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“Oralizzare” e “arabizzare”

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Academic year: 2021

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Capitolo secondo

“Oralizzare” e “arabizzare” il testo

2.1 “Oralizzare” un testo

Per comprendere il modo in cui oralità e scrittura interagiscono in Les femmes au bain si potrebbe partire dalla deformazione di un’osservazione di Lévi-Strauss, “il pensiero selvaggio è totalizzante”1

, che, secondo Walter J. Ong, potrebbe essere trasformata in “il pensiero orale è totalizzante”2

poiché

Il mondo orale che per primo illumina la coscienza con una lingua articolata, che separa il soggetto dal predicato e poi li mette in rapporto, e che unisce gli esseri umani nella società. La scrittura introduce divisione e alienazione, ma anche una più salda unità: essa intensifica il senso dell’io e alimenta un’interazione più consapevole fra gli individui. La scrittura sviluppa la coscienza.3

In Les femmes au bain le due modalità di espressione del pensiero non si escludono a vicenda, al contrario, lavorano insieme creando un testo che prende avvio dalla pagina scritta e che arriva all’occhio e all’orecchio del lettore con una determinata voce poetica e con un preciso tono di voce che lo rendono immediatamente riconoscibile. Questo avviene perché, sebbene “la scrittura apra alla parola e all’esistenza umana possibilità inimmaginabili senza di essa, […] l’oralità non è disprezzabile: essa può creare opere al di là delle possibilità degli alfabetizzati, l’Odissea, ad esempio. Inoltre, non è mai completamente sradicabile: la lettura di un testo lo oralizza. Oralità e scrittura sono entrambe necessarie all’evoluzione della coscienza”4. Il risultato della cooperazione tra questi due medium espressivi si riflette nelle scelte stilistiche che vengono compiute nel testo e che verranno analizzate in questo capitolo. In primo luogo, si potrà osservare l’adozione di un intreccio narrativo, “che in una cultura orale non consiste esattamente in quanto noi intendiamo per intreccio”5

, che non rispetta gli eventi della fabula e i suoi elementi basilari, vale a dire, esordio, peripezie e scioglimento; al contrario, la narrazione è raccontata seguendo un ordine che non corrisponde a quello logico-temporale, a cominciare da un inizio in medias res; la narrazione è inoltre affidata a tre narratori principali che si alternano e sovrappongono capitolo dopo capitolo rendendo la struttura stessa del testo mai lineare o prevedibile. Anche la scelta dello spazio

1

Ong, W. J., op. cit., p. 241.

2 Ibidem. 3 Ivi, p. 245. 4 Ivi, p. 241. 5

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narrativo, quello del bagno turco, non è casuale; si tratta di un luogo che consente il libero fluire della parola senza vincoli e restrizioni, l’habitat naturale dell’oralità al femminile. A livello lessicale invece si predilige l’uso di parole-chiave cariche di significati anche controversi e di quelli che Paul Zumthor definisce “indizi di oralità”1

, entrambi usati per dotare il testo di un tono di voce e per veicolare un linguaggio lontano dal francese standard e convenzionale; infine, si vedrà come le scelte compiute a livello morfosintattico e testuale, quali la scelta di prediligere un periodare basato sulla coordinazione di frasi brevi e ridondanti piuttosto che su periodi lunghi e carichi di subordinate, l’impiego di ripetizioni di porzioni di testo o di espressioni particolari, influiscano sul ritmo della narrazione. A questi elementi si devono poi aggiungere gli input che dal testo sono inviati direttamente al lettore che, con la sua personale lettura e interpretazione degli eventi, può arricchirlo aggiungendovi dettagli che, forse, non erano stati previsti nemmeno dall’autrice, diventando, in questo senso, parte integrante e attiva della narrazione.

2.2 L’intreccio narrativo

Se ci si sofferma a pensare alla parola testo, la prima immagine che viene richiamata alla mente è quella di un telaio i cui fili, intrecciandosi secondo lo schema imposto dalla macchina, danno vita a determinati tessuti e disegni. Allo stesso modo, un testo può essere interpretato come un insieme di parole scritte o orali comprensibile, completo e coerente, strutturato in base alle regole imposte da una determinata lingua per comunicare un messaggio. Il noto linguista Massimo Palermo afferma che la “metafora tessil-linguistica”, così ben radicata nel nostro immaginario, “si pensi a espressioni come perdere il filo, riprendere il filo del discorso, ha il merito di evidenziare l’esistenza di legami più o meno visibili che garantiscono l’unitarietà del testo garantendone i due requisiti fondamentali: la coerenza e la coesione”2. Questa metafora affonda le proprie radici nella lingua latina nella quale “l’analogia tra l’attività della costruzione del discorso e altre abilità tecniche sviluppate dall’homo faber come la carpenteria (connettere assi di legno) e, poi, la tessitura (intrecciare i fili del telaio

1 Zumthor, P., La lettera e la voce: sulla «letteratura» medievale, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 47. 2

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secondo lo schema della trama e dell’ordito) ha dato luogo a una serie di associazioni da cui avrebbe tratto origine la parola testo.”1

Tuttavia, Walter J. Ong specifica che

«Testo», da una radice che significa «tessere», è, in termini assoluti, etimologicamente più compatibile con l’espressione orale di quando non lo sia «letteratura», che si riferisce etimologicamente alle lettere (literae) dell’alfabeto. Il discorso orale è stato comunemente considerato, persino in ambienti orali, come una specie di tessitura o di cucitura – rhapsōidein in greco significa «cucire insieme canzoni». Ma, in realtà, quando gli alfabetizzati usano oggi il termine «testo» riferendosi a forme di espressione orale, essi lo pensano in analogia con la scrittura.2

Questa metafora non è certo sfuggita all’occhio attento di Leïla Sebbar che inserisce nella narrazione immagini di grande impatto legate all’arte della tessitura che si arricchisce di volta in volta di connotazioni diverse. Innanzitutto, l’arte del cucito, così come quella del ricamo, che si tramandano, al pari del racconto, di madre in figlia, di generazione in generazione, sono ritenute fondamentali nell’educazione di ogni giovane donna che voglia liberarsi dalle imposizioni della società e che voglia essere più di una moglie e madre modello. In un passaggio particolarmente interessante e commovente del racconto, la négresse confida alle altre donne che, se non fosse stata costretta a fuggire, avrebbe dato vita, nella casa del marito, a una scuola ideale a cui avrebbero avuto accesso tutti i bambini e tutte le bambine privati della possibilità dell’istruzione a causa della povertà o dei divieti paterni. Sarebbero accorsi così numerosi, e numerose, da ogni parte del paese che altre scuole simili alla sua sarebbero dovute sorgere per permettere a chiunque avesse voluto, bambini e bambine senza distinzioni, di apprendere non solo la letteratura, la musica, le lingue straniere, il teatro, la poesia, la danza, la scienza, l’astronomia e la fisica, ma anche nozioni di apicoltura, di erbe e piante aromatiche e medicinali, di cucina, cucito e ricamo; la vecchia sembra inoltre sottolineare l’esistenza di un legame implicito tra il padroneggiare l’arte del ricamo e la possibilità e l’abilità di scrivere e pubblicare libri. Se qualcuna avesse osato obiettare che quella di cui stava parlando non era altro che un’utopia, “que rien de cela n’aurait été possible”3, lei avrebbe risposto che si trattava di un’utopia reale e realizzabile. Inoltre, in altri passaggi del testo, l’arte del cucito è sempre legata a quella del racconto. Nel primo capitolo del romanzo, il telaio rappresenta un luogo privilegiato che rende possibile l’accesso alla parola; forte della protezione di questo strumento e nascosta

1 Ibidem.

2 Ong, W. J., op. cit., p. 32. 3

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dietro le sue assi, una giovane tessitrice può ascoltare storie di uomini, di amanti e di amori illeciti che altrimenti le sarebbero vietate; inoltre, cucire “des vers qui parlent d’amour”1

all’interno degli hijab che dovrebbero invece essere sobri e neri, è sia un modo per ricercare la bellezza laddove questa viene negata, sia un segno di ribellione e di liberazione della parola stessa, nella speranza che il messaggio arrivi allo straniero tanto amato.

