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Capitolo II Tentativi di riforma del servizio radiotelevisivo italiano

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Capitolo II

Tentativi di riforma del servizio radiotelevisivo italiano

1. Proposte parlamentari del 1958-1959

Il dibattito sulla riforma del settore radiotelevisivo nasce assieme alla televisione stessa. Proprio l’organizzazione del sistema radiotelevisivo esemplifica in maniera lampante le contraddizioni dell’assetto politico-istituzionale italiano.

Nei primi anni della sua esistenza la televisione aveva assunto un modello che è indicato come palinsesto pedagogizzante, caratterizzato da un’impronta molto educativa, di stampo cattolico e

umanistico1. Si evidenziava, fin dall’inizio, una forte

interdipendenza tra gli intenti educativi e quelli politici: l’assetto istituzionale della Rai era strettamente vincolato al Governo, a quei

1

G. Bettetini, Televisione: la provvisoria identità nazionale, Torino, Fondazione Agnelli, 1985, p. 54.

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tempi ad assoluta prevalenza DC, e dunque alla matrice cattolica, in grado di esercitare una certa egemonia in alcuni campi della vita culturale, e di indicare quei valori, rispettosi della tradizione

umanistica e letteraria italiana, cui la programmazione

radiotelevisiva doveva ispirarsi.

Il regime concessorio in vigore, di fatto, non teneva conto della forte innovazione (almeno sul piano dei principi) apportata dall’entrata in vigore della Carta costituzionale e, in particolare, dell’art. 21: proprio questa disposizione può essere considerata il principale strumento mediante il quale è stato prima scalfito, poi sgretolato il monopolio pubblico della radiotelevisione.

Il Parlamento, arrivati al 1958, non era ancora riuscito a discutere del problema dei media radiotelevisivi e il deputato socialista Schiavetti, nel Dicembre del corrente anno, presentò una proposta di legge riguardante il disciplinamento delle informazioni politiche alla radio e alla televisione2. Si perseguiva l’obiettivo di assegnare una volta il mese un tempo fisso di trasmissione a ciascun gruppo parlamentare al fine di evitare un quadro distorto della

2

G. Guazzaloca, La televisione è di tutti? I partiti politici e la gestione della RAI-TV negli anni

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situazione politica che giovasse una sola parte politica. La proposta non fu mai esaminata e cadde nel vuoto.

Stessa sorte era toccata, nel 1959, all’iniziativa dei deputati Ugo La Malfa e Oronzo Reale che presentarono un progetto di riforma nel quale si proponeva la nomina di una Commissione

parlamentare d’inchiesta che esaminasse i problemi di

riordinamento strutturale della RAI. Nell’intervento conclusivo Reale auspicava l’elaborazione di un provvedimento legislativo che desse all’Italia un servizio radiotelevisivo democratico3.

L’iniziativa più completa in materia di riforma del sistema radiotelevisivo negli anni ’58-’59 fu quella proposta dai deputati comunisti Lajolo, Pajetta e Ingrao il 18 marzo 1959. I firmatari chiedevano la diretta ingerenza del Parlamento nella gestione dell’azienda concessionaria e la possibilità di controllare i

programmi dal punto di vista culturale e educativo4.

Anche tale proposta non fu mai esaminata e alla fine degli anni Cinquanta la condizione del sistema radio televisivo era rimasta immutata.

3 La radiotelevisione in Italia. Legislazione, documenti parlamentari dal 1958 al 1963, Milano, Studium, 1963, p. 324-329.

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2. Il servizio radiotelevisivo come servizio pubblico

La televisione è la fonte principale d’informazione per la maggioranza della popolazione italiana ed è considerata il mezzo di comunicazione notevolmente più influente per la formazione dell’opinione pubblica.

Il carattere essenziale di un servizio pubblico è oggetto di valutazione discrezionale dato che l’art. 43 della Costituzione consente ai pubblici poteri di riservare o di trasferire con l’espropriazione le attività d’impresa ascrivibili alla categoria dei servizi pubblici essenziali5.

