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La crisi del 1907. Una tappa dello sviluppo industriale in Italia

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F R A N C O BO N ELLI

CRISI DEL 1907

Una tappa dello sviluppo industriale

in Italia

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F O N D A Z IO N E L U IG I E IN A U D I

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LA CRISI DEL 1907

Una tappa dello sviluppo industriale

in Italia

di

FRA N CO BONELLI

T O R IN O - 1971

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Premessa *

LA C R ISI FIN A N ZIA R IA D EL 1907 N ELLA ST O R IA D ELLO SVILUPPO IN D U ST R IA L E ITALIAN O

1. Nella seconda metà del 1907, in connessione con una crisi mondiale di liquidità monetaria, una prolungata e grave depressione del mercato dei valori mobiliari mise in difficoltà in Italia le « Società ordinarie di credito» (le cosiddette banche «m iste»), che avevano immobilizzato in misura elevata i depositi in crediti alle industrie, in partecipazioni azionarie e in operazioni di borsa. Une delle tre maggiori banche miste - la Società Bancaria Italiana - più delle altre oberata da immobilizzi ed esposta a perdite, si trovò a corto dei mezzi liquidi necessari per fronteggiare le pressanti domande di rimborso dei suoi depositanti. Si presentava il pericolo di una chiu­ sura degli sportelli. Le restanti banche, temendo le gravi ripercus­ sioni di questa eventualità, nell’intento di apprestare difese adeguate, restrinsero il credito e, così facendo, misero in difficoltà le imprese che finanziavano.

Le imprese industriali, soprattutto quelle che 'erano sorte da pochi anni, avevano immobilizzato i capitali ricevuti a credito in impianti; erano molto indebitate e, lungi dal poter restituire alle banche anche solo in parte i prestiti ottenuti, chiedevano ulteriori mezzi per completare gli impianti e affrontare le necessità correnti della produzione.

* Questa pubblicazione è il risultato di ricerche compiute grazie al contributo

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8 P R E M E S S A

La crisi borsistica non sfociò in una ancor più grave crisi bancaria e industriale solo perché la Banca d’Italia, d’accordo con il governo - allora presieduto da Giolitti - si adoperò per il salvataggio della banca pericolante e, con rimmissione di mezzi monetari nelle zone in cui più grave si manifestava la tensione, evitò le conseguenze ultime della crisi di liquidità1.

2. Si può con buone ragioni ritenere che la congiuntura mone­ taria mondiale e le situazioni determinate in Italia dalla crisi bor­ sistica e dalla stretta creditizia potevano avere per l’economia italiana conseguenze ben più spiacevoli di quelle che allora ebbero.

L ’Italia verso il 1905-1907 era un paese che da alcuni anni immo­ bilizzava capitali in investimenti industriali senza che le imprese potessero ancora contare su un adeguato processo di autofinanzia­ mento. Le importazioni aumentavano rapidamente aggravando il

deficit della bilancia commerciale e, per riequilibrare la bilancia dei

pagamenti, si doveva contare essenzialmente su cospicui movimenti di capitale. Da una crisi mondiale di liquidità monetaria, perciò - per il modo stesso in cui il mercato monetario interno era allora integrato con quello mondiale - l’Italia poteva sperare di uscire indenne, o poco danneggiata, solo se i trasferimenti di capitale origi­ nati dalla tensione monetaria, non avessero compromesso neanche temporaneamente quei flussi finanziari che permettevano all’Italia di pareggiare i propri conti con l’estero. In caso contrario, il mecca­ nismo di riequilibrio della bilancia dei pagamenti avrebbe portato a più o meno breve scadenza ad un drastico ridimensionamento del livello dell’attività produttiva interna e, nelle condizione specifiche in cui si trovava l’Italia, ad una grave battuta d’arresto del processo 1

1. Alla crisi del 1907, intesa come una svolta significativa delle tendenze in atto dopo il 1896, prestò una particolare attenzione E. Corbino, Annali del­

l’economia italiana, voi. V, 1901-1914, Napoli, s. d., pp. 308-404. Sugli inter­

venti della Banca d’Italia aveva già fornito dei particolari T . Canovai, Le banche

di emissione in Italia, R om a, 1912.

I successivi studi di storia economica italiana che accennano alla crisi del 1907 non superano il contributo di informazioni fornite da questi due autori e non vanno oltre i limiti posti dalla loro interpretazione dei fatti.

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LA C R IS I FIN AN ZIARIA D E L 1907 9 di industrializzazione che allora si era appena avviato e che poteva venire compromesso in maniera più o meno grave, come era avve­ nuto tra il 1887 e il 1893.

Nel 1907 una siffatta eventualità non si verificò e le ragioni che spiegano come ciò non sia potuto accadere meritano d’essere attentamente esaminate perché esse sono ricche di insegnamenti sulle condizioni che permisero all’Italia di divenire un paese indu­ striale. La vicenda del 1907, che può apparire un appuntamento inevitabile dell’economia italiana con la congiuntura mondiale e con una situazione interna tipica di molti processi di sviluppo appena avviati, mise per la prima volta alla prova le capacità di resistenza del capitalismo italiano nel tentativo di far salvi i risultati delle scelte fondamentali già fatte nel decennio 1880-1890. D i fatto, la vicenda che ci apprestiamo ad esaminare va intesa, più in generale, come un episodio significativo della storia dei rapporti che si sono instau­ rati in passato e che ancora intercorrono tra l’economia delle aree industrializzate e quella dei paesi che faticosamente, e talora con gravi ricadute, hanno imboccato la strada dello sviluppo indu­ striale 2.

3. La crisi del 1907 non pregiudicò, dunque, i risultati del tentativo di sviluppo industriale che durava da circa un decennio. Essa ebbe peraltro delle conseguenze non trascurabili, anche se non immediatamente vistose o comunque paragonabili a quelle che deri­ varono, in Italia, dalla precedente crisi del 1893-94 o da quella successiva del 1931-33. Essa creò delle condizioni destinate ad in­ fluenzare per un certo tempo l’assetto e lo sviluppo delle basi finan­ ziarie delfindustria italiana. Nel 1907 l’intero apparato creditizio

2. Si tenga conto a questo riguardo della vasta bibliografia che è oggi disponibile per l’analisi dei rapporti economici tra i paesi industriali e quelli in via di sviluppo, della formazione del capitale all’interno di questi ultimi e, in particolare, delle conseguenze che può avere lo squilibrio della bilancia dei pagamenti nelle fasi d ’avvio del processo di industrializzazione di un paese. Cfr. per una prima informazione e per la bibliografia specifica su tali questioni : P. A. Baran, Il « surplus » economico e la teoria marxista dello sviluppo, Milano, 1962; i saggi di vari autori nel volume curato da A. N. Agarwala e S. P. Sing,

L ’economia dei paesi sottosviluppati, Milano, 1966; R . Nurske, Some Aspects

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10 P R E M E S S A

che sorreggeva 1 attività delle industrie di recente formazione rischiò di incepparsi seriamente; e, in ogni modo, si inceppò in misura suf­ ficiente a rivelare quali fossero i suoi limiti intrinseci. Si poterono anche constatare, allora, l’efficacia e i limiti di talune istituzioni finanziarie. Il ruolo dello Stato si rivelò essenziale e insostituibile per evitare che venissero compromessi i risultati della politica di sviluppo industriale sino ad allora perseguita. Gruppi di managers della finanza e dell’industria e uomini di governo - e tra questi, in primo luogo, Giolitti - rivelarono quali fossero le loro attitu­ dini ad affrontare i problemi di un paese che si era ormai decisa­ mente avviato sulla strada dello sviluppo industriale.

Gli sviluppi della crisi del 1907 permettono di radiografare in modo significativo alcuni connotati caratteristici dello sviluppo industriale e capitalistico della società italiana all’inizio del secolo xx .

