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Capitolo 5: La messa in scena di

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Capitolo 5: La messa in scena di Zangezi.

Tatlin inizia a lavorare in ambito teatrale in giovane età: nel 1911 viene

assunto come costumista e scenografo dell’opera Car’ Maksimiliam, che

debuttò a ottobre, portato in scena dalla compagnia “Tragica Commedia

Popolare” (Syrkina 1988, in Zhadova 1988, pag. 155). Nonostante Tatlin

non ebbe un ruolo determinante nella messa in scena, nelle sue scenografie

dimostra però una profonda conoscenza del folklore russo e decise di

esaltare il lato grottesco e buffonesco dell’opera:

Tatlin, while making the sets and costumes for Tsar Maximiliam, used much of the style both of the design and the text of Russian miniatures on sale in the market-place. These pictures were characterized by an unrepeteable synthesis of impudence, vulgarity of expression and moral purity. One of the costume sketches shows Tsar Maximilian as a Russian peasant with a ginger beard being shorn ‘under an earthenware pot’: clad in a Russian peasant shirt, with underpants made of printed material and a pair of white felts boots. He is a typical popular comic figure, a parody of the Tsar, with the suggestion that he puts his royal garments simply on top of his everyday peasant clothes. (in ibidem).

Lavorerà in seguito per la messa in scena dell’opera di Glinka Ivan Susanin,

una vita per lo Zar’ (nel 1912), in cui la sua sperimentazione grafica sarà

fortemente influenzata, stavolta, dalle idee cubofuturiste e dalle icone russe:

In accordance with the spirit of his counter-reliefs, he elaborated the flat surface of the sketch as a three dimensional composition. Instead of painted screens, two simple wooden huts resting on ochre-coloured wooden platforms framed the stage. […] The porch roof was extended, so that it could be used as another level of action. All along the back of the stage there was a building in light colours, behind which, framed by the blu-black sky, stretched triangles and parallelograms

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of greenish-yellow roof above the walls of hardly distinguishable buildings. (in ivi, pag. 157)

Nonostante il simbolismo quasi eccessivo della rappresentazione,

«The place of action was accurately determined by the carved window frames and the porch roof. At the same time the roofs and the tense rhythm of the strongly geometric architecture (all in colours ranging between ochre brown, blue, green and black) evoked a tragic athmosphere […].» (in ibidem)

Le stesse tecniche artistiche utilizzate in pittura e scultura sono quindi

utilizzate da Tatlin anche nella rappresentazione teatrale. Questa

scomposizione spaziale e cromatica viene utilizzata sia per aumentare il lato

grottesco della vicenda sia per differenziare le varie parti del palco e

l’azione scenica.

Oltre a considerare la Faktura dei materiali, Tatlin elaborerà altri due

assiomi per la preparazione degli oggetti scenici, che aveva elaborato

durante la preparazione dei controrilievi:

«Their composition [dei controrilievi] depend on tektonica (“tectonics” or buildings up of the material) and konstruktsija (“construction” or organization of the material.» (in Harrison Roman 1981, pag. 110)

Nel suo trattato sul Costruttivismo, Gan descrive così la tektonica:

La tettonica, o stile tettonico, emerge e deriva organicamente, da un lato, dalle caratteristiche dello stesso comunismo e, dall’altro, dall’uso funzionale dei materiali industriali. Il termine «tettonica» deriva dalla geologia, dove viene usato per definire le eruzioni provenienti dal centro della terra. La tettonica è sinonimo di organicità, di un’esplosione dall’intimo. La tettonica, intesa come disciplina, deve condurre in pratica il costruttivista a una sintesi tra contenuto nuovo e forma nuova. Egli deve essere un uomo colto in senso marxista […]. La tettonica è la sua stella polare, il cervello dell’attività sperimentale e pratica. Il

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costruttivismo senza la tettonica è come la pittura senza colore. (Gan 1920, in

Quilici 1969, pag. 248. Il corsivo è del testo originale)

E descrive così il concetto di konstrucija:

«La costruzione va intesa come la funzione coordinatrice del costruttivismo. Se la tettonica comprende in sé il nesso ideologico formale, dandoci come risultato l’unità del compito che ci si è proposto, mentre la fattura [faktura] è la condizione stessa del materiale, la costruzione dischiude il processo stesso dell’edificazione.» (da ivi, pag. 249).