Nella creazione dell’intreccio narrativo, Leïla Sebbar si comporta proprio come una tessitrice, una moderna Penelope che disfa la tela, ricostruisce la tela, rigenera il tessuto, aggiunge o elimina i fili quando lo ritiene più opportuno, mostrando al lettore alcuni dettagli e celandone altri, non rivelando mai la trama nella sua interezza, al contrario, stravolgendone l’ordine e affidando la narrazione delle parti che la compongono a narratori di volta in volta diversi, destabilizzando e allo stesso tempo attraendo il lettore. In questo modo crea un testo che risponde alla definizione di Jacques Derrida:

un testo è un testo solo se nasconde al primo sguardo, al primo venuto, la legge della sua composizione e la regola del suo gioco. Un testo peraltro resta sempre impercettibile. La legge e la regola non si affidano mai, al presente, a nulla che si possa con rigore chiamare una percezione […] in tutti i casi si può impiegare secoli a disfare la propria tela. La tela che avvolge la tela. Secoli per disfare la tela. Ricostruendola anche come un organismo. Rigenerando indefinitamente il proprio tessuto dietro la traccia tagliente, la decisione di ogni lettura. Riservando sempre una sorpresa all’anatomia o alla fisiologia di una critica che credesse di dominare il gioco, di sorvegliare contemporaneamente tutti i fili illudendosi anche nel voler osservare il testo senza toccarlo, senza metter mano all’ «oggetto», senza arrischiarsi ad aggiungervi, unica possibilità di entrare nel gioco impigliandovisi le dita, qualche nuovo filo2.

Il primo espediente attraverso cui la scrittura è traslata sul piano dell’oralità, e viceversa, è lo stravolgimento dell’ordine cronologico della vicenda; il lettore viene fin da subito catapultato nel cuore degli avvenimenti attraverso un esordio in medias res che significa “anteporre ciò che per logica successione temporale verrebbe dopo”3

. Si può infatti guardare l’incipit del romanzo, “Je l’ai amé, oui. Je l’ai aimé. Je ne voulais pas qu’on l’enferme. Je n’ai pas porté plainte. Il ne m’a pas violée.”4

Il lettore non sa chi sta parlando né di chi sta parlando, sa solo, perché lo intuisce dal titolo del capitolo, che quelle affermazioni sono pronunciate da una donna a cui ci si riferisce come la Bien-aimée; la storia completa potrà essere compresa solo proseguendo con la lettura,

1 Ivi, p. 53.

2 Derrida, J., op. cit., pp. 51-52. 3 Ong, W., J., op. cit., p. 201. 4

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capitolo dopo capitolo, prestando attenzione a ogni particolare fornito e a tutte le altre storie che compongono il testo, ma solo nelle parti conclusive saranno svelati i dettagli essenziali per ricostruire la storia dal principio. L’esordio in medias res è tipico dell’epica narrativa orale dell’antica Grecia, “nella sua Ars Poetica, Orazio scrive che il poeta epico «si affretta ad entrare nell’azione e precipita l’ascoltatore nel mezzo degli avvenimenti» (148-149)”1 e, in particolare, è caratteristico dello stile di Omero che vuole immediatamente immergere il lettore nel vivo della vicenda, “vuole arrivare subito a «dove c’è l’azione»”2

. Nell’Odissea, ad esempio, la storia di Ulisse si apre sui sette anni di prigionia trascorsi nell’isola di Ogigia con la bellissima ninfa Calipso, perdutamente innamorata di lui; solo quando riesce finalmente a liberarsi, a fuggire e fa naufragio con la sua zattera sulle sponde di Scheria dove riceve ospitalità dal re Alcinoo, inizia la narrazione delle peripezie che lo hanno condotto fin lì. Al contrario, “l’uomo chirografico e tipografico moderno ritiene probabilmente che ogni narrazione sia a trama lineare e con climax, secondo uno schema spesso rappresentato col diagramma delle famosa «piramide di Freytag» (cioè una linea che sale, seguita da una che scende)”3. Secondo questo semplice modello, spesso paragonato “all’allacciare e allo sciogliere di un nodo”4

, ogni storia per essere reputata degna di questo nome deve essere articolata in un’introduzione in cui vengono presentati i personaggi, l’ambientazione e le altre informazioni fondamentali per lo svolgimento; in una crescita, durante la quale l’azione accelera e la tensione aumenta fino a raggiungere il climax, il picco della piramide, il momento decisivo e più emozionante, il culmine dell’azione che ne rappresenta anche il punto di svolta o capovolgimento e da cui si dirama il momento di decrescita che conduce alla rivelazione e alla risoluzione finale, il momento conclusivo in cui i segreti vengono rivelati e le tensioni si sciolgono. “Un tal genere di intreccio Aristotele lo riscontra nel dramma (Poetica 1451 b-1452 b), il che è significativo poiché quello greco, sebbene recitato oralmente, veniva composto in forma

1 Ong, W., J., op. cit., p. 200. 2 Ivi, p. 201.

3 Ivi, p. 200. 4

Ibidem.

La «piramide di Freytag», elaborata nel 1873 e basata sulle nozioni di ascesa e caduta dell'azione.

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scritta; esso infatti, nel mondo occidentale, fu il primo e per secoli l’unico genere orale ad essere completamente controllato dalla scrittura”1. Al contrario, “una cultura orale non conosce la trama lineare che tende al climax e di una certa lunghezza. Essa non è nemmeno in grado di organizzare quelle narrazioni più brevi con climax cui si sono abituati i lettori negli ultimi 200 anni e che, di recente, essi hanno intrapreso a disprezzare con affettazione. Non si rende giustizia al metodo di composizione orale se lo si descrive come una variante di quello letterario che esso non poteva conoscere, e nemmeno concepire. Nella costruzione della trama le «cose», nel mezzo delle quali ci si aspetta che abbia inizio l’azione, non sono mai state poste in ordine cronologico”2

. Il punto cruciale è che “non si trovano trame lineari con climax già bell’e pronte, nella vita delle persone, sebbene quelle reali possano fornire materiale da cui si costruiscono tali trame, eliminando spietatamente tutto, tranne pochi episodi messi attentamente in evidenza”3. Il procedimento che Leïla Sebbar compie è simile quindi a quello di un poeta epico che non è interessato a una trama lineare tendente al climax ma che tralascia episodi, forse cronologicamente appropriati, per reinserirli più tardi nella narrazione. Ciò che rendeva “un buon compositore epico un poeta non era la sua abilità nel creare una trama lineare ascendente, […] era prima di tutto la tacita accettazione del fatto che la struttura episodica era il solo modo - e un modo del tutto naturale - di immaginare e trattare una narrazione di una certa lunghezza, e poi l’estrema abilità con i flash-back e le altre tecniche per organizzare gli episodi. Partire nel «mezzo delle cose» […] è il modo di procedere originario, naturale e inevitabile tipico di un poeta orale”4.

2.3 I narratori

Per rappresentare la narrazione orale nel testo scritto Leïla Sebbar costruisce un romanzo sul modello del racconto inteso come “componimento letterario di carattere narrativo, quasi sempre d’invenzione, più breve e meno complesso del romanzo (in quanto dedicato in genere a una sola vicenda e destinato a una lettura ininterrotta) e distinto dalla fiaba perché tende a presentare i fatti come realmente avvenuti (per questi suoi caratteri si identifica sostanzialmente con la novella)”5. Inoltre, “raccontare”

1 Ibidem. 2 Ivi, pp. 201-202. 3 Ivi, p. 202. 4 Ivi, p. 203.

5 Vocabolario Treccani, http://www.treccani.it/vocabolario/racconto/,

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30 significa “riferire fatti o parole a voce”1

con un significato molto simile a quello di “narrare”, cioè “esporre o rappresentare, a viva voce o con scritti o altri mezzi, vicende, situazioni, fatti storici e reali, oppure fantastici, vissuti o, più spesso, non vissuti in prima persona, riferendoli in modo ampio e accurato e nel loro svolgimento temporale”2. Come è stato precedentemente accennato, l’autrice si avvale innanzitutto di due narratori principali, la Bien-aimée e l’Étranger de sang; i racconti dell’uno completano quelli dell’altra e solo alla fine il lettore sarà in possesso degli elementi necessari per ricostruire un quadro sufficientemente esaustivo della loro storia, quella di un amore contrastato da una società patriarcale e tribale. La Bien-aimée è stata infatti educata da suo padre come una principessa saggia e sapiente, erudita in letteratura classica, musica e religione e, pertanto, destinata a un uomo degno del suo rango, della sua educazione ma, soprattutto, dell’approvazione dei suoi fratelli e della tribù di appartenenza. La punizione per il suo amore incondizionato verso l’Étranger de sang è la reclusione e l’allontanamento dell’uno dall’altra. I due amanti non sono mai chiamati con il loro nome perché in questo modo sono eretti a emblema dell’amore contrastato e richiamano le coppie eroiche della letteratura il cui modello è rappresentato da Leïla e Madjnoun, protagonisti di una delle leggende più antiche e conosciute del mondo arabo, raccontata tra gli altri dal poeta Nizami e citata esplicitamente nel primo capitolo del romanzo. Madjnoun, “che alla lettera significa posseduto da un demone, cioè impazzito, era il nome dato a un giovane beduino significativamente nel periodo dell’Islam”3