Tuttavia si può tranquillamente affermare che l’attività radio- diffusiva possa essere ricompresa tra gli estremi del servizio pubblico sia perché si rivolge all’intera collettività sia perché soddisfa alcuni bisogni essenziali della collettività quali l’informazione, l’educazione e l’intrattenimento. A dimostrazione di quanto scritto, l’informazione radiotelevisiva pubblica rientra tra

5

S. Torricelli, Il mercato dei servizi di pubblica utilità. Un’analisi a partire dal settore dei

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le attività rispetto alle quali lo sciopero deve essere esercitato garantendo le prestazioni indispensabili6.

Sull’idea dell’attività radio-diffusiva come servizio pubblico essenziale non si rinviene, però, il medesimo grado di consenso che si ritrova intorno ad altri servizi di pubblica utilità7. Il servizio pubblico radiotelevisivo, nel corso degli anni, si è andato sempre più omologando a quello commerciale portando a una progressiva riduzione dei contenuti di carattere pubblico. Da molte parti è ormai sostenuto l’abbandono del servizio pubblico radiotelevisivo dato che la sua funzione sociale può essere garantita dal libero mercato. Si passerebbe così dal servizio pubblico gestito direttamente o indirettamente dallo Stato a servizio d’interesse economico generale8.

A questo ragionamento, in stretta successione, si lega quello sulla possibilità di affidare il servizio pubblico radiotelevisivo alla gestione dei privati, mediante meccanismi di evidenza pubblica che ne garantiscano l’efficienza e la qualità, sottraendolo così all’affidamento diretto a una società controllata dallo Stato.

6 Legge n. 146 del 1990 sul diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali.

7 G. Napolitano, Rai e servizio pubblico: oltre il dibattito politico, in I Quaderni del laboratorio sui Servizi a rete, 2006, n. 2.

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Il servizio pubblico radiotelevisivo continua, infatti, a essere riservato allo Stato in via esclusiva. Si tratta di una riserva concernente una parte specifica dell’attività radio-diffusiva, contraddistinta da determinati caratteri d’interesse generale, che è attribuita ex lege allo Stato, il quale la esercita in via indiretta mediante concessione a una società strumentale (RAI). Tutta l’attività della concessionaria RAI, peraltro, ricade nella nozione di servizio pubblico essenziale9.

Dall’avvio delle trasmissioni fino alla prima legge sulla radiotelevisione (legge n. 103 del 1975), la giustificazione fondamentale per la riserva alla mano pubblica dell’attività radio-diffusiva è la scarsità dell’etere, il bene demaniale che rappresenta il mezzo indispensabile per la diffusione del segnale televisivo. La Corte Costituzionale aveva inoltre affermato che lo Stato era in grado di esercitare i servizi radiotelevisivi in più favorevoli condizioni di obbiettività, d’imparzialità, di completezza e di continuità in tutto il territorio nazionale10.

Il perdurare del monopolio statale sull’attività radiotelevisiva è motivato non più e non solo in virtù della limitatezza dello spettro

9

Art. 2, co. 1, lett. M, d. lgs. n. 177 del 2005. 10 C. Cost., 6 luglio 1960, n. 59, in Giur. cost., 1960.

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elettromagnetico, ma con riferimento alla natura di servizio pubblico essenziale di cui l’attività televisiva è espressione. L’indebolirsi della logica della scarsità e del monopolio naturale, legata all’uso di nuove tecnologie che consentono un uso più efficiente dello spettro elettromagnetico, cede progressivamente il passo alla logica del servizio pubblico essenziale, cui lo Stato non può abdicare senza pregiudicare l’interesse generale.

La mera presenza di questi presupposti non è sufficiente, giacché devono ricorrere anche i fini di utilità generale per giustificare la riserva allo Stato di un’attività d’impresa; è nella funzione di promozione culturale e sociale, direttamente correlata alla realizzazione del diritto a un’informazione plurale nei contenuti, che il servizio pubblico trova la propria giustificazione e il motivo di sopravvivenza.

Non tutta l’attività radiotelevisiva è riservata allo Stato, ma solamente quella parte che presenta i caratteri del servizio pubblico essenziale, inteso come attività che fornisce risposta ai bisogni fondamentali della collettività, favorendo il miglioramento delle condizioni culturali e intellettuali delle persone11.