Tatlin sarà coerente con questi principi in tutta la sua attività teatrale: le

scenografie e gli spunti che utilizzerà nelle messe in scene teatrali che

produce saranno sempre intrisi sia di un “estetismo” volto all’educazione

pedagogica del pubblico, sia a una attenzione quasi pedantesca per la

divisione ottimale del proscenio e dell’azione scenica (prendendo spunto

dai suoi stessi giochi di interpretazione cubista).

Uno dei progetti più accattivanti di Tatlin (ma mai realizzato) fu quello per

la messa in scena del 1915 dell’Olandese Volante di Wagner (che coniò,

ispirato dalle idee del filosofo K. F. E. Trahndorff, l’idea di

Gesamtkunstwerk, ossia Opera d’arte totale, in cui ipotizza un fondersi

armonico di tutte le forme d’arte nella forma del dramma teatrale: questo

concetto non fu estraneo, probabilmente, neanche a Chlebnikov, cfr. Grübel

1986, in Weststeijn 1986, pag. 454-462). Per la messa in scena dell’opera

Tatlin painted on a horizontal canvas taking into account the proportions of the stage. The Cubo-Futurist set was built out of yellowish-grey timbers which gave the impression that the deck had gone through a violent shipwreck disaster; above it were sloping, silvery masts, yellowish-black hanging sails, and huge masses of blue-black sea and sky. The tempest was created by a rhythmical Whirlpool of waves which constantly unbalanced the ship and which the sloping, almost

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horizontal masts could no longer keep in control. (Syrkina 1988, in Zhadova 1988, pag. 160)

Non solo la scena, ma anche i costumi hanno un’impronta dinamica, come

se la tragedia rendesse impalpabili nel loro movimento i protagonisti del

dramma: la tempesta esterna si riversa così anche sui personaggi.

«The costumes are designed as rhythmically as the sets. The huge figure of the helmsman wears a massive dark robe, long boots and hat. His body and the steering-wheel build one single complex.» (in ibidem)

La particolare concezione dell’uso della scenografia che fa Tatlin sarà

complementare e (allo stesso tempo) diversa dall’uso che ne faranno altri

artisti a lui contemporanei.

Mejerchol’d, per esempio, collaborò con Tatlin, ma sembra che i due artisti

non fossero sempre sulla stessa lunghezza d’onda:

In 1916, while working with Meyerhold on the film Spirit Magic, Tatlin proposed to replace the director's idea for a “mystical tree” with “a great ship's mast with all the proper naval attributes-the rigging and the observation turrets. You can clamber all over the mast, that is, all over the tree....” Apparently Meyerhold was “horrified”. (in Rowell 1979, pag. 103)

Questo perché, nonostante le evidenti influenze dell’avanguardia pittorica e

scultorea russa di quegli anni sulle sue riduzioni teatrali, Mejerchol’d sarà

sempre più legato a una sperimentazione sul corpo dell’attore piuttosto che

su ciò che lo circonda. Tramite il concetto di Biomeccanica, il regista

teatrale porta avanti l’idea che il corpo stesso dell’attore deve diventare

protagonista dello spazio scenico. Attraverso esercizi muscolari decisi e

controllati, deve diventare un tutt’uno con la rappresentazione e utilizzare il

proprio corpo per comunicare, in tutte le sfaccettature possibili, quello che

avviene sia dentro l’animo del protagonista sia quello che sta accadendo

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intorno a lui. Per riuscire in questo intento, Mejerchol’d inventa una serie di

esercizi fisici basati sulla ginnastica, che aiutano l’attore a calarsi meglio

nel ruolo predisposto e a controllare al meglio la respirazione e gli arti. Ciò

non significa che la biomeccanica consista in salti e altri movimenti ginnici

sul palco. La concentrazione dell’attore deve essere guidata verso una

recitazione adeguata, che può essere sia sopra le righe e grottesca, sia

pacata. Mejerchol’d insisterà, nei suoi scritti teatrali, sul concetto di

prerecitazione, ossia sui gesti sobri ma emotivi che un attore deve utilizzare

per suscitare nel pubblico un certo tipo di reazione istintiva (per esempio,

per suggerire una situazione di repressione e potere disumano, il

personaggio anziché camminare sulla scena può iniziare quasi a marciare:

cfr. Mejerchol’d 1977, pag. 18-19).

