando le tecniche della dizione teatrale; si cimentò in esercizi laboratoriali sull’improvvisazione e sull’uso del corpo, coefficienti teatrali, questi, che all’interno della tradizione dell’opra avevano connotati e presupposti totalmente differenti. Il rinnovamento artistico personale guadagnò un respiro più ampio perché frequentando la scuola ebbe modo di conoscere una tradizione, di attori, autori, registi e scuole, magari non circoscrivibile né identitaria come la sua, ma certamente complessa e stratificata. Aldo Rendine comprese che Mimmo apparteneva già a una scuola rigorosa, con codici, regole e prove da superare, e che possedeva una precisa formazione difficile da sostituire e

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dimenticare, così gli suggerì di tornare a Palermo e proseguire la tradizione dell’opra, terreno espressivo ancora fecondo. Mimmo fortificato e incoraggiato tornò a Palermo ma volle, ne aveva ancora bisogno, un altro maestro, un’altra guida e quando un individuo è alla ricerca di un maestro ciò significa che ha verificato la propria vocazione e passione. A Palermo operava Peppino Celano, puparo e ultimo cuntista della generazione ottocentesca, che oprava in inverno e cuntava u cuntu in estate. Dopo varie insistenze e attese fuori dal magazzino di Celano, come nei più tradizionali rapporti di apprendimento artigianale, Mimmo riuscì a entrare nel suo laboratorio e a seguire, osservare, senza mai potere avere spiegazioni chiare, l’arte del nuovo maestro. Consolidò alcune tecniche di costruzione di pupi, cominciò a farne dei propri, avendo il progetto di aprire un giorno un suo teatrino, ma soprattutto apprese l’arte del cunto. Mimmo studiava il puparo nel suo laboratorio ma lo seguiva e accompagnava, anche, nelle varie sedute di cunto, nella provincia palermitana, entrando così nel mondo fabulatorio di questa tradizione. Un giorno, nel 1973, durante una seduta di cunto per un convegno sulle tradizioni popolari, Celano decise di interrompere la sua seduta e senza alcun preavviso propose a Mimmo di salire, lui, sulla pedana e continuare il cunto. Celano portava con sé sempre due o tre spade di legno con le quali accompagnava il ritmo del cunto, ne utilizzava una in particolare in momenti significativi della storia, ad esempio durante il racconto delle battaglie. Nel momento in cui Mimmo fu spinto a isfacciarsi (mostrarsi al pubblico), chiese al maestro di poter impugnare la particolare spada e cominciò il suo primo racconto. Nei tre anni di apprendistato presso Celano, Mimmo aveva sviluppato un interesse sempre più forte per l’arte del cunto, tanto da volere trascrivere manualmente tutti i copioni e manoscritti del repertorio di storie di Celano. Scoprì inoltre di possedere un particolare talento per quel tipo di tecnica fabulatoria, ma l’obiettivo principale rimaneva quello di costruire un proprio teatrino e creare un mestiere; il cunto veniva sì percepito come una straordinaria scoperta ma rimaneva un’esperienza temporanea. Nel 1973 Celano morì in un incidente stradale, si interruppe così, bruscamente, la scuola di Mimmo che in ogni caso in soli tre anni

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riuscì ad accumulare un repertorio di storie, da cuntare e rappresentare, tale da permettergli, lo stesso anno, di aprire un teatrino di pupi, il Santa Rosalia, nome dato in onore al maestro Celano, devoto della Santa e Patrona di Palermo. Durante gli anni settanta, le amministrazioni non riconoscevano più la particolare situazione delle famiglie d’arte e la SIAE faceva pagare ai pupari una percentuale su un incasso che derivava principalmente dalle offerte volontarie del pubblico senza però informare il puparo che egli stesso era l’autore degli spettacoli, perché riformulava sceneggiature di pubblico dominio e per questo motivo avrebbe potuto guadagnare qualcosa come diritto d’autore. Memore delle difficoltà incontrate dal padre e dell’impossibilità ad adeguarsi a questa situazione Mimmo cercò, invece, di adattarsi e imparare il linguaggio necessario per comunicare con le istituzioni. Riuscì ad accedere alle sovvenzioni ministeriali e ad ottenere un riconoscimento da parte dell’ex Ministero del Turismo e dello Spettacolo, pur risultando, la sua, ancora un’organizzazione capocomicale. Nel 1977 nasce l’Associazione Figli d’arte Cuticchio che accorpò la compagnia omonima; è la prima volta che si crea un rapporto fra pupari e amministrazione pubblica ed è la prima volta che una famiglia d’arte si pone come unità produttiva autosufficiente e in grado di controllare tutte le fasi di produzione. Un altro vantaggio per la nuova realtà dell’Associazione Figli d’arte Cuticchio fu quella di vedere valorizzata la propria attività nei settori dell’artigianato dell’opera dei pupi. Durante gli anni Settanta e Ottanta l’Associazione continuò a rappresentare i canovacci antichi del repertorio tradizionale ma anche, rispondendo alla necessità di Mimmo di rinnovarsi, vennero messi in scena nuovi copioni e costruiti nuovi pupi. Durante gli anni Ottanta Mimmo, portando fuori i propri spettacoli, si trovò a contatto con altre realtà regionali e nazionali, con attori, registi, e professori, e fu in questa fase che un po’ per voglia di sperimentarsi e un po’ spinto dalla curiosità e dall’interesse di altri (soprattutto studiosi e gente di teatro) riprese l’arte del cunto. Nel 1980 a Trappeto, vicino Palermo, in occasione di un incontro con l’Odin Teatret di Eugenio Barba, all’interno di un Seminario sul teatro di ricerca, in Sicilia, Mimmo fu invitato a mostrare la propria tradizione

