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Capitolo III. La città degli espressionisti: scenografie cinematografiche

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Academic year: 2021

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Capitolo III. La città degli espressionisti: scenografie cinematografiche

III.1 Gli architetti espressionisti al cinema

Il film espressionista aveva l’obiettivo di essere un’opera d’arte totale, coinvolgendo tutte le arti e attingendo particolarmente ad altre forme di spettacolo tramite la scenografia. Per questo motivo Lotte H. Eisner sottolineò, nel suo fondamentale testo monografico

1

sul cinema tedesco, il debito del cinema espressionista nei confronti di Max Reinhardt e del mondo teatrale, a partire dall’uso di irrealistici fondali dipinti

2

fino all’impiego delle illuminazioni dal basso, che evidenziano il rilievo di contorni e nervature, o di lato, che enfatizzano le ombre. Anche per varie rappresentazioni drammatiche si presentava sovente la necessità di un’ambientazione urbana

3

, e maestri in questo furono ad esempio Ludwig Sievert

4

o Otto Reigbert

5

.

Di solito nelle recensioni viene data importanza a regista e attori, ma in realtà il ruolo delle scenografie in un film è fondamentale. Costosamente concepite e realizzate da un esercito di scenografi e maestranze, sono esse stesse protagoniste, seppure alcuni spazi compaiano solo per brevi momenti e siano perfino esposti ad un’osservazione distratta e superficiale da parte dello spettatore.

Notevole fu certamente l’importanza di architetti e scenarchitetti a definire la qualità di un film, ma ciò non era sufficiente. Rudolf Kurtz sottolineava già nel 1926 in Expressionismus und Film che “il film espressionista è un organismo altamente elaborato, che rappresenta una particolare messa in forma della realtà.

1

L.H. Eisner, L'écran démoniaque: les influences de Max Reinhardt et de l'expressionnisme, Paris, Bonne, 1952, trad. it. L.H. Eisner, Lo schermo demoniaco, Roma, Bianco e nero, 1955.

2

Per approfondimenti vedi P. Chiarini, La messinscena espressionista, in P. Chiarini, Il teatro

tedesco espressionista, Bologna, Cappelli, 1959, pp. 133-134; D. Bablet, L’expessionnisme a la scène, in L. Grodecki [et al.], L’expressionnisme dans le théâtre européen, Paris, CNRS, 1971,

pp. 198-206; M. Fazio, Le scene dipinte, in M. Fazio, Lo specchio, il gioco e l’estasi: l’arte del

teatro in Germania dal realismo storico all’espressionismo, Roma, Levi, 1988, pp. 239-242.

3

Per approfondimenti si veda anche R. Tessari, Le città dell’espressionismo, tra mito e storia, in G. Alonge, F. Mazzocchi (a cura di), Ombre metropolitane: città e spettacolo nel Novecento, Torino, DAMS, 2002, pp. 139-153.

4

Ludwig Sievert (1887-1966) scenografo teatrale tedesco, collaborò con Richard Weichert, sulla scia delle teorie di Max Reinhardt, Adolphe Appia e Edward Gordon Craig. Svolse attività accademica.

5

Otto Riegbert (1890-1957), scenografo tedesco, fu tra i più validi esponenti della corrente

espressionista (specie come collaboratore di E. Piscator e O. Falckenberg). Svolse attività

accademica.

(2)

Questa forma non si può conseguire incorporando architetture espressioniste o modalità espressive di recitazione in un film fatto in un modo qualsiasi. Il film espressionista è, al contrario, il risultato di un’attività formativa omogenea, che concerne in modo uniforme tutte le componenti filmiche e le trasforma secondo la sua logica”

6

.

In questa sede ci occuperemo principalmente delle architetture di scena, ma non si dovrà mai perdere d’occhio tutta la serie di elementi connessi tra loro che contribuiscono a produrre un film riuscito ed in particolare l’immagine della città sede del film, i cui tratti non sono solo quelli creati dagli scenografi, ma emergono grazie all’impiego delle luci, del montaggio, al ruolo delle partiture delle musiche di accompagnamento, alla recitazione degli attori. Nelle schede relative alle pellicole analizzate in particolare in questa tesi, si daranno quindi notizie basilari su questi altri aspetti, limitandoci a ciò che concerne eminentemente la resa dell’atmosfera della città.

Al posto di grandi protagonisti di storie individuali, il cinema espressionista spesso propone come personaggio la città in sé, più o meno esplicitamente, e segna la crisi della visione antropocentrica e individualista, evidenziando temi come l’alienazione del singolo, la formalizzazione della vita urbana, l’impersonalità della metropoli.

Il cinema non viene concepito come uno strumento per descrivere passivamente la realtà urbana, ma è ritenuto utile a analizzarla creativamente, sia dando valore all’esperienza psicologico-percettiva insolita, personale, originale di chi detiene il punto di vista, sia andando a stimolare una ricezione emotiva forte nello spettatore.

Inoltre, quando si costruisce in studio lo scenario in film fortemente

“irrealistici” come Das Kabinett des Dr. Caligari

7

è evidente che l’ambiente esterno, l’immagine della città di Holstenwall, rispecchia lo stato psichico dei personaggi. Addirittura gli oggetti possono essere di dimensioni più o meno grandi a seconda dell’importanza che un protagonista del film attribuisce loro (Von Morgens bis Mitternachts), enormi o piccolissimi, mai di dimensioni realistiche.

6

R. Kurtz, L’espressionismo e il film, Milano, Longanesi, 1981, p. 116.

7

Vedi paragrafo relativo nel presente capitolo.

(3)

Il cinema espressionista manifesta apertamente la sfiducia nella razionalità e il superamento della mera osservazione del reale, per andare oltre la superficie delle cose e dei personaggi ed immergersi nel regno dello spirituale, della fantasia, del sogno, degli stati mentali. La visione soggettiva si impone sulla realtà empirica, quest’ultima “non appare risiedere nelle categorie universali di un mondo oggettivo, ma piuttosto nelle intuizioni, simboli e immagini del subconscio delle menti individuali”

8

.

L’architettura di scena ha un suo preciso significato, ogni elemento è comunicativo e serve a creare l’atmosfera del film, rendendola uno “spazio emozionale fatto di mura, luce e ombra”

9

, particolarmente adatto a rappresentare il mondo interiore dei protagonisti del film e a toccare quello dello spettatore.

Nei film della fine degli anni Dieci e dell’inizio dei Venti, compaiono spesso città cariche di deformazioni rappresentate nell’architettura stessa, a dare un senso di pericolo e angoscia. Film dell’orrore come Nosferatu di Murnau (1922) risentivano della temperie culturale espressionista, essendo spesso ambientati in cittadine minacciose e inquietanti: “questi timpani distorti e facciate bianche implicavano che le città erano luoghi disumani e anonimi nei quali avvenivano eventi inusuali e che in qualche modo mettevano a rischio l’innocente”

10

.

La pericolosità dell’ambiente urbano si evince anche da alcuni dei temi prevalenti nei film dell’epoca: la città è spesso il luogo della tentazione lussuriosa, dove la donna seduce e distrugge l’uomo, oppure il luogo della pazzia o degli impulsi incontrollati. Attraverso queste pellicole, così come nelle altre manifestazioni artistiche espressioniste, il pubblico vedeva e riviveva i propri incubi, timori, fascinazioni e sentimenti alterni nei confronti della metropoli, forse anche con effetto catartico

11

.

Nelle scenografie del cinema tedesco degli anni Venti si susseguirono dapprima fondali dipinti, poi vere e proprie costruzioni tridimensionali in studio, infine anche riprese di città e architetture dal vero.

8

A. Kaes, The expressionist vision in theatre and cinema, in G. Bauer Pickar, K.E. Webb (a cura di), Expressionism reconsidered: relationships and affinities, München, Fink, 1979, p. 91.

9

H.D. Schaal, Spaces of the psyche in German Expressionist film, in “Architectural design”, 70, 1, January 2000, p. 13.

10

A. Sutcliffe (a cura di), Metropolis 1890-1940, London, Mansell, 1984, p. 153.

11

Per approfondimenti vedi H.D. Schaal, Spaces of the psyche in German Expressionist film, in

“Architectural design”, 70, 1, January 2000, pp. 12-15.

