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Capitolo 1

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Academic year: 2021

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Capitolo 1

Bioispirazione e biomimetica

1.1

Introduzione

La robotica moderna ha ormai abbracciato a pieno una concezione più ampia di quello che si intende per robot: non più una semplice macchina utensile costruita con lo scopo di alleviare, facilitare e velocizzare il lavoro umano, ma un sistema meccatronico in grado di generare e controllare forze, capace di resistere in ambienti ostili o pericolosi per l’uomo, di comportarsi in modo appropriato e di rispondere in maniera opportuna agli input esterni, senza recare alcun danno per l’operatore o per sé stesso.

Si sta in questo modo progredendo verso quell’immagine di robot in grado di fornire servizi utili di svariato genere e, allo stesso tempo, salvaguardare l’uomo e l’ambiente che lo circonda. In questo contesto, non più fantascientifico, si inserisce la robotica bioispirata, o biorobotica, che sfrutta l’idea di prendere spunto dalla natura e dai sistemi biologici per risolvere problemi di carattere fisico e tecnologico [1, 2, 3, 4]. L’incredibile varietà di specie animali, inserite in contesti ambientali diversi e con differenti storie evolutive, permette infatti di avere una ricchissima fonte di suggerimenti e di idee per la risoluzione di problemi e la progettazione di nuovi artefatti funzionali, caratterizzati da prestazioni superiori in termini di reattività, adattabilità, flessibilità, robustezza e stabilità. Sono molte infatti le similitudini che è possibile trovare tra animali e robot in termini di movimento e capacità sensoriali, ma anche per quel che riguarda il comportamento e l’utilizzo di sistemi di controllo dedicati all’esecuzione di task in ambienti dinamici e non strutturati.

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In realtà l’ispirazione alle soluzioni comportamentali presenti in natura non sono prerogativa esclusiva della robotica degli ultimi decenni: per esempio, le metodologie utilizzate per rendere possibile il volo sono derivate dall’analisi delle caratteristiche degli uccelli, già studiate da Leonardo da Vinci nel Rinascimento (Fig.1.2). Una volta che il volo è divenuto possibile i miglioramenti nelle tecnologie degli aerei hanno portato anche a capacità che eccedono quelle degli animali a cui ci si era ispirati.

Per descrivere questo vasto campo d’indagine, in cui biologia e tecnologia si influenzano in modo bidirezionale, Otto Herbert Schmitt, uno dei più grandi inventori ed ingegneri del secolo scorso, ha coniato nel 1969 il termine biomimetica (dal greco

bios, vita e mimesis, imitazione) [5, 6, 7, 10]. Questa scienza è appunto definita come

“ lo studio consapevole dei processi biologici e biomeccanici della natura, come fonte di ispirazione per il miglioramento delle attività e tecnologie umane; la natura viene vista come Modello (Model), Misura (Measure) e come Guida (Mentor) della progettazione degli artefatti tecnici”.

Fig.1.2 Bozzetto della “macchina da volo” di Leonardo da Vinci.

La biomimetica fornisce un campionario di idee e strumenti nuovi che altrimenti gli scienziati e gli ingegneri non avrebbero avuto: l’iridescenza delle farfalle e degli scarabei ed il rivestimento anti-riflesso degli occhi delle mosche per gli schermi degli smartphones; la lucentezza delle diatomee per i cosmetici; le protuberanze sulla coda della balena dalla gobba per i bordi d’uscita delle pale dei generatori eolici (Fig.1.3); la mobilità delle remiganti degli uccelli rapaci per le ali dei velivoli, capaci di cambiare la propria forma per ridurre la resistenza ed i consumi; la regolazione della temperatura, umidità e flussi d’aria nei termitai per la costruzione di edifici più confortevoli; la seghettatura della proboscide delle zanzare per gli aghi indolori delle siringhe ipodermiche [11].

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Fig.1.3. Esempio di biomimetica: la forma della coda della balena (a) ha ispirato il design delle pale nei generatori eolici (b); da [11].

La data di nascita di una bioispirazione più matura e consapevole si può far risalire al 1948, quando il chimico svizzero George de Mestral inventò il velcro (Fig.1.4): accorgendosi che i pallini spinosi di nappole che si attaccavano ai tessuti terminavano con dei piccoli gancetti, pensò di sfruttare lo stesso sistema e nacque così il sistema di aggancio ad uncino che ha trovato moltissime applicazioni nella vita quotidiana, dalle chiusure lampo, alle tute spaziali e agli stivali progettati dalla NASA per i suoi astronauti [10, 11].

Fig.1.4. Immagine del velcro, tessuto ideato da George de Mestral, e la sua fonte di ispirazione nel mondo vegetale, la nappola minore.

Il velcro è uno solo dei prodotti biomimetici che hanno trovato applicazioni a livello industriale; basti pensare al Lotusan, la vernice impermeabile e autopulente nata dagli studi del botanico Barthlott sulla foglia del loto, la quale ha una superficie autopulente

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e idrorepellente, grazie a delle micro e nanostrutture oleose che in unione con l’acqua, formano delle gocce che rotolando eliminano la polvere.

C’è poi il tessuto del nuovo costume Fastskin della Speedo (Fig. 1.5.a), messo a punto osservando la struttura della pelle di squalo, la creatura acquatica più veloce esistente sulla terra. La pelle di squalo è formata da squame dette “denticles” o dentelli dermici, che grazie alla loro forma, struttura e disposizione, riducono la resistenza dell’acqua, consentendone un fluire più rapido e quindi una maggiore velocità.

La Mercedes, per la sua concept car Bionic (Fig.1.5.b) si è invece ispirata al pesce scatola, un pesce tropicale che grazie allo scarso attrito datogli dai bordi della sua corazza simili ad una cinghia, è in grado di percorrere in un secondo sei volte la sua lunghezza. Ispirandosi a questa linea, la Bionic può percorrere 30 Km con un solo litro di benzina.

Questi sono solo alcuni dei molti esempi di come i design naturali sono stati utilizzati per applicazioni utili nel quotidiano ed in campo industriale; farne un sommario esaustivo è praticamente impossibile.

Fig.1.5. Esempi di biomimetica: il costume Fastskin della Speedo (a) e la concept car Bionic della Mercedes (b); da [11].

La robotica biomimetica ha però uno scopo ancora più ampio: essa infatti può essere intesa anche come l’applicazione della robotica allo studio dei sistemi biologici. Il suo scopo non è quindi solo quello di ispirarsi al mondo naturale, come lo è per la robotica bioispirata, ma a ciò aggiunge la sfida di fornire un utile strumento di verifica per le scienze biologiche. La robotica può, in questo senso, dare ulteriore conferma dei modelli biologici che sono serviti da ispirazione per la progettazione dei robot stessi: l’applicazione dei principi ingegneristici consente di sviluppare piattaforme fisiche equivalenti ai sistemi biologici, che possono essere usate per validare o confutare ipotesi fatte e non testabili direttamente sul sistema vivente [8, 9]. Un esempio di tale approccio lo si ha, per esempio, nel robot umanoide che viene impiegato come piattaforma robotica per validare un modello teorico di apprendimento sulla coordinazione senso-motoria dei neonati [9].

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Fig.1.6 . La relazione bidirezionale tra robotica e sistemi biologici secondo l’approccio biomimetico.

In questo contesto appare ancora più evidente l’importanza che assume un lavoro di collaborazione interdisciplinare tra biologia e robotica, secondo cui partendo dalle ipotesi e dalle conoscenze biologiche del sistema, si ricercano nuovi aspetti e caratteristiche con strumenti ingegneristici di tipo quantificativo, e si costruiscono modelli fisici per la validazione delle teorie di partenza e per lo sviluppo di sistemi innovativi da utilizzarsi in campo medico e industriale (Fig.1.7).

Fig.1.7. Schema rappresentativo delle diverse prospettive della biorobotica: il modello del sistema biologico può servire o a sviluppare un robot (il robot biomedico) che possa essere usato molto efficacemente per compiere azioni sul sistema biologico studiato, oppure per sviluppare un modello fisico molto realistico del sistema biologico studiato ( il robot biomimetico) da usarsi come un sofisticato strumento scientifico per studiare e validare il modello stesso del sistema biologico.

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1.2 Esempi di robot animaloidi

In sintonia con l’argomento trattato nel presente lavoro di tesi, ovvero la messa a punto di un prototipo in grado di muoversi in acqua secondo i meccanismi propulsivi dell’Octopus vulgaris, può essere utile riportare alcuni esempi di come recentemente le strategie locomotorie degli animali sono state studiate per produrre sistemi robotici mobili, detti anche animaloidi.

Uno dei primi esempi dell’utilità della collaborazione tra conoscenze biologiche e progettazione ingegneristica è il serpente robotico di Shigeo Hirose del Tokyo Institute of Technology, realizzato nei primi anni ’70 a partire dalle conoscenze biologiche riguardanti le modalità di locomozione senza gambe (Fig.1.8). E’ interessante notare come gli stessi principi cinematici sono stati utilizzati per la gestione dei gradi di libertà delle dita della mano cibernetica [14, 15], essendo anche questa un meccanismo sottoazionato con trasmissione a cavi.

Fig.1.8. Il serpente robotico realizzato dal Professor Shigeo Hirose, del Tokyo Institute of Technology ed il suo Soft Gripper, meccanismo sotto azionato a cavi che ha ispirato la presa adattiva della mano cibernetica, da [14].

Un ulteriore esempio dell’efficacia dell’approccio di collaborazione tra robotica e biologia è stato offerto dalla collaborazione tra le università di Berkley e di Stanford, che hanno realizzato una serie di robot capaci di muoversi in modo autonomo su terreni di diverso tipo grazie all’utilizzo di tecniche di stabilizzazione strutturale e del movimento ispirate a quelle degli artropodi [12]; studi condotti sugli scarafaggi hanno suggerito quindi i principi per progettare la famiglia degli Sprawl robots, robot stabili, veloci e capaci di correre (Fig.1.9).

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Fig.1.9. Studio analitico del meccanismo di locomozione degli scarafaggi per la realizzazione di robot esapodi (Sprawl robot) caratterizzati da alte prestazioni nella locomozione terrestre, da[12].

Un altro affascinante esempio da citare è lo StickyBot (Fig.1.10), il geco robotico, capace di muoversi su pareti lisce verticali in modo simile alla sua controparte biologica [12, 13, 16]. La caratteristica naturale del rettile che si è cercato di replicare è l’aderenza delle sue zampe: sui polpastrelli del geco si trovano due miliardi di filamenti per cm2, spessi circa cento nanometri ciascuno e che terminano in una struttura a spatola; queste strutture infinitamente piccole interagiscono a livello molecolare con la superficie su cui cammina il geco, generando l’interazione prodotta dai dipoli indotti delle molecole. Tale forza, detta di Van der Waals, benché debole a livello di singola interazione, moltiplicata miliardi di volte genera l’effetto finale che permette al geco di camminare a testa in giù su qualsiasi superficie e alla velocità incredibile di un metro al secondo. In realtà il prototipo messo a punto dall’università di Stanford dal laboratorio del ricercatore Mark Cutkosky, benché sia in grado di camminare su superfici verticali in plastica e su piastrelle di maiolica, non ha quasi nulla dell’agilità e della velocità del suo modello biologico; in ogni modo in un futuro prossimo Stickybot, superando i suoi limiti, potrebbe essere impiegato in operazioni di soccorso.

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Un altro prototipo interessante è l’MFI (micromechanical flying insect, “insetto micromeccanico volante”, Fig.1.11.a), che nasce dall’impegno di un professore di ingegneria elettrica dell’università di Berkley, Ronald Fearing [11].

Grazie all’assemblaggio manuale di minuscoli componenti, attualmente Fearing ha realizzato un robot in grado di riprodurre il battito d’ali del moscone ma non di effettuare un volo libero; il ricercatore conta di raggiungere questo obbiettivo nell’arco di circa tre anni; in futuro, una mosca robotica di questo tipo potrebbe essere impiegata in operazioni di sorveglianza o di ricerca e salvataggio.

L’ispirazione ai meccanismi di locomozione adottati nel mondo biologico parte anche da un livello microscopico: i batteri, ad esempio, con i loro flagelli, sono diventati molto importanti per lo studio di robot che possono muoversi all’interno del corpo umano. Ne è un esempio la serie di swimming micro-robots (Fig.1.11.b), studiati alla Carnegie Mellon University da Behkam e Sitti [17].

Fig.1.11. Il prototipo di MIF (micromechanical flying insect) di Fearing (a), da [11]; passi per la progettazione dei swimming micro-robots (b): dall’acquisizione di immagini di E.Coli con la TEM (Trasmission Electron Microscopy), alla progettazione di un micro-robot capace di muoversi per propulsione legata al movimento dei flagelli, fino alla futura realizzazione del micro-robot per applicazioni mediche; da [17].

In altri casi di studio ci si è invece ispirati ai meccanismi di locomozione ed adesione dei vermi per realizzare robot in grado di muoversi all’interno del corpo umano, per l’endoscopia [18]. Il punto di partenza per la progettazione di tali robot è la comprensione ingegneristica del movimento compiuto da tali animali, caratterizzato da alternanza di fasi di clamping e di avanzamento (Fig.1.12).

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Fig.1.12. Il metodo di locomozione del verme ispira il meccanismo d’attuazione lineare utilizzato per realizzare capsule endoscopiche, da [19].

Tutti questi esempi sono importanti perché permettono di comprendere che spesso sono proprio gli aspetti tecnologici che rappresentano il collo di bottiglia del meccanismo: la realizzazione di parti o interi sistemi di dimensioni micro e nanometriche è infatti stata possibile solo in seguito alla progettazione di nuove tecniche di fabbricazione dedicate. Ad esempio, proprio per la realizzazione dei robot ispirati agli artropodi, robusti e di dimensioni ridotte, è stata messa a punto nei laboratori della Stanford University una tecnica di micro-fabbricazione, la SDM o

Shape Deposition Manufacturing, con cui è possibile realizzare strutture a più strati

sopra un supporto ed integrare più componenti, come sensori e attuatori, alternando strati di materiali rigidi e soft [12]. Con la SDM è stato risolto il problema legato all’integrazione di componenti prefabbricati, non sempre facile da realizzare e soprattutto sottoposta al rischio che il risultato non sia poi sufficientemente robusto a seconda dello scopo. Lo stesso tipo di tecnologia è stata adoperata anche per la realizzazione della zampe del geco robotico, permettendo così l’integrazione di materiali polimerici e di fibre di carbonio.

Anche i sistemi di attuazione rappresentano una problematica rilevante in molte applicazioni robotiche e specialmente nell’ambito della robotica biomimetica, in cui, come precedentemente illustrato, si ambisce a sviluppare robot con capacità di locomozione comparabili con quelle degli organismi viventi.

L’utilizzo di attuatori convenzionali, come quelli pneumatici, idraulici ed elettrici, ha il vantaggio di basarsi su tecnologia conosciuta e collaudata, in quanto evoluzione dei motori usati nell’automazione industriale [19]. Tali attuatori sono dotati di grande precisione di posizionamento e capacità di sviluppare elevate accelerazioni ed elevati valori del rapporto potenza/peso, riuscendo a spaziare in un ampio range di velocità.

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Nell’ambito della biomimetica questi presentano però inconvenienti che li rendono inutilizzabili: sono eccessivamente pesanti ed ingombranti, non miniaturizzabili, intrinsecamente rigidi e possono dare problemi di surriscaldamento in condizioni statiche. La ricerca ingegneristica ha tentato negli ultimi decenni di aggirare il problema con lo sviluppo di nuovi materiali dalle caratteristiche sorprendenti, indicati in modo generico con il termine smart materials, in grado di sviluppare meccanismi d’attuazione del tutto alternativi. Ne sono un esempio le leghe a memoria di forma (Shape Memory Alloy, SMA) e nuovi materiali polimerici noti come EAP (electroactive polymers) [20, 21, 22].

In realtà i tempi molto lunghi di ricerca, la difficoltà di trovare applicazioni realmente pratiche per sistemi di questo tipo e soprattutto l’enorme complessità di quello che la natura ha assemblato nel corso di milioni anni di evoluzione, sono la spiegazione al fatto che la biomimetica non si sia ancora sviluppata al meglio delle sue potenzialità. Alcuni meccanismi naturali, nella loro apparente semplicità ed estrema eleganza, sono in realtà enormemente complessi, dei veri e propri rompicapi. Se ci soffermassimo però sui milioni di tentativi più o meno casuali fatti dalla natura e sottoposti a selezione per raggiungere il risultato ottimale in determinate condizioni, potremmo capire perché alcuni di questi meravigliosi rompicapi naturali potrebbero restare sempre tali.

Ecco che l’idea di copiare pedissequamente il mondo biologico non può avere successo, sia perché questo è troppo complesso per prestarsi a tale scopo, sia perché non è detto che le soluzioni adottate da animali o vegetali siano le migliori possibili per un robot. Sta all’intelligenza dell’ingegnere progettista ricercare spunti in natura che permettano di ottenere prodotti efficienti dal punto di vista tecnologico e che, soprattutto, abbiano la speranza di un qualche utilizzo pratico in tempi ragionevoli.

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1.3 Cenni di soft-robotics

I robot tradizionali sono costituiti da strutture rigide che limitano la loro libertà di agire nel proprio ambiente; non a caso nell’immaginario colletivo il robot è un’insieme di componenti metalliche in grado di compiere movimenti non fluidi. I convenzionali manipolatori robotici hanno infatti link rigidi collegati da giunti flessibili e possono manipolare oggetti solo per mezzo dei loro end-effector specializzati; spesso trovano difficoltà ad operare in ambienti non strutturati e congestionati e possono rappresentare un pericolo per gli operatori che devono lavorarvi nei dintorni.

In realtà la grande famiglia dei robot hard, rigidi, presenta delle sottoclassi caratterizzate da diverse capacità e finalità (Fig.1.13 e Tab.1.1); i più diffusi sono quelli non-ridondanti, che hanno cioè combinazioni uniche delle variabili cinematiche per permettere all’end-effector di raggiungere una data posizione nello spazio. Questi in genere sono usati in spazi di lavoro dedicati in cui devono realizzare movimenti ripetitivi e precisi, ovvero in ambito industriale. In questi casi la rigidità dei link è ottima, poiché carichi e vibrazioni non devono imporre deformazioni che compromettano la precisione di posizionamento del tip e manipolazione degli oggetti. Una categoria meno diffusa è quella dei robot hard ma iper-ridondanti, caratterizzati da un elevato numero di giunti oppure da materiali rigidi come leghe a memoria di forma che, termicamente sollecitate, possono avere deformazione continua e dunque infiniti gradi di libertà.

Negli ultimi dieci anni la ricerca robotica ha dato luogo allo sviluppo di soft robot, interamente complianti, o deformabili, in grado di offrire nuove opportunità rispetto a quelli tradizionali [23].

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Soft e hard robot sfruttano diversi meccanismi per avere destrezza nel movimento (Fig.1.14.a). I primi hanno infatti possibilità di deformazione distribuita per tutta la loro estensione, cosa che conferisce loro un numero di gradi di libertà teoricamente infinito. Questo fa sì che essi possano godere di uno spazio di lavoro tridimensionale e iper-ridondante all’interno del quale il tip del robot può raggiungere ogni punto con un infinito numero di forme e configurazioni.

In più i soft robot, rispetto a quelli iper-ridondanti ma rigidi, hanno l’ulteriore vantaggio di generare una piccola resistenza agli sforzi compressivi e dunque si possono adattare agli ostacoli senza rompersi; sono quindi adatti a trasportare carichi fragili e morbidi senza causare danno. Inoltre, grazie alle loro ampie possibilità di deformazione, possono introdursi all’interno di aperture e spazi più piccoli rispetto alle loro dimensioni nominali.

Queste ed altre peculiarità rendono i soft robot candidati ideali per interagire con le persone in spazi non strutturati; si pensa infatti di poterli usare come robot di assistenza domestica per disabili, per pulizia e pittura di ampi spazi, così da poter sfruttare la loro destrezza per raggiungere punti difficoltosi, ma anche come robot chirurgici o robot di difesa e salvataggio in grado di operare in ambienti sconosciuti. D’altro canto la gestione di un braccio robotico soft, come può essere quello ispirato al tentacolo del polpo, rappresenta una sfida molto più ardua di quella rappresentata dal comando di un braccio a link rigidi. La cinematica e la dinamica diretta e inversa dei sistemi hard è stata ampiamente sviscerata con la robotica del ‘900 [24], mentre quelle dei sistemi soft rappresentano un mondo ancora in gran parte inesplorato.

Ad esempio il sensing ed il controllo della forma di un robot soft è un problema piuttosto complesso (Fig.1.14.b): dato che la loro struttura è un continuum di materia non si possono usare strategie della robotica classica, in cui si risale al legame tra posizione dell’end effector e variabili di giunto grazie alla logica della cinematica diretta e inversa della convenzione di Denavit-Hartenberg [24], né tantomeno ci si può valere delle informazioni degli encoder posti ad ogni giunto rotazionale. Decidere quali variabili misurare e come usarle per controllare la mobilità della struttura può essere complesso.

Il controllo posizionale può essere reso ancora più difficile dal fatto che un braccio robotico soft viene deformato sensibilmente dal contatto con gli oggetti (Fig.1.14.c) ed inoltre non è dotato di un organo apposito per il grasping e la manipolazione, quale è invece l’end effector dei bracci a link rigidi, ma usa una larga porzione della sua struttura per circondare l’oggetto che si vuole afferrare, così da creare una superficie d’attrito sufficiente a sollevarlo (Fig.1.14.d).

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Fig.1.14. Capacità dei robot hard e soft: (a) destrezza; (b) percezione della posizione del tip; (c) manipolazione; (d) capacità di carico (da [23]).

La differenza tra robot hard e soft risiede anche nel tipo di attuazione: i robot a link rigidi possiedono un attuatore, in genere un motore elettrico per ognuno dei giunti; nei soft robot invece di solito gli attuatori sono integrati e distribuiti lungo tutta la struttura, andandone a costituire la parte principale. Il fatto che l’attuazione deve essere elemento sia funzionale che strutturale fa sì che i motori elettrici e gli altri attuatori della robotica tradizionale non siano utilizzabili in questi dispositivi alternativi. Per questa ragione sono preferiti, per tali applicazioni, sistemi d’attuazione innovativi, quali gli EAP (polimeri elettroattivi) e i PAM (pneumatic artificial muscle) [23]. Si ricorda che la vasta famiglia dei polimeri elettroattivi può essere suddivisa i due branche: quella degli EAP elettronici (elastomeri dielettrici, elastomeri elettrostrittivi, fogli elettrostrittivi, polimeri elettroviscoelastici, polimeri ferroelettrici ed elastomeri a cristalli liquidi) ed EAP ionici (nanotubi di carbonio, polimeri conduttivi, fluidi elettroreologici, gel ionici polimerici e composti polimeri ionici-metallici) [20, 21]. Gli EAP ionici operano a basso voltaggio ma richiedono costante idratazione, producono stress ridotti e sono soggetti a deformazione a fatica dopo pochi cicli di lavoro, cosa che limita la loro applicabilità. D’altro canto gli EAP elettronici producono sforzi maggiori, hanno tempi di risposta minori e sono più affidabili, ma necessitano di voltaggi di pilotaggio piuttosto elevati.

In generale i robot soft appartengono alla classe dei sistemi “sotto-azionati”, in cui cioè ogni attuatore è in grado di gestire più gradi di libertà, molti dei quali sono in realtà incontrollabili. Un esempio di sistema sotto-azionato di cui si è parlato nella sezione 1.2 è il soft gripper del professor Hirose [14, 15].

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Tab.1.1 Tabella riassuntiva delle caratteristiche dei robot hard e soft, da [23].

1.4 Bioispirazione nella soft-robotics

La soft robotics è il settore della robotica che ha maggior ragione di rifarsi al mondo biologico: sono molti infatti gli esempi in natura di strutture mobili fatte di materiali soft e caratterizzate da cedevolezza ed adattabilità. Le strutture muscolari idrostatiche, che saranno ampiamente descritte nel Capitolo 2, sono chiari esempi di sistemi soft in grado di fornire contemporaneamente forza e sostegno per il proprio movimento. Le proboscidi degli elefanti, le lingue di mammiferi e rettili ed i tentacoli dei cefalopodi sono dei “bracci robotici soft” naturali e come tali si è cercato di riprodurli in molti centri di ricerca [23].

Anche il mondo vegetale offre esempi di sistemi soft in grado di gestire il movimento: basti pensare alle fibre di rinforzo nella parete cellulare delle piante che permettono alla cellula di cambiare forma e di migrare se pressurizzata per osmosi. In realtà inizialmente le ricerche nell’ambito della robotica biomimetica hanno dato luogo a robot terrestri ed acquatici e manipolatori costituiti da materiali rigidi ma in grado di ottenere una flessibilità strutturale vagamente somigliante ai corrispettivi biologici, grazie ad una marcata iper-ridondanza dei gradi di libertà. Esempi di questo tipo [23] sono il manipolatore a proboscide di elefante sviluppato da Hannan e Walker nel 2001 (Fig.1.15.c) e tutti i robot-serpente derivati da quello del professor Hirose degli anni ’70 (Fig.1.15.b); sono stati realizzati anche numerosi robot acquatici in grado di replicare il movimento continuo ed oscillatorio del pesce pur avendo link

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rigidi, come il RoboTuna I e II del Massachusetts Institute of Technology (MIT) e l’Essex robot fish di Liu & al. del 2006 (Fig.1.15.a).

Fig.1.15. Robot animaloidi a link rigidi in grado di avere comportamento flessibile, da [53].

Contemporaneamente, grazie allo studio sempre più diffuso di materiali innovativi quali gli EAP ed i PAM, si è cercato di creare robot intrinsecamente complianti; come accennato nella precedente sezione, questi materiali sono in grado di fornire contemporaneamente struttura e meccanismo attuativo del robot [20, 21]. Ne sono esempi i microrobot flessibili, somiglianti a tartarughe, realizzati da Nie & al. (2006): questi possono strisciare e nuotare sott’acqua usando quattro zampe realizzate ed attuate con film di polimeri ionici conduttivi (IPCF); ma anche gel di EAP sono stati usati per fabbricare mani con dita flessibili (Otake & al., 2002) e robot geliformi animaloidi. In figura 1.16 si riporta un robot a stella marina, fatto in gel di EAP, che si muove sotto l’applicazione di un campo elettrico. Sono molti gli esempi che è possibile trovare in letteratura [23].

In realtà l’applicabilità di questi materiali innovativi in ambito robotico suscita delle perplessità per via dell’affidabilità e controllabilità scarsa, nonché per le richieste d’alimentazione elettrica richieste in alcuni casi e gli stress producibili in altri. Per incrementare le performance di sistemi di questo tipo è necessario non solo migliorare le caratteristiche dei materiali in sé, ma anche trovare delle soluzioni di design particolarmente smart, intelligenti; è proprio dall’osservazione della natura che si possono trovare ispirazioni utili in tal senso.

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Fig.1.16. Robot EAP geliforme a stella marina che si muove con l’applicazione di un campo elettrico, da [23].

Dunque, in conclusione, il fatto che fino ad ora i soft robot hanno riscontrato limitata credibilità è da imputarsi alla loro complessità di design, di attuazione e di controllo ed al fatto che, probabilmente, non si sono messi ancora a fuoco i reali vantaggi di questi sistemi; i robot tradizionali rigidi sono ancora preferiti poiché considerati più semplici ed affidabili. Eppure proprio dal mondo biologico, e nella fattispecie dai cefalopodi, deriva la prova che, soprattutto in acqua, organismi senza strutture rigide non solo non hanno limitazioni dall’assenza di un endo o esoscheletro, ma risultano invece avvantaggiati in termini di locomozione e manipolazione, potendo raggiungere senza danno locazioni remote dove invece animali “rigidi” non possono arrivare.

Questo conferma che i cefalopodi come l’Octopus vulgaris sono da considerarsi fonti preziose di bioispirazione per il design di robot acquatici.

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1.5 Progetto OCTOPUS

La scelta dell’Octopus vulgaris come fonte d’ispirazione per soluzioni robotiche innovative è ancora più sensata dal momento che l’animale, oltre ad essere un esempio di sistema soft estremamente versatile, è paradigma estremo di embodied intelligence [25], ovvero del principio per cui il comportamento adattivo dei sistemi biologici non dipende solo dal controllo nervoso ad alto livello, ma è anche estremamente legato all’interazione tra morfologia corporea ed ambiente.

L’Octopus vulgaris possiede infatti una destrezza degli arti ed una ricchezza di comportamenti che sembrano inspiegabili considerando la sua posizione nella scala evolutiva; secondo le teorie più accreditate queste eccellenti capacità di interazione con l’ambiente sono dovute alla particolare natura del suo corpo e specialmente l’alta destrezza è attribuibile alla forma ed alle caratteristiche meccaniche dei tessuti che compongono gli arti ed ai loro meccanismi di controllo neurale di basso livello. Ispirarsi al mondo biologico può quindi portare ulteriori vantaggi in ambito robotico, poiché può condurre alla riduzione della pesantezza del controllo in retroazione, tipica della robotica tradizionale: con idonee scelte di materiali e di design si possono infatti ottenere comportamenti adattivi “spontaneamente” indotti dall’interazione con l’ambiente. Questo principio è stato largamente adottato in un ampio range di approcci attuali per lo sviluppo di artefatti intelligenti [26].

Proprio in quest’ottica si colloca il progetto OCTOPUS, che ha come obiettivo la realizzazione di robot ispirati alla forma ed al comportamento del polpo, i quali potrebbero essere utilizzati in futuro per una vasta gamma di applicazioni come la ricerca subacquea ed operazioni di salvataggio e d’esplorazione difficili o pericolose per l’uomo; il progetto, presentato dalla Scuola Superiore Sant’Anna ed approvato dalla Commissione Europea nel 2008, è in svolgimento presso il Centro di Robotica Marina e di Tecnologie del Mare di Livorno e vede coinvolte altre cinque università europee e due israeliane.

OCTOPUS è dunque un progetto di esplorazione tecnologica che vuole dimostrare come sia effettivamente possibile colmare il gap tra il movimento artificiale e quello biologico, con l’obiettivo di produrre robot sempre più simili agli esseri viventi, almeno esteriormente, e quindi capaci di adattarsi alle più svariate condizioni ambientali.

Il team di OCTOPUS ha di recente realizzato un esempio di braccio robotico completamente soft ed attuato a cavi, in grado di mimare l’elevata destrezza del braccio del polpo [27]. Il braccio è costituito da una struttura conica in silicone, con cavi alloggiati all’interno e bloccati a diverse sezioni e sulla punta (Fig.1.17 e Fig.1.18); tali cavi, che simulano i muscoli longitudinali del braccio del polpo, possono essere attuati indipendentemente l’uno dall’altro dalla base, in modo manuale

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o grazie ad una piattaforma robotica costituita da servomotori ed ideata ad hoc per l’applicazione (Fig.1.19).

Fig.1.17. Braccio conico in silicone attuato a cavi.

Fig.1.18. Braccio in silicone rivestito con una guaina dotata di una doppia fila di ventose, per aumentare il livello di biomimesi rispetto al tentacolo dell’Octopus vulgaris.

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In base al numero di cavi ed alle sezioni coinvolte nella trazione si riescono ad ottenere diversi raggi di curvatura in più punti del braccio, cosa che consente di riprodurre un’ampia gamma di movimenti complessi, come il wrapping, ovvero l’attorcigliamento intorno ad un oggetto tipico dei tentacoli, con elevato livello di accuratezza. Tale prototipo evidenzia in modo marcato i vantaggi dei sistemi soft rispetto ai robot tradizionali a link rigidi: il braccio in silicone, essendo un continuum di materia, consente di gestire un elevato numero di gradi di libertà con richieste attuative minime; nel caso di un braccio robotico tradizionale iper-ridondante la gestione di movimenti così complessi avrebbe invece richiesto l’attuazione ed il controllo di un numero elevato di giunti.

Fig.1.19. Set up sperimentale del braccio, da [27]: (A) servomotori, due dei quali servono al movimento della base, che controlla l’orientazione dell’asse longitudinale del braccio; gli altri servono ad attuare i cavi del mock-up; (B) il braccio e la base aggiustabile; (C) il board di controllo.

Per riprodurre altri comportamenti del braccio, quali l’allungamento e lo stiffening, è stato realizzato un secondo prototipo con elementi aggiuntivi adibiti a rappresentare anche i muscoli trasversali del braccio del polpo [27]. Le caratteristiche della muscolatura del braccio, tipiche di un sistema hydrostat, saranno ampiamente discusse nel Capitolo 2; per il momento, per la comprensione del funzionamento del prototipo, basti sapere che i muscoli longitudinali e trasversali possono operare in maniera antagonista e che la loro azione congiunta è in grado di produrre l’irrigidimento di porzioni del braccio.

Il secondo mock-up prevede, oltre ai cavi longitudinali del prototipo precedentemente descritto, una serie di molle SMA poste su diverse sezioni del braccio e che si attivano (Fig.1.20). Nel momento in cui le molle si accorciano, provocando una strizione radiale su più sezioni, il braccio si allunga poichè, in accordo con le caratteristiche

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fondamentali del muscolar hydrostat che rappresenta, deve mantenere volume costante; se invece si attivano contemporaneamente le molle radiali ed i cavi longitudinali si ottiene un comportamento combinato che produce lo stiffening del braccio, proprio come avviene nel caso di contrazione contemporanea dei muscoli antagonisti nel braccio del polpo.

Per rendere più agevole il funzionamento degli attuatori trasversali, la struttura in silicone è stata rimpiazzata con una braid, dotata di una particolare trama progettata in modo da rispondere a compressione radiale con un allungamento longitudinale.

Fig.1.20. Secondo prototipo di braccio, dotato sia di cavi longitudinali che di molle SMA ad attivazione radiale; si noti la braid che sostituisce la struttura in silicone del primo prototipo.

Sempre nell’ambito del progetto OCTOPUS è stata sviluppata una piattaforma per testare il meccanismo di locomozione “a spinta” del polpo su una superficie piana e rigida, come il fondale marino [28]; tale meccanismo è basato su una successione di movimenti coordinati di accorciamento ed allungamento della parte prossimale del braccio.

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In questo caso il sistema d’attuazione all’interno della struttura a cono in silicone è costituito da cavi integrati che non ne alterano la cedevolezza complessiva: sono presenti un cavo d’acciaio flessibile per l’allungamento e l’accorciamento (Fig.1.19.a) ed un cavo in polietilene ad alta densità (fibra Dyneema) per il bending ed il grasping (Fig.1.19.b); quest’ultimo mima la funzione dei muscoli longitudinali dell’Octopus

vulgaris. Il controllo fine della trazione dei cavi è realizzato tramite idonei motori.

E’inoltre in fase di studio una piattaforma più complessa, in grado di controllare il movimento contemporaneo di otto braccia siliconiche attuate secondo il principio descritto: riuscendo a coordinare le fasi di allungamento-accorciamento delle varie braccia, sarebbe infatti possibile mimare il movimento di crawling di un polpo completo sul fondale marino.

Fig.1.19. Dimensioni (in mm) e struttura interna del braccio soft; per una miglior comprensione gli elementi sono rappresentati separati: in (a) è mostrato il cavo flessibile in acciaio, in (b) è mostrato il cavo Dyneema, da [28].

Tuttavia l’Octopus vulgaris può essere eccellente fonte di ispirazione progettuale non solo per quel che riguarda la destrezza e l’adattabilità dei suoi arti, ma anche per quel che concerne le sue abilità locomotorie in mare aperto. Per questa ragione, sempre parallelamente al progetto OCTUPUS, è attivo il progetto CDF-OctoProp, nel quale è in fase di studio la realizzazione di un robot in grado di fungere da propulsore in acqua secondo la logica della propulsione a getto del polpo e che, proprio come questo, deve essere completamente soft (fatta eccezione per il meccanismo attuativo) e dunque morfologicamente adattabile.

L’ottenimento di un sistema innovativo di questo tipo, scopo del presente lavoro di tesi, potrebbe aprire nuovi orizzonti rispetto alle attuali tecnologie riguardanti i veicoli sottomarini in controllo remoto, da utilizzarsi per le più varie applicazioni.

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