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I. Idea della conoscenza e modello di scientificità nel discorso sulla storia di ImmanuelKant

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Prima dissertazione

I. Idea della conoscenza e modello di scientificità nel discorso sulla storia di Immanuel Kant

Introduzione:

«C'è nella natura dell'uomo una certa doppiezza, che, in definitiva, come tutto ciò che deriva dalla natura, deve racchiudere un'inclinazione a scopi buoni; cioè la propensione a tenere nascosti i propri veri sentimenti, simulandone altri, che godono fama di bontà e rispettabilità. È innegabile che in virtù di questa propensione così a nascondersi come ad assumere un aspetto favorevole, gli uomini non soltanto si sono inciviliti, ma anche gradualmente moralizzati, almeno in certi limiti. [...] È per me increscioso dover riscontrare questa doppiezza, questa dissimulazione e falsità anche nelle manifestazioni dell'attività speculativa [...]»1. Con queste parole di Kant, come se si trattasse del ceterum censeo della

filosofia trascendentale, può cominciare la nostra considerazione sul valore e sul significato che la storia, filosoficamente concepita, riveste all'interno del sistema della ragion pura.

Pare, infatti, dalle tre critiche, che ciascuna indagine riguardante le facoltà della ragion pura conduca, infine, alla determinazione di un risultato che faccia anche da presupposto per ogni considerazione che abbia come tema quello della possibilità teoretica e della realizzazione pratica di un sapere sistematico: una volta percorso l'intero ciclo della conoscenza e, in forza di questo, innalzato l'edificio completo della ragion pura, l'opera non può dirsi compiuta se la si lascia sussistere accanto all'innegabile tendenza dell'uomo ad

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allontanarsi dalla propria natura.

Tanto realmente sussiste questa doppiezza naturale degli uomini che il critico della ragione, su un piano specificamente morale, riesce a concepire una progressività nella storia degli uomini soltanto guardando al modello di una oggettività esterna, cioè riferendosi alla natura come a ciò che racchiude in sé la destinazione verso scopi buoni di ogni inclinazione, non tanto dei singoli uomini, bensì in quanto rivolta al genere umano; dal punto di vista trascendentale, ovvero su un piano più tipicamente teoretico, invece, per dar conto della dissimulazione e falsità esistenti nelle manifestazioni dell'attività speculativa, Kant si incarica di terminare le sue tre critiche con una dottrina del metodo, la quale abbia come primo compito quello di istituire, al cospetto del tribunale della ragione, una disciplina delle conseguenze: dell'uso speculativo dei concetti dell'intelletto, dell'uso e degli effetti della libertà in quanto ratio essendi della legge morale.

Nella Critica della ragion pura la metodica costituisce l'immediato preambolo del sistema della scienza, di un'architettonica della ragione, mentre nella Critica della ragion pratica si tratta di fornire i preliminari di una pedagogica morale. È noto che Kant non si chiede filosoficamente che cosa segua immediatamente nella serie degli accadimenti reali di un'azione, bensì da quale fondamento morale questa provenga. La moralità, come insieme delle condizioni formali dell'agire, si rivolge ai motivi, alla massima a cui si richiama e alla direzione verso cui tende la libera volontà di ciascun uomo. Con pedagogica morale si intende allora il modo in cui alle leggi della ragion pura pratica si può fornire accesso all'animo umano e un influsso necessario sulle sue massime, in quanto metodo del coltivare e del promuovere autentiche intenzioni morali2.

2 Ivi, p. 327, in particolare il periodo in cui viene detto: « Al contrario, per questa dottrina del metodo s'intende il

modo in cui si può procurare alle leggi della ragion pura pratica un a d i t o nello spirito umano, un i n f l u s s o sulle massime di esso, cioè il modo di far anche s o g g e t t i v a m e n t e pratica la ragione oggettivamente pratica».

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Nel caso della capacità di giudizio, invece, non possiamo parlare propriamente di una disciplina se non teniamo conto della distinzione fondamentale presentata da Kant nell'opera del 1790: quella tra giudizio estetico e giudizio teleologico. Nel primo caso non si parla di un metodo ma di una maniera, perché l'applicazione di una disciplina al giudizio di gusto, da un lato soffocherebbe l'attività creatrice del genio, dall'altro limiterebbe il libero gioco delle facoltà, che trae origine dall'operare di una immaginazione non condizionata3. Nello

specifico, afferma Kant, è invece la stessa facoltà di giudicare del bello che si offre quale propedeutica: il bello come simbolo del bene morale4, rende possibile il passaggio dal

dominio del concetto della natura, in cui è coinvolta totalmente l'attività determinante dell'intelletto, al dominio del concetto della libertà, come oggetto proprio della ragion pura pratica. Il giudizio estetico mediante il suo principio a priori rende possibile il passaggio dalla ragion pura teoretica alla ragion pura pratica, dalla conformità a leggi, quale principio della conoscenza della natura, alla considerazione di uno scopo finale quale principio della destinazione dell'uomo. E ciò è possibile perché, nel riconoscere nell'oggetto dei sensi un libero piacere, il giudizio estetico apre allo sviluppo delle idee morali.