(4)

Il cinema è un fenomeno metropolitano sotto vari aspetti, in Germania si concentra prevalentemente nella città di Berlino, come argomento della rappresentazione, come luogo della realizzazione dei film, con gli studi delle maggiori compagnie cinematografiche, e come sede delle prime proiezioni nelle più famose sale e cineteatri. Tuttavia si deve sottolineare la presenza sia di città reali sia di città fantastiche nella vasta produzione filmica degli anni Venti-Trenta.

Il primo film definito espressionista dalla critica fu Das Kabinett des Dr.

Caligari;

Rudolf Kurz, proprio a partire da quell’esperienza, rifletteva sulla scenografia e l’architettura d’avanguardia: “E’ un tratto caratteristico della scenografia espressionista lavorare con grandi superfici, semplificare i dettagli, sottolineare più intensamente possibile le linee guida degli oggetti. Dobbiamo osservare, a questo proposito, che i contorni di ogni architettura scenica guidano l’occhio, e che l’effetto emotivo della scenografia ne viene condizionato in modo determinante. L’architettura espressionista, che tende alla forte impressione formale piuttosto che alla verosimiglianza ottica, e che ha tratto dalla pittura espressionista il principio di esprimere soprattutto l’armonia dei movimenti e la forza delle tensioni, trova qui un fecondo punto di partenza. Si può risalire a processi interiori veramente elementari.

E’ una semplice legge dell’estetica psicologica che, attraverso l’immedesimazione nelle forme, si sviluppino nell’anima tensioni puntualmente corrispondenti. La linea retta guida il sentimento differentemente da quella obliqua, curve repentine hanno corrispondenze psichiche diverse da quelle di linee che scivolino via armoniosamente; il saliscendi rapido e frantumato delle linee sollecita risposte psichiche differenti rispetto a quelle suscitate dall’architettura, ricca di sfumature, di un moderno profilo urbano.

Su queste possibilità si fonda l’architettura filmica espressionista. Essa rinuncia

al dettaglio preciso per riprodurre le forme costitutive di un oggetto naturale. Può

esserle indifferente se l’ambiente di una prigione corrisponde all’immagine che se

ne ha comunemente. Essa lavora con linee, riduzioni, ingrandimenti per elaborare

compositivamente questa sinistra, angosciante situazione: il carcere. Essa può

condurre l’occhio umano lungo i più disparati gruppi di forme, e raggiungerà

(5)

l’effetto voluto indifferentemente dalla sua somiglianza con la natura. Ma, prima di tutto, getta le basi della fondamentale “disposizione spirituale” dello spettatore.

Questo è un processo di estrema importanza. Lo spettatore entra nel cinema come un uomo qualunque. Nell’istante in cui la superficie dello schermo diventa immagine, egli riceve la disposizione interiore che accompagna e condiziona, quale sentimento base, tutte le impressioni della serata. L’architettura espressionista lo allontana automaticamente dalla vita quotidiana, lo solleva in quella sfera che è condizione essenziale del film proiettato, e genera i presupposti che rendono possibile l’intelligibilità psicologica. A dire il vero, vale sempre il presupposto che l’architetto sia consapevole dell’effetto delle sue forme, che giudichi giustamente l’armonia fra architettura e tonalità affettiva, che sappia appianare i contrasti. Una strada può consistere in un tratto spoglio, con veicoli, con case a destra e a sinistra. Ma può anche essere una chiazza scura e frantumata, incorniciata da profili che si ergono ripidi, riboccante di luci deliranti, con figure che svaniscono come ombre. E’ legittimo elaborare tanto l’una quanto l’altra immagine, purché sia garantita quella che è la componente decisiva: la logica del sentimento”

12

.

Questa parole di Kurtz conservano intatta a distanza di un secolo la loro profondità e precisione nel cogliere i termini della questione: lo spazio in cui si svolgono i film espressionisti non è un semplice sfondo, ma l’immagine o l’utopia

13

urbana del momento. Se nel cinema espressionista si raffigura spesso una città tetra, tentacolare, insidiosa, temibile, d’altro canto nei percorsi paralleli del cinema tedesco di quegli anni se ne presentano i moderni fasti, la bella vitalità, il dinamismo.

In ogni caso, il cinema fu la terra vergine nella quale fondare liberamente nuove città, il foglio in cui rappresentare l’angosciante immagine interiore dell’ambiente urbano o addirittura, secondo Taut, un mezzo per valutare meglio le architetture esistenti

14

.

12

R. Kurtz, L’espressionismo e il film, Milano, Longanesi, 1981, pp. 56-58.

13

Si ricorda qui il progetto di Taut nel 1920 del film Die Galoschen des Glücks, non realizzato (vedi Appendice antologica nella presente tesi, Ant. II).

14

Cfr. B. Taut, Künstlerisches Filmprogramm, nell’Appendice antologica della presente tesi (Ant.

IX). Taut parla qui della cinematografia didattica per l’insegnamento dell’arte e dell’architettura. Il

(6)

Non è semplice definire il rapporto tra architettura e scenografia espressionista.

I protagonisti stessi e i critici ne hanno concezioni diverse, dovute all’inclusività o alla restrizione del concetto di architettura.

“Libera dai vincoli della vera costruzione, l’architettura espressionista nei film poteva aspirare agli ideali di altre arti, a dare espressione di sentimenti essenziali in forma architettonica”

15

.

Si tratta tuttavia di stabilire, caso per caso, quanto e quando l’architettura di scena sia esplicitazione di ideali irraggiungibili nella realtà cittadina dell’epoca, e quindi costituisca una proposta per il futuro, legata a utopie urbane, o se invece essa sia frutto della percezione di tale realtà, rielaborazione di un presente o di un passato architettonico in cui per lo più si proietta la visione soggettiva dei protagonisti del film.

Uno dei protagonisti della scenarchitettura espressionista, Walter Reimann

16

affermava che: “Costruire set cinematografici non è in alcun modo simile al lavoro e agli scopi di un architetto, in termini della sua peculiarità e destinazione, appartiene invece al campo della pittura […] riguarda solo l’imitazione […] Le leggi che governano la composizione di un set di un film sono quelle di un quadro figurativo, concentrato in questo caso sull’attore. I suoi gesti e movimenti nell’area del set sono i punti di demarcazione, secondo i quali ristruttura il decor.

Forme, linee e superfici di quest’ultimo sono determinate dalle curve dei movimenti e punti di sosta della recitazione”

17

.

Secondo Reimann quindi, non si può parlare di “architetto di scena” e non si possono definire come architetture i set cinematografici. Su questo tema ritornerà in un altro articolo, sottolineando che un film ha bisogno di uno spazio costruito con materiali tangibili, nella realtà, ma la realizzazione di quest’opera non ha niente a che vedere con la naturalezza: “il film, l’arte dell’illusione “ottica”, ha

documentario secondo lui può essere utile a evidenziare sia le mancanze che i pregi di un’architettura, gli effetti solo scenografici o la reale sostanza.

15

D. Neumann (a cura di), Film architecture: set design form Metropolis to Blade Runner, Munich, Prestel Verlag, 1999, p. 8.

16

Walter Reimann (1887-1936), pittore e decoratore tedesco. Dopo un inizio di attività in teatro, si dedicò al cinema, essendo riconosciuto come capostipite della scenografia espressionista in Das

Kabinett des Dr. Caligari. La sua lunga filmografia lo attesta al fianco dei maggiori registi

tedeschi degli anni Venti e Trenta.

17

W. Reimann, Filmarchitektur-Filmarchitekt?!, in “Gebrauchsgraphik”, 6, 1924-25, pp. 3-13.

(7)

bisogno dell’utopia. Necessita di un set che sia uno spazio utopico, che simuli l’atmosfera di un luogo per l’immaginazione”

18

.

Perciò Reimann, criticando la suddivisione dei ruoli tra regista, operatore e architetto, invoca per il futuro del personale specializzato che lavori nel campo del cinema con conoscenze specialistiche e non come semplice progettista trasportato nel mondo del film.