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Dopo aver trattato il tema sulla nozione di servizio pubblico riferita all’attività radio-diffusiva, occorre affrontare l’aspetto della necessità di mantenere il servizio pubblico radiotelevisivo in capo ad una società interamente partecipata dallo Stato. In Europa non esiste un modello unico di servizio pubblico, ma un’ampia varietà di modelli: in Italia e Francia è affidato a un unico soggetto pubblico, gli Stati Uniti invece hanno sviluppato una forma di servizio televisivo pubblico operato senza fini di lucro e in assenza di finanziamenti pubblicitari, alimentato da (limitati) fondi pubblici e soprattutto da forme di sponsorizzazione volontaria da parte di sottoscrittori e donatori. Si nota pertanto come la scelta di riservare alla mano pubblica l’attività radiotelevisiva non sia per nulla necessitata, ma rappresenti piuttosto una scelta politica degli Stati12.

La legislazione europea, sul punto, non è particolarmente esaustiva; è specificato che i servizi radiotelevisivi sono quelli che la Comunità Europea non può regolare direttamente poiché presentano un’imprescindibile relazione con valori culturali, sociali e democratici di ciascuno Stato13.

12 G. Gardini, Le regole dell’informazione, Milano, Mondadori, 2005.

13

F. Giglioni, Il servizio pubblico nel sistema televisivo tra esigenze democratiche e riforma

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La giustificazione delle sistematiche concessioni operate dal governo italiano a favore della società RAI per lo svolgimento del servizio pubblico radiotelevisivo, mediante atto legislativo e in assenza di qualsiasi procedura concorrenziale, va pertanto ricondotta a una sorta di affidamento in house: ossia l’ipotesi in cui una pubblica amministrazione (Stato) affida a un ente da essa controllato (RAI) la prestazione di servizi, forniture o lavori

mediante un provvedimento interno14. L’affidamento in house si

può praticare solo a favore di soggetti a totale partecipazione pubblica, che si configurano come vera e propria emanazione dell’amministrazione aggiudicatrice anche se formalmente distinti.

L’altra, forse più plausibile giustificazione all’affidamento diretto del servizio pubblico radiotelevisivo alla RAI si collega alla gestione di un servizio d’interesse economico generale e dà luogo a una duplice deroga alle regole della concorrenza: da un lato, per la riserva monopolistica di una parte di attività redditizie a favore della società che adempie la missione pubblica, dall’altro, per gli

14

D. Casalini, L’organismo di diritto pubblico e l’organizzazione in house, Napoli, Jovene, 2003, p. 247-251.

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aiuti finanziari pubblici riconosciuti alla RAI normalmente vietati a livello europeo15.

3. Legge n. 103 del 1975

La legge 14 aprile 1975 n. 103 rappresenta il primo provvedimento normativo organico in ambito radiotelevisivo. Si definisce l’attività di radiodiffusione come essenziale e pubblica e sono elencati i principi fondamentali del servizio pubblico quali l’indipendenza, l’obiettività e il rispetto delle libertà garantite dalla Costituzione. È trasferito il controllo sul settore radiotelevisivo dal Governo al Parlamento e si attua il finanziamento del sistema attraverso il canone posto a carico degli utenti e la pubblicità commerciale16.

Nel novero delle funzioni introdotte a favore del Parlamento in materia di radiotelevisione, occorre riferirsi in particolare alla Commissione Parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi. Istituita per consentire al Parlamento di vigilare e di indirizzare l’attività radiotelevisiva pubblica,

considerata, specie per quanto riguarda l’informazione,

particolarmente importante per il corretto funzionamento di un

15 D. Sorace, Diritto delle amministrazioni pubbliche, Bologna, il Mulino, 2005, p. 128. 16

D. Della Penna, Riassetto del settore radiotelevisivo. La Rai e il servizio pubblico dalla

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sistema democratico, in primo luogo consentì il trasferimento delle

fasi organizzative del sistema radiotelevisivo dall’alveo

governativo, accogliendo le indicazioni espresse dalla Corte Costituzionale nella sentenza 225/1974.

La Commissione era composta di venti deputati e venti senatori nominati dai presidenti delle Camere sulla base delle designazioni effettuate dai gruppi parlamentari, dei quali esprime ovviamente la proporzionalità17. Forniva, inoltre, indirizzi generali per l’equilibrata distribuzione dei programmi, indicava i criteri cui attenersi per stendere i piani annuali e pluriennali di spesa e d’investimento della RAI, provvedeva alla tutela dei cittadini predisponendo indirizzi generali relativi ai messaggi pubblicitari.