La possibilità di pensare il particolare come contenuto nell'universale, quale facoltà specifica del giudizio, e l'esigenza naturale della ragione di collegare le esperienze particolari in un sistema, introducono la questione che Kant affronta nella seconda parte della Critica della capacità di giudizio, ovvero il giudizio teleologico. Nell'ambito di una sistematica delle facoltà si può parlare della disciplina del giudizio teleologico secondo i termini della topica trascendentale5.

3 Cfr., I. Kant, Critica della capacità di giudizio, tr. it. di Leonardo Amoroso, Rizzoli, Milano 2012., pp. 551-554. 4 Ivi, pp. 541-551, ovvero il noto e importante §59.

5 Parlarne, cioè, in analogia al concetto di topica trascendentale. In particolare si faccia riferimento al passo che riportiamo di seguito: «Mi sia concesso di chiamare luogo trascendentale quel posto che assegniamo a un concetto, nella sensibilità o nell'intelletto puro. La topica trascendentale verrebbe in tal modo a consistere nella determinazione del posto spettante a ciascun concetto a seconda della diversità del suo uso e nel reperimento di

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Nella terza Critica, in generale, si è trattato di portare a termine l' «impresa critica», di esibire la possibilità di un fondamento dell'unità della ragione, distinta soltanto nelle sue applicazioni. Il problema è stato quello di inserire nel sistema un termine medio che legittimasse l'intero edificio della ragion pura6. In modo specifico, ora, la questione diventa,

in relazione al giudizio teleologico, quella di un'adeguata collocazione di questa facoltà del conoscere all'interno del sistema, in quanto può appartenere alla scienza della natura o alla filosofia pratica ma non al passaggio dall'una all'altra, perché è inconcepibile una scienza del passaggio in senso proprio e stretto, almeno se non si vuol cadere in una specie di deduzione mistica, quel tipo di deduzione che il Kant della prima Critica attribuiva alla teoria platonica delle idee7.

Questo passaggio indica soltanto l'articolazione e l'organizzazione del sistema e non gli spetta un posto autonomo nel sistema stesso. La teleologia come scienza non appartiene ad alcuna dottrina ed esiste come ambito di ricerca trascendentale solo per la critica, e, in particolare, solo per la critica della capacità di giudizio. In quanto questa contiene principi a priori può e deve formare il metodo, adeguato ai suoi oggetti specifici, con cui giudicare della natura in virtù del principio di un nesso finale. La metodica del giudizio teleologico coincide, allora, con una disciplina da applicare alla scienza teoretica della natura e al rapporto che questa instaura con la metafisica e con la teologia, essendo, in quanto disciplina, l'unica vera propedeutica di queste.

regole che assegnino questo posto a tutti i concetti. Si tratta di una dottrina volta a premunirci saldamente dalle prevaricazioni dell'intelletto puro e dalle illusioni che ne conseguono, attraverso la costante discriminazione della facoltà conoscitiva a cui i concetti appartengono effettivamente», I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 285. 6 Problema che è stato affrontato da Kant anche nella nota e importante, ma inedita prima introduzione alla terza

Critica che per solito viene designata col titolo di Erste Einleitung ; cfr. I. Kant, Prima introduzione alla Critica del Giudizio, tr. it. di Paolo Manganaro, Laterza, Bari 1969. In particolare si rimanda alle pp. 73-76, dove si tratta di

definire il «sistema delle facoltà superiori della conoscenza che sta a fondamento della filosofia»; oppure alle pp. 78-81, dove la facoltà di Giudizio viene determinata specificamente in quanto «facoltà intermedia».

7 Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, cit., pp. 313-318. Il confronto di Kant con il filosofo greco, è chiaro, non si esaurisce con questo giudizio. Per l'espressione deduzione mistica si faccia riferimento, nello specifico, alla nota a. di pagina 314.