4. Le vicende finanziarie del 1907 non sarebbero comprensibili se non si tenesse conto di alcune loro premesse. Queste vanno individuate nelle condizioni stesse che permisero la ripresa eco­ nomica dopo la depressione della prima metà degli anni 1890 e la formazione nelle regioni nord-occidentali di una prima moderna attrezzatura di produzione industriale. È evidente, tuttavia, che in questa sede si debbono necessariamente dare per conosciuti i dati essenziali del processo espansivo degli anni 1897-1906, nonché quelli della congiuntura mondiale, alla quale tale processo è col­ legato e di cui riverbera alcune manifestazioni ripetendone l’epilogo, rappresentato appunto dalla crisi borsistica. Ci si limiterà perciò (Capitolo I) a tener conto delle premesse più dirette ed espressive che spiegano come in Italia la crisi mondiale abbia avuto nel 1907

sue manifestazioni specifiche: al tipo di rapporti instauratisi tra le banche e le imprese nella fase iniziale di «grande slancio» dello sviluppo industriale italiano; alle caratteristiche e alla situazione del mercato finanziario italiano; alla posizione, infine, della Società Bancaria Italiana, della banca che, essendo venuta a trovarsi in una situazione prossima al dissesto, fu la maggiore responsabile della crisi bancaria.

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LA C R IS I FINANZIARIA D E L 1907 11 (Capitoli III-V )3. Come conclusione (Capitolo VI), si espongono una serie di considerazioni che cercano di individuare il significato che gli eventi osservati assumono nella storia dello sviluppo industriale italiano.

Si è cercato di ricostruire lo svolgimento degli eventi nel modo più sintetico possibile. Si è riservata alle note una cronaca più analitica per non distogliere l’attenzione dagli sviluppi essenziali della vicenda.

3. La ricostruzione delle vicende esposte in questa pubblicazione è stata fatta, in buona parte, sulla base dei documenti conservati presso l’Archivio Storico della Banca d’Italia, nei fascicoli della pratica siglata AA, Sconti speciali,

Società Bancaria Italiana, scatole 1, 1 bis e 2-6.

A questa fonte risalgono le notizie che vengono utilizzate senza che ne sia specificata la provenienza. Si è difatti ritenuto di poter evitare una serie di citazioni che avrebbero ulteriormente appesantito il testo, sia perché all’interno delle scatole ora indicate i documenti sono classificati in ordine cronologico e sono individuati da una numerazione progressiva che ne permette facilmente il reperimento, sia perché la documentazione - costituita prevalentemente dalla fitta corrispondenza intercorsa tra i protagonisti della vicenda - è stata utilizzata nello stesso ordine cronologico con cui è catalogata in archivio allo scopo di ricostruire, giorno per giorno (cfr. i capitoli III-VI), i fatti presi in esame.

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Capitolo Primo

LE PREMESSE DELLA CRISI

1. I rapporti tra le banche e le imprese.

Le caratteristiche del tipo di organizzazione bancario-industriale che faceva capo alle maggiori banche « miste », quale si venne con­ figurando nel decennio precedente al 1907, spiegano in larga parte le origini, lo svolgimento e lo sbocco finale della crisi borsistica.

Conviene quindi aggiungere alcune considerazioni a ciò che osservatori contemporanei e storici dell’economia hanno già detto e ripetuto circa il ruolo delle grandi banche « miste » nel finan­ ziare le iniziative industriali nella fase di « grande slancio » iniziale dello sviluppo industriale italiano x.

All’inizio del Novecento l’apparato industriale italiano era carat­ terizzato dalla coesistenza di due gruppi di imprese. D i questi, il più 1

1. In ordine cronologico, la bibliografia sull’argomento è la seguente: R . Bachi, L ’Italia economica nell’anno 19 13,Città di Castello,’1914, pp. 298-313;

R . Morandi, Storia della grande industria in Italia, Bari, 1931, pp. 182-186;

A. Gerschenkron, Osservazioni sul saggio di sviluppo industriale dell’Italia: 18 8

1-19 13, « Moneta e credito » (Roma), 1956, n. 33-34, pp. 50-63, ora in II pro­

blema storico della arretratezza economica, Torino, 1965, pp. 85-87; L. Cafagna,

L ’industrializzazione italiana. La formazione di una «base industriale» fra il 1896 e il 19 14, «Studi storici» (Roma), II, 1961, nn. 3-4, pp. 690-724, pp. 710-711, ora in La formazione dell’Italia industriale, a cura di A. Caracciolo, Bari, 1963, pp. 152-154; R . Romeo, Breve storia della grande industria, Bologna, 1963, pp. 168- 171; B. Caizzi, Storia dell’industria italiana, Torino, 1965, pp. 358-372; F. Bo-

nelli, Osservazioni e dati sul finanziamento dell’industria italiana all’inizio del

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14 CAPITOLO PRIM O

diffuso e numeroso a livello nazionale era costituito dalla grande famiglia delle imprese artigianali o familiari o, comunque, di mo­ deste dimensioni; 1 altro era costituito dalle imprese di dimensioni più ragguardevoli operanti per lo più nei settori industriali «nuovi » - side- rurgico, meccanico, elettrico, elettromeccanico, chimico — organizzate in società per azioni, concentrate nelle zone nord-occidentali d’Italia.

Alla vita delle imprese appartenenti al primo gruppo erano quasi del tutto estranee quelle pratiche di indebitamento cui una impresa moderna fa ricorso per finanziare le attività produttive correnti e gli immobilizzi. Lo sviluppo di queste imprese dipendeva essenzialmente dai processi di autofinanziamento. Essenzialmente legate al finan­ ziamento bancario, invece, erano le possibilità di sviluppo del secondo gruppo di imprese, le quali erano tanto piu vincolate all’assistenza delle banche quanto più erano incapaci di autofinanziarsi, biso­ gnose di capitale circolante o, addirittura, di mezzi per completare i propri impianti e, comunque, oberate da debiti bancari2. Queste imprese erano sorte quasi tutte nel volgere di pochi anni dopo il

1896 e dovevano la loro vita a scelte di investimento effettuate nei maggiori centri di decisione di Milano, Genova e Torino, preva­ lentemente con il concorso dei dirigenti delle grandi banche di credito ordinario e col contributo non trascurabile, talvolta, di capitalisti, di imprenditori industriali e di tecnici di formazione ottocentesca già presenti sulle tre piazze3.

2. Cfr. F. Bonelli, op. cit.

3. C ’è da rammaricarsi che l’azione svolta dalle banche « miste » nella fase iniziale dello sviluppo industriale italiano sia stata giudicata prescindendo dall’insieme delle premesse ottocentesche - costituite da uomini, capitali, gruppi di interessi e di iniziative - che nel triangolo industriale permise loro di svolgere una funzione propulsiva e quasi « catalizzatrice » nella riorganizzazione delle energie esistenti e nella promozione di nuove iniziative.

Inoltre, si può dire che non si sia tenuto nel debito conto il ruolo svolto particolarmente a livello locale, dalle ditte bancarie minori e dai banchieri privati. In questa nota si ha modo di constatare come i minori organismi bancari entrarono, in vari modi, in rapporto con le grandi banche « miste » permettendo a queste di allargare il raggio della loro azione.

Sulla questione aveva richiamato l’attenzione L. Einaudi nella prefazione a M. Segre, Le Banche nell’ultimo decennio, Milano, 1926, p. m e, recentemente ha espresso un giudizio esplicito G. Carli nella prefazione a: Banca d’Italia,

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L E P R E M E S S E D E LL A C R IS I 15 In pratica, questa parte della organizzazione industriale italiana poggiava su pochi pilastri creditizi quali erano la Banca Commer­ ciale Italiana, il Credito Italiano, la Società Bancaria Italiana4 e pochi altri istituti di media grandezza. Alcune grandi banche e il gruppo di imprese che ad esse si appoggiavano tendevano a costi­ tuire altrettante organizzazioni creditizio-industriali sui generis, carat­ terizzate dall’agglomerazione di certi nuclei di affari bancari, bor­ sistici e industriali che, di fatto, condizionavano vicendevolmente la gestione bancaria e quella delle imprese industriali. E questa situa­ zione, come è noto, fu determinata dal modo in cui si era venuto ricostruendo l’apparato bancario che attendeva al finanziamento industriale dopo la crisi del 1893-94.