Avviene anche un processo di decentramento dei poteri dello Stato alle Regioni con l’introduzione dei comitati regionali per il servizio radiotelevisivo e la partecipazione delle regioni alla formazione del Consiglio di amministrazione della RAI con la nomina di quattro membri su sedici.

Le Regioni sono considerate le massime istituzioni rappresentative della comunità nazionale, le migliori garanti della

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libertà e del pluralismo dell’espressione culturale, sociale e politica oltre che del diritto dei cittadini a essere informati in una dimensione istituzionale liberal-democratica e di garanzia costituzionale di attività e ruoli sociali.

La nuova conformazione del Consiglio d’amministrazione della RAI, dunque, accoglie l’indicazione del giudice delle leggi che aveva chiesto che gli organi direttivi non fossero costituiti in modo da rappresentare direttamente o indirettamente espressione, esclusiva o preponderante, del potere esecutivo. In realtà si consolida un fenomeno iniziato alcuni anni prima, noto sotto il nome di lottizzazione, ossia la spartizione degli incarichi chiave tra soggetti che appartengono o fanno riferimento a partiti politici, che, di fatto, assumono un ruolo di primissimo piano nella gestione della

concessionaria del servizio pubblico.18

La legge 103/1975 impose alla società concessionaria una riserva di appositi spazi di trasmissione a favore di associazioni e gruppi a perseguimento dell’interesse collettivo di un’informazione obiettiva e completa, unica giustificazione per sottrarre il mezzo radiotelevisivo alla disponibilità dei privati. L’articolo 4 prevedeva,

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infatti, che la Commissione di Vigilanza creasse una sottocommissione permanente per esaminare le varie domande delle differenti formazioni nelle quali il pluralismo sociale si manifesta, ripartire lo spazio e determinarlo a livello temporale.

Basandosi sempre sulla parola d’ordine pluralismo, anche la RAI doveva attuare tale principio prioritario e l’art. 13 della legge 103/1975 infatti, nel delineare la struttura della concessionaria, parla espressamente di due telegiornali distinti, uno per ciascuna rete allora esistente. Con la creazione di due testate giornalistiche autonome inizia anche la loro differenziazione ideologica, con un’interpretazione del principio del pluralismo sostanzialmente in chiave politica e partitica.

Altra disposizione di rilievo della legge è la regolazione via cavo e la ripetizione via etere di programmi nazionali ed esteri; la tv via cavo per la prima volta è ammessa in via legislativa, sia pure con limitazioni quantitative, territoriali e di utenza19, nonché previo ottenimento di un’autorizzazione da parte del Ministero competente e della Regione interessata. Quanto agli impianti ripetitori di segnali

19

Il cavo deve essere monocanale, la copertura non può superare i 150 mila abitanti, ogni rete non può prevedere più di 40 mila allacciamenti.

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radiotelevisivi, ne è ammessa l’installazione previa autorizzazione del Ministero delle poste e telecomunicazioni.

La disciplina prevista dalla legge 103/1975 per la televisione via cavo non sembra lasciare, nei fatti, molto spazio per nuove emittenti, soprattutto in ragione della restrittività delle disposizioni sopra ricordate; i limiti piuttosto severi indicati dalle disposizioni in questione non favoriscono la nascita di nuove esperienze che utilizzino quella tecnologia20.

Si assiste, nel frattempo, alla nascita di un numero imprecisato di emittenti locali che scelgono la trasmissione via etere nonostante la legge nega tale possibilità. Oltre alle numerose denunce pervenute agli autori di tali iniziative, si sottopone la Corte Costituzionale al controllo di legittimità della legge nella parte in cui non prevede l’esistenza di un regime di autorizzazione che permetta di installare impianti di radiotelevisione via etere così come avviene invece per il cavo.

La Corte individua una violazione del principio di eguaglianza nel non equiparare il regime della tv via cavo e di quella via etere a livello locale, avendo riscontrato l’esistenza di una disponibilità

20

G. Azzariti, La temporaneità perpetua, ovvero la giurisprudenza costituzionale in materia

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sufficiente di frequenze perché sia garantita la libera iniziativa privata21. La Consulta finisce per dichiarare l’incostituzionalità di alcune delle disposizioni della legge 103/1975 oggetto di ricorso e stabilisce che il legislatore nazionale deve intervenire per regolare la materia.