Sul ruolo dell’attore sulla scena Mejerchol’d scrive:

Nel campo dell’arte dobbiamo sempre preoccuparci di organizzare il materiale. Il

costruttivismo [corsivo mio] esige dall’artista che egli diventi anche ingegnere.

L’arte si deve fondare su basi scientifiche, l’intera creazione dell’artista deve diventare cosciente. L’arte dell’attore consiste nell’organizzare il proprio materiale, cioè nella capacità di utilizzare in maniera giusta i mezzi espressivi del proprio corpo. (in ivi, pag. 62)

In alcuni dei suoi spettacoli sono evidenti gli spunti grotteschi, le minuzie e

il gusto per il dettaglio presenti all’interno dei progetti e dei bozzetti di

Tatlin, per esempio nella sua messa in scena di Les (La foresta) di

Aleksandr Ostrovskij. Questo indica anche che gli artisti che lavoravano in

ambito teatrale cercavano di smitizzare e dare una dimensione di scherzo a

una realtà borghese che era diventata fin troppo opprimente:

I personaggi, trasposti su un piano grottesco e iperbolico, si cambiarono in maschere sociali, non molto diverse dai «puri» di Misterija-buff. Il possidente Milonov, mutato in pope untuoso, con una parrucca di canutiglia d’oro, aveva

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dipinta sulle orbite una raggiera di ciglia a forme di strisce, come certe immagini delle icone. […] Una parrucca rossiccia faceva della dispensiera Ulita una «clownesse» eccentrica. […] Il mercante Ivan Vos’mibratov, simile ai goffi pupazzi della ROSTA, sfoggiava una barba di pecora nera e una parrucca di rosso montone. […] Mejerchol’d seppe trarre dunque dall’intreccio di Ostrovskij spunti di buffoneria grottesca […]. (in Ripellino 1959, pag. 133)

Anche se sembra che il regista sia totalmente d’accordo con le idee espresse

da Tatlin (cosa che si nota, come già detto prima, nella cura delle

scenografie che lui stesso impone a chi collabora con lui), Mejerchol’d in

realtà vede la scenografia come un qualcosa a parte della rappresentazione,

che può aggiungere significato solo in relazione a quello che l’attore

propone con il suo corpo. È l’attore l’unico e solo protagonista della scena,

il resto è un contorno che entra in relazione con lui solo se è lui a

desiderarlo. Anche se Mejerchol’d userà molti spunti della corrente

costruttivista nel suo teatro, non concepirà mai la scenografia come parte

autonoma nella rappresentazione. Sarà sempre legata in maniera

indissolubile al lavoro dell’attore:

L’attore riunisce in sé sia colui che organizza, sia ciò che viene organizzato (cioè l’artista e il materiale)[corsivo mio]. La formula dell’attore consisterà nella

seguente espressione: N = A1 + A2 , dove N è l’attore, A1 è il costruttore, il quale

formula mentalmente e impartisce l’ordine per la realizzazione del compito, A2 è

il corpo dell’attore, l’esecutore che realizza l’intento del costruttore (A1). L’attore

deve allenare il proprio materiale, cioè il corpo, affinché esso possa eseguire gli ordini ricevuti dall’esterno (dall’autore, dal regista). (in ibidem)

Quella che vuole rappresentare Mejerchol’d è un’epoca inquieta, di

trasformazioni veloci e complesse:

In armonia con gli intenti di questa corrente [il costruttivismo], Mejerchol’d, proseguendo la lotta contro le tele di ragno psicologiche e l’angustia delle «riviviscenze» [il suo teatro si contrapponeva in modo polemico a quello

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teorizzato da Čechov], escogita la Biomeccanica […]. L’attore dovrà abituarsi a dominare il proprio «apparato biomeccanico», coordinandone i moti con uno scrupolo algebrico che tuttavia non escluda l’incanto della scioltezza. […] La biomeccanica offre all’interprete un codice di movenze essenziali, una riserva di gesti, alla quale egli attingerà per interessere con leggerezza d’ombra le proprie trame cinetiche.(in Ripellino 1965, pag. 283)

Anche Tatlin ha lo stesso obiettivo, ma la sua è un’esaltazione pedagogica

di una realtà urbana in continuo divenire, che però non perde il legame

profondo con il passato e con la natura stessa. Questo è evidente nella

messa in scena di Zangezi, in cu Tatlin non ha difficoltà ad applicare le

proprie idee artistiche, non troppo dissimili da quelle chlebnikoviane:

Zangezi is Khlebnikov’s last work. His dream about the future of mankind takes

shape above all in daring word-creations. The poet uses the words of the philosopher and prophet Zangezi to open up, for the benefit of ignorant people, the secrets of the universe, nature and society, with the help of a ‘universal language’ comprehensible to everyone. […] The architectonic strictness of the work’s structure, the visual architectural character of the word-creations, the perfection of faktura, helped the artist to create a form of correspondences among the objects. ‘Parallel to the word structure’, Tatlin declared, ‘I decided to introduce a material construction’. ( Syrkina 1988, in Zhadova 1988, pag. 161)

Tatlin descrive così la progettazione dell’opera:

As a theme I chosen Khlebnikov’s last work to be published before his death. This piece constitutes the peak of Khlebnikov’s production. In it, his investigations of the language and of the laws of time have fused together in super-new form… The Zangezi production i sto be realized on the principle that the “word is a building-unit, the material a unit or organized space”. Khlebnikov himself characterized his supernarration as an architectural work built of words. He regards the word as a plastic material, whose properties make it possible to operate with it to build up “a linguistic state”. The attitude of Khlebnikov’s gave me the opportunità to work in

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staging it (Zangezi). I decided to make a material construction that would be parallel to his word-constructions. This method enabled me to fuse the work of two men into one unity, despite their different specialties […] and to make Khlebnikov’s work comprehensible to the masses… To emphasize the nature of these sounds (of the text), I use the surface of different materials in a variety of ways… I have had to introduce machinery which, by its movement, forms a parallel to the action and fuses with it… (Harrison Roman 1981, pag. 117)

Per stessa ammissione di Tatlin il lavoro di Chlebnikov diventa lo

strumento perfetto per esaltare al massimo l’ideale costruttivista di

costruzione di un mondo nuovo. Se il “poemetto” rappresenta la summa del

lavoro chlebnikoviana, anche per Tatlin la messa in scena di esso

rappresenta l’apoteosi di un certo modo di vedere l’arte, di interpretare la

vita e di costruire il reale che ci circonda. L’opera drammatica diventa

strumento di azione sul mondo che circonda l’artista: tramite la

riproduzione su scala ridotta e teatrale di un mondo nuovo, i nuovi assiomi

che lo compongono prendono finalmente vita.

Dopo aver preparato numerosi bozzetti e schizzi per disegnare il

palcoscenico, decise di disporre così lo spazio sul palcoscenico:

Tatlin erected three tree- trunk masts, one on each side of the wings [tutte di diverse dimensioni]. Corresponding to the one which is placed stage left in the foreground, there is a stretched parallelepiped on the right. On the most sloping ‘mast’ further back to the right (two figures, presumably from the cast, sit under it) is a pointed branch ending in a thin, living pine twig. An arrow shows the directions in which it is moving. In the background is part of a mast’ which is bent down like a fallen tree. (in ibidem).