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teatrale. Qui Mimmo volle cimentarsi nel cunto e lo fece con il repertorio classico di storie di paladini, suscitando l’interesse degli ascoltatori, non costituito da un pubblico occasionale ma da teatranti e intellettuali. L’evento fu significativo poiché determinò l’inizio di un nuovo percorso e di nuove contaminazioni nella già ricca poetica dell’opra. A Trappeto era presente Ferdinando Taviani che per primo si interessò al modo di raccontare del cunto siciliano e nel 1982 invitò Mimmo a Livorno, al Convegno Le pratiche del narrare. In questo incontro tutti i partecipanti raccontavano delle storie e Mimmo doveva trasformarle in cunto. Le esperienze dei primi anni Ottanta in cui il cunto divenne per Mimmo una nuova strada, parallela all’opra dei pupi, lo portano a ideare e mettere in scena nel 1983 il primo spettacolo di cunto, La

spada di Celano. La realizzazione dello spettacolo nacque dalla necessità di raccontare la

storia di quest’arte, dei suoi maestri, delle sue tecniche ma soprattutto di rivelare un altro volto del teatro orale a cui apparteneva Mimmo, attraverso il racconto della sua formazione. Con questo spettacolo Mimmo esplicitava anche la sua appartenenza a una regione in cui il teatrante-narratore non solo si esibisce e rappresenta ma visualizza, interiorizza le immagini per raccontarle poi con il suono. Proprio quando comincia ad avere una autonomia imprenditoriale, una consapevolezza scenica e performativa, ha inizio anche l’importante collaborazione artistica e spirituale con Salvo Licata, giornalista e drammaturgo palermitano. Salvo Licata fin da piccolo frequentava i teatrini di Palermo, in particolare quello di Giacomo Cuticchio e conosceva molto bene l’ambiente e lo spirito a cui apparteneva Mimmo, ne apprezzava la poesia, ne valorizzava la ricchezza espressiva. L’incontro tra Mimmo e Salvo Licata è significativo da un punto di vista teatrale poiché è un esempio di come possano comunicare due linguaggi diversi: Licata, come drammaturgo, rappresenta la parola scritta, il testo teatrale, la scrittura scenica; Mimmo invece è il suono, è l’immagine, è la drammaturgia scenica. Testo e parola si incontrano in un luogo dove possono esprimere al massimo le loro potenzialità senza incatenarsi necessariamente. I testi ideati, scritti e poi rappresentati o cuntati non avevano mai un volto definitivo e come su un canovaccio venivano stabiliti dei

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punti di riferimento dal quale scaturivano le molteplici elaborazioni, sperimentazioni testuali, drammaturgiche, performative e sceniche di Salvo e Mimmo. Durante la loro collaborazione nacquero molti spettacoli sperimentali che segnano ed evidenziano chiaramente le intenzioni di Mimmo, cioè quello di percorrere tutte le strade possibili che il suo teatro di tradizione gli suggeriva e di fatto possedeva; l’obiettivo personale e culturale era quello di non relegare un linguaggio totale e completo a definizioni anacronistiche e sminuenti. Spettacoli come Visita

guidata all’Opera dei Pupi del 1989, Francesco e il Sultano del 1992 e L’Urlo del mostro del

1993 costituiscono un vero e proprio discorso poetico sul percorso sperimentale intrapreso da Mimmo, il quale prima di essere puparo e cuntista è artigiano e teatrante completo, identità queste che giustificano la volontà di superare etichette e gabbie culturali. La necessità di esprimersi liberamente, alimentò anche l’idea che bisognava dare spazio a tutte le realtà teatrali appartenenti a tradizioni o marginali, non riconosciute come entità produttive, che bisognava ricreare un contesto di fruizione. Nel 1984 nasce il Festival La Macchina dei sogni, sul teatro di figura, proprio con l’intento di coltivare un terreno di tradizioni, esperienze e poetiche per nulla arido. Questa prima edizione fu dedicata al padre Giacomo il quale contribuì, con propri spettacoli, alla realizzazione del festival; Mimmo ebbe modo così di riconoscere serenamente la grandezza del suo primo maestro. Le edizioni seguenti svilupparono temi diversi e spesso critici: le tecniche del narrare, gli artisti di strada, il teatro e la magia, il labirinto burocratico, il rapporto tra il teatro d’animazione e il teatro di ricerca, il microteatro, il teatro epico-cavalleresco, la narrazione orale, ecc. Cambiando volto, rinnovando il proprio patrimonio personale Mimmo inevitabilmente muta i presupposti di trasmissione dei propri mestieri, non c’è più un contesto in cui si possa riproporre un rapporto maestro-allievo così come lui lo aveva vissuto, ma avvertiva l’esigenza di aprirsi, di raccontare il suo teatro. Nel 1997 nasce il progetto di una scuola triennale per pupari e cuntisti, con l’Assessorato alla Cultura del Comune di Palermo. Rispetto alla profondità del patrimonio dell’opra e del cunto e della sua storia, i tre anni di scuola proposti non sembrano

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sufficienti, ma considerando l’intento di Mimmo che è quello di dare delle strategie e degli strumenti per viaggi artistici personali, essendo l’opra e il cunto prima di tutto Teatro, allora anche questo nuovo luogo creato da Mimmo sembra poter ricreare antichi canali di trasmissione culturale in un contesto poetico nuovo.

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