Il progetto disegnato e attuato grazie alla legge 103/1975 non si dimostrò soddisfacente, visto che sembra disciplinare solamente dal punto di vista politico un settore bisognoso d’importanti riforme strutturali; non si assicura sufficiente operatività sul mercato e non prevede alcun principio di regolamentazione delle emittenti private, lasciando di fatto spazio all’avvento non regolato della tv

commerciale a diffusione nazionale22.

4. Legge Mammì e l’affermazione del sistema misto radiotelevisivo.

L'esame del disegno di legge Mammì presso la Commissione lavori pubblici del Senato iniziava il 3 agosto 1988; l'esame in Commissione si concludeva il 3 marzo 1990, dopo che il Presidente della Corte costituzionale aveva offerto la prospettiva di un

21 C. Cost., 28 luglio 1976, n. 202, in Giur. cost., 1976.

22

A. Abruzzese, L’industria culturale. Tracce e immagini di un privilegio, Roma, Carocci, 2000, p. 225-226.

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intervento sulla legge n. 10 del 1985.23 nel caso che i lavori parlamentari non avessero avuto una rapida conclusione. Il testo approvato dal Senato approdava alla Camera il 30 marzo 1990, e l'esame presso la Commissione cultura iniziava il 18 aprile con la relazione dell'on. Aniasi. La Commissione non riusciva a terminare l'esame del provvedimento entro il termine (12 luglio 1990) fissato per l'inizio della discussione in Assemblea; in Aula emergevano quindi tutte le difficoltà e le divergenze che la Commissione non era riuscita a filtrare, e il dibattito poteva andare avanti solo con il ricorso alla fiducia, che il Governo poneva il 14 luglio 1990 su emendamenti interessanti quattro articoli del testo.

A questo punto la sinistra democristiana si dissociava dalle posizioni della maggioranza e i suoi esponenti davano le dimissioni dagli incarichi di Governo: la crisi politica era risolta con un rapido rimpasto e il disegno di legge Mammì, licenziato dall'aula di Montecitorio il 1° agosto, tornava, profondamente modificato, al Senato, che lo approvava definitivamente il 6 agosto 1990.

Gli art. 1 e 2 della legge Mammì dettano principi e disposizioni di ordine generale oltre a ripetere il carattere di

23

Conversione in legge del d. l. 6 dicembre 1984, n. 807, recante Disposizioni urgenti in

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preminente interesse generale che accomuna l’attività radiotelevisiva pubblica e privata. Il sistema radiotelevisivo si realizza con il concorso di soggetti pubblici e privati, assumendo quali principi fondamentali il pluralismo, l'obiettività e la completezza dell'informazione, l'apertura alle diverse opinioni, tendenze politiche, sociali, culturali e religiose, nel rispetto delle libertà e dei diritti garantiti dalla Costituzione.

I soggetti privati possono ottenere la concessione per l'esercizio della radiodiffusione sonora o televisiva con riferimento ad un ambito territoriale nazionale o locale, in esito a un procedimento di natura concorsuale, gestito dal Ministero delle poste, che ha come presupposto la redazione di un piano nazionale di assegnazione delle frequenze destinate ai servizi di radiodiffusione ed è comunque vincolato al rispetto di norme anticoncentrazione che pongono limiti al numero massimo di concessioni rilasciabili al medesimo soggetto, tenendo conto anche degli eventuali incroci con situazioni di controllo di giornali quotidiani.

Gli art 15 e 19, infatti, prevedono specifiche restrizioni all’esercizio dell’attività di broadcasting al fine di evitare la

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formazione di posizioni dominanti24. Si stabilisce che nessun soggetto può avere il controllo (diretto o indiretto) di oltre il 25% delle reti previste dal piano di assegnazione nazionale e, comunque, le concessioni non devono essere più di tre. Si esclude ogni possibilità di concessione radiotelevisiva a chi controlla giornali che l’anno precedente abbiano superato il 16% della tiratura complessiva nazionale.