, che si innamorò perdutamente di sua cugina Leïla, promessa però a un altro uomo “ed ella non fu quindi libera per Madjnoun. Secondo il racconto, Madjnoun soffre le pene dell’amore non corrisposto e non consumato e alla fine muore per il dolore. Vi sono molti poemi narrativi che raccontano la storia di Madjnoun e Leïla, in arabo, in persiano, in turco e in altre lingue, e un gran numero di poesie attribuito allo stesso Madjnoun, che raccontano il suo amore per Leïla e lamentano la sua mala sorte”4. Egli viene infatti spesso identificato con il poeta Qays appartenente a un’illustre famiglia di beduini. La sua colpa più grande fu però rappresentata da un’infrazione al codice d’onore beduino e a una regola basilare di questa società, e cioè che solo i padri avevano potere decisionale sui matrimoni delle figlie e, di conseguenza, su chi queste

1

Ivi, http://www.treccani.it/vocabolario/tag/raccontare/, (ultima consultazione: 17.01.2016).

2 Ivi, http://www.treccani.it/vocabolario/narrare/, (ultima consultazione: 22.11.2015).

3 Lewis, B., Ti amo di due amori, le più belle poesie della tradizione araba, persiana, turca ed ebraica,

Roma, Donzelli editore, 2003, p. XXXII.

4

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potessero amare. Egli invece non riuscì a non cantare il suo amore attraverso i versi; si può infatti leggere “in una delle pochissime poesie attribuite a Leïla:

Non c’è nulla di ciò che Madjnoun ha sofferto per amore Che non abbia sofferto anche io

Ma egli ha gridato pubblicamente il segreto del suo amore Mentre io l’ho tenuto nascosto, struggendomi in silenzio1

La famiglia di Leïla negò infatti il proprio permesso al matrimonio, la ragazza fu costretta a sposare un altro uomo e a lasciare la tribù e la regione; egli perse la ragione, divenne Madjnoun, il folle, e andò a vivere nel deserto con la sola compagnia delle bestie e di una voce nella sua testa che lo accompagnò fino alla morte come un grido che ripeteva incessantemente il nome di Leïla:

Quelqu’un cria.

Ce cri, c’était le nom de Leïla… sans Leïla. Et j’ai cru qu’un oiseau s’envolait de mon cœur.2

Ancora oggi, nel XXI secolo, questa storia continua a ispirare scrittori e compositori. Non solo Leïla Sebbar, che probabilmente la conobbe da bambina, ma anche, tra gli altri, Eric Clapton che, nel 1966, la associò al suo amore, non corrisposto, per Pattie Boyd, moglie di George Harrison, e scrisse la canzone Layla di cui due strofe in particolare mostrano la connessione con la storia che ne ha ispirato la composizione:

I tried to give you consolation

When your old man had let you down. Like a fool, I fell in love with you, Turned my whole world upside down. Let's make the best of the situation Before I finally go insane.

Please don't say we'll never find a way And tell me all my love's in vain.3

In Les femmes au bain, le voci interiori dei due amanti si alternano creando una sorta di dialogo che scandisce la narrazione come un ritornello, conferendo al testo l’aspetto di una composizione musicale. Tuttavia il compito del lettore che vuole avere una visione d’insieme della storia è reso ancora più arduo dal fatto che l’interazione tra i due protagonisti e la loro storia rappresentano una cornice all’interno della quale affiorano di volta in volta altri racconti e altre voci che allo stesso tempo forniscono dettagli di volta in volta più precisi sulla storia principale poiché è proprio la Bien-aimée che vi

1 Ibidem. 2 Femmes, p. 15. 3

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ritrova se stessa. Tra queste, la voce che spicca sulle altre è quella della “négresse aux mains douces”1

, anche lei privata di un nome proprio, ci si riferisce a lei semplicemente come “la plus vieille” o “la plus savante” o “conteuse”, poiché rappresenta l’archetipo della narratrice, “gardienne de la mémoire de la famille et de la tribu”, “vecteur de la continuité de cette histoire commune, elle accomplit sa tâche de la mémoire sur le plan de l’oralité, chantant de poèmes, murmurant des contes qui lui viennent du fond des âges, aussi bien que des secrets intimes de famille à ses filles et à ses petites-filles”2. È una figura simbolica e di riferimento nonostante occupi una delle posizioni più basse della scala sociale, donna di servizio per le famiglie dell’aristocrazia e massaggiatrice presso il bagno turco, punto di arrivo di una vita fatta di peregrinazioni e di fuga dalla casa di un marito dilapidatore e traditore. La sua autorità deriva dalla saggezza e dall’erudizione che ne fanno la custode privilegiata dei racconti “les moins populaires parmi les contes arabes”3 e delle astuzie femminili, quelle astuzie che vengono tramandate da madre in figlia, di generazione in generazione. Queste emergono dal racconto principale della narratrice, il racconto della sua lunga vita che presenta come una fiaba, “je raconte une fable. Oui, c’est une fable, ma vie est une fable”4

, non dimentica niente, la memoria non la inganna, “des mots et des mots, une voix monocorde, elle parle comme absente d’elle-même. La parole n’est pas désordonnée, la vieille ne délire pas, elle répète que ce qu’elle dit c’est la vérité”5

. Allo stesso modo in cui il racconto di questa vecchia signora “aux mains douces”6 trova un suo spazio in quello della Bien-aimée, che la lascia parlare rimanendo in silenzio e intervenendo raramente, così all’interno della storia della sua vita si incastonano i racconti di altre donne, giovani e vecchie, aristocratiche e povere, erudite e analfabete.

2.4 Il modello

La struttura del romanzo segue un modello ben preciso e universalmente riconosciuto e apprezzato, quello delle Mille e una notte, la raccolta di novelle più famosa e conosciuta della letteratura orientale, più volte citato nel corso della narrazione. La Bien-aimée ne cita esplicitamente la trama:

1 Femmes, p. 9. 2

Laronde, M., op. cit., pp. 90-91.

3 Femmes, p. 23. 4 Ivi, p. 65. 5 Ivi, p. 79. 6

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Le roi le plus puissant, le plus célèbre, le souverain sassanide qui régnait sur l’Inde et sur la Chine décapité épouse, esclaves et servantes de l’épouse surprises avec les grand nègres ? N’a-t-il pas, trois années durant, chaque soir, défloré et tué une vierge de famille princière? Et lorsqu’il n’y eut plus de jeunes vierges nobles, il réclama les filles des militaires puis les filles des négociants et enfin le fille des pauvres … Jusqu’à la célèbre fille de son vizir, belle, savante et vertueuse, qui se proposa pour sauver les jeunes fille à venir.1

La storia-cornice de Le mille e una notte è infatti quella del re Schahriar che matura un odio feroce nei confronti delle donne in seguito al tradimento di una delle sue mogli, la sua favorita, per questo condannata a morte; tuttavia questo atto di violenza non fu sufficiente a placarne l’ira e, non solo “recise il capo a tutte le donne della Sultana”2, ma pretese “di sposarne una per notte e di farla poi strangolare il giorno seguente” “per prevenire l’infedeltà di quelle che nell’avvenire piglierebbe”3