Sul modello delle scene dipinte di Das Kabinett des Dr. Caligari, al quale aveva partecipato lo stesso Reimann, assieme a Röhrig

19

e Warm

20

, si ebbe nel 1920 Genuine di Robert Wiene

21

, la cui scenografia fu affidata al pittore Cesar Klein (Figg. 253-254). Il medesimo regista proseguì la serie di film con architetture angolose, sconnesse, irreali con Raskolnikow nel 1923, realizzate dal russo Andrej Andrejew

22

(Figg. 255-256).

Tutti i volumi poliedrici e le strutture dell’architettura espressionista si ritrovano in scenografie come queste. In alcuni film, ad esempio Algol o Metropolis

23

, si ha la compresenza di correnti diverse: nel primo caso, Jugendstil ed espressionismo, nel secondo, espressionismo e elementi vicini al linguaggio di esponenti del Bauhaus. Non sempre gli architetti di scena dettero prova della stessa perizia e qualità nelle loro varie opere: Otto Hunte

24

decadde in ciò che si può definire un manierismo espressionista nella realizzazione del nightclub del film di Fritz Lang Dr. Mabuse der Spieler (1922), esasperando motivi geometrico-cristallini e forme triangolari.

18

W. Reimann, Filmarchitektur-heute und morgen?, in “Filmtechnik und Filmindustrie”, 4, 1926, pp. 64-65.

19

Walter Röhrig (1893-1945), pittore e scenografo teatrale e cinematografico tedesco. Iniziò la sua carriera in campo cinematografico con Das Kabinett des Dr. Caligari e riscosse un grande successo, che gli aprì le porte a collaborazioni con tutti i maggiori registi tedeschi della prima metà del Novecento.

20

Hermann Warm (1889-1976), architetto e decoratore cinematografico tedesco. Fu attivo in Germania e, a seguito di vari registi, in Francia, Inghilterra e Svizzera. Si ricordano le collaborazioni con Wiene, Lang, Pabst, Murnau, Dreyer.

21

Robert Wiene (1880-1938), attore, autore e regista teatrale tedesco, a partire dalla metà degli anni Dieci divenne sceneggiatore e regista cinematografico.

22

Andrei Andrejev (1887-1967), scenografo russo, lavorò in Germania, Francia, Inghilterra e infine ad Hollywood. Lavorò in Germania soprattutto con Wiene, Zelnik e Pabst.

23

Vedi paragrafo relativo nel presente capitolo.

24

Otto Hunte (1881-1960), architetto e scenografo cinematografico tedesco. Lavorò con Fritz

Lang, Joe May, G.W. Pabst, Josef von Sternberg e numerosi altri registi in tutti i generi

cinematografici.

(8)

Oltre che come forma, il cristallo, o meglio, il vetro, come materiale, riscuoterà grande successo nelle “città del cinema” tedesco degli anni Venti, aderendo alle proposte mendelsohniane di un’architettura moderna in cemento e vetro (Sunrise

25

e Metropolis ne danno testimonianza). Il gigantismo cristallino dei grattacieli del film di Lang si sposa con le teorie architettoniche di cui abbiamo dato conto nel precedente capitolo.

Il movimento espressionista ha dato al cinema tedesco un contributo significativo sia in termini di tematiche che di scenografia di qualità: “Non c’è dubbio che proprio la costellazione espressionista abbia contribuito a fare del cinema un fattore culturale, a sottrarlo al puro consumo”

26

. Quanto alle tematiche, si citerà come esempio che le riassume Das Kinobuch di Kurt Pinthus

27

, una raccolta di soggetti e sceneggiature di vari autori, su cui era possibile realizzare spettacoli teatrali o film

28

.

Quanto all’architettura, oltre ai già citati pittori-scenografi di Das Kabinett des Dr. Caligari, esponenti di Der Sturm, si ricorderà la partecipazione diretta del professionista Hans Poelzig alla progettazione della città di Praga in Der Golem

29

, la cui immagine goticheggiante è perfettamente in linea con la rievocazione romantica ed espressionista delle atmosfere del medioevo nord-europeo.

E quando a realizzare città come set cinematografici non sono esponenti

“ufficialmente riconosciuti” nell’avanguardia espressionista, sono comunque evidenti, nel cinema tedesco degli anni Venti e Trenta, gli influssi di una concezione, nel caso si tratti di città inesistenti, o i modi di una rappresentazione, nel caso si tratti di città reali, riconducibili all’espressionismo.

Più che un movimento delimitato storicamente e geograficamente, l’espressionismo cinematografico è innanzitutto un modo di intendere il mondo interiore ed esteriore dell’uomo e di realizzare di conseguenza il film. Molti registi e scenografi tedeschi, ascritti dalla critica ad altre correnti o categorie,

25

Vedi paragrafo relativo nel presente capitolo.

26

P. Chiarini, A. Gargano, Berlino dell’espressionismo, Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 189.

27

Kurt Pinthus, ps. Paulus Potter, (1886-1975), scrittore teatrale, critico, letterato tedesco, raccolse nel 1914 vari soggetti cinematografici nel volume Das Kinobuch. Osteggiato dai nazisti, fuggì negli USA nel 1937 e qui svolse anche attività accademica. Rientrò in Europa definitivamente nel 1967.

28

Per approfondimenti si veda F. Lo Re, Il Kitsch e l'anima: letteratura e cinema nel primo

espressionismo, Il “Kinobuch” di Kurt Pinthus, Bari, Dedalo, 1983.

29

Vedi paragrafo relativo nel presente capitolo.

(9)

ripropongono le idee e gli stilemi espressionisti e, per ciò che strettamente ci riguarda, sono influenzati da tali concezioni nel creare atmosfere e ambienti urbani, mostrando la debolezza di posizioni di coloro che intendessero la storia dell’arte come una successione lineare di episodi, movimenti, autori e stili.

Si dovrà sin d’ora sottolineare che se gli architetti hanno contribuito notevolmente alle realizzazioni cinematografiche, visto che per l’industria del tempo era difficoltoso effettuare riprese in esterno, il cinema dette solo un parziale contributo all’architettura. Da un lato il set divenne un laboratorio obbligato ed un incentivo per l'invenzione architettonica, ma dall’altro non si possono interpretare le costruzioni effimere per i set come una prova generale di eventuali costruzioni.

Se nel rinascimento e nel barocco gli apparati scenografici per feste e celebrazioni costituivano a volte il passo intermedio tra un disegno e una vera edificazione, le architetture cinematografiche espressioniste rimasero esclusivamente sul grande schermo.

In questo studio si presentano sei esempi di film tedeschi in cui è rappresentata la città: la città onirica di Das Kabinett des Dr. Caligari , la città gotica ricostruita da un architetto espressionista di Der Golem, la contrapposizione tra città e campagna in Sunrise, il dinamismo della metropoli in Berlin, die Symphonie einer Großstadt, la città del futuro in Metropolis, la città pericolosa e insicura di M.

III.2 Das Kabinett des Dr. Caligari

Das Kabinett des Dr. Caligari (Fig. 240), fu girato da Robert Wiene che sostituì Fritz Lang, inizialmente convocato dall’UFA-Decla come regista del film, poi rinunciatario per altri impegni cinematografici

30

. La sceneggiatura si deve a Carl Mayer, basatosi su uno scritto del praghese Hans Janowitz

31

. Il produttore Erich Pommer vi aggiunse il finale e il prologo, inquadrando la storia come il racconto di un folle e non come un reale accadimento. La figura del dottor Caligari, manovratore di un sonnambulo per compiere degli assassini, avrebbe dovuto rappresentare il potere che rende suoi inconsapevoli strumenti di morte gli

30

Stava girando Die Spinnen.

31

Hans Janowitz (1890-1954), scrittore boemo collaborò negli anni Venti con il mondo del cinema

tedesco, per poi trasferirsi negli USA e intraprendere attività petrolifera. A lui si devono Das

Kabinett des Dr. Caligari e i soggetti per alcuni film di Murnau.

(10)

altri uomini. Ciò era particolarmente sovversivo per una pellicola del 1919- 1920

32

, l’immediato dopoguerra, ma tramite quelle aggiunte essa venne così trasformata in un film commerciale, adatto a un pubblico generico e fiducioso nella positività del sistema. Il personaggio narratore subì l’allora diffuso trattamento di dichiarare pazzo un testimone molesto e di relegarlo in un manicomio. Si ha quindi un sovvertimento dei punti di vista: da storia di un mostro a racconto di un folle. Nonostante questo, l’impoverito ma persistente carattere di denuncia

33

del film indusse il regime nazista a proibirne la proiezione, costringendo i realizzatori ad emigrare negli USA.