Sono colpiti da nullità gli atti che consentono a un soggetto di controllare più del 20% delle risorse complessive del settore delle comunicazioni di massa, comprendente ricavi della vendita della stampa, abbonamenti a pubblicazioni o emittenti radio-tv, vendita o uso di audiovisivi, pubblicità, canone e altri contributi pubblici continuati. In cambio della diretta, le concessionarie, hanno tra l’altro l’obbligo di trasmettere telegiornali25, misura nelle intenzioni favorevole al pluralismo.

La legge ha infine istituito una nuova Autorità indipendente, il Garante per la radiodiffusione e l'editoria, nel quale sono state concentrate le funzioni già svolte dal Garante per l'editoria nel

24 A. Gentili, Pluralismo informativo e concentrazioni televisive: una proposta interpretativa,

in Rapporto 1993 sui problemi giuridici della radiotelevisione in Italia, a cura di Barile e

Zaccaria, Torino, 1994, p. 449-456.

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settore della comunicazione a mezzo stampa e le funzioni di controllo e garanzia nel settore della comunicazione radiotelevisiva. Il Garante è nominato dal Presidente della Repubblica su proposta dei due presidenti delle Camere, con mandato di tre anni; questa figura sarà sostituita nel 1997 dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni.

Il primo atto normativo successivo all’approvazione della legge 223/1990 è il Dlgs 73/1991, dedicato alla regolamentazione della radiotelevisione via cavo per cui sarebbe sufficiente l’autorizzazione per distribuire programmi via cavo. Quando invece l’anno dopo è il momento di assegnare le concessioni per le trasmissioni televisive via etere, emergono con chiarezza vari problemi, sostanzialmente intatti dopo l’avvento della legge Mammì.

Il ministero individua 12 concessioni assentibili, tre delle quali riservate alle reti di servizio pubblico, mentre le altre nove sono da assegnare ai privati, in conformità a criteri indicati nel regolamento di attuazione della legge26. Appare subito chiaro che se in tutto le concessioni sono dodici, il 25% di dodici è tre, esattamente pari al

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numero di reti controllate dal gruppo Fininvest: la misura che in teoria avrebbe dovuto evitare posizioni dominanti, nei fatti consolida la posizione dominante che già esisteva, senza che si possa liberare delle frequenze a vantaggio di nuovi operatori.

La legge 223 del 1990, pur qualificandosi come legge di sistema e pur facendo riferimento, nell'art. 1, alla diffusione di programmi realizzati con qualsiasi mezzo tecnico, disciplina prevalentemente, con un tentativo di razionalizzazione a posteriori, un fenomeno già spontaneamente verificatosi, e cioè l'accesso dei privati all’attività di radiodiffusione via etere.

Ancora prima dell’assegnazione delle concessioni, dunque, è già possibile prevedere che il sistema radiotelevisivo rimarrà dominato dall’operatore pubblico e dal maggiore gruppo privato italiano, mentre le altre emittenti sono destinate ad avere un ruolo notevolmente marginale, senza che ciò effettivamente produca un effetto benefico sul pluralismo tanto invocato.

La legge Mammì non riesce tuttavia a dare una soluzione stabile e definitiva al sistema radiotelevisivo italiano per diversi motivi, alcuni di carattere contingente e altri collegati ai processi

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comunicazioni di massa e quindi da un più accentuato processo d’integrazione europea. Anche questa legge, come la precedente legge 103/1975, non sembra fornire una soluzione adeguata: non solo sembra realizzare uno scarso pluralismo legittimando il duopolio di RAI e Fininvest ma appare anche penalizzare le piccole emittenti locali e l’intero settore dell’informazione stampata, che si vedono sottrarre risorse finanziarie sempre più ingenti da un sistema radiotelevisivo che funge da polo di attrazione sempre più esclusivo per il mercato pubblicitario27.

A conferma dell’inadeguatezza della legge Mammì, la Corte costituzionale con la sentenza n. 420 del 1994, dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’articolo 15 comma quarto in quanto, consentendo al singolo soggetto di detenere il 25% delle reti nazionali o al massimo tre reti televisive, non rappresentava un sistema idoneo a garantire il limite alla concentrazione d’imprese e commette una grave violazione del principio pluralistico citato all’articolo 21 della Costituzione.

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5. Legge Gasparri e l’ingresso dell’emittenza privata nel servizio pubblico radiotelevisivo

La legge 112/2004, più nota come legge Gasparri28, ha

suscitato non poche polemiche politiche e anche molti dubbi di tipo giuridico sui suoi effetti, sulla sua rispondenza alle sentenze della Corte costituzionale e sull’opportunità di sue varie disposizioni. Nel lungo periodo di gestazione della legge, sono intervenuti alcuni mutamenti di ordine tecnologico e giuridico che hanno aperto la strada a una nuova fase di questa lunga evoluzione del servizio pubblico radiotelevisivo.

Di una nuova legge che tenga conto dell’evoluzione tecnologica, del contenuto delle direttive comunitarie e delle indicazioni della Corte costituzionale parla anche l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, nel suo primo, di fatto unico, messaggio alle Camere. Il messaggio, datato 23 luglio 2002, è espressamente dedicato, fin dall’intitolazione, ai temi del pluralismo e dell’imparzialità dell’informazione, valori cui il Presidente si è sempre mostrato molto sensibile.

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Ciampi mostra di avere ben presente come non sia sufficiente la tecnologia per garantire il pluralismo, ma occorrano nuove politiche pubbliche e, soprattutto, una nuova legge di sistema, che regoli l’intera materia delle comunicazioni, comprendente anche l’editoria e i suoi rapporti con gli altri settori della comunicazione29. Il 2 dicembre 2003 è approvata la Legge Gasparri ma sono in molti, tuttavia, a esprimere fin dal primo giorno varie perplessità sulla conformità a Costituzione, ed anche a quelle stesse indicazioni che i promotori dichiarano di avere considerato della nuova disciplina, sotto vari profili30. In fase di promulgazione il Presidente della Repubblica, il 15 dicembre 2003, chiese alle Camere una nuova delibera di tale legge richiamandosi alla giurisprudenza della Corte e al suo discorso dell’anno precedente.

Il rinvio avveniva a meno di un mese dallo spirare del termine fissato dalla Corte per l’emigrazione dall’analogico delle reti

eccedenti. Ciò evidentemente metteva a rischio, anzi,

comprometteva la posizione di tali reti, le quali dall’1 gennaio 2004 rischiavano di trasmettere in situazione d’illiceità penale31. Per tali

29 V. Olimpieri, Il messaggio del presidente della Repubblica sul pluralismo e l’imparzialità

dell’informazione, in Associazione dei Costituzionalisti 25.07.2002.

30

C. Rognoni, Inferno tv, Milano, Tropea, 2003, p. 139.

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ragioni il Governo, considerata l’urgenza, si vede costretto a intervenire con decreto legge del 24 dicembre 2003 n. 352 convertito poi in legge 24 febbraio 2004 n. 4 al fine di evitare gli effetti della sentenza n. 466/2002 che avrebbe imposto la messa sul satellite di Retequattro e la conseguente perdita di pubblicità su Raitre.

Nonostante il messaggio presidenziale di rinvio della legge alle Camere e le forti critiche rivolte al D.D.L. Gasparri bis, le modifiche apportate rispetto al testo fatto oggetto del rinvio presidenziale sono state assai modeste. Dopo 19 mesi di scontro politico, dopo aver dovuto affrontare, oltre al rinvio presidenziale, nei sei passaggi fra Camera e Senato, oltre 14.000 emendamenti, quasi 90 sedute in Commissione e 44 in Aula; 410 votazioni a scrutinio segreto il nuovo testo del D.D.L. Gasparri era approvato in via definitiva il 29 aprile 2004 e promulgato dal Presidente il 3 maggio 200432.

La legge si compone di 29 articoli divisi in cinque capitoli e i principi generali, che aprono il dettato normativo, rappresentano una solenne dichiarazione d’intenti al fine di configurare un nuovo

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assetto strutturale più democratico, trasparente e atto ad allargare la platea delle tv private. Si fa riferimento alla garanzia della libertà e del pluralismo dei mezzi di comunicazione radiotelevisiva, alla libertà di espressione, a quella di opinione, all’obbiettività, alla completezza, alla lealtà e all’imparzialità dell’informazione, all’apertura alle diverse opinioni e tendenze politiche, sociali, culturali e religiose.

Si tratta di principi all’apparenza scontati, se introdotti come preambolo in una legge di sistema in materia radiotelevisiva. In realtà, la loro sistemazione serve a enfatizzarne la portata e a rilevare come la volontà sottesa alla legge sia diretta a dare corpo alle esortazioni provenienti dai movimenti di opinione pubblica, da forze politiche, da ampi settori economici e culturali, dalla giurisprudenza costituzionale, dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato e, non ultimi, dallo stesso Parlamento europeo e dal Presidente della Repubblica.

Il tema forse più importante della legge riguarda la disciplina

antitrust; in prima istanza questa si sarebbe dovuta applicare una

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Una volta avvenuto il passaggio, nessun fornitore di contenuti ha potuto diffondere più del 20% dei programmi radio-tv: la soglia è calcolata su un paniere di attività molto vasto, così da scolorire la relazione col singolo mercato di riferimento, che dovrebbe essere quello specifico, per quanto interessa, delle televisioni che trasmettevano in analogico. Ciò comporta che l’assetto del duopolio televisivo (nell’analogico) non superava strutturalmente la soglia antitrust legislativamente prevista.

Sono davvero molti i costituzionalisti che hanno criticato questa parte del Ddl: si è notato che il paniere è talmente ampio da rendere quasi impossibile raggiungere i limiti prestabiliti anche per i due oligopolisti. Più di ogni altra cosa, il SIC33 si è dimostrato in contrasto con la normativa comunitaria e, in particolare, con la normativa comunitaria e la giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità Europea. Per valutare le posizioni dominanti

dovrebbe essere preso come riferimento il mercato rilevante34; resta

pertanto in vigore, effettivamente, il divieto di costituzione di posizioni dominanti nei singoli mercati che compongono il SIC, ma

33

Sistema integrato delle comunicazioni.

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non è stata mantenuta l’esplicita limitazione del 30% delle risorse che la legge Maccanico riferiva al settore della radiotelevisione.

Altra tematica di rilievo è la pubblicità: RAI e Mediaset si spartiscono il 90% degli introiti e non sono presenti limiti alla raccolta pubblicitaria, cosicché il pluralismo rischia seriamente di uscirne ridimensionato. Nulla vieta alla televisione di spartirsi tutti gli introiti delle pubblicità sguarnendo la stampa della fonte principale di finanziamento della propria attività. S’impone perciò alle Pubbliche Amministrazioni di destinare almeno il 60% della comunicazione istituzionale a quotidiani e periodici, per tutto il periodo di transizione definitiva al digitale terrestre.

Nella Legge Gasparri si affronta anche il tema del servizio pubblico ed emerge chiaramente l’intenzione di avviare la RAI alla privatizzazione in particolare con l’incorporazione di questa in RAI-Holding Spa e la dismissione parziale della quota azionaria detenuta dallo Stato35. Prima che il processo di privatizzazione sia avviato e completato, tuttavia, la gestione dell’azienda fa un passo indietro di circa trent’anni. Un emendamento, infatti, inserisce un regime transitorio relativo al consiglio d’amministrazione: dei nove

35 Relazione del d. d. l 3184, punto 1. 3.

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membri, sette saranno indicati dalla Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, mentre l’indicazione degli altri due, compreso il Presidente, spetta al socio di maggioranza, ossia al Ministero dell’Economia. Per la prima volta dopo la riforma del 1975, nelle nomine degli amministratori RAI torna ad avere voce in capitolo il Governo, cui tocca proprio la scelta del Presidente; va peraltro aggiunto che la nomina di quest’ultimo è efficace solo dopo l’acquisizione del parere favorevole della Commissione di vigilanza, a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti.

Per terminare, non si può fare a meno di notare come gli studiosi del diritto costituzionale si siano in larghissima parte pronunciati negativamente sulla legge Gasparri in materia

radiotelevisiva, arrivando spesso a parlare chiaramente

d’illegittimità costituzionale plurima ed esprimendo il loro parere in gran parte attraverso le interviste o gli interventi richiesti loro dalle maggiori testate giornalistiche italiane. Nonostante si sia verificato l’ingresso nella tv di molteplici tv private più o meno collegate alle due principali aziende del settore, molte voci hanno messo in luce,

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fin dall’inizio, la contrarietà a Costituzione del Ddl sotto vari punti di vista, in una situazione che non si era mai verificata prima.

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