N on sappiamo purtroppo, allo stato attuale delle ricerche, se e in quale misura questo tipo di organizzazione influenzasse la gestione bancaria e se, in particolare, essa inducesse a pratiche di selezione del credito; ma non c’è dubbio che ciascuna delle maggiori banche convogliò praticamente una quota apprezzabile dei mezzi raccolti tra i risparmiatori per il finanziamento di certi settori di attività economica e di un certo gruppo di imprese. Ci sarebbe da chiedersi se allora fossero prevedibili i rischi che da siffatta tendenza sareb­ bero potuti scaturire in caso, ad esempio, di crisi generalizzate delle imprese finanziate o, inversamente, di tensioni del mercato monetario. Comunque non avrebbe dovuto esservi dubbio che in entrambe le circostanze le capacità di resistenza delle banche sareb­ bero state sottoposte a dura prova; che, di conseguenza, si sareb­ bero inaridite le fonti di finanziamento delle imprese e che si sarebbero diffusi tra il pubblico timori circa la solidità e la solvibilità delle banche stesse5.

4. D ’ora in avanti, per ragioni di brevità, queste tre banche verranno spesso indicate con le sigle C O M IT, C R E D IT e SBI.

5. C ’è da chiedersi, ad esempio, se i vicendevoli legami tra una banca e le « sue » imprese non andassero a scapito delle possibilità di finanziamento delle imprese estranee a tali rapporti, particolarmente nei momenti di scarsa liquidità delle banche. N el caso di tensioni creditizie che avessero spinto le banche a limitare il credito, queste non avrebbero cominciato col respingere le richieste di credito provenienti dalle imprese estranee al loro « sistema » di partecipazioni dirette?

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16 C A PITO LO PRIM O

La crisi del 1907 rappresentò l’occasione in cui alcune di queste ipotesi presero consistenza a livello di singoli istituti e di un intero gruppo di aziende di credito.

Si potè infatti esperimentare, allora, quali possono essere le situazioni che si vengono a creare ai danni di una banca quando i depositanti siano suggestionati da voci o notizie ricorrenti circa il cattivo andamento delle imprese da essa finanziate o si allarmino per la caduta in borsa del valore del titolo azionario della stessa; e quale sia il potenziale imbarazzo in cui possano venire a trovarsi le banche alle quali pure non manchi la fiducia del pubblico, quando una loro consorella stia per chiudere gli sportelli.

Nell’autunno del 1907, si constatò, inoltre, che la crisi bancaria poteva arrecare delle conseguenze particolarmente gravi alle imprese che si appoggiavano alle maggiori banche « miste ». Infatti tali banche avevano fornito alle imprese una buona parte dei capitali da queste immobilizzati nelle costruzioni degli impianti: ma le stesse imprese ora, o mancavano di circolante o, addirittura, mancavano di quelle ulteriori sovvenzioni necessarie per completare gli impianti e, in ogni caso, erano ancora ben lontane dal poter contare su un flusso apprezzabile di autofinanziamenti6. Per molte di queste imprese

che avessero ceduto alla tentazione di moltiplicare gli impegni verso le imprese satelliti» E quali le conseguenze del comportamento delle banche sul mercato dei valori industriali, essendo queste coinvolte in manovre a favore dei titoli delle « loro » imprese e contro quelli di un gruppo bancario concorrente? E ancora: data la concentrazione dei rischi all’interno dei diversi blocchi di interessi bancario-industriali, quali potevano essere i pericoli per la liquidità e la solvibilità di quelle banche che operavano prevalentemente al livello regionale sia nella raccolta come nell’impiego dei capitali? o di quelle banche non suffi­ cientemente organizzate per seguire e controllare le situazioni aziendali delle imprese finanziate o con una direzione centrale poco omogenea e disposta ad accontentare le richieste di sconto patrocinate da questo o da quello degli ammi­ nistratori?

In realtà la vicenda descritta in queste pagine mostra che questi interro­ gativi trovano una risposta nei fatti.

6. Merita d’essere tenuto presente il meditato giudizio del Corbino (op.

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carat-L E P R E M E S S E D E carat-Lcarat-L A C R IS I 17 una improvvisa limitazione delle erogazioni creditizie non poteva che avere quasi subito delle conseguenze comprensibilmente peri­ colose.

2. Le condizioni del mercato azionario e la posizione delle banche. Le banche di credito ordinario, comunque, dovevano convincersi di aver ecceduto negli impieghi non già in seguito ad una crisi delle imprese che avevano finanziato, ma a causa di una depressione del mercato azionario7. Ciò avvenne nel 1907 e fu la diretta conseguenza

tere personale, che rappresentavano ancora una parte notevole della nostra vita economica ».

Questa situazione potrebbe essere posta in relazione, in ultima analisi, alla limitatezza della domanda interna nonché alla elevatezza dei costi, dovuta tra l’altro alla mancata soluzione di problemi di organizzazione tecnica. A par­ ziale compenso di questa situazione si potrebbe peraltro segnalare il basso livello dei salari.

D ’altra parte, quelle che si dicevano le « ragioni borsistiche » indussero molte società ad attuare una facile politica di dividendi, anziché quella - che sarebbe stata più opportuna - di ammortamenti e di riserve. Cfr. l’articolo

La corsa al dividendo di Argentarius, « La nuova antologia », gennaio 1906. La crisi del 1907 ebbe l’effetto di attirare l’attenzione sul problema del finanziamento industriale e dell’indebitamento delle imprese. L. Luzzatti disse che le banche dovevano affrontare il problema del riassetto finanziario delle imprese e parlò della necessità di « divisione del lavoro delle banche » (cfr. « Il Sole », 15 novembre 1907). Cfr. pp. 146 segg.

7. Sui principali aspetti del mercato monetario e finanziario nel periodo 1900-1907 si vedano i dati e i giudizi contenuti nell’opera di E ..Corbino,

Annali dell’economia italiana cit., pp. 388-408; nell’annuario curato da G. Pi-

nardi e A. Schiavi, L ’Italia economica, Milano, 1907 e 1908 (per gli anni

1906 e 1907); nel saggio di G. Fargion, La vita industriale e finanziaria dal 1904

al 1908, «L a riforma sociale» (Torino-Napoli), 1910, nn. 2-3; e nelle rassegne

annuali scritte da V. Pareto fino al 1900 e successivamente da V. Racca per l’annuario curato da A. Raffalovich, Le marche financier, Paris, 1893 e segg. Per una cronaca più dettagliata : le cronache del giornale « Il Sole » e dei perio­ dici « L ’Economista» e « l ’Economista d ’Italia», e, soprattutto dal 1901, la sintesi annuale delle vicende monetarie contenuta nella Relazione del Direttore Generale della Banca d’Italia, Bonaldo Stringher, all’assemblea degli azionisti.

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set-18 CA PITO LO PRIM O

del ruolo che esse avevano avuto nel finanziare con larghezza l’atti­ vità borsistica, sia direttamente con l’impiego di importanti e crescenti somme in operazioni di riporto 8, sia indirettamente con aperture di credito ad imprese e a persone che destinavano i mezzi ricevuti ad operazioni speculative9. D i fatto la speculazione fu lo strumento al quale ci si affidò per il collocamento delle cospicue e continue emissioni azionarie che nel volgere di pochi anni dettero una fisonomia nuova al mercato italiano dei valori mobiliari, sino ad allora caratterizzato dalla assoluta preponderanza dei titoli di Stato o garantiti dallo Stato. Le banche, da parte loro, avevano buone ragioni per finanziare, senza troppe esitazioni le operazioni speculative: la facilità di guadagno in un periodo di crescenti plusvalenze, la larga disponibilità di mezzi che affluivano alle banche rispetto alla limi­ tatezza delle opportunità per un loro impiego in operazioni di porta­ foglio, l’euforia ispirata dall’ascesa dei corsi, le stesse esigenze ope­ rative connesse alla loro decisione di promuovere la costituzione di nuove società e di incaricarsi del lancio e del piazzamento dei rispettivi titoli10.

tembre 1907, pp. 328-329) dei dati riassuntivi sul mercato italiano dei valori azionari nel triennio 1905-1907.

Sulle vicende del mercato dei valori pubblici: Necco A., Il corso dei titoli

di borsa in Italia dal 1861 al 19 12, Milano, 1915. Per altre indicazioni sulle con­ dizioni dello sviluppo economico italiano - di ordine finanziario ed industriale - prima e dopo la svolta del 1907 cfr. F. Bonelli, op. cit.