Das Kabinett des Dr. Caligari è un film a soggetto diviso in sei atti, come recitano i titoli di testa.

Dopo aver presentato la scena di due uomini che parlano in un giardino, si viene introdotti ad una storia ambientata attorno al 1830. Nella cittadina tedesca di Holstenwall (Fig. 241) si tiene una fiera, alla quale il dottor Caligari esibisce il sonnambulo Cesare, suo assistito, in grado di operare dei fenomeni di premonizione medianica (Figg. 242-244). Mentre l’esposizione e la festa cominciano, il segretario comunale, mostratosi diffidente nel concedere a Caligari il permesso di parteciparvi, è rinvenuto morto, ucciso in circostanze misteriose. Al padiglione di Caligari si recano due giovani amici, entrambi innamorati della stessa ragazza. Uno di loro pone a Cesare la domanda fino a quando vivrà e ne riceve un’inquietante risposta, sentendosi dire che la sua vita terminerà all’alba.

Effettivamente egli viene pugnalato a morte la notte successiva. L’amico nutre dei sospetti su Caligari e riesce a convincere un medico, il padre della ragazza, a farsi rilasciare dalle autorità un mandato d’ispezione per il sonnambulo. Nel frattempo al commissariato di polizia è stato portato un malvivente colto in flagrante mentre cercava di uccidere un’anziana. Si ritiene che l’arrestato possa essere un pluriomicida, ma in relazione agli altri delitti egli si dichiara innocente. Infatti si discolpa dicendo di aver provato ad uccidere la signora con le stesse modalità del duplice omicida semplicemente per far ricadere la colpa su di lui. Si devono quindi riaprire le indagini e controllare attentamente Caligari e Cesare. Il

32

La prima proiezione ebbe luogo alla Marmorhaus di Berlino nel febbraio del 1920.

33

La chiave di lettura politica aprì una lunga serie di discussioni che spesso prescindevano dalla

sostanza dell'opera.

(11)

sonnambulo ha tuttavia già lasciato la sua dimora, essendo stato sostituito da un manichino, e si è introdotto nella camera della giovane figlia del medico (Figg.

245-246). Le grida della donna fanno accorrere parenti e servitù, ma non abbastanza tempestivamente da impedire a Cesare di rapirla svenuta e portarla con sé sui tetti della città (Figg. 247-248), fino a quando non cade morto. Una seconda ispezione della polizia smaschera definitivamente le responsabilità di Caligari, che, approfittando di un attimo di distrazione degli inquirenti, fugge, inseguito dallo spasimante della ragazza. Egli lo raggiunge presso una clinica psichiatrica dove chiede se fra i pazienti non ci sia per caso un certo Caligari, ma i medici non conoscono alcun ricoverato con tale nome. Osservando il direttore della casa di cura, il giovane riconosce in lui il dottor Caligari e riferisce agli altri medici l’intera storia. Un’indagine notturna nello studio del direttore fa rinvenire un volume che narra la storia di un settecentesco dottor Caligari che presentava alle fiere dell’Italia settentrionale un suo medium, seminando delitti ovunque. Il diario tenuto dal medico narra inoltre le sue valutazioni su Cesare e la constatazione che gli avrebbe permesso di compiere le stesse azioni di Caligari. Inchiodato alle sue responsabilità, il direttore si ribella ai suoi accusatori e viene neutralizzato con la camicia di forza. A questo punto siamo ricondotti fuori dal lungo flashback per apprendere che tutti i protagonisti della vicenda sono degenti dell’ospedale psichiatrico, che il narratore è un malato di mente e che la storia è soltanto una sua invenzione, un’allucinazione in cui il dottor Caligari assume le sembianze del responsabile dell’istituto medico. Il primario, aggredito in cortile dal giovane, dice di aver finalmente capito la malattia del degente e di poterlo adesso curare.

Tuttavia, nonostante l'aria rassicurante da buon medico, il sorriso del direttore reca in sé qualcosa di angosciante, ambiguo ed equivoco, ora assomiglia davvero al Caligari dell’incubo del presunto paziente, lasciandoci nuovamente col dubbio di quale sia la verità delle cose. L’intersecazione dei livelli di realtà rende il film molto moderno nella sua tematica.

Sembra che l’unica verità possibile sia quella soggettiva, distorta dalla personale percezione. Le ambientazioni e i paesaggi urbani, tutti costruiti in studio, risultano notevolmente irrealistici e onirici, di chiara ascendenza pittorica.

Proprio a pittori e architetti di scena appartenenti a Der Sturm fu affidata la

(12)

realizzazione delle scenografie

34

, pensando il film in termini di disegni viventi intessuti di un sapore allucinatorio. Walter Reimann,Walter Röhrig, Hermann Warm, già scenografi in teatro, dettero un carattere espressionistico alla loro opera, rendendo visibili il caos, il delirio, la tensione, la presenza inquietante dell’inconscio nelle profondità dell’animo umano: “L’architettura non doveva essere più uno sfondo inerte, ma compartecipare alle emozioni del film”

35

.

Kurtz testimonia il ruolo fondamentale delle scenografie (furono impiegati ben trentatre diversi set

36

) nella genesi di questo film: “Come l’espressionismo è pervenuto a una formulazione chiara nelle arti figurative, anche nel cinema è stato il pittore a fornire il primo impulso. Mi è stato descritto con molta chiarezza il processo che ha portato alla nascita di Caligari.

Lo scenario, che gli autori Carl Meyer e Hanns [sic] Janowitz erano riusciti a far accettare, dormiva nell’archivio. Un bel giorno l’architetto, che era stato attratto dal soggetto, arrivò con dei bozzetti: erano schizzi espressionisti. I direttori della Decla, coraggiosamente, diedero la loro approvazione. Robert Wiene fu invitato a fare un tentativo. Si stabilì che, qualora l’effetto delle prime scene girate non avesse corrisposto all’impressione che si desiderava ottenere, si sarebbe dovuto procedere in un altro modo. L’esperimento riuscì. Il film fu portato a termine”

37

.

La forza figurativa delle scenografie, con prospettive alterate, linee oblique, oggetti graficamente deformati, unita alla suggestiva illuminazione, al rapporto tra luci e ombre (prevalentemente dipinte) e alla intensa e stilizzata recitazione degli attori fecero di Das Kabinett des Dr. Caligari il manifesto del film espressionista, destinato ad esercitare tanta influenza sulla storia del cinema da inaugurare un genere definito col termine caligarismo

38

.

34

Inizialmente si era pensato non agli espressionisti di Der Sturm ma all'impiego di un illustratore come Alfred Kubin.

35

A. Vidler, The explosion of space: architecture and the filmic imaginary, in “Assemblage”, 21, agosto 1993, p. 47.

36

D. Neumann (a cura di), Film architecture: set design from Metropolis to Blade Runner, Munich, Prestel Verlag, 1999, scheda Das Kabinett des Dr. Caligari.

37

R. Kurtz, L’espressionismo e il film, Milano, Longanesi, 1981, p. 56.

38

Per approfondimenti vedi S.S. Prawer, I figli del dottor Caligari: il film come racconto del

terrore, Roma, Editori Riuniti, 1981; P. Bertetto, C. Monti, Robert Wiene: il gabinetto del dottor Caligari, Torino, Lindau, 1999.

(13)

La costruzione di Holstenwall, località inventata, è quella di una cittadina del nord della Germania, dalle case spigolose e i muri obliqui, coperti da enigmatici graffiti, caratteristiche qui esaltate secondo l’immaginario onirico espressionista (Figg. 249-252). C’è da chiedersi se implicitamente l’arte e l’architettura espressionista non siano in questo modo presentate solo come visioni di insani di mente. Anche gli arredi degli spazi interni sono coinvolti in questo processo: le sedie, gli sgabelli, i tavoli, ma anche porte, finestre, lampioni. Interessanti dal punto di vista architettonico appaiono inoltre i locali della stazione di polizia e del comune, nonché le stanze dell’ospedale psichiatrico. Il cortile di quest’ultimo è l’unica struttura che si mostra con forme convenzionali.