. Questo massacro spregevole fu perpetrato per ben tre anni finché la figlia del suo visir, la bella e indomita Shahrazad, decise di immolarsi affermando che “se io perisco la mia morte sarà gloriosa: e se riesco nella mia impresa, renderò alla mia patria un importante servigio”4. Shahrazad decise di raccontare notte dopo notte al sultano una storia lasciandone ogni volta in sospeso il finale sperando così di stimolarne la curiosità; ogni notte, infatti, la sua vita veniva risparmiata in modo da permetterle di terminare il suo racconto quella successiva; “e così interrottamente di novella in novella poté la favorita, col suo stratagemma, invogliare quel Sire ad ascoltarla per mille e una notte”5. Le novelle contenute nel racconto principale, tra le quali possiamo annoverare le storie di Sindbad e dei suoi viaggi, quella di Aladino e della lampada magica, quella di Alì Babà e i quaranta ladroni, sono tutte raccontate da Shahrazad; tuttavia il genio dell’opera sta nel riprodurre costantemente il modello del racconto nel racconto attraverso le storie narrate a loro volta dai personaggi creati dalla fantasia della ragazza. In questo modo si stabilisce un sistema di scatole cinesi al termine del quale il re ha dimenticato il suo odio e messo da parte il rancore e, innamoratosi di Shahrazad, ne risparmia la vita e la sposa, rendendola regina. Nell’immaginario collettivo, orientale e occidentale, questa cantastorie impavida è diventata simbolo di intelligenza, fascino e seduzione ed emblema del potere della parola contro la violenza e la forza fisica garanti dell’egemonia maschile nelle società patriarcali. In Les femmes au bain, Shahrazad è

1

Ivi, p. 33.

2 Autore sconosciuto, Le mille e una notte: novelle arabe, Milano, Bietti, 1934, p. 17. 3 Ivi, pp. 17-18.

4 Ivi, p. 19. 5

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citata più volte come sinonimo di perfezione, una principessa saggia e coraggiosa che ha ricevuto dal padre un’educazione esemplare dalla quale può trarre la forza per sfidare gli uomini e il potere che essi esercitano. Infatti, il ritratto che ne viene tracciato in Le mille e una notte non lascia spazio a equivoci:

Un coraggio superiore al suo sesso, uno spirito singolare ed una meravigliosa perspicacia. Essa aveva molto letto, ed era di una memoria prodigiosa. Aveva studiato la filosofia, la medicina, l’istoria, le belle arti, e componeva versi meglio che i più celebri poeti del suo tempo. Oltre di ciò era ornata di una perfetta bellezza, ed una vera virtù coronava le sue belle qualità. Il Visir amava appassionatamente questa figliuola, veramente degna del suo amore.1

La Bien-aimée e la vieille négresse, definita “la sœur jumelle de Shahrazad”2, sono le sue eredi dirette, “ce sont des « Shahrazad » d’une certaine manière, modernes. C’est un peu une fable ce texte”3

, ha dichiarato Leïla Sebbar. Elogiate entrambe per le virtù del corpo e dello spirito e prive di una guida materna, crescono in un universo prevalentemente maschile in cui il potere decisionale spetta al padre e ai fratelli, questi, in particolare, convinti che l’unico ruolo adatto a una donna sia quello di madre modello e moglie pronta a soddisfare ogni richiesta e capriccio del marito e, pertanto, giudicano inappropriata l’educazione che il padre fornisce loro con lo scopo di renderle sagge e colte. “La prunelle de ses yeux”4

e “la lumière de l’œil”5 dovevano ricevere “l’éducation que son père a donnée à sa fille Shahrazad”6; nonostante il divieto di frequentare la scuola coranica, riservata agli uomini, sono state cresciute e istruite come figlie di re, principesse esperte in musica, canto, poesia, religione e letteratura ma anche scienze, astronomia e ricamo; la biblioteca non era loro vietata, al contrario, potevano leggere ogni libro viaggiando così dall’Oriente fino in Occidente, perfino il Libro sacro, che sapevano recitare a memoria in modo più meticoloso dei fratelli. I padri hanno fornito loro un’arma importante, la cultura e, come conseguenza, la parola consapevole e impetuosa, quella che consente a una donna di fuggire alla reclusione mentale e culturale in cui la società vuole rinchiuderla. Solo così si può liberare “une voix de liberté sans contrôle tribal, communautaire, patriarcal”7. Proprio come Shahrazad, infatti, sono pronte a fare sacrifici, a sacrificare la loro stessa vita e non hanno paura di

1 Ivi, pp. 18-19. 2 Femmes, p. 78.

3 Krouch-Guilhem, C., op. cit.,

http://la-plume-francophone.com/2006/12/01/leïla-sebbar-entretien-sur-les-femmes-au-bain/.

4

Femmes, p. 107.

5 Ivi, p. 80. 6 Ivi, p. 63.

7 Krouch-Guilhem, C., op. cit.,

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sfidare l’autorità, una innamorandosi dell’Étranger de sang, l’altra lasciando lo sposo ai suoi vizi e alle sue malattie per abbracciare una vita fatta di vagabondaggio e ricerca di sé.

2.5 Lo spazio narrativo

Lo spazio privilegiato in cui si sviluppa lo scambio narrativo tra le varie voci che si susseguono nel racconto è il bagno turco, luogo di incontro e socievolezza, la cui importanza è sia simbolica che strategica. La studiosa Christa Catherine Jones spiega1 che il bagno turco, in francese bain turc o bain maure, conosciuto anche come hammam, fa la sua comparsa nel mondo musulmano mediterraneo, in particolare nei paesi del Maghreb e del Machrek, a partire dal VIII secolo. Costruiti seguendo il modello dei complessi termali di origine romana, i bagni turchi si compongono di quattro sale, “une salle de repos, une salle froide (barani), une salle tiède (wastani) et une salle chaude (dakhli)”2 e sono stati creati per assolvere alle funzioni più disparate: “ses fonctions sont religieuses (ablution et purification la veille de la prière du vendredi, après l’intimité sexuelle et les menstrues), capitalistes (intérêts financiers liés à l’essor d’une bourgeoisie locale), hygiéniques et médicale”3

. Tuttavia, non bisogna tralasciare la funzione sociale e cioè il suo essere diventato, nel corso dei secoli, un luogo di scambio sociale e personale, l’ambiente privilegiato per incontrarsi, per chiacchierare, per discutere di affari o per combinare matrimoni. La studiosa continua sottolineando che l’hammam rappresenta il microcosmo verosimile della società musulmana basata sulla separazione dei sessi che è rigorosamente rispettata; la giornata è suddivisa tra le ore destinate agli uomini e quelle in cui invece è accessibile solamente alle donne; “grâce à la ségrégation sexuelle, le hammam est présenté comme un lieu qui encourage la proximité corporelle entre les femmes de plusieurs générations, ce qui facilite l’échange d’informations et de commérages, et qui forge des amitié”4

. Proprio in quel lasso temporale privilegiato, in cui lo spazio si fa tutto femminile, si sviluppa la narrazione di Les femmes au bain che può essere quindi interpretato come una fotografia del momento in cui le donne sono libere di parlare e raccontare, si sottraggono al controllo dell’autorità maschile ma anche dai vincoli imposti dalla classe

1

Jones, C. C., La représentation du corps féminin dans le hammam fictionnel maghrébin, in Lachheb, M. (ed.), Penser le corps au Maghreb, Karthala, 2012, pp. 123- 124.

2 Ivi, p. 123. 3 Ibidem. 4

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sociale di appartenenza; qui, infatti, sono senza veli, nessun vestito o gioiello a distinguerle e a separarle, le donne che abitano nei palazzi più opulenti e maestosi si mischiano alle popolane; ricche o povere, madri o figlie, spose o concubine, vecchie o giovani, vedove, orfane, aristocratiche, nutrici, nonne, tutte vi si recano principalmente per “les mains et les mots de la plus vieille, une négresse au service des familles de l’aristocratie citadine”, mani e parole entrambe “douces et bonnes aux corps endoloris, les coups de l’âme, les coups de la vie”; è paragonata per le sue doti portentose a “une magicienne”, una maga poiché “elle sait les gestes pour les maladies de l’amour”1

e che riserva a tutte le stesse attenzioni. “Les femmes au bain réclament les mots, vérité et mensonge, de la vieille négresse, les mêmes, elles ne se lassent pas”2

e tutte possono parlare senza essere controllate, limitate o rimproverate, “sans surveillance”3

, poiché, come il corpo, anche la mente e l’anima sono senza veli, senza paura e senza tabù; il giorno del bagno turco è descritto come “le plus long de la semaine, le jour le meilleur, bavard et gourmand”4

e “depuis longtemps les femmes au bain sont dans le rêve. Elles chantent lentement, elles écrivent des vers qu’elles se lisent, si elles ne les écrivent pas elles les disent, les inventant au fil de la parole”5

. Solo un altro giorno ha la stessa importanza: quello della visita ai morti. Alle donne è infatti proibito prendere parte alle cerimonie funebri, possono solo assistervi da lontano e recarsi al cimitero quando arriva il loro turno. “La femme qui est avec le morts”6, che li veglia, li conosce e prega per loro “elle entend les femmes accroupies dans le voiles blancs ou noirs autour de la tombe […] Elle entend des histoires d’amour illicites, elle ne dit rien. Elle écoute comme la négresse du bain. L’une et l’autre complices, elle veillent sur le vivants et le morts”7

. In questo modo assume un ruolo attivo nella conservazione dei racconti che le donne si scambiano diventando una custode silenziosa della memoria, delle tradizioni e delle astuzie femminili. In questi ambienti, nei giorni a loro riservati, le donne parlano tra loro, si confidano sogni e desideri nascosti e proibiti:

Elles parlent, elles parlent, souvent des mots violents, indécents, des mots qui noircissent la bouche d’une femme, elle ne savent plus où elles se trouvent et que le morts les entendent, elles bavardent, et de qui parlent-elles ? Des hommes, époux, amants (oui, amants), pères et frères qui ont détourné l’héritage des absents, des

1 Ivi, p. 30. 2 Ivi, p. 33. 3 Ivi, p. 23. 4 Ibidem. 5 Ivi, p. 14. 6 Ivi, p. 28. 7 Ivi, p. 30.

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sœurs débiles, des veuves et des orphelins que personne ne protèges, pas même Dieu?1

In questa prospettiva, il bagno turco può essere inserito in quella schiera di luoghi come stazioni, porti, aeroporti in cui Leïla Sebbar dichiara di sentirsi al sicuro; luoghi in cui può decidere di parlare oppure no, di ascoltare oppure no, “lieux de circulation, de passage, où je peux comme dans une brasserie rester des heures sans projet, sans avoir à partir ou à revenir”2, senza il bisogno di temere quei i codici in vigore nei “lieux mondains parisiens”3. In questi luoghi vige il libero arbitrio, si può intervenire oppure si può scegliere di occupare una posizione marginale, di essere un passeggero, “en position de passagère, à la lisière, comme sur le banc d’une gare.”4

Queste parole possono essere usate per descrivere il ruolo della Bien-aimée che, seppur rappresenti una delle principali voci narranti, è comunque una voce interiore, della coscienza e della memoria e all’interno del bagno turco sceglie di diventare un’ascoltatrice; le altre donne parlano, “elle écoute, à l’écart. Qu’on ne lui parle pas, qu’on n’interrompe pas ses rêveries”5

. Il gioco di alternanze narrative che conferisce al racconto la musicalità che lo contraddistingue raggiunge l’apice nel momento in cui la Bien-aimée assume nella narrazione quella stessa posizione di ascoltatrice silenziosa, sempre in disparte che assume anche nei giorni del bagno turco e cioè nel momento in cui lascia spazio al racconto lungo e appassionante della négresse. Sembra in questo modo riconoscerne l’autorità e ammetterne la saggezza con la consapevolezza che le sue storie si riveleranno per tutte fonte di arricchimento personale e di lezioni di vita educative. Decide di intervenire infatti solamente in due occasioni raccontando due aneddoti, che non riguardano la sua vita personale, ma che potevano completare il racconto della négresse e allo stesso tempo servire come monito per tutte le altre donne. In un primo momento presenta la storia di una santa cristiana, santa Caterina, “symbole de la résistance à la tyrannie lubrique du plus puissant des hommes”6, “une très jeune princesse, intelligente et lettrée”7, “condamnée au supplice de la roue et décapitée”8 per aver rifiutato il matrimonio con un imperatore romano molto vecchio. Successivamente

1 Ibidem.

2 Huston, N., Sebbar, L., Lettres parisiennes, op. cit., p. 250. 3 Ibidem. 4 Ibidem. 5 Femmes, p. 18. 6 Ivi, p. 85. 7 Ivi, p. 84. 8 Ivi, p. 85.

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introduce “Une inconnue sans nom ni visage. Elle est allongée, sa chemise ne couvre pas le bas de son ventre blanc. Elle a ouvert ses cuisses et on voit ce qui se cache”1. Sta parlando del quadro L’origine du monde dipinto nel 1866 da Gustave Courbet, oggi esposto al musée d’Orsay, che fu all’epoca oggetto di grande scandalo poiché rappresenta, con lo stile pittorico realista di cui l’autore è uno dei massimi rappresentanti, “ce qui fait qu’une femme est une femme et qu’elle est à l’origine du monde”2. Fornisce anche brevi cenni riguardanti la storia dell’opera che fu commissionata al pittore dal diplomatico ottomano Khalil-Bey, che la nascose dietro un pudico telo verde, colore dell’islam e che simboleggia il paradiso, per svelarlo poi, “en secret dans ses salons à Paris […] au regard des femmes de son harem parisien et de ses hôtes, éblouis et excités devant “cette chose-là”. Après le diplomate, c’est, dit-on, un docteur de l’âme qui a acheté le tableau, il n’était pas docteur en religion, il cachait la femme avec sa beauté pour la découvrir par surprise à ses invités de choix”3

. La narratrice vuole dimostrare che “cette chose-là”4

ritenuta da molti indecente, che suscita scandalo e scalpore e che, quindi, deve essere coperta, sia portatrice di un valore estetico e simbolico inestimabile poiché è ciò che dà agli uomini la vita. Proprio il bagno turco rappresenta questa opportunità di svelamento, di liberazione sia fisica che mentale, poiché “rien ne menace les femmes du hammam”5

, un luogo in cui si intrecciano quella “douceur et volupté”6

.

2.6 L’immaginario pittorico: incanti e contraddizioni

I legami che il romanzo instaura con l’arte pittorica non si limitano però al riferimento a L’Origine du monde. L’immaginazione del lettore che vuole raffigurarsi mentalmente l’ambientazione del testo è aiutata dalla citazione e dai cenni ad alcuni quadri e pittori che nel corso dell’ottocento hanno cercato di immortalare, dandone una personale interpretazione, l’universo del bagno turco. In questo periodo, infatti, soprattutto in Francia e in Inghilterra, sembrò nascere un nuovo interesse da parte di intellettuali e artisti nei confronti dell’Oriente che rappresentava un mondo lontano da quello conosciuto e che molto spesso non avevano visitato. In ambito pittorico, l’harem e l’hammam esercitarono un fascino incredibile su pittori occidentali del calibro di 1 Ivi, pp. 86-87. 2 Ivi, p. 87. 3 Ibidem. 4 Ibidem. 5 Ivi, p. 48. 6 Ibidem.

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Manet, Delacroix, Ingres, Lecomte, Renoir, successivamente Picasso; un universo tutto al femminile, seducente proprio perché proibito e che volevano ricreare attraverso figure mitizzate cariche di fascino, mistero e sensualità. Scrive Leïla Sebbar che “les scène de bain chez les femmes, rêves de volupté, couleurs et paresse fatalistes, les artistes venus du Nord froid vers la lumière les ont imaginées, reproduit à l’infini et pour l’éternité, figée dans les musée et les ateliers”1; quelli stessi artisti, ma anche scrittori “de la rive occidental ont aimé l’Orient jusqu’à la folie, ils ont cru les posséder mais ils ne voulaient rien savoir de ces femmes de chair”2

. La prima opera d’arte citata nel testo è evocata attraverso la sua descrizione: due donne, “femmes au bain, la blanche et la noire, l’une allongée, des bijoux, une fleurs dans les cheveux, alanguie comme après l’amour, l’autre debout, étoffes chatoyantes, foulard noué sur la front, ses mains ont travaillé ou elle vont travailler”3

. Si tratta dell’Olympia di Manet, “eco di una tradizione che va da Tiziano a Goya, esposta al Salon nel 1865 e condannata come oltraggio alla moralità pubblica, una sorta di glorificazione del corpo splendido, quasi deificato nella sua bianchezza, di una meretrice, non di una dea o di una duchessa”4.

Tra i pittori citati bisogna soffermarsi però su Jean-Auguste-Dominique Ingres, uno dei maggiori esponenti della pittura neoclassica, che con la sua opera La grande odalisque “anticipò il genere dell’«orientalismo»”5

. La tela esposta per la prima volta al Salon nel 1819 ricevette molti giudizi negativi dovuti principalmente alle “sproporzioni del corpo della donna (l’estremo allungamento di alcune sue parti, le improbabili dimensioni dei fianchi)”, indispensabili però al pittore per conferire “all’immagine un andamento sinuoso e fluido di raffinata eleganza” che egli associava a quel contesto specifico. L’odalisca è ritratta di spalle, leggermente voltata verso l’osservatore, sdraiata su un lettino coperto di stoffa

1

Ivi, p. 31.

2 Ibidem. 3 Ibidem.

4 Enciclopedia universale dell’arte, Milano, Leonardo Arte srl, Elemond Editori Associati, 1997, p. 480. 5

I grandi musei del mondo: il Louvre, Parigi, Roma, Gruppo Editoriale l’Espresso, 2003, p. 180.

Manet, Olympia, 1863

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e accompagnata da pochi oggetti, un ventaglio di piume, un turbante e un narghilè, che “dichiarano la sua provenienza «esotica»”1

. In questa rappresentazione si possono cogliere degli omaggi che Ingres rende ai suoi predecessori, come alla Venere di Urbino di Tiziano di cui “sembra quasi che abbia voluto mostrare il lato invisibile nel dipinto: girando intorno alla venere, la vedremmo infatti nella stessa posizione dell’odalisca, con le gambe accavallate e leggermente raccolte”2

; ma ancora, “le forme allungate dell’odalisca richiamano anche le eleganti figure del manierismo europeo”3

come quelle di Venere e Cupido di Lambert Sustris che “attraverso l’esasperazione anatomica delle figure disegnate dal movimento sinuoso della linea, crea un’immagine di sofisticata delicatezza, di armonia e fragilità insieme”4. Infine, l’ultimo modello è rappresentato dalla Fornarina di Raffaello, “il pittore culto di Ingres, da lui studiato e ammirato tutta la vita […] Il turbante che copre la testa dell’odalisca e lascia intravedere i lisci capelli separati dalla scriminatura è un’esplicita citazione della Fornarina […] Ingres riprende di questo dipinto persino il dettaglio del pendente che spunta al di sotto del turbante, fermato, come una spilla, su una specie di treccia di tessuto che gira intorno al capo della donna”5. L’immaginario è quello orientale ma i modelli sono tipicamente occidentali; vengono rappresentate bellezze diafane, dai corpi pallidi prese in prestito, tra gli altri, da due pilastri del Rinascimento italiano, un periodo durante il quale l’ideale di bellezza femminile si fondava sulla pelle bianca, i capelli lunghi e biondi, le labbra rosse e le guance rosee.

Se si considera il quadro L’Esclave blanche di Lecomte du Nouÿ, citato nel testo, risalta subito il contrasto tra il biancore candido della schiava immacolata intenta a fumare e delle due figure di servi neri sullo sfondo dovuto al riferimento alle numerose donne degli harem che venivano dai territori considerati “infedeli”, catturate e vendute dai mercanti di schiavi. Proprio in Les femmes au bain viene spiegato che un

tempo i bottini di guerra erano rappresentati da “petites

1 Ibidem. 2 Ivi, p. 182. 3 Ivi, p. 183. 4 Ibidem. 5 Ibidem.

Lecomte du Nouÿ, L'esclave

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filles, jeunes vierges, femmes, des enfants au sein, séparées par la sabre de l’époux […] Et elles, butins de guerre, circassiennes, arméniennes, grecques et franques, désormais esclaves. Les plus belles pour le harem du Sultan, les harem des dignitaires, les autres exhibées au marché des esclaves. Peut-être un riche marchand, riche et bon, choisirait plusieurs d’entre elles, sœur et cousines, dans son palais elles seraient les meilleures épouses et concubines”1; donne straniere quindi provenienti dai “pays sans soleil […] très blanches et très blondes […] on les invite à s’instruire, à apprendre les gestes qui font gémir, des gestes qui ouvrent le cœur, les yeux se ferment, le corps perd sa raideur, il devient généreux, gourmand de ces ventres qui ondulent, s’offrent et se dérobent, les seins frémissent et la bouche charnue chantonne. Les « femmes de l’Est » dansent à l’orientale jusqu’à l’aube”2

.

Il quadro che più di ogni altro può essere considerato come un supporto visivo alle storie narrate è Le bain turc di Ingres la cui realizzazione fu ispirata dalle impressioni riportate da Lady Mary Wortley Montagu, ambasciatrice inglese in Turchia, di ritorno da una visita ai bagni turchi di Costantinopoli:

«C’erano circa duecento bagnanti […] I primi sofà furono coperti di cuscini e di ricchi tappeti e quelle donne vi si sistemarono. Erano tutte come natura le aveva create, nude […] Dopo il pasto si finì col caffè e coi profumi […] Due schiave mi coprirono d’incenso i capelli, il fazzoletto e i vestiti.»3

Stimolato dalle parole dell’ambasciatrice e affascinato da questa descrizione intrigante e seducente, “Ingres dipinse la scena così come la immaginava, facendo attenzione a inserire tutti i particolari descritti dall’ambasciatrice”4

. Quello di Ingres è un universo variopinto di donne tra loro diverse, alcune abbandonate lascive sui cuscini, una che danza con le braccia curve, un’altra sdraiata e ricoperta di gioielli, altre sono schiave nere ritratte nell’atto di suonare uno strumento musicale. Al centro della scena spicca “l’occidentalissima figura di Lady Montagu dai biondi capelli, ritratta con le braccia conserte e quasi assente o imbarazzata

1 Femmes, pp. 19- 20. 2 Ivi, p. 20

3 I grandi musei del mondo: il Louvre, Parigi, op. cit., p. 209. 4

Ibidem.

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mentre riceve le cure di due schiave”1. L’impressione che ne trae l’osservatore è quella di un insieme di figure destinate ad animarsi e a prendere la parola; se poi l’osservatore è anche il lettore del romanzo potrebbe quasi pensare che una di quelle schiave nere sia in realtà la vieille négresse che narra il lungo racconto della sua vita o che una di quelle donne con lo sguardo perso nel vuoto stia in realtà pensando al suo straniero tanto amato.

Il testo mette in luce il rapporto privilegiato esistente tra pittura e scrittura, due modalità di rappresentazione della realtà che si completano e arricchiscono a vicenda; la parola scritta e le figure dipinte traggono ispirazione l’una dall’altra, alimentano a vicenda il genio degli artisti che le hanno prodotte. Tuttavia se da un lato entrambe le arti sembrano essere accumunate dalla missione di disvelare ciò che si nasconde dietro “les portes secrètes qu’on ouvre avec précaution”2

, segrete e non sono accessibili a chiunque poiché proteggono ciò che celano al loro interno da sguardi indiscreti o pericolosi; solamente la scrittura riesce ad andare in profondità poiché, dotando le donne della parola, mette in luce le battaglie che esse combattono ogni giorno all’interno della società patriarcale in cui vivono andando oltre i dettagli superficiali che la pittura rappresenta. Lo spettatore si soffermerà su particolari come piume, animali esotici, turbanti, narghilè, fiori, cibo che lo trasporteranno in un mondo lontano e diverso ma solo il lettore riuscirà a guardare oltre quel senso di esotica e preziosa bellezza e voluttà che emerge dai quadri e che le donne orientali, in particolare le odalische, generalmente evocano, scoprendo il mondo reale che si cela dietro quegli emblemi di seduzione ed erotismo, dietro “l’image, les corps alanguis, les couleurs et le chatoiement”3

che “les artiste qui ont aimé l’Orient et ses femmes ont dessinées pour ceux qui ne les verraient jamais”4. Nell’articolo Donner à ne pas voir5, François Lecercle afferma che l’arte pittorica contribuisce a creare un’illusione poiché imita qualcosa che è visibile ma allo stesso tempo inaccessibile e non visto, un oggetto di cui si comprende l’esistenza ma che allo stesso tempo è invisibile; afferma in particolare che un quadro non sa mostrare qualcosa senza nascondere qualcos’altro. In un certo senso allora Leïla Sebbar si

1 Ibidem. 2 Femmes, p. 50. 3 Ibidem. 4 Ibidem.

5 Lecercle, F., Donner à ne pas voir, In: Mathieu-Castellani, G., La pensée de l’image : signification et figuration dans le texte et la peinture, Saint-Denis, Presses universitaires de Vincennes, coll. «

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impegna a mostrare ciò che non emerge dalle tele sopracitate, ciò che va oltre la fascinazione che quelle donne esercitano sull’uomo occidentale.

Tuttavia non è la prima scrittrice a cimentarsi in questa impresa; nel 1980, la scrittrice, poetessa, saggista e sceneggiatrice algerina Assia Djebar, la prima autrice del Maghreb a essere ammessa all'Académie française, pubblica Femmes d’Alger dans leur appartement, una raccolta di novelle, come scrive lei stessa nella prefazione del testo, “d’aujourd’hui et d’hier”1

in cui cerca di rappresentare la condizione e il ruolo della donna algerina in una società fondata sul patriarcato cercando di andare oltre la realtà rappresentata dal quadro, da cui prende in prestito il titolo, del pittore francese Eugène Delacroix di cui esistono due versioni, una del 1832 e una del 1848 che sarà poi ripresa, reinterpretata e stravolta da Picasso. Nella postfazione dell’opera la scrittrice parla della visita che, nel giugno del 1832, Delacroix fece ad Algeri, una visita durata solamente tre giorni ma che segnò profondamente il suo percorso artistico tanto da spingerlo a scrivere: “les hommes et les choses m’apparaissent sous un jour nouveau depuis mon voyage” e ancora, “c’est beau! C’est comme au temps d’Homère”2 ; come scrive Djebar, il Marocco gli apparve come “lieu de rencontre du rêve et de l’idéal esthétique incarné, lieu d’une révolution visuelle”3

, un luogo che potesse rappresentare attraverso la sua pittura avvalendosi di tecniche, colori, forme, soggetti che prima di allora non aveva mai esplorato o sfruttato. In questo mondo “essentiellement masculin et guerrier, viril en un mot”, egli riesce a penetrare “un univers réservé: celui des femmes algériennes”4; riuscì infatti a fare il suo ingresso in un vero e proprio harem, quello di un ammiraglio turco. La parola che usò per descrivere il suo stato d’animo alla vista dello spettacolo che gli si apre davanti, e cioè “ « un couloir obscur » au bout duquel s’ouvre, inattendu et baignant dans une lumière presque irréelle, le harem proprement dit. Là, des femmes et des enfants l’attendent « au milieu d’un amas de soie et d’or »”5, fu “enivré”6

, inebriato da quella visione nuova e misteriosa ai suoi occhi. Tornato a Parigi, lavorò per anni sulla rappresentazione quanto più reale possibile di questo ricordo, studiando gli schizzi eseguiti ad Algeri, appigliandosi alla memoria per ricreare i colori e le forme che tanto aveva ammirato, facendo vestire le modelle con gli abiti

1 Djebar, A., Femmes d’Alger dans leur appartement, Parigi, Éditions Albin Michel S.A., 2002, p. 10. 2 Ivi, pp. 237- 240. 3 Ivi, p. 237. 4 Ivi, p. 238. 5 Ivi, p. 239. 6 Ibidem.

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riportati da quel viaggio. La scena che il pittore presenta allo spettatore è evocativa: la luce è soffusa e fumosa, tre donne indossano abiti sontuosi e ornamenti preziosi mentre una serva è intenta a sollevare una pesante tenda usata per nasconde l’intimità di quel luogo magico dagli sguardi indiscreti. Secondo Assia Djebar1, il genio di Delacroix sta nel rendere quelle donne, allo stesso tempo, presenti e lontane per lo spettatore, un enigma che egli deve decifrare ma, probabilmente, non ci riuscirà mai. Nella seconda versione, sono ancora più lontane e ineffabili, completamente inaccessibili. La scrittrice osserva2 che quello che giunge al nostro sguardo e che ci affascina è l’Oriente superficiale che propone, in una penombra di lusso e silenzio mentre la realtà che quelle

donne abitualmente vivono ci viene celata.

Proprio l’interazione tra la parola scritta e la rappresentazione pittorica permette di far emergere un paradosso relativo al mondo che entrambe si propongono di raffigurare. Questo emerge innanzitutto nel testo dalle parole della négresse, “nous sommes ces femmes du bain”3, esclama in un impeto di ira venato, però, di tristezza e rammarico dovuti alla consapevolezza che molte di loro, compresa lei stessa, non riusciranno mai a vedere e ad apprezzare quelle opere poiché quelle donne, così come “la femme sans nom, la femme sans visage”4, sono lontane, “de l’autre côté de la mer”5. Infatti, quei capolavori che, nel corso degli anni, sono stati commissionati e hanno affascinato personalità di spicco del mondo politico francese e turco, La grande odalisque “venne richiesta a Ingres da Carolina Murat, sorella di Napoleone e moglie del famoso

1 Djebar, A., Femmes d’Alger dans leur appartement, op. cit., p. 241. 2 Ivi. p. 243.

3 Femmes, p. 87. 4 Ivi, p. 88. 5

Ibidem.

Delacroix, Femmes d'Alger

dans leur appartement, 1834.

Delacroix, Femmes d'Alger

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45 generale”1

, Le bain turc “da Napoleone III […] e dieci anni dopo fu venduta all’ambasciatore turco a Parigi”2

, Femmes d’Alger incantò il pubblico e “allo stesso modo ne fu colpito re Luigi Filippo che riuscì ad acquistarlo nonostante il pittore fosse restio a cederlo”3

, e che traggono ispirazione da un’attività tipicamente orientale, uno dei pochi momenti di intimità e libertà concesso alle donne, non sarebbero sopravvissuti in quello stesso mondo che li ha generati; al contrario, sarebbero stati disapprovati, censurati e addirittura distrutti:

Si nos frères en religion- nos frères, non, nos frères ennemis- allaient dans les musées de la rive occidentale, ils auraient beaucoup de travail pour couvrir, comme ils l’ont fait dans certaines salles des musées de leur pays, des corps des femmes nues ou en partie dénudées, nymphes, déesses, courtisanes, odalisques, femmes au bain, ou pour renverser et détruire les sculptures des parcs et jardins. Ces corps de femmes les rendent fous, ils ont peur, elles s’exposent, personne pour interdire, pour les châtier si elles désobéissent, elles appartiennent à Satan, elles méritent la mort. Mais comment tuer l’image ? Les voiler toutes, impossible. Les brouiller, barbouiller, tacher, salir, souiller, pour qu’on les voie plus, qu’on les jette, qu’elles n’existent plus, ni la femme, ni l’image ? Qui oserait ?4

2.7 Il potere sovversivo della parola

L’ultima citazione qui riportata è emblematica poiché mostra che la realtà fuori dalle mura privilegiate e sicure del bagno turco, rese immortali dalle opere d’arte dei pittori occidentali, è ben diversa. Queste moderne Sherazade, come la stessa Sebbar le definisce5, che popolano il romanzo si trovano infatti a vivere in un mondo che le limita, sottoposte al controllo indiscusso del padre, dei fratelli o dei mariti in una società in cui i compiti e i doveri di una figlia, di una madre e di una moglie sono stabiliti in modo netto senza alcuna possibilità di sopravvivenza per coloro che non ne rispettano i vincoli. In questo immaginario in cui “les femmes doivent souffrir depuis la naissance jusqu’à la mort, non pas au service de Dieu, au service des hommes, père, frère, mari”6

, il modello imposto è rappresentato da colei che è pronta a “vivre et mourir pour diriger une maison, bonne épouse et intendante, élever des enfants, bonne mère au service toujours de tous et de toutes, petits et grands, soumise et patiente, douce et tendre”7

.

1 I grandi musei del mondo: il Louvre, Parigi, op. cit., p. 180. 2 Ivi, p. 209.

3 Ivi, p. 204. 4

Femmes, pp. 87- 88.

5 Krouch-Guilhem, C., op. cit.,

http://la-plume-francophone.com/2006/12/01/leïla-sebbar-entretien-sur-les-femmes-au-bain/

6 Femmes, p. 48. 7

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L’imposizione della supremazia dell’uomo sulla donna passa innanzitutto attraverso la prima notte di nozze, durante la quale la sposa, accondiscendente e docile, deve accettare senza protestare colui che le viene intimato di sposare; “la nuit sanglante”1 la chiama la négresse, “cette nuit de noce et de sang, terreur et malheur”2, sono rare quelle che ne conservano un ricordo piacevole. A questo si unisce un’interpretazione del Libro da parte degli uomini, e in favore degli uomini, che incute timore attraverso la presentazione dei castighi brutali destinati alle donne che si macchiano dei peccati più disparati, “les coquettes, les provocantes, les courtisanes, les prostituées, les désobéissantes, les négligentes, les adultérines, les entremetteuses, les calomniatrices, les avortées et les avorteuses”3, quelle che hanno praticato “luxure et fornication”4, le prefiche e perfino le cantanti e anche quelle che si tingono i capelli mentre nessuna punizione è prevista per “ceux qui teignent leur barbe avec le henné, ceux qui nous privent de la beauté et du bonheur, ceux qui disent qu’ils aiment Dieu autant que l’aime son Envoyé”5. Questi uomini non conoscono che la violenza, si tratta di “hommes avec le khôl des femmes à leurs yeux, une longue tunique blanche féminine et la barbe teinte au henné”6 che vogliono eliminare tutto ciò che Dio ha creato e che possa portare gioia alle donne, quello stesso Dio di cui si autoproclamano portavoce e interpreti eletti e che la négresse dice di non riconoscere; in suo nome vietano musica, canti e danze perché giudicati empi, perfino il canto degli uccelli è giudicato empio; “ces hommes-là ont interdit les bain, douceur et volupté […] Ils ont interdit ce qui plait aux femmes, la beauté du corps et des cheveux, la beauté des robes et des bijoux”7

. Perché di questa empietà che domina, secondo loro, il mondo e che deve essere estirpata, le donne sono l’emblema e pertanto viene addirittura vietato loro di prendere parte alle cerimonie funebri;

La femme – la femme est impure – ne suivra pas le corps aimé ou haï. Quelle que soit la parenté, elle ne marchera pas derrière la civière portée à dos d’hommes. […] elle ne touchera pas l’étoffe qui enveloppe le corps de l’enfant mort8

l’unica cosa che può fare è disperarsi nell’intimità domestica, piangere e gridare fino allo sfinimento, poiché “celle qui enfreint la loi séculaire de la cérémonie des adieux est 1 Ivi, p. 84. 2 Ibidem. 3 Ivi, p. 55. 4 Ivi, p. 56. 5 Ivi, p. 55. 6 Ivi, p. 48. 7 Ivi, p. 48. 8 Ivi, p. 24.

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une folle, elle sera condamnée à l’errance dans les champs de la mort sur la colline, au creux de la montagne, contre les dunes”1

. Vi è infine un’ultima limitazione alla libertà femminile, la più significativa forse, che si potrebbe definire come il divieto del corpo e che passa attraverso l’imposizione del velo, dell’hijab, termine che significa etimologicamente “rendere invisibile, celare allo sguardo, nascondere, coprire e indica qualsiasi barriera di separazione, posta davanti a un essere umano o a un oggetto, per sottrarlo alla vista o isolarlo”2.

In questo contesto anche il più piccolo atto di ribellione, all’apparenza insignificante, può intaccare e far vacillare un sistema fondato su repressione e paura. La scrittrice iraniana Azar Nafisi nel suo romanzo Leggere Lolita a Teheran racconta che in una città pattugliata da miliziani armati incaricati di controllare che le donne “si vestano in maniera consona, non si trucchino, non si mostrino in pubblico in compagnia di uomini che non siano i rispettivi padri, fratelli o mariti”3

esisteva un modo per “creare un piccolo spazio di libertà”4

e per questo “come Lolita” sfruttavano “ogni occasione per esibire la propria insubordinazione: lasciando spuntare una ciocca di capelli dal velo, insinuando un po’ di colore nella smorta uniformità delle divise, facendosi crescere le unghie, innamorandosi e ascoltando musica proibita”5. Anche in Les femmes au bain, la ribellione non si realizza attraverso gesti eclatanti ma in quelli piccoli della vita di ogni giorno, far finta di scrivere con la mano destra mentre si riservavo “les vers les plus beaux, des vers calligraphiés, à la main gauche”6, considerata “la main du diable et de l’enfer, la main qui essuie les parties honteuses du corps, la main sale, la main maudite”7

; realizzare come si faceva un tempo, come hanno insegnato madri e nonne hijab morbidi e raffinati con “mousselines colore superposées en bandes inégales”8, e soprattutto con colori diversi da quelli imposti “noir, marron, aubergine, gris”9 e con tessuti “lager, doux aux cheveux, au visage, à la main”10

; ricamare negli orli di questi hijab rivoluzionari “des vers qui parlent d’amour”11 poiché in questo modo possono

1 Ivi, p. 28. 2

https://it.wikipedia.org/wiki/Hijab, (ultima consultazione: 22.11.2015).

3 Nafisi, A., Leggere Lolita a Teheran, Milano, Adelphi Edizioni, 2010, p. 43. 4 Ivi, p. 42. 5 Ibidem. 6 Femmes, p. 45. 7 Ivi, p. 44. 8 Ivi, p. 53. 9 Ivi, p. 52. 10 Ibidem. 11 Ivi, p. 53.

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essere “belles malgré l’ordre d’être laides. On les regarderait, elles ne seraient pas invisible”1; c’è poi la disobbedienza che passa attraverso l’amore, la figlia che rifiuta i pretendenti scelti dal padre e decide di amare l’Étranger “généreux et raffiné”2

che le riserva e le dedica “musique, poèmes et chants”3

.

Questi gesti, queste astuzie femminili dimostrano che nello scenario fin qui descritto c’è ancora speranza perché quegli “hommes sans foi […] ils ont tué le corps mais ils n’ont pas tué l’âme”4

e l’atto di ribellione più grande è quello di far sentire la propria voce; “les femmes un jour proche, diront non à la comédie de la noce avec sa nuit sanglante”5 e si toglieranno il velo, quello stesso velo con cui il diplomatico turco copriva e scopriva L’origine du monde, non solo dai loro corpi ma anche dalle loro menti. Sempre Azar Nafisi scrive che quando le sue migliori studentesse arrivavano a casa sua il giovedì mattina per parlare di letteratura, “quasi ogni volta era difficile superare lo choc di vederle togliersi il velo e la veste per diventare di botto a colori. Eppure […] si levavano di dosso molto di più. Lentamente ognuna di loro acquisiva una forma, un profilo, diventava il suo proprio inimitabile sé. Quel piccolo mondo, quel soggiorno […] diventò il nostro rifugio, il nostro universo autonomo, una sorta di sberleffo alla realtà di volti impauriti e nascosti nei veli della città sotto di noi”6. Ed è proprio questo che succede nel bagno turco dove le donne sono apparentemente senza difese, nude, esposte, spogliate dei loro vestiti ma non della loro anima e della loro memoria. In questo luogo in cui si crea una comunità, les femmes passa a indicare una sorta di entità, un insieme di donne che parlano, piangono, hanno paura o ridono all’unisono, in cui tutte le rivalità, tra matrigna e figliastra, tra suocera e nuora, tra prima e seconda moglie, spariscono, le donne possono trovare la forza di seguire l’esempio di Santa Caterina che ha pagato con la sua stessa vita l’opposizione alla “tyrannie lubrique du plus puissant des hommes”7 ma non prima di aver discusso e argomentato il suo rifiuto con i filosofi scelti dal vecchio imperatore, avvalendosi quindi della parola; soprattutto si ricorderanno della loro antesignana Shahrazad, “la signora delle storie”8, che ha resistito alla morte con la sola forza del racconto, un potente strumento di ribellione che può 1 Ibidem. 2 Ivi, p. 8. 3 Ibidem. 4 Ivi, p. 79. 5 Ivi, p. 84.

6 Nafisi, A., Leggere Lolita a Teheran, op. cit., p. 20. 7 Femmes, p. 85.

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