8. Cfr. le tabelle 24-25 e il grafico 1.

9. Le imprese non esitarono ad impiegare in operazioni di borsa la loro liquidità di cassa.

Nei consigli di amministrazione delle società per azioni si concedeva volen­ tieri l’autorizzazione ai dirigenti di impresa per operazioni di riporto. I pro­ venti finanziari, tuttavia, costituirono solo per breve tempo una fonte apprezzabile di utili e furono ben presto controbilanciati da gravi perdite. Clamorose furono le disavventure della società Terni, che affidò del denaro a due suoi ammini­ stratori - Eugenio Scartezzini e Ferruccio Prina - i quali fallirono rispettivamente sul finire del 1901 e del 1906.

Industriali e affaristi come i Bozano, i Bruzzone e G. B . Figari usavano normalmente le « loro » imprese per poter godere di operazioni di sconto che li rifornivano dei mezzi che essi destinavano alla loro attività in Borsa.

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L E P R E M E S S E D E L L A C R IS I 19 La speculazione di borsa, peraltro, non si rivelò un buon sur­ rogato alla scarsa propensione ad investire in titoli azionari da parte della borghesia italiana, mentre le sue esagerazioni e i danni che procurò a risparmiatori sprovveduti e a banche finanziatrici non contribuirono certo ad allargare le basi del processo di mobilitazione del risparmio per investimenti industriali. Fino al 1907, comunque, le banche non fecero nulla per evitare che le manovre speculative influenzassero in modo determinante l’andamento del mercato. La loro condotta restò ispirata al desiderio di trarre il maggior utile possibile, nel breve periodo, dal finanziamento delle operazioni di borsa, salvo a sopportare, ogni tanto, le conseguenze del dissesto di qualche operatore. Con valide ragioni si disse che le banche contribui­ vano ad alimentare le manovre speculative al rialzo e che erano respon­ sabili dei livelli artificiosamente elevati ai quali pervennero le quo­ tazioni. In questi anni, del resto, la successione di spinte al rialzo delle quotazioni e di repentine cadute dei corsi, sembrò quasi il riflesso della mutevole condotta delle banche nell’assistere con mag­ giore o minore larghezza gli operatori di borsa.

Dapprima, tra il 1901 e il 1905, si ebbe una eccezionale e con­ tinua ascesa dei corsi, che servì a collocare la grossa ondata di titoli azionari provocata dalla costituzione di numerose nuove società per azioni e dalla trasformazione in anonime di molte imprese preesi­ stenti. Nel maggio del 1905, si ebbe un primo tracollo che scontò le esagerazioni della speculazione al rialzo, ma al quale non seguì affatto un più ragionevole assestamento dei corsi. Riprese la corsa alle emis­ sioni azionarie e alla immissione dei nuovi titoli sul mercato. La

e che riguardano il caso di sviluppo della Società Bancaria Italiana (cfr. il para­ grafo 3 di questo capitolo e le tabelle 31-37).

Durante il 1907, forse per venire in aiuto ad operatori che si trovavano in difficoltà e coi quali era in rapporti di affari, perfino la Banca Popolare di Milano - nota per la sua tradizionale prudenza - impiegò in operazioni di riporto ben 188,2 milioni, mentre destinò solo 129,4 milioni ad operazioni di sconto e 3,2 milioni ad anticipazioni.

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speculazione - alimentata, appunto, dal finanziamento dei maggiori istituti di credito - mostrò di quali prodezze fosse capace.

Alcune grandi imprese, un p o ’ per l’illusione di avere maggiori possibilità di raccogliere capitali e un po’ per trarre vantaggio dalla speculazione borsistica, si dettero a costituire società « a catena » che approdarono al risultato - mediante scambi di pacchetti azionari - di moltiplicare fittiziamente i capitali sociali11. Si arrivò al punto di tentare di collocare dei titoli privi di intrinseco valore e addirit­ tura di imprese inesistenti12. Anche la politica dei dividendi fu in molti casi finalizzata agli obiettivi della speculazione di borsa.

Nel complesso, però, il volume delle emissioni divenne progres­ sivamente sproporzionato rispetto a quello dei capitali che il pubblico era disposto ad impiegare in tali investimenti. Una parte dei titoli, di più o meno recente emissione, cominciò a restare nelle mani di chi intendeva piazzarli. Divenne consistente la massa flottante di titoli

11. Le società del «tru st» siderurgico, ad esempio, invece che destinare i mezzi disponibili alla costruzione degli impianti, si impegnarono in opera­ zioni finanziarie e in scambi di partecipazioni che esteriormente permisero loro di assumere, neU’insieme, la facciata di un grosso gruppo finanziario-indu- striale. In pratica, però, questa condotta non poneva rimedio al debole assetto finanziario delle imprese.

12. Cfr. « L ’Economista d’Italia», 23 luglio 1907.

Si ebbe il caso clamoroso del lancio di titoli di imprese che non avevano alcuna parvenza o futura possibilità di esistere. A parte però questi eccessi, pur significativi, si può notare che dei 240 titoli quotati in borsa al 31 dicembre 1906 per un valore nominale di 2.521 milioni ben 28 erano di società che non avevano ancora chiuso il loro primo esercizio, e il cui valore veniva già valutato in 215 milioni, mentre il loro valore nominale era pari a 149 milioni, con una plus-valenza pari a circa il 44%. Le m aggiori plus-valenze si erano avute per i titoli delle imprese automobilistiche di recente costituzione. Del resto la specula­ zione al rialzo divenne tra il 1898 e il 1906 uno strumento ritenuto normale per il collocamento delle azioni che venivano lanciate con elevati scarti di sovra- prezzo iniziale e costituì, in ogni m odo, una lauta fonte di guadagno per chi vi si dedicava o per le banche che la finanziavano.

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L E P R E M E S S E D E L L A C R IS I 21 in attesa di collocamento definitivo. Si crearono, insomma, le con­ dizioni per le prime grosse disavventure della speculazione.

Nell’ottobre del 1906 si ebbe un secondo grave tracollo: la borsa di Genova fu l’epicentro di una crisi di liquidità che per poco non ebbe conseguenze di più vaste dimensioni13. M a nel volgere di poche settimane, le spinte della speculazione al rialzo fecero sentire la loro forza; la ripresa dei corsi venne posta in relazione all’assi­ stenza che le banche tornavano a prestare alla borsa.

Infine, verso aprile-maggio, si verificò l’ultima e definitiva svolta, che - come si vedrà - doveva sanzionare il mutamento radicale di condotta delle banche nei confronti del mercato azionario.

Il cedimento dei corsi, in concomitanza con l’incipiente e gene­ ralizzata tensione monetaria, ebbe l’effetto di far prendere esatta coscienza alle banche di aver ecceduto negli impegni in genere e nel finanziamento delle operazioni di borsa. Esse rinunciarono ad inter­ venire a sostegno del mercato e delle stesse posizioni che vi tenevano. Il mercato dei valori, abbandonato a sé stesso, si avviò ad una prolungata e grave depressione14.

Gli immediati antefatti e gli sviluppi della crisi del 1907 ebbero il merito di mettere in evidenza le ragioni di carattere più generale della crisi, attinenti alle caratteristiche del mercato finanziario ita­ liano e, in particolare, ad alcune sue tipiche disfunzioni.

Anzitutto occorre ricordare che in pochi anni il mercato ita­ liano dei valori mobiliari era stato invaso da una massa enorme di titoli azionari di recente emissione, mentre la domanda su cui

13. Protagonista del tracollo di borsa della fine di ottobre 1906 fu il il titolo azionario della Società « Terni », sul cui rialzo aveva speculato, uscen­ done fallito, il presidente della stessa, Ferruccio Prina, che godeva dell’appoggio della COM IT e che in quell’occasione scomparì dalla scena dopo una serie di ardite operazioni finanziarie e di ambiziose combinazioni industriali. (Cfr. «Il Corriere Mercantile » 1, 2 e 22 gennaio 1907).

In seguito alle vicende borsistiche del 1906 si ebbe anche un processo per aggiotaggio.

Sulla crisi borsistica del 1906, come sintomatico precedente di quel che avverrà poi nel 1907, cfr. pp. 55-60.

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L E P R E M E S S E D E L L A C R IS I 23 si poteva contare per il loro collocamento era estremamente ristretta 15.