Tatlin comunque semplificherà, alla fine, alcune parti della scenografia:

«Tatlin used more simple, flat surfaces instead of three – dimensional forms. He put up three screens in the wings, three on each side of the stage. […] The two

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most important constructed elements of the set were placed centre-stage front.» (in ivi, pag. 162)

Come detto prima, in questo lavoro saranno rispettato a pieno i concetti

artistici di Tatlin:

Tektonica is employed in the overlap of planes so as to create the illusion of

space. […] Konstruktsija emphasized the dynamic nature of the stage sets, especially in the tower that dominates the Forest setting of Zangezi. Inclined on an acute axis […] this element was to have benne mechanized so that it could be incluned throughout the play at different angles and to cast a variety of shadows (in an extension of faktura). Tatlin thus espresse the Constructivist interest in dynamism that played a role in his artistic conception and production since the middle teens. (in ivi, pag. 118)

Il dinamismo degli alberi e delle costruzioni sul palco, costruite come

controrilievi sospesi in aria, che puntano verticalmente verso l’alto (cfr.

ibidem), era garantito da alcune macchine che avrebbero fatto muovere le

varie parti sul palco, in modo da garantire sia una divisione dell’azione, sia

di dare l’impressione che le parole pronunciate da Zangezi (sulla punta più

alta delle strutture) cambiassero in tempo reale lo spazio scenico, rendendo

evidente il tentativo chlebnikoviano di cambiare lo spazio e il tempo

attraverso un uso mitopoietico del linguaggio (in ivi, pag. 119-120).

Il regista introduce apparecchi speciali che con il loro movimento accompagnino e si fondano all’azione; guida l’attenzione del pubblico con un proiettore, “che scivola lentamente da un posto all’altro stabilendo l’ordine e l’unità e mettendo in evidenza le qualità del materiale” [cit. dall’articolo di Tatlin “O Zangezi”, pubblicato in Žizn’isskustva, n. 18, 1923] (Solivetti 1985, pag. 70)

Uno dei protagonisti, un “progettista”, avrebbe dovuto avere un ruolo

fondamentale nella rappresentazione, perché

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«The constantly moving shadows it threw made the action more dynamic. The same spotlight served, presumably, to enliven the texture of the materials.» (in Syrkina 1988, in Zhadova 1988, pag. 162)

Sembra che tra gli interpreti stessi dell’opera ci dovessero essere delle

misteriose macchine, ma non ci sono arrivate tracce a proposito (cfr. in

ibidem).

Sulla costruzione dello spazio scenico la Solivetti scrive:

Considerando ‘chlebnikovianamente’ le parole come ‘materiale plastico’ […] Tatlin realizza, in parallelo alla creazione verbale operata dal poeta, una costruzione spaziale di superfici di forme e materiali differenti, che enfatizzino la natura dei diversi suoni. Piani verticali, orizzontali e curvi, fatti di legno, ferro e vetro, con lettere e numeri sopra impressi, sono collegati da corde e funi a una superficie-supporto inclinata e creano sulla scena un controrilievo di ampie proporzioni. Come un “raggio di luce” la canzone della “lingua stellare”, letta da Tatlin, in cima al controrilievo scende verso il basso a ‘illuminare’ la folla. Una serie di forme ‘a scala’ inserite in un arco suggeriscono il movimento nello spazio e nel tempo. (Solivetti 1985, pag. 70)

Per enfatizzare il gioco spaziale di luci e ombre Tatlin deciderà di usare un

gioco di luci alternate:

«The colored lights that were toh ave been projected onto the set […] were designed by Tatlin not only to evoke a mood appropriate to the play’s themes but also to emphasize the variabilità, dynamism and texture of the environment.» (Harrison Roman 1981, pag. 119-120).

Anche i costumi di scena, naturalmente, furono disegnati e cuciti seguendo

le direttive costruttiviste: dovevano integrarsi anche con il resto della

scenografia, per creare un gioco cromatico armonioso.