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L'intera filosofia della ragion pura, almeno preliminarmente, non è volta che a questa utilità negativa, quella cioè di stabilire secondo quali principi è possibile un uso corretto della ragione nei vari ambiti trascendentali in cui è coinvolta come facoltà legislatrice: in quanto intelletto nel campo dell'esperienza, in quanto facoltà del giudizio quando si tratta di gusto e teleologia, o di se stessa in quanto tale quando ci riferiamo al domino pratico come a tutto ciò che è possibile mediante libertà. Per filosofia della ragion pura, infatti, secondo Kant, si deve intendere o una propedeutica che indaga le facoltà della ragione in ordine a qualsiasi conoscenza pura a priori, e, proprio in quanto esercizio preliminare e radicale, si deve chiamare critica; o il sistema della ragion pura come l'intera conoscenza filosofica connessa sistematicamente. Se per filosofia si intende il sistema della conoscenza razionale mediante concetti – concetto più volte espresso da Kant nelle sue opere critiche – ciò basta a distinguerla da una critica della ragion pura in quanto «idea di una scienza speciale»8 che

contiene, certo, una ricerca filosofica sulle possibilità di una simile conoscenza sistematica, ma che, per la sua specifica natura di critica, non fa parte di un tale sistema, del quale invece, delinea ed esamina prima di ogni cosa persino l'idea.

La «rivoluzione nella maniera di pensare» che Kant compie nell'ambito della filosofia teoretica ha come suo fondamento il pensiero secondo cui il rapporto che prima veniva generalmente ammesso tra la conoscenza e il suo oggetto necessita di un radicale rovesciamento. Anziché prendere le mosse dall'oggetto come qualcosa di noto e dato, Kant parte dalla legge della conoscenza come da ciò che solo è massimamente accessibile e certo. Trascendentale è pertanto ogni conoscenza che si occupa, in generale, non tanto di oggetti quanto del modo e della maniera secondo cui si conoscono questi stessi oggetti, nella misura in cui questo conoscere è possibile a priori.

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Dunque, se la ragion pura può essere determinata come la facoltà che contiene i principi per conoscere qualcosa prettamente a priori, un sistema di tali concetti può essere definito filosofia trascendentale. Nell'introduzione alla prima Critica, a tal proposito, Kant così dice: «La filosofia trascendentale è l'idea d'una scienza, di cui la critica della ragion pura deve progettare architettonicamente, ossia per principi, l'intero piano con piena garanzia della completezza e della sicurezza di tutti gli elementi che entrano a costituirne l'edificio»9.

Ciò che spetta al critico della ragione, per rendere effettivamente operante l'idea di una tale scienza, è scoprire e determinare in tutte le sue molteplici ramificazioni la forma fondamentale del giudizio, in quanto condizione data la quale soltanto può porsi una conoscenza obiettiva. Ciò che concretamente spetta al critico della ragione, allora, è un'analisi dell'intelletto, di tutti gli elementi trascendentali che costituiscono le fondamenta e l'estensione dell'edificio della ragion pura, che mostri le condizioni sulle quali poggia da un lato ogni sapere che voglia presentarsi come scientifico e dall'altro il concetto puro di questo stesso sapere. Questa analisi è in realtà una scomposizione della facoltà dell'intelletto per cercare le possibilità dei concetti a priori attraverso il loro reperimento nel solo intelletto e per analizzarne l'uso in generale. Il risultato generale di questa scomposizione è la riduzione dell'intera conoscenza a priori negli elementi della conoscenza pura dell'intelletto.

I concetti puri dell'intelletto si fondano sulla spontaneità del pensiero, proprio come le intuizioni si fondano sulla recettività delle impressioni. L'intelletto non è in grado di fare di questi concetti un uso diverso da quello consistente nel giudicare per mezzo di essi. Giudicare significa ricondurre all'unità le molteplici rappresentazioni sotto una rappresentazione comune. In quanto funzione di unità dell'esperienza, il giudicare è un

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conoscere mediato dell'oggetto e l'intelletto può essere concepito in generale come la facoltà di giudicare. L'oggetto dell' analitica trascendentale, come si può facilmente vedere nella prima parte della Critica della ragion pura, in quanto entità correlativa dell'unità dell'intelletto, è pertanto determinato in sede puramente logica: ciò appare con evidenza se ci si sofferma sul carattere specifico della deduzione trascendentale.

La difficoltà in questo tipo di deduzione consiste nel mostrare che i concetti dell'intelletto sono le condizioni a priori della possibilità dell'esperienza e della conoscenza empirica in generale, ovvero nel determinare il principio secondo cui legittimità soggettiva e validità oggettiva si implicano logicamente, poiché trovano fondamento nelle medesime condizioni trascendentali. La deduzione, allora, si basa sulla postulazione di un elemento puro, nel senso di «originario», che a sua volta trova fondamento nel «potere di rappresentare un oggetto» propria dell' «immaginazione produttiva», secondo il quale elemento la forma logica di tutti i giudizi consiste nell'unità oggettiva dell' «appercezione originaria» dei concetti in essi contenuti. I concetti puri sono i predicati del giudizio, i modi della sussunzione in funzione della sintesi pura che si fonda sull'appercezione originaria e il cui principio serve da filo conduttore per la scoperta di tutti i concetti puri dell'intelletto, dedotti secondo la forma del giudizio e pertanto esposti sistematicamente. Le categorie servono alla conoscenza delle cose solo in quanto queste stesse cose risultano essere oggetti di esperienza possibile: in ciò consiste la specifica determinazione e i limiti dell'uso delle categorie rispetto agli oggetti, in relazione alla conoscenza pura in generale.

La ragione non è, per così dire, «un piano di estensione indeterminabile, i cui confini siano conosciuti soltanto in generale, ma deve piuttosto paragonarsi a una sfera, il cui raggio è determinabile a partire dalla curvatura della sua superficie [...] sicché si può stabilire con

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sicurezza anche il volume e la delimitazione della sfera stessa»10. Stabilire volume e

delimitazione significa definire il metodo che consente di avanzare fondatamente nella determinazione delle condizioni formali di un sistema completo della ragione che non sia un disegno campato in aria: un sistema, cioè, che tiene conto dei materiali di cui dispone la ragione senza però nascondere né lasciare come inconcepita l'esigenza di questa di proiettarsi al di là del confine in cui è subordinata al destino della capacità di sintesi intellettuale.

Il sistema completo della ragion pura non si risolve nell'analisi del giudizio determinante, nell'analisi, cioè, della forma del giudizio che sussume il particolare a una regola o a un principio puro a priori. Già nella Critica della ragion pura appare chiaramente il problema di non poter esibire l'intero ambito delle esigenze e delle disposizioni della ragione nel dominio della sintesi intellettuale, poiché la capacità di giudizio determinante risulta essere soltanto sussuntiva. Nella fondazione trascendentale delle scienze fisico-matematiche, pertanto, non si esaurisce ogni realtà, poiché in esse non risulta spiegata l'intera attività e la completa spontaneità della ragione. Nel dominio intelligibile della libertà, la cui legge fondamentale è sviluppata dalla critica della ragion pratica, nel dominio dell'arte e delle forme della natura organica, quali si presentano nella critica del giudizio estetico e del giudizio teleologico, di volta in volta, viene esibito un nuovo lato di questa realtà, e, al contempo, un ambito ulteriore di determinazione per la filosofia trascendentale.

Questo graduale sviluppo del concetto idealistico-critico – nel senso dell'idealismo trascendentale – di realtà e del concetto idealistico-critico di ragione, mostra come accanto alla pura funzione conoscitiva si tratta di intendere la funzione dei giudizi espressa non solo in relazione all'attività sintetica dell'intelletto, quanto anche all'intuizione estetica, al

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sentimento morale, al principio teleologico. Intendere la molteplice funzionalità del giudizio significa mostrare come nell'attività conoscitiva si compia non tanto e non solo una determinata attività formatrice avente per oggetto il mondo, quanto piuttosto un'attività formatrice tesa verso il mondo, verso un'oggettività di nessi che appartengono alla ragione nella misura in cui questo possedere è espresso nella forma di un determinare, secondo la legge di formazione dei giudizi particolari e del giudizio in generale.

Nel processo conoscitivo che vede la ragione al fianco dell'intelletto accade che si sviluppino casi nei quali non è possibile esibire alcuna intuizione sensibile degli oggetti che si impongono naturalmente nella sintesi intellettuale e che, in virtù di questa loro caratteristica, relegano la ragione in un dominio di parvenza assoluta. Ma proprio dove i confini della conoscenza risultano essere limitati, l'impulso a giudicare è grande, tanto che l'uso speculativo della ragione si dimostra in se stesso dialettico: nell'uso trascendentale, ovvero nel conoscere secondo meri concetti, la ragion pura ha bisogno di una guida e di una disciplina che si applichi alla sua tendenza a sconfinare, come se si trattasse di una legislazione di carattere