I titoli ammessi alle quotazioni di borsa erano abbastanza nume­ rosi e per un valore pari al 72% dell’intero capitale azionario emesso in Italia, in una misura, cioè, che non si doveva mai più registrare dopo di allora. M a le contrattazioni erano concentrate in gran parte sulla piazza di Genova e di Milano e in misura assai più modesta su quella di Torino dove si localizzavano le manovre dei vari gruppi di speculatori in lotta tra di loro, aiutati e protetti dagli istituti di credito che li finanziavano e che dall’attività bor­ sistica traevano utili cospicui. I titoli ammessi alla borsa e che attendevano un collocamento definitivo erano molti, ma l’attività di contrattazione si svolgeva su una base ristretta, perché era di modesta dimensione la domanda da parte di « veri » risparmiatori-investitori e perché l’offerta era ovviamente dosata da pochi operatori-speculatori. Bastava che poche persone disponessero del credito bancario perché intervenendo sulle piazze di Genova o di Milano con la vendita o l’acquisto anche di piccole quantità di titoli influenzassero l’anda­ mento delle quotazioni nella direzione da esse v olu ta16. Le cronache

15. Sulle caratteristiche del mercato finanziario italiano del secolo xix cfr. M. Da Pozzo - G. Felloni, La Borsa Valori di Genova nel secolo X IX , Torino, 1964, pp. 72 e passim. A proposito delle situazioni e delle tendenze del primo Novecento cfr. F. Bonelli, op. cit.

Sul finire del secolo e nei primi anni del Novecento, anche quando au­ mentarono le opportunità di investimento in titoli azionari, i risparmiatori italiani continuarono ad acquistare a caro prezzo i titoli del debito pubblico, dei quali si ebbe un cospicuo rimpatrio.

Anche la conversione della rendita non ebbe l’effetto, che’ alcuni si attendevano, di provocare uno spostamento delle preferenze verso i valori indu­ striali. Cfr. F. Flora, La conversione della rendita, Roma, 1905; e La conversione del consolidato italiano, « Giornale degli Economisti » (Padova), XXXIII, 1906, luglio; A. J. De Johannis, La conversione della rendita, Roma, 1904.

Sulla propensione a depositare i risparmi presso le Casse di Risparmio ordinarie e postali e, perciò, ad alimentare gli impieghi in titoli di Stato effettuati da questi organismi: E. Corbino, op. cit., pp. 424-425, e la biblio­ grafia indicata in F. Bonelli, op. cit., p. 269.

16. Si tengano presenti, su questi aspetti, le frequenti denunce apparse su « L’Economista » e quelle, certamente più interessate, de « Il Corriere Mer­ cantile ». Secondo questo giornale (27-28 agosto 1906) la borsa di Genova era dominata da quattro agenti che operavano su circa 25 titoli.

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24 CA PITO LO PRIM O

di borsa di questi anni fanno spesso registrare continue e repentine oscillazioni di questo o di quel titolo sulle due piazze, e con scarti tra le quotazioni di Genova e di Milano che denotano chiaramente il peso di interventi prettamente « locali » e quanto mai sospetti. Tutte queste situazioni, unitamente al fatto che le banche trasferi­ vano alle operazioni di borsa le reciproche rivalità che in questi anni influenzavano la loro azione, mantenevano le borse in uno stato di per­

manente subbuglio e aprivano la strada all’azione di speculatori senza scrupoli. N on c’era scandalo finanziario che in questi anni non coin­ volgesse direttamente la responsabilità e il nome di qualche grosso istituto di credito 17.

Il comportamento delle maggiori banche sembrava fatto ap­ posta per mantenere in uno stato di continua tensione il mercato

fin an ziario italiano. Le loro responsabilità furono evidenti nella fase che sfociò nel tracollo della borsa di Genova dell’ottobre del 1906, allorquando - prima col finanziare la speculazione al rialzo e poi con una brusca restrizione di credito - provocarono il tracollo della borsa di Genova.

In quell’occasione il Direttore di sede della Banca d’Italia di Genova scrisse a Stringher (2 ottobre) : « Sono essi, gli Istituti di

l’impalcatura speculativa è dato dalla posizione raggiunta sulla piazza di Genova dal conte Edilio R aggio. N ell’ottobre del 1906 alla borsa di Genova si diffuse il panico alla notizia che il conte R ag g io era in fin di vita; e la morte di questi aggravò la situazione nelle settimane successive.

Alla vigilia della crisi dell’ottobre 1906 la COM IT aveva concentrato nelle sue mani per una ragione o per l’altra ben 22.000 delle 32.000 azioni della «Terni».

Durante l’anno successivo, nella fase di ribasso dei valori, ci furono dei momenti in cui sembrava che le sorti dell’intera finanza italiana fossero legate alle vendite decise a Genova da G. B. Figari, un noto speculatore avversario del Credito Italiano. Alla fine dell’ottobre 1907 si temettero subito dei crolli quando si venne a sapere che la Banca d’Italia aveva avanzato delle difficoltà alla richiesta di sconti da parte della ditta Carlo R aggio, successore di Edilio R aggio. Esemplari furono poi, sotto questo profilo, le conseguenze della speculazione sulle azioni della « Società Ligure Ramifera » (cfr. pp. 65 segg.).

Sui litigi tra i diversi istituti di credito sulla piazza di Genova, cfr. « Il Cor­ riere Mercantile », 27, 28 e 29 ottobre 1906.

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L E P R E M E S S E D E L L A C R IS I 25 Credito, che nelle loro lotte, sono andati a caccia di affari coi famosi crediti allo scoperto ed ora, dove noi [la Banca d Italia] siamo impegnati con cifre di diecine di migliaia loro invece sono andati colle centinaia di migliaia ed ora sono naturalmente più preoccupati di noi e chiudono assolutamente la porta in faccia a tutti. Speriamo che rinsaviscano!»18.

In ogni modo, queste osservazioni non possono prescindere dalla considerazione del quadro assai più vasto dell intero mercato monetario italiano di questi anni. Poiché un analisi di questo genere esula dagli obiettivi e dall’impegno di questa ricerca, converrà almeno tener conto : 1 °, che la Banca d Italia e gli altri due istituti di emissione non disponevano, a causa delle leggi che ne regolavano fattività, di sufficienti possibilità di intervento per «governare», con adeguata elasticità, il movimento monetario e bancario; 2 °, che i maggiori istituti ordinari di credito oltre che alimentare la speculazione di borsa non si mostravano sensibili alla necessita di collaborare con gli istituti di emissione per una più razionale fun­ zione regolatrice dell’andamento del mercato monetario. In parti­ colare la domanda di moneta imposta dalle necessità della specu­ lazione di borsa costituiva in questi anni un importante canale attraverso cui si veniva ad aumentare il volume della circolazione e poneva alla Banca d’Italia un grosso problema di politica mone­ taria19. Ogni volta che in questi anni in borsa si riscontra una diminuzione di liquidità la Banca d’Italia è chiamata in causa per sbloccare la situazione ed evitare tracolli di piu vasta portata. Nell’autunno del 1905 in occasione di una prima crisi borsistica la Banca d’Italia fornì dei mezzi cospicui, riuscendo, peraltro, ad assicurarsi il rientro entro breve tempo dei capitali erogati; essa fu ancora più prudente in occasione della crisi di borsa dell ottobre

18. Cfr. A.B.I., Segretariato, Sedi, Genova, 2 ottobre 1906.

19. U n interessante giudizio a questo riguardo venne espresso su « La Nuova Antologia » (16 agosto 1905) nell’articolo « Gli Istituti di credito in Italia nel 1904 » firmato dal suo autore con lo pseudonimo Aureus.

In generale, per l’impegno che gli istituti di credito ponevano nel finan­ ziamento della speculazione di borsa si diceva che in Italia le « crisi di borsa » rischiavano di sfociare in « crisi di circolazione » (cfr. L. Luzzatti, L Italia Eco­

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L E P R E M E S S E D E L L A C R IS I 27 1906; infine, nel 1907 - come si vedrà - si rifiutò del tutto di proce­ dere al « salvataggio » della speculazione20.

I precedenti immediati e gli sviluppi della crisi borsistica del 1907 costituirono comunque una conferma significativa di condizioni caratteristiche, e tutt’altro che contingenti, del mercato italiano dei valori. Anzi, quando sopraggiunse la scarsità dei mezzi finan­ ziari, le disfunzioni strutturali che prima permettevano un facile successo delle iniziative rialziste, resero rapidamente gravi e non facilmente arginabili le conseguenze della tendenza alla vendita anche di piccole quantità di questo o di quel titolo.

N on appena si verificarono i primi cedimenti generalizzati dei corsi fu evidente che, privata dell’assistenza delle banche, la specula­ zione si trovava con le armi spuntate di fronte ad un mercato che, come si è già detto, era ingolfato da troppe emissioni. La situazione si complicò a causa dei conflitti tra i diversi gruppi e gruppetti di speculatori. Fu quasi subito chiaro, inoltre, che, una volta creatasi l’aspettativa di un ridimensionamento dei corsi, e resosi più difficile e costoso il finanziamento, ciascun speculatore cominciasse ovviamente a liquidare quei titoli sui quali, nella precedente fase rialzista, si era impegnato un gruppo rivale di speculatori. Allora bastò la vendita di ima piccola quantità di titoli per «aggredirne» il corso e per impegnare l’avversario in tentativi di difesa. Si innescò allora una spirale di accuse che faceva dire a ciascuno dei protagonisti: io vendo i « tuoi» titoli perché tu aggredisci le quotazioni dei « m ie i»21. Questo meccanismo si mise in moto verso il marzo del 1907 e fu reso inarrestabile - come vedrem o22 - dalla decisione delle banche di non impegnarsi nella difesa dei corsi con la conseguenza, però, che queste ultime non si trovarono più a dover sopportare delle disavventure isolate - come avvenne nel caso di sporadiche insolvenze di questo o quello speculatore da esse protetto - ma si

20. Elementi di giudizio abbastanza ricorrenti a questo riguardo si incon­ trano sulle pagine de « L’Economista d’Italia » di questi anni ed anche in E. Cor-

bino, op. cit., voi. V, pp. 388 segg.

Assai istruttiva è poi la cronaca delle trattative condotte per concordare gli interventi necessari a fronteggiare la crisi, descritti ai successivi capitoli III e IV.

21. Situazioni di questo genere si verificarono soprattutto sulla piazza di Genova.

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28 CA PITO LO PRIM O

trovarono esposte a perdite generalizzate sui crediti concessi e ad una generale svalutazione dei titoli da esse detenuti.

Per tutta l’estate e fino al novembre del 1907 gli ambienti finanziari italiani furono perciò teatro di polemiche che accusavano l’uno o l’altro operatore d’essere «ribassista». Le opinioni correnti sulle vicende borsistiche che avevano generalmente evitato di con­ dannare le precedenti iniziative « rialziste » quasi fossero benefiche, cominciarono ad esprimere severe critiche contro la «deleteria» azione dei « ribassisti ». Costoro ebbero il maggior numero di cita­ zioni e di invettive negli articoli della stampa quotidiana e periodica, anche di quella specializzata nelle cronache finanziarie. Di fatto i ribassisti avevano buon gioco perché molti vendevano titoli per rifornirsi di liquidità in un momento in cui era difficile e costoso trovare denaro a credito 23.

Sul momento, la situazione che si era venuta a determinare alimentò una polemica sulle magagne istituzionali delle borse ita­ liane non adeguatamente regolate e difese dalla presenza di specula­ tori senza scrupoli, sulle deleterie conseguenze dei contrasti tra gruppi rivali, rialzisti o ribassisti, e sulla condotta imprudente tenuta dalle banche nella precedente fase rialzista e poi in occasione del­ l’incipiente depressione del mercato dei v alori24.

3. La posizione della Società Bancaria Italiana.

Alcune delle considerazioni che sono servite sin qui per giudi­ care particolarmente rischiosa la condotta delle banche « miste » all’inizio del Novecento si attagliano in modo specifico alla situa­ zione in cui si venne a trovare nel 1907 la « Società Bancaria Ita­ liana». Questa banca, in seguito alle conseguenze della crisi borsi­ stica, per poco non dovette chiudere gli sportelli; e gli allarmi che ne derivarono, per l’eventualità di ritiri massicci di depositi anche presso le altre banche, furono all’origine di restrizioni creditizie che potevano avere delle gravi conseguenze a carico della maggior parte delle imprese industriali particolarmente nelle regioni nord- occidentali del paese.

Conviene perciò esaminare, in primo luogo, le ragioni per cui la SBI doveva diventare il punto più debole del sistema

ban-23. Cfr. pp. 79 segg.

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L E P R E M E S S E D E L L A C R IS I 29 cario italiano; ragioni che vanno ricercate nei modi stessi in cui la banca si sviluppò nei sette anni compresi tra il gennaio 1899 e il dicembre 1906 25.

Dalle notizie che ora verranno esposte, si potrà comprendere a sufficienza come tale sviluppo sia stato determinato da una sorta di processo di « coagulazione » e di alleanza tra nuclei di interessi, che erano rimasti isolati dal vasto movimento bancario e speculativo promosso e controllato tra il 1897 e il 1903 circa dalla C O M IT e dal C R E D IT . Si comprenderà anche come la Bancaria abbia cercato in qualche modo di assumere il ruolo di contraltare delle due m ag­ giori consorelle e rivali identificandosi in una «terza» banca mista, espressione di iniziative, di interessi e di capitali « italiani » e come, in questo suo obiettivo, abbia cercato - e abbia avuto - l’appoggio della Banca d’Italia. Si potranno non solo cogliere le origini più o meno immediate delle difficoltà che nel 1907 rischiarono di por­ tarla alla rovina ma anche intravedere le motivazioni della deci­ sione di procedere al suo « salvataggio ».

Costituita nell’ottobre del 1898 come « Società Bancaria Mila­ nese» in seguito alla trasformazione della «D itta Figli Weill-

Schott e C. » per iniziativa di un gruppo di banchieri e di indu­ striali milanesi, tra i quali appunto Gustavo e Alberto Weill-Schott che ad essa apportarono gli affari della loro impresa bancaria, la banca allargò rapidamente negli anni successivi il proprio raggio d’azione non tanto per merito di una autonoma capacità a ricercare e selezionare nuovi affari sulla base delle proprie esperienze di ge­ stione, ma piuttosto con l’acquisizione di interi nuclei di affari che ap­ partenevano ad alcune ditte bancarie che essa via via incorporava. Il Consiglio di amministrazione, aU’indomani della costituzione della banca espresse la convinzione che la gestione dei servizi di cambio potesse servire ad allargare la clientela e a raccogliere capi­ tali e decise pertanto l’incorporazione alla fine del gennaio 1899 dell’«ufficio di cambio banca e commissioni» della «D itta Donati Jarach e C. » di M ilano26. L ’anno dopo venne soddisfatta l’ambizione

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di essere presenti nelle borse valori mediante l’acquisto della « azienda di commissioni e Borsa» della «D itta O riggi e Queirazza» e quella d’essere una « vera » banca con l’apertura di sportelli fuori Milano e con la decisione di impegnarsi - come facevano la C O M IT e il C R E D IT - nella promozione e costituzione di nuove società industriali. Il 28 ottobre 1904 l’assemblea straordinaria degli azio­ nisti apportò un mutamento nella denominazione della banca che da « Milanese » divenne « Italiana » dopo che il Consiglio di Ammi­ nistrazione aveva deciso di acquisire gli affari del Banco di Sconto e Sete di Torino appena posto in liquidazione e di aprire nuove sedi bancarie a Torino e a Genova. Si ritenne, allora, che fosse impossibile contenere l’attività nell’area regionale lombarda. Dal 1905, la banca - che aveva così raggiunto l’obbiettivo di esercitare l’atti­ vità bancaria «in tutte indistintamente le sue operazioni» - si dette a promuovere numerose imprese industriali finanziandone le emis­ sioni azionarie e partecipando alla speculazione di borsa. Alla fine dell’anno acquistò a Venezia l’ufficio di cambio della «D itta Drog, Mayer e C. Fin». Durante il 1906, poi, mentre rallentava l’impegno per la costituzione di nuove società, la SBI continuò ad aprire nuovi sportelli a Venezia, a N ovi Ligure, a Chieri e nel Comasco dove si sostituì alle due ditte bancarie « Catelli Corti & C. » e « Cle­ rici Giorgetti e C. » 27.

In tutti questi anni, in coincidenza con la decisione di allargare il campo d’attività della Banca, il Consiglio di Amministrazione si fece autorizzare ad aumentare il capitale sociale: da 4 a 5 milioni nel gennaio del 1899 ; il 24 maggio 1900, da 6 a 9 con i pieni poteri per emettere nuove azioni sino a 12 milioni per poter iniziare l’at­ tività di una grande banca « mista » e in previsione dell’apertura di nuove sedi a Genova e altrove; da 12 a 20 milioni il 28 ottobre 1904 28, quando vennero assunti gli affari dell’ex Banco di Sconto e Sete29 ;

27. Nel Comasco la SBI stava per esporsi ai rischi derivanti dalla critica situazione in cui si sarebbe venuta a trovare di lì a poco la clientela bancaria che operava nel settore dell’industria e del commercio delle sete.

28. Contemporaneamente all’aumento di capitale da 12 a 20 milioni si promosse la quotazione del titolo della SBI a Basilea e a Zurigo dove esso ebbe buona accoglienza.

29. Cfr. i dati della tabella 31, le relazioni annuali sull’esercizio della So­ cietà Bancaria Italiana e le altre notizie che verranno esposte nei successivi pa­ ragrafi.

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L E P R E M E S S E D E L L A C R IS I 31 da 20 a 30 milioni il 20 maggio 1905 nel bel mezzo della febbre speculativa originata dalla corsa ad emissioni azionarie; da 30 a 50 milioni il 19 marzo 1906 quando Fattività finanziaria aveva nuo­ vamente assunto dei ritmi frenetici.

Il nucleo iniziale dei soci fondatori della Società fece di tutto per non perdere il controllo della banca riservandosi in opzione - in base ad una clausola dello statuto - una parte delle nuove emissioni ; ma sia per la necessità di stringere alleanze per affrontare impegni così rilevanti, sia per le implicazioni stesse delle procedure di incorporazione di altre ditte, dovette acconsentire ad accogliere nel consiglio di amministrazione i rappresentanti di nuovi diversi inte­ ressi. Nel 1900, quando si volle aumentare il capitale da 6 a 12 mi­ lioni per iniziare un’attività bancaria più ambiziosa e su scala più vasta, vennero accolti in consiglio d’amministrazione il Comm. Giu­ seppe Da Zara e il Marchese Luigi Medici, cioè delle persone che collegavano la Bancaria agli interessi e al giro d’affari della finanza veneta e genovese e alla siderurgia. Nel 1904-5 fu la volta dei tori­ nesi Comm. Pariani dell’ex Banco di Sconto e Sete, di cm la SBI raccoglieva l’eredità, e di Ceriana Mayneri, interessato all’ammi­ nistrazione della FIAT. Infine, nel 1906, assunse una posizione sempre più forte un gruppo di genovesi costituito dai Comm. Armando R aggio, Cav. Andrea Cortese, Avv. Paolo Boz?no e Cav. Emilio Bruzzone, fratello del direttore della sede genovese della stessa banca. In occasione dell’assemblea del marzo 1907, all’indomani del* grosso aumento di capitale deliberato l’anno precedente (da 30 a 50 milioni), si potè constatare che la banca era ormai nelle mani del gruppo genovese, di cui facevano parte alcuni rappresentanti più spregiudicati della speculazione borsistica30.

che quest’ultima banca aveva avviato in precedenza, e particolarmente negli anni 1898 e 1899, promuovendo e finanziando varie iniziative industriali ma accumulando altresì vistosi insuccessi. La banca torinese cercò di attuare, nel­ l’area piemontese soprattutto, un programma di investimenti analogo a quello perseguito, nello stesso periodo di tempo, dalla C O M IT e dal C R E D IT , senza disporre, peraltro, dei mezzi e delle capacità richiesti da tale obiettivo. Cfr. la Relazione del Collegio Sindacale quale Comitato d’inchiesta all’assemblea

degli azionisti convocata per il 29 marzo 1903, Torino, 1903.

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mag-32 CA PITO LO PRIM O

Alla vigilia della crisi la SBI si presenterà come il terzo pilastro creditizio delle regioni italiane in via di industrializzazione: oltre 40 milioni di depositi, un portafoglio pari a poco meno di 30 milioni e ben 39 milioni di riporti. Rapida e impressionante, nel giro di un quadriennio, era stata la progressione dei mezzi propri, di quelli raccolti e degli im pieghi31. Nella corsa a sempre nuovi impegni di finanziamento la Bancaria venne assistita con larghezza dalla Banca d Italia, il cui direttore generale non fece mistero di vedere di buon occhio e con una certa simpatia lo sviluppo di un terzo grande isti­ tuto di credito operante in Lombardia, in Liguria e soprattutto in Piemonte, a fianco della C O M IT e del C R E D IT . Tra la Banca d Italia e la SBI si stabilirono dei buoni rapporti : e la SBI dimostrò subito di accondiscendere a ciò che le altre grandi banche erano rilut­ tanti a fare, e cioè a cedere volentieri al risconto una parte cospicua del suo portafoglio diventando così, in poco tempo, un grosso cliente debitore del maggiore istituto di emissione, particolarmente presso la sede di G enova32.

Nel Comasco, nell’Alessandrino e in altre zone del Piemonte la SBI poteva essere definita « la vera distributrice del credito e 1 intermed’aria fra la Banca d Italia e gli innumerevoli commer­ cianti ed industriali». La SBI, in altre parole, si presentava come la banca di credito ordinario che meglio si confaceva nelle sue fun­ zioni all idea che Stringher aveva dei rapporti tra gli istituti di emissione e gli istituti ordinari di credito.

La banca ebbe rapidamente la sua parte nelle iniziative che portarono alla costituzione di nuove società, ad aumenti di capitale di società già esistenti, a speculazioni di borsa e al finanziamento

gio 1905 costoro fecero la loro prima comparsa, rappresentando, in proprio o per delega, rispettivamente 1175 e 3400 azioni.

Giuseppe ed Emilio Bruzzone, Paolo Bozano e Andrea Cortese all’as­ semblea degli azionisti del marzo 1907 disposero, in proprio, o per delega, di 37.500 voti mentre i voti dei rimanenti azionisti presenti ammontarono a 37.757 (tabella 30).

31. Cfr. tabelle 26, 31 e 32.

32. Cfr. tabelle 21 e 39. Al 30 marzo 1906 la SBI era debitrice della Banca d Italia per oltre 23 milioni, di cui ben 7,6 ottenuti presso la sede di Genova e circa 11 presso la sede di Milano.

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L E P R E M E S S E D E LL A C R IS I 33 delle imprese secondo le tecniche che ispiravano l’azione delle altre banche di credito ordinario33.

Anche durante il 1906, l’anno in cui rallentarono generalmente le operazioni finanziarie per la costituzione di nuove società per azioni, la SBI dette un eccezionale sviluppo alle restanti operazioni bancarie.

La situazione dei conti di fine d’anno della Bancaria fece regi­ strare uno spettacolare aumento del portafoglio tra il 31 dicembre 1905 e il 31 dicembre 1906 da circa 25,1 a circa 37,4 milioni e un aumento dei depositi da 17,7 a 34,7 milioni. Gli utili netti salirono ad oltre 4 milioni.

La Banca partecipò anch’essa al Consorzio diretto dalla Banca d’Italia per la conversione della rendita e si impegnò direttamente in nuove iniziative di finanziamento34.

Nella relazione all’assemblea degli azionisti del marzo 1906 si era naturalmente esaltata la vasta azione espletata per la trasfor­ mazione in società anonime di imprese già esistenti e per la costitu­ zione di nuove società. Si era fatto anche un elogio ai dirigenti della sede di Genova « dove si accentra per naturale tendenza del mer­ cato la mole delle maggiori operazioni e dove occorre quindi intel­ ligenza più pronta e tatto sapiente di negoziatori, doti che posseg­ gono in alto grado le menti degli uomini preposti al governo della nostra sede».

Nella relazione del 1907, sull’esercizio del 1906, si fece poi rile­ vare che la sede di Genova era quella che aveva maggiormente con­ tribuito alla formazione degli utili d’esercizio.

Rispetto però alle due grandi banche rivali, la CO M IT e il C R E D IT , come si sarà già intuito a questo punto, la SBI presentava alcune intrinseche e non trascurabili ragioni di debolezza. Per i motivi ora esposti, la SBI si trovò a disporre di un giro di affari non selezionati, a dover contare su una clientela non sufficiente­ mente conosciuta e sicura, perché acquisita ed avuta in eredità da altre Ditte, probabilmente costituita, in parte, da depositanti insicuri che le altre grandi banche e le casse di risparmio trascuravano e da imprese e persone che non trovavano credito altrove. È

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34 C A PITO LO PRIM O

ficativo, del resto, che la Bancaria abbia cominciato la propria atti­ vità solo dopo il 1900, quando la CO M IT e il C R E D IT si erano ormai procacciati i nuclei più interessanti di lavoro bancario con­ nesso agli investimenti industriali. Ed è ancora più sintomatico che nella ancora breve storia della banca, ci si imbatta nell’eredità di un Banco di Sconto e Sete, posto in liquidazione dopo una vita piuttosto travagliata, e delle ditte bancarie del Comasco oberate dalle conseguenze della crisi dell’industria serica, nonché in una serie di iniziative industriali eterogenee e palesemente destinate ad una scarsa riuscita35. Perché tutti questi affari non compromet­ tessero la solidità della SBI bisognava che essi non costituissero il più grosso nucleo dell’attività di quest’ultima e che una così rapida espansione fosse saldamente governata da un consiglio d’am­ ministrazione omogeneo e da una direzione che non ubbidisse a questo o quel gruppo di interessi del capitale di controllo, ma unicamente ai criteri di una gestione ispirata da una effettiva unità di intenti degli amministratori. È facile comprendere dopo quel che si è detto che queste condizioni non potevano verificarsi e non si verificarono.

Tra il 1900 e il 1906 la direzione centrale non faceva in tempo ad assumere il pieno controllo dei nuovi campi di gestione che già si erano decise nuove iniziative e si allargavano gli impegni di finanziamento. Per di più, man mano che si creavano quelle situa­ zioni che avrebbero reso necessario un efficiente servizio centrale di controllo e di ispezione su ciò che avveniva alla periferia, più si accentuava l’abitudine di concedere autonomia ai dirigenti delle sedi e delle filiali. Il caso limite di questa vera e propria disarti­ colazione interna della gestione della banca venne alla luce nell’ot­ tobre del 1907, al momento della crisi, quando la direzione centrale a Milano scoprì di non essere in grado di conoscere i rischi e le dimensioni degli impegni che la banca aveva assunto e ancora assu­ meva verso la clientela presso la Sede di Genova. E grande sarà la sorpresa destata dal gran numero di pessimi affari che si annidavano nelle situazioni dei conti di parecchie altre sedi e succursali.

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36 CA PITO LO PRIM O

La gestione della SBI cioè portava evidenti i segni dell influenza elle su di essa avevano degli amministratori clie rappresentavano gli interessi frazionati di diversi gruppi finanziari e industriali. I deputati Pietro Baragiola e Enrico Scalini, si facevano portavoce di molteplici ed eterogenei interessi industriali nell’area lombarda e, in particolare, dell’industria e del commercio delle sete e di altri prodotti agricoli, il Comm. Pariani teneva legata la Bancaria al vecchio giro d affari che aveva fatto capo al Banco di Sconto e Sete, Da Zara aveva il suo giro di affari e di ambizioni da appoggiare in relazione alla posizione che egli occupava alla guida della Società Veneta e come rappresentante di interessi della siderurgia ligure ; al gruppo tori­ nese, in particolare al Cav. Michele Ceriana Mayneri e da far risalire l’impegno di avallare le grosse cambiali di finanziamento alla Società FIAT scontate dalla Cassa di Risparmio di Torino; i genovesi Bozano, Cortese, Bruzzone si avvalsero della sede di Genova in appoggio delle loro iniziative speculative in borsa e per finan­ ziare le imprese zuccheriere, immobiliari e commerciali nelle quali erano interessati o che erano da essi direttamente gestite.

Soprattutto gravida di incognite e di pericoli fu la situazione venutasi a creare tra il 1905 e il 1906, allorquando i maggiori azionisti «genovesi» della Bancaria divennero anche i suoi più cospicui « debitori ». D i fatto, i Bruzzone, i Bozano, il Cortese e il loro entourage di minori speculatori ed affaristi approfittarono della loro posizione di controllo per utilizzare a piacimento i mezzi della banca per i propri scopi, avvalendosi della larga autonomia ope­ rativa concessa alla Sede di Genova — diretta appunto da Giuseppe Bruzzone - e grazie all’assenza di un potere centrale efficiente ed omogeneo.

Per questi specifici motivi di debolezza la SBI era destinata nel 1907 a non essere in grado di superare le difficoltà in cui si imbatterono anche le sue ben più robuste rivali. Essa si trovo, insieme a queste, a dover smaltire degli immobilizzi rappresentati da cam­ biali di finanziamento delle imprese puntualmente rinnovantesi a a scadenza, da riporti che si prorogavano e da sindacati di collocamento incapaci di operare. In particolare restavano da smaltire le con­ seguenze delle operazioni finanziarie compiute nel 1905 e 1906 per la costituzione e il finanziamento di numerose im prese36.

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L E P R E M E S S E D E L L A C R IS I 37 In conclusione, alla vigilia della crisi la situazione dei conti della SBI rivelava un livello eccezionalmente elevato degli impieghi e nascondeva perdite non rilevate, sofferenze e immobilizzi in misura superiore a quelle che si sarebbero potute riscontrare presso altri istituti37.

La gestione della SBI, infine - e ciò era noto anche a coloro che non potevano conoscere l’ammontare del risconto che essa veniva facendo presso la Banca d’Italia - era caratterizzata da una espan­ sione degli impieghi che da almeno un biennio andava costantemente al di là delle possibilità che dovevano ritenersi consentite dall’anda­ mento della raccolta di risparmio e consigliate dal grado di immo­ bilizzo dei crediti che erogava. Fu lo stesso Stringher ad accorgersi che l’ammontare delle cessioni della Bancaria permaneva a un livello elevato e non si rinnovava a sufficienza nella sua composizione quali­ tativa. Nel dicembre del 1906 dovette constatare che una maggiore severità nell’ammissione allo sconto delle cessioni della Bancaria avrebbe avuto l’effetto di paralizzarne, o quasi, l’attività e si con­ vinse - nonostante l’ottimismo dei suoi direttori di sede - che questa Banca era oberata da troppi im m obilizzi38. Egli cominciò a tener d’occhio la situazione presso la sede di Genova, anche in relazione alle condizioni del mercato azionario su quella piazza e, discreta­ mente, ogni tanto mandò a Genova un ispettore per avere notizie di provenienza diversa da quelle che gli venivano fornite dal direttore di sede. Nel maggio del 1907, infine, la Società Bancaria Italiana si trovò coinvolta nell’«affare R am ifera»39.

Infine, la composizione dell’attivo della SBI rivelava all’inizio del 1907 una modestissima presenza di titoli di Stato o garantiti dallo Stato. Questo fatto, unitamente al largo ricorso già effettuato a sconti presso la Banca d’Italia, riducevano al minimo la possi­ bilità che la banca potesse contare su ulteriori crediti da parte della Banca d’Italia 40.

37. Questa situazione era all’inizio del 1907 oggetto di voci e di illazioni. La realtà delle cose venne poi completamente alla luce soltanto all’inizio del novembre successivo quando si poté guardare a fondo nei conti della banca. Cfr. le tabelle 32, 36 e 37.

38. A.B.I. Segretariato, Sedi, Genova, dicembre 1906. 39. Cfr. pp. 55 e ss.

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38 CAPITO LO PRIM O

Alla vigilia della crisi borsistica e della tensione monetaria del 1907, la SBI era, tra le m aggiori banche «m iste» italiane, quella che aveva impiegato la quasi totalità dei depositi della clientela m riporti, nella costituzione di nuove società e in finanziamenti alle imprese; che era meno provvista di mezzi liquidi e di titoli pronta­ mente realizzabili41.

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