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The costumes for Zangezi were based on simple geometric shake that recall Malevich’ designs for Pobeda nad solntsem in 1913 but were especially intended for visual integration with the sets. The colors of brown and white were to dominate in order to facilitate repetition of the colors of the set itself: natural brown of several types of wood dramatically offset by white-washed sections of wood. The white sleeve sto be worn by some of the actors were intended to provide a visual counterpoint to the dark color of the resto f the costumes. Thus, they would funciton as “areas of light” in a dark environment”, paralleling these tonal effects in the sets. (in ibidem)

Un discorso a parte invece meritano invece i costumi per il Dolore e il Riso,

protagonisti dell’ultima parte dell’opera:

The existing costume-designs are, in line with the spirit of the sets, simboli and Constructivist in their execution. The actors’ faces were covered by masks. ‘Repentance’s mask was a triangle pointing downwards without either nose or mouth, the eyes were holes densely lined with black circles: resembling a tragic gasmask. The front of the costume was a wooden board covering the whole body except for the bare legs. […] The bare legs of the figure symbolized the poverty of a beggar, the board a coffin-lid and the gasmask the symbol of war. ‘Laughter’s’ mask was a cylinder rounded at both ends, the openings for the eyes were two straight lines, the ‘stubby’ nose formed a perfect triangle and its laughing mouth a wide semicircle. […] Tatlin’s ‘Laughter’ wore a white shirt, black trousers, a belt and bast shoes like a peasant. The figure is drawn as a construction depicting the ‘hammer and sickle’, with the head –mask forming a part of this emblem [per simboleggiare, oltre al Riso, anche la Felicità della vita sovietica].»(Syrkina 1988, in Zhadova 1988, pag. 163).

L’attenzione data a questi due costumi è indice della volontà di Tatlin di

rendere evidente a un pubblico inesperto il testo di Chlebnikov anche

tramite un simbolismo piuttosto evidente. Per aiutare ancora di più lo

spettatore, secondo il critico e poeta transmentale Aleksandr Tufanov,

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«‘On the stage there are machines, a stage-light and a tower for the hero of the poem Zangezi. In the middle stage there is a board inscribed people, while at the far end of the hall above the audience similar boards say “birds” and “gods”. [Poco prima della fine dello spettacolo] a canvas unfolds above the stage with the inscription: 28 June 1922 [la data della morte di Chlebnikov].» (in ibidem)

È evidente l’intenzione di Tatlin di concentrare le sue forze sullo sfondo

che si stendeva sul palco, piuttosto che sugli attori che avrebbero dato vita

al testo di Chlebnikov. Furono scelti pittori e studenti di accademie dell’arte

e di laboratori tecnici, senza alcuna esperienza di teatro. Tatlin giustificherà

così questa scelta, che lo pone distante dalle idee di Mejerchol’d

sull’importanza dell’attore e della sua presenza sul palco:

«“This is intentional […] professional actors have been brought up in the traditions both of the old and of the contemporary theatre. Zangezi is something too new to be subjected to existing traditions, whatever they are.”» (in ibidem).

Lo spettacolo debutterà tra il 9 e il 30 maggio 1923 ( Syrkina scrive che lo

spettacolo verrà rappresentato tre volte: l’11, il 13 e il 30 maggio, ma

Harrison Roman scrive di una sola rappresentazione il 9 maggio: cfr.

Syrkina 1988, in Zhadova 1988, pag. 164 e Harrison Roman 1981, pag.

122). Accompagnato dalle musiche del giovane compositore Yakov

Druskin, l’opera sarà descritta da Nikolaj Punin come un evento

fondamentale per la storia teatrale russa, esaltando la bravura di Tatlin nel

cercare di portare in scena un testo complicato come quello di Chlebnikov e

per la felice sintesi delle sue teorie artistiche con quelle chlebnikoviane (cfr.

Zhadova 1988, pag. 395-396).