“Caligari […] dimostrò come il design del set cinematografico potesse sia supportare la narrazione filmica che partecipare stilisticamente agli importanti dibattiti artistici contemporanei”

39

.

Reimann puntualizzò che gli scenari cinematografici, da lui vissuti più come pitture che architetture, non dovevano essere aderenti alla realtà, ma creare un loro mondo, senza relazioni tra architetture di scena e architetture reali: “In nessun modo i set dei film sono architettura! […] Il film, l’arte dell’illusione “ottica”, ha bisogno dell’utopia. Gli ci vuole un set che sia uno spazio utopico, che simuli l’atmosfera di uno spazio per l’immaginazione”

40

.

III.3 Der Golem

Conosciuto semplicemente come Der Golem (il titolo originale è Der Golem:

wie in die Welt kam) dell’attore e regista Paul Wegener, il film è tratto dall'omonimo romanzo

41

di Gustav Meyrink, pubblicato nel 1915. Wegener, che

39

D. Neumann (a cura di), Film architecture : set designs form Metropolis to Blade Runner, Munich, Prestel Verlag, 1999, p. 7.

40

W. Reimann, Filmarchitektur-heute und morgen?, in “Filmtechnik und Filmindustrie”, 4, 1926, pp. 64-65.

41

Meyrink presenta in quest’opera l'antico e misterioso ghetto ebraico di Praga e le leggende che lo riguardano. In un’atmosfera visionaria e carica di simbolismi cabalistici, il romanzo si svolge tra strani avvenimenti, magie, sdoppiamenti, apparizioni fantasmatiche. La narrazione, che gioca sulla contrapposizione tra sogno e realtà, si inserisce nella letteratura d’avanguardia tra l'espressionismo e il surrealismo.

Nel romanzo il Golem non è una creatura d'argilla, ma un fantasma che ogni 33 anni si aggira per

il ghetto sconvolgendone gli abitanti. Nessuno è sicuro che esista, cosicché può essere interpretato

come materializzazione delle paure di coloro che pensano di averlo visto. Il testo di Meyrink

(14)

vi interpretò il ruolo dell'automa

42

, girò questa pellicola nel 1920, ma già in precedenza aveva realizzato due lavori sul medesimo tema: Der Golem

43

(1915) e Der Golem und die Tanzerin

44

(1917). Il film del 1920 (Fig. 257), girato assieme a Carl Boese, e sceneggiato di nuovo, come quello del 1915, con Heinrik Galeen, condivide poco in termini di trama col libro di Meyrink, avendo Wegener creato e accentuato in esso un insolito connubio di misticismo ebraico e slancio espressionistico.

Il termine “Golem” deriva dall’ebraico gelem che significa “materia grezza”, o

“embrione”. Esso figura nella Bibbia, ad esempio nel salmo 139,16 (“I tuoi occhi videro la massa informe del mio corpo e tutte queste cose erano scritte nel tuo libro, nel tempo che si formavano, quando nessuna di esse era ancora”), per indicare la materia non plasmata, come Adamo prima che gli fosse infusa la vita dal soffio di Dio.

L’espressione è presente nei libri fondamentali della mistica ebraica, lo Zohar (Il libro dello splendore) del XIII secolo, e il Sefer Yetzirah (Il libro della creazione). Secondo tali insegnamenti, il Golem prendeva vita aggiungendo ad esso, scritte in fronte o su un foglio come nel film, la parola “verità”, (in ebraico תמא [emet]). Cancellando dalla frase una delle lettere, la aleph, la parola che restava significava “morte” (in ebraico תמ [met]) e il Golem diventava inerte.

Secondo la leggenda, chi possedeva queste arti magiche era in grado di plasmare un gigante di argilla forte e ubbidiente, ma incapace di pensare, di parlare e di provare qualsiasi tipo di emozione perché privo di un'anima, che l’uomo non può creare. Il Golem poteva essere usato come servo, impiegato per svolgere lavori pesanti, e come difensore del popolo ebraico dai suoi persecutori.

quindi, si avvicina ad alcune tematiche della psicanalisi moderna e si rivela un romanzo moderno, distante dalla leggenda medievale.

42

L’attore che ha svolto il ruolo del Golem in tutte e tre le pellicole è Paul Wegener stesso.

43

La trama è la seguente: dei lavoratori che scavano in una sinagoga rinvengono un’antica statua in argilla e la vendono ad un antiquario, ignari del fatto che si tratti del Golem. Il commerciante trova un libro cabalistico dove s’insegna a trasformare la statua in un perfetto automa, riuscendo davvero ad animarla e a metterla al suo servizio. Il Golem, tuttavia, prova dei sentimenti e s’innamora della figlia dell’antiquario, che lo respinge, facendolo infuriare. Dopo un moto di ira nel quale il Golem distrugge ogni cosa che trova davanti a sé, precipita infine da una torre. Alla regia collaborò Heinrik Galeen.

44

Questo film, diretto con Rochus Gliese, che è anche stato di volta in volta costumista,

scenografo e attore nelle varie versioni del Golem, è andato perduto.

(15)

Tra il XVII e il XVIII secolo, la leggenda attecchì e si sviluppò negli ambienti delle comunità ebraiche polacche.

La storia del Golem praghese è invece riportata per la prima volta nello zibaldone di miti, curiosità, aneddoti di vita giudaica che Wolf Pascheles

45

pubblicò in tedesco in più volumi a partire dal 1847 coi titoli Gallerie der Sipurim: eine Sammlung jüdischer Sagen, Märchen und Geschichten als ein Beitrag zur Völkerkunde e Sippurim: eine Sammlung jüdischer Volkssagen, Erzählungen, Mythen, Chroniken, Denkwürdigkeiten und Biographien berühmter Juden aller Jahrhunderte, insbesondere des Mittelalters.

Si narra che, nel XVI secolo, il rabbino Jehuda Löw ben Bezalel di Praga, avesse cominciato a creare dei Golem. Essi si accrescevano, finché era impossibile servirsene: il mago decideva di tanto in tanto di eliminare i più grandi, ma un giorno perse il controllo di un gigante, che cominciò a distruggere tutto ciò che incontrava. Si racconta che il Golem operasse anche per la difesa della comunità ebraica. Ripreso il controllo della situazione, il rabbino decise di nascondere il Golem nella soffitta della sinagoga Staronova, nel cuore del quartiere ebraico, dove, secondo la tradizione, si troverebbe tuttora.

La vicenda del film di Wegener, ambientata nel quartiere ebraico di Praga, si ispira in parte a quest’ultima versione tedesco-boema dell’antica leggenda ebraica.

In risposta a un presagio di sventura sulla comunità giudaica (poco dopo, l’autorità locale secolare

46

emette un editto di espulsione nei suoi confronti), Rabbi Löw decide di costruire un Golem, un essere antropomorfo plasmato in argilla, per proteggere la sua gente. Questa creatura umanoide dalla forza immensa dovrebbe obbedire solo ai suoi ordini. Su invito dell’imperatore, cui aveva già fornito tramite l’oroscopo informazioni essenziali, Rabbi Löw va alla festa delle rose per offrirgli un saggio delle sue arti magiche. Il rabbino porta con sé il Golem e mostra con un incantesimo la storia del popolo ebraico, affinché il sovrano possa meglio conoscerlo. Il disprezzo e il riso di alcuni dei presenti davanti alle immagini dell’ebreo errante (visibili come su di uno schermo cinematografico), provocano la scomparsa della visione ed il crollo poco a poco del soffitto della reggia. L’imperatore chiede a Rabbi Löw di salvarlo,

45

Wolf Pascheles (1814-1857) editore boemo di origine ebraica.

46

Identificata nell’imperatore Rodolfo II d'Asburgo.

(16)

promettendo di ritirare il decreto di espulsione e il Golem interviene a frenare la caduta del salone delle feste. Al rientro nella comunità si rende grazie con la preghiera in sinagoga e il Golem viene messo a riposo.

Frattanto il conte Floriano, rimasto profondamente colpito da Miriam, la figlia del rabbino, quando era entrato in casa sua come messo imperiale, approfitta dell’assenza di Rabbi Löw per farle visita. Tuttavia un servo, innamorato della ragazza, scopre che in camera di Miriam c’è Floriano e, preso dalla gelosia, rianima il Golem ordinandogli di cacciare l’intruso. Dopo una strenua ma inutile difesa, Floriano viene scaraventato dal mostro dall’alto di una torre.

Il Golem fugge, portando con sé Miriam, svenuta, dopo aver appiccato il fuoco alla casa del padrone. L’incendio si propaga per il quartiere ebraico, sembra che Löw abbia perso il controllo della situazione, ritrova sua figlia ancora viva, ma non il Golem. Questi è uscito dalle porte del ghetto ed ha incontrato un gruppo di bambini. Dopo aver preso in braccio il più piccolo di loro, lo avvicina al proprio petto quel tanto che basta al piccolo a sfilargli il cartiglio vitale. Il Golem crolla a terra inerme, con gran sollievo di tutta la comunità, che ringrazia Dio per averli salvati.

Il Golem può essere interpretato come una tragica storia sulla relazione tra un creatore e la prole maligna creata a sua immagine. Attraverso varie vicende e cambiamenti che rispecchiano in parte la storia della salvezza secondo la religione ebraico-cristiana, (in cui l’uomo è creato come “cosa buona”, poi cedendo alle tentazioni del maligno decade dal paradiso terrestre e sottostà al peccato e infine è riscattato dalla venuta del Messia che lo eleverà al Paradiso) il Golem si trasforma da elemento positivo in creatura crudele, fino, però, a morire nuovamente buono dialogando con un bambino. L’essere di argilla condivide con l’umanità il ritorno come polvere alla polvere.

Il film ha uno scenario urbano particolare, l’ambientazione infatti si colloca nella Praga ebraica del XVI secolo. Chiamato da Wegener, Poelzig, che condivideva un interesse per il misterioso e il fantastico, accettò il lavoro di architetto di scena, instaurando una feconda collaborazione

47

.

47

Per approfondimenti vedi J.R Clarke, Expressionism in film and architecture: Hans Poelzig’s

sets for Paul Wegener’s The Golem, in “Art journal”, 34, 2, inverno 1974-1975, pp. 115-124; W.

Pehnt, La porta sul prodigioso. Le architetture di Hans Poelzig per il film “Der Golem”, in M.

(17)

Con la moglie, la scultrice Marlene Moeschke, Poelzig progettò

48

un’intera città per la produzione di Wegener (Figg. 258-259). Il regista non voleva semplicemente un tipico borgo medievale, ma edifici, strade e interni che corrispondessero formalmente all’atmosfera di mistero e soprannaturale che è alla base del film (Figg. 260-269). Poelzig creò uno spazio tridimensionale, un concetto estraneo al cinema fino a quel momento, visto che si usavano prevalentemente fondali dipinti. Poelzig insiste su un senso verticale e piramidale delle architetture, con forme triangolari spesso ritorte e alterate. Su tali scenografie, che esprimono chiaramente il tono della storia e ne sono un accompagnamento, si stratificavano sapientemente luce e ombra.

Sulle forme espressioniste della cittadina, Paul Westheim scrisse: “[Poelzig]

crea una sua atmosfera, proietta sensazioni in una architettura che coinvolge in modo tanto più straordinario, quanto più si sviluppa silenziosamente dai suoi elementi strutturali. Per un lungo tratto dello spazio tra il muro del ghetto e la sinagoga – mosso e allargato da numerose sporgenze, dall’aprirsi di vicoli laterali, fitti di scale, di angoli e timpani, fontane e volte – un gruppo di 54 case è stato fuso insieme a formare una quinta unitaria di grande intensità espressiva. E’

indicativo del modo di lavorare di Poelzig (e al tempo stesso in radicale contrasto rispetto alle quinte piatte con le quali gli scenografi pittori credono di poter operare anche nel film) come sia stata costruita tutta questa città con la sue suggestioni romantiche, come tutto abbia acquistato fisionomia e forma non dalla carta e non dalla superficie, ma solo attraverso la realizzazione del modello plastico […] Ogni singolo elemento di questa scenografia, infatti, è stato prima realizzato come modello e poi costruito come quinta. In tal modo è nata una architettura che è di per sé eloquente. Ha poco della magia delle rovine, di ciò che ha avuto vita un tempo. Ha una sua propria vita, la vita che vi ha proiettato un architetto”

49

.

Chirivi (a cura di), Cinema & architettura, quaderno monografico di “Circuito cinema”, 37, marzo 1990, pp. 9-11; C. Dillmann, Realising the spiritual city: Hans Poelzig and The Golem, in

“Architectural design”, 70, 1, January 2000, pp. 16-19.

48

L’esecuzione materiale fu condivisa con Kurt Richter.

49

P. Westheim, Eine Filmstadt von Poelzig, in “Das Kunstblatt”, IV, 1920, pp. 325-333, cit. da P.

Chiarini, A. Gargano, Berlino dell’espressionismo, Roma, Editori Riuniti, 1997, pp. 183-184.

(18)

Le scenografie del Golem si adattano bene a fare da sfondo alla storia di un uomo d’argilla, dando l’apparenza di una cittadina costruita con mattoni di terra.

Qui “muri scale, finestre, porte paiono secolari nella loro attesa, plasmati nella trepida attesa del miracolo, del “soffio” che venga un giorno ad animarli”

50

.

Si dibatte se e quanto siano riconducibili all’espressionismo, v’è chi è favorevole riconoscendovi una certa stilizzazione e distorsione, chi, paragonandole con quelle di Das Kabinett des Doktor Caligari, sostiene si tratti di un’architettura più realistica. Innegabilmente il film possiede immagini riconducibili al movimento tedesco, le scene sono protagoniste al pari dei personaggi, spesso si nota la loro artificialità, si usa la luce per ottenere particolari effetti chiaroscurali, le riprese sono fatte da particolari angolazioni che deformano la realtà secondo lo sguardo creativo dell'autore. Se la fotografia di Karl Freund non è del tutto tenebrosa o angosciante, ma più morbida e meno carica distinguendosi dagli stilemi di altri film espressionisti e se l’architettura di Hans Poelzig ha un suo fascino naïf e vernacolare, le tematiche legate all’occultismo, la recitazione gestuale di Wegener

51

, il riferimento nelle scene al medioevo gotico sono perfettamente in linea con gli interessi dell’avanguardia tedesca. A proposito di quest’ultimo aspetto, Kurtz annota: “La città del Golem di Poelzig non ha nulla dell’aspetto di un centro abitato medievale e tutto di un sogno gotico: la distribuzione delle masse concretizza una consapevolezza architettonica saldamente determinata dalla tensione energetica e dalla connessione, le forti linee dei muri proseguono in torri dalle vigorose armonie ritmiche, la ripidità delle superfici, le ardite curve dei tracciati, la caduta e la salita delle linee realizzano un’architettura ritmicamente sentita”

52

.

Alcune immagini del film rispecchiano la descrizione di Praga scritta da Meyrink nel suo romanzo, Poelzig raffigura effettivamente case “accovacciate

50

M. Biraghi, Hans Poelzig: architectura, ars magna, 1869-1936, Venezia, Arsenale, 1992, p. 83.

51

Paul Wegener si era formato sotto la direzione di Max Reinhardt, divenendo al Deutsches Theater uno dei più importanti attori teatrali di Berlino. L’insegnamento di Reinhardt trasmise a Wagener, che lo applicò nel cinema, la padronanza di particolari effetti chiaroscurali di luce nella costruzione dello spazio e nella messinscena, nonché la valorizzazione del linguaggio corporeo. Se nella prima versione il regista-attore aveva indossato una maschera imitatrice dell’argilla da cui poi si sarebbe intravisto il suo sguardo, in questa è il volto stesso di Wegener a fornire espressività al Golem, nella sua ottusa malinconia.

52

R. Kurtz, L’espressionismo e il film, Milano, Longanesi, 1981, p. 88.

(19)

l’una di fianco all’altra […], addossate senza criterio […], fuori squadra con fronte rientrante […], sporgente come un dente canino”

53

.

Dopo questo film, Poelzig lavorò solo altre due volte nel cinema, nel 1923-25, per Lebende Buddhas (Figg. 270-271) dello stesso Wegener e Zur Chronik von Grieshuus (Figg. 272-273) di Arthur von Gerlach

54

. A testimonianza dell’architettura nel primo film rimangono solo disegni e foto di scena, da cui si evince che il set era fatto di materiali poveri e inadeguati, compresa la carta da parati per lo sfondo. Ambientato tra Londra e il Tibet, vi trovarono spazio un tempio e un luogo per sacrifici umani progettati da Poelzig. Nel secondo film, alla cui scenografia lavorarono anche Herlth e Röhrig, un castello semi-diroccato reca la sua firma, anche se sembra che egli non abbia preso parte alla sua posa in opera ma solo al disegno.

III.4 Sunrise

Sunrise: a song of two humans del 1927 fu la prima opera americana di Friedrich Wilhelm Murnau

55

, con sceneggiatura di Carl Meyer e scenografia di Rochus Gliese

56

(Fig. 276). Essendo un film realizzato da un regista e collaboratori di origine germanica ed ispirato al racconto Die Reise nach Tilsit

57

(1917) di Hermann Sudermann è comunque ambientato in una generica città tedesca

58

e di interesse per il nostro studio.

53

G. Meyrink, Il Golem, Milano, Bompiani, 1966, p. 21.

54

Arthur von Gerlach (1876-1925) regista teatrale e cinematografico tedesco.

55

Friedrich Wilhelm Murnau (1888-1931), vero nome Friedrich Wilhelm Plumpe. Egli assunse lo pseudonimo di Murnau dal nome della località bavarese dove lavoravano gli aderenti a Der Blaue

Reiter. Si formò ad Heidelberg, dedicandosi a letteratura, musica e storia dell’arte e mostrò

interesse per il teatro lavorando per alcuni anni come attore, secondo la scuola di Max Reinhardt.

Dopo la prima guerra mondiale si occupò di cinema affermandosi con un capolavoro dell’espressionismo cinematografico: Nosferatu, eine Symphonie des Grauens (1922) e con Der

letzte Mann (1924).

Si trasferì negli USA per lavorare alla Fox e girò come primo film Sunrise (1927), che non ebbe l’incasso sperato ai botteghini, costringendo Murnau ad assecondare maggiormente il gusto hollywoodiano nei lavori successivi.

56

Rochus Gliese (1891-1978), scenografo teatrale e cinematografico tedesco. Fu collaboratore di Ernst Lubitsch, Paul Wegener, F.W. Murnau.

57

Il racconto fa parte di H. Sudermann, Litauische Geschichten, Stuttgart, Cotta, 1917. Tilsit all’epoca era compresa nella Germania.

58

Non senza suggestioni provenienti dalle metropoli statunitensi o per lo meno offrendo, tramite la

fotografia, un ritratto meno cupo rispetto a quelli riservati alle città germaniche dal cinema

espressionista.

(20)

Come l’aurora segna il risorgere del sole scomparso durante la notte, Sunrise narra la vicenda della crisi e della rinascita di un amore. Sunrise è incentrato sulla consueta antitesi tra l’ambiente positivo della campagna e la negatività della città

59

, ma rovesciandola completamente. Il film, dall’esordio drammatico, diventa quasi una commedia in città, per poi ridiventare tragico al ritorno in campagna.

Murnau dispiega tutta la sua arte per coinvolgere lo spettatore in un climax emotivo che, dalla tensione tragica suscitata da un possibile omicidio, raggiunge la spensieratezza di una coppia felice in gita in città, con alcune trovate da commedia, per terminare con un passaggio drammatico che si risolve in un esito positivo. Sunrise si segnala anche per la notevole prova di recitazione fornita dagli attori, in grado di affrontare nel medesimo film momenti tragici e comici.

In principio, nell'idilliaca campagna, il giovane contadino

60

probo, sposato, è tentato e corrotto dall’ammaliatrice donna di città (Fig. 274) arrivata là per un soggiorno vacanziero. La passione divampa al punto di fargli trascurare la fattoria e di farsi turbare così in profondità, per questo amore folle e distruttivo, da tentare di eliminare la legittima consorte annegandola. L’amante lo ha infatti convinto a simulare un incidente con la barca nel lago per vendere poi l’azienda agricola e raggiungere lei in città. Il contadino però si blocca nel suo proposito omicida all’ultimo momento e torna a riva. La moglie, terrorizzata, sale su un tram che la porta in città, dove, raggiunta dal marito, accetta di fidarsi di nuovo di lui.

Assistendo a una funzione religiosa egli scoppia in lacrime chiedendole perdono.

Decidono quindi di intrattenersi in attività piacevoli in centro, andando dal barbiere, da un fotografo ed al luna park. La città, gigantesca, tentacolare e spaventosa a prima vista, si dimostra come luogo della gioia e della riconciliazione di coppia, riavvicinatasi dopo la minaccia intercorsa (Figg. 275, 277). Al ritorno a casa in barca, una tempesta sorprende i due sposi, rovesciando la piccola imbarcazione. Il marito combatte con le intemperie e raggiunge la riva con sforzo, ma si teme per la vita della moglie ed egli invoca l’aiuto nelle ricerche

59

Il contrasto tra la metropoli del male e della disperazione versus la tranquillità dell'insediamento rurale è tema centrale, al di là del principale messaggio riguardante i pericoli della

meccanizzazione, anche nel film Algol (1920) di Hans Werckmeister.

60

Seguendo la consuetudine del dramma espressionista, i personaggi non posseggono un nome

proprio ma rappresentano simbolicamente un ruolo: l’Uomo, la Moglie, la Donna di città, un

triangolo nel quale si manifesta il contrasto primario tra istinto e morale.

(21)

di tutti gli uomini del paese. La sorte sembra voler compiere ciò che l’uomo non ha realizzato. La donna di città, svegliata da questi rumori, crede invece che egli abbia commesso il delitto e si ripresenta al contadino, convinta che egli sia prossimo alla partenza verso la città per ricongiungersi a lei.

Respinta con decisione, la tentatrice fugge dal paese, mentre apprendiamo che la moglie si è salvata e, all’alba, segno dell’inizio di una nuova vita per la coppia, bacia l’uomo. Niente può più minare quella relazione ritrovata.

La trama è classica, universale e intessuta di moralismo: una lotta tra bene e male nel campo dell’amore, con lo sfondo della dicotomia campagna e città.

All’inizio del film si afferma proprio: “La storia è così comune che la si potrebbe ascoltare in ogni luogo, narrata da chiunque, oggi come allora”.

La natura dialettica di questo film, la sua ricchezza di contrasti e contraddizioni, risultano chiare all’analisi, ma si sottraggono in parte ai luoghi comuni perché i confini tra gli opposti sono valicabili e non schematici.

La campagna e la città alla fine non sono il bene e il male assoluto: l’ambiente agreste non si identifica esclusivamente con tranquillità, purezza, serenità, ma può anche essere uno spazio di morte (la tempesta sul lago); la città non incarna solo disvalori, tentazioni, caos, ma è anche il luogo positivo di incontro, dialogo, divertimento. Forse è proprio il fascino della metropoli che riaccende la passione ormai spenta di moglie e marito. Il viaggio verso la città è l’inizio di una nuova vita di coppia, il tram è un mezzo per valicare non solo distanze kilometriche ma relazionali e psicologiche. Murnau riavvicina bene e male come aspetti indissolubili della vita: un matrimonio rinvigorito rinasce dopo un tentato uxoricidio.

Il sottotitolo a song of two humans fa riferimento ad una forma musicale, così come il precedente Nosferatu di Murnau era eine Symphonie des Grauens.

In stretto legame con le teorie di Kandinsky sulle analogie tra musica e arti

figurative, anche il regista prospetta per un’opera d’arte totale come un film una

lettura delle immagini e dei personaggi da parte dello spettatore attraverso i

concetti di ritmo, leitmotiv, ritornello etc. Dal punto di vista tecnico, Sunrise fu

dapprima un film muto, privo della parola, ma poi sincronizzato con sistema

(22)

Movietone per la distribuzione con un accompagnamento orchestrale composto su misura da Hugo Riesenfeld

61

.

Della “sinfonia di città”, genere diffuso nel cinema europeo di quegli anni, con il montaggio che evoca il dinamismo della metropoli, Sunrise assorbe qualche carattere nelle sequenze urbane (Figg. 278-279), dove il mondo del lunapark assurge a simbolo del caos cittadino e le vedute del paesaggio urbano dal tram sono identificabili con lo sguardo dei personaggi. La macchina da presa, sfruttata in tutta la sua mobilità, qui diventa l’occhio dell’abitante rurale che si meraviglia davanti ad una realtà nuova, la città moderna.

Essa è ricostruita in studio

62

, non ripresa dal vivo come nelle “sinfonie di città”, con grande dispendio di tecnologia e mezzi scenografici.

Su un’opera debitrice degli strumenti economici e tecnici americani si proietta la tensione dell’espressionismo tedesco, rinvenibile nella recitazione degli attori, nel senso d’angoscia e di tragedia imminente, nelle atmosfere rarefatte dell’alba e cupe della notte, nella prospettiva forzata di alcune inquadrature, nel montaggio, nelle sovrimpressioni che rivelano le visioni della mente dei personaggi, nell’impiego delle luci e delle ombre, nella fotografia (per la quale Charles Rosher e Karl Struss ricevettero l’Oscar).

Un remake di Sunrise fu girato da Veit Harlan

63

nel 1939 a Berlino con il titolo originale Die Reise nach Tilsit.

III.5 Berlin, die Symphonie einer Großstadt

Walter Ruttmann

64

girò nel 1927 Berlin, die Symphonie einer Großstadt (Fig.

280). Quest’opera si inserisce nella serie di film dedicati a grandi città inaugurata

61

Hugo Riesenfeld (1879-1939), compositore austriaco trasferitosi nel 1907 negli USA, si dedicò alla realizzazione di colonne sonore per film.

62

Alcuni edifici sono debitori delle architetture mendelsohniane in cemento e vetro, o dei grattacieli di Mies van der Rohe.

63

Veit Harlan (1899-1964), attore e regista tedesco, fu al servizio del regime nazista per film di propaganda antisemita, tra cui il famoso Jud Süß del 1940.

64

Walter Ruttmann (1887-1941), pittore, grafico e regista tedesco. Realizzò vari film “assoluti”,

con la serie Opus, una sorta di animazione geometrica in cui convergevano gli aspetti visivi della

pittura astratta e le caratteristiche ritmico-compositive della musica. Il suo Berlin, die Symphonie

einer Großstadt è il più celebre esempio del genere “sinfonia di città” nel cinema tedesco.

(23)

da Manhatta (1920), realizzato da Charles Sheeler

65

assieme al fotografo Paul Strand

66

e composto di varie vedute di Manhattan intercalate da citazioni di poesie di Walt Whitman. Al 1926 risale il ritratto di Parigi eseguito dal regista Alberto Cavalcanti

67

in Rien que les heures, cui seguiranno nel 1927 Moskva di Mikhail Kaufman

68

e Ilya Kopalin

69

, e nel 1929 sia Chelovek s kinoapparatom di Dziga Vertov, girato a Mosca, sia Regen di Joris Ivens

70

, ambientato ad Amsterdam.

Il film, concepito da Ruttmann con la collaborazione di Karl Freund su soggetto di Carl Meyer, e con l’ausilio degli operatori Reimar Kuntze e Erich Kettelhut

71

, è sostenuto dalla musica di Edmund Meisel

72

, con un perfetto sincronismo tra le immagini e i brani. Essi furono concepiti come trascrizione dell'andamento e della melodia di ogni avvenimento di un’opera costruita secondo principi ritmico- musicali. Il compositore interpretò le sequenze del film come motivi e temi musicali: "Accordi in quarto di tono della città addormentata", "Fuga del traffico",

"Segnali musicali delle insegne luminose", "Crescendo di tutti i rumori della città in uno sviluppo contrappuntistico dei temi principali verso la fermata finale".

Alla prima mondiale, tenutasi al Tauentzien Palast di Berlino il 23 settembre 1927, il film fu proiettato con il commento musicale di un’orchestra composta di settantacinque strumentisti, posti in mezzo agli spettatori in ogni zona del teatro.

Berlin, die Symphonie einer Großstadt è un film “documentario” che si concentra sulla rappresentazione della vita metropolitana, senza propositi turistici né intenti sociali; non vi è inserita una storia, una trama, una morale più elaborata, si riprendono scene di vita quotidiana per fornire una “sinfonia della città”. La parte di protagonista è affidata a Berlino, non ci sono attori professionisti, ma la folla urbana. La Fox Europa, produttrice di quest’opera, guardò con interesse alla proposta di Ruttmann perché negli anni Venti Berlino risultava tra le più

65

Charles Sheeler (1883-1965), pittore, fotografo e regista cinematografico americano.

66

Paul Strand (1890-1976) fotografo e regista cinematografico americano.

67

Alberto Cavalcanti (1897-1982), regista cinematografico brasiliano.

68

Mikhail Abramovich Kaufman (1897-1979), fotografo e regista cinematografico russo. Fratello maggiore di Dziga Vertov (che era il nome d’arte di Denis Kaufman).

69

Ilya Kopalin (1900-1976), regista e scrittore cinematografico russo.

70

Joris Ivens (1898-1989), regista, sceneggiatore, montatore, direttore della fotografia, produttore e attore olandese.

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Erich Karl Heinrich Kettelhut (1893-1979), architetto di scena e operatore cinematografico.

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Edmund Meisel (1894-1930), compositore austriaco. Nel 1925 scrisse la prima versione della

musica per il film di Eisenstein La corazzata Potemkin, poi sostituita da brani di Shostakovich.

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interessanti e dinamiche città del mondo, poteva essere assieme argomento e attrice del film. Senza ricostruzioni in studio, senza scenografie, senza luci artificiali, il regista ritrae quasi di nascosto la vita della metropoli, perché nessuno dei soggetti deve notarlo e quindi mettersi coscientemente in posa a recitare. Egli assume il ruolo di flâneur immerso negli spazi urbani, registrando i suoi incontri come un passante urtato da altri frettolosi concittadini. Ruttmann cattura l’essenza vitalistica, il cuore di una grande città, rappresentandola come un essere vivente in un film che ancora oggi affascina per la sua modernità.

Implicitamente emerge tuttavia anche il tema espressionista della solitudine dell’individuo nel caos urbano e dell’impersonalità della metropoli, specie nelle sequenze in cui vengono presentate masse di cittadini in movimento, descritte per analogie (ad esempio tra folle e armenti), o insistendo sul tema delle gambe (l’inarrestabile e alienante marcia del progresso). La città, opera dell’uomo, non è più a sua misura.

Di questa creatura in perpetua evoluzione Ruttmann propone una serie di

“visioni simultanee”, molteplici e dinamiche, in una composizione equilibrata di suggestioni futuriste e di animazione astratta, di ritratti della città moderna e pure visioni geometriche, montate secondo il modello di una sinfonia visiva.

Ruttmann dichiarava nel 1928: “Sin da quando incominciai a lavorare nel cinema, pensai sempre di far qualcosa con la materia viva, di creare un film sinfonico con le migliaia d'energie che compongono la vita d'una grande città. La possibilità di farlo mi si presentò il giorno in cui incontrai Karl Freund, che aveva le stesse mie idee. Per diverse settimane andammo in giro insieme, sin dalle quattro del mattino, a riprendere immagini della città addormentata e come morta.

Sembrava che Berlino cercasse stranamente di sfuggire ai nostri sforzi per cogliere coll'obbiettivo la sua vita e il suo ritmo. Eravamo continuamente dominati dalla febbre del cacciatore, ma le parti più difficili furono quelle della città addormentata. È assai più facile riprendere ciò che si muove che non dare un'impressione di riposo assoluto e di calma quasi mortale. Per le scene notturne, il capo operatore Reimar Kuntze rese la pellicola così sensibile che potemmo fare a meno della luce artificiale”

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G. Sadoul, Dizionario dei film, Firenze, Sansoni, 1968, sub voce.

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