Sfortunatamente, nonostante i commenti entusiasti di Punin, così come altri

progetti di Tatlin in precedenza, lo spettacolo si rivela un disastro. Gli attori

si rivelarono inadeguati nel loro ruolo e non riuscirono a dare un senso

adeguato al testo recitato. Non ci fu alcun tipo di movimento da parte della

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scenografia del palco a causa di un guasto tecnico poco prima dell’apertura

del sipario e le luci erano inadeguate per i giochi di luce pensati da Tatlin

(cfr. Roman Harrison 1981, pag. 123). Per di più, come fa notare lo stesso

Punin

[…] people were saying: ‘We have not understood a single word.’ […] Tatlin did everything to facilitate the understanding of the production: the actors were students of the College of Mining and the Academy of Arts and not professionals, in order to avoid distracting the audience from the poem itself and obscuring its meaning through actors’ mannerisms; commentators explaining the poem were introduced; finally, Tatlin himself provided a simple and clever parallel to the linguistic material of the poem with the paintings produced in his studio. And all that proved insufficient. People failed to understand the most significant part – the one that did not even seem capable of causing any perplexity and should have been self evident. (in Zhadova 1988, pag. 395).

Scrive a proposito la Solivetti:

La rappresentazione viene apprezzata come un coraggioso tentativo di interpretare le idee e le opere di Chlebnikov, ma è criticata per la mancanza di azione […]. Teatro dinamico, ma non d’azione: il carattere spettacolare di Zangezi è nella messa a nudo dei procedimenti di montaggio delle varie superfici in una unica struttura scenica, che presenta una sequenza di avvenimenti-procedimenti inediti e imprevisti sui temi della lingua e della storia. Zangezi non è che “un magnifico carburante per la macchina teatrale, ma è necessario inventare un motore completamente nuovo.[cit. da Jutkevič 1923, in “Lef” n.3]. (Solivetti 1985, pag. 70)

La riuscita della messa in scena non è comunque fondamentale:

l’importante nel progetto di Tatlin era quello di dimostrare che una sintesi

tra arti figurative e arti verbali è possibile e che questa unione armonica è

capace di cambiare il mondo e ciò che gli sta intorno, anche solo in ambito

teatrale.

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Dopo la messa in scena di Zangezi, Tatlin si allontanerà dal teatro per

lavorare con impegno presso varie accademie d’arte (tra cui lo Vchutemas),

per poi riprendere a lavorare come scenografo in più di venti messe in scena

dal 1933 al 1952. Collaborerà con importanti teatri moscoviti e

pietroburghesi alla produzione di riduzioni dirette da registi come Tairov

(cfr. Zhadova 1988, pag. 324), ma non sperimenterà più come un tempo.

Zangezi verrà ripresentato in ambito teatrale solo in tempi recenti. Il regista

Peter Sellars ripropose lo spettacolo nel 1986 all’Ahmanson Auditorium del

Museo di Arte Contemporanea di Los Angeles. La traduzione del testo fu a

cura di Peter Schmidt (cfr. Delgrado-Valentini 1999, pag. 168). Dalle poche

informazioni disponibili, che sono ancora meno delle informazioni

disponibili sulla messa in scena di Tatlin (sono reperibili negli archivi

online solo alcuni articoli in forma parziale sullo spettacolo e il regista

stesso non discute mai della sua reinterpretazione del testo chlebnikoviano

nelle interviste) sembra che Sellars abbia deciso di modificare radicalmente

l’ambientazione del testo, forse non cogliendo fino in fondo il naturalismo

profondamente radicato nella tecnologia che sia Chlebnikov che Tatlin

condividevano e che tentarono di realizzare. La scena sarà infatti trasferita

ai giorni nostri, in un mondo urbano e disumanizzato:

The director's primary interpretive maneuver is to replace the author's mysterious mountain top setting with a tangible urban environment. With the help of his designer, George Tyspin, he has amassed a large trash heap of contemporary detritus, the equivalent of a tenement in the process of being razed. In the background, a wall is scratched with graffiti and on the floor are bales of newspapers, bound as if for recycling. In the center is Zangezi (David Warrilow), clothed in layers of rags. He is one of the walking homeless and, in this production, a prophet in our contemporary wilderness. Enrobing himself in plastic garbage bags, Mr. Warrilow walks back and forth across a high wire, while grasping a higher wire for further support. (Gussow 1987, articolo del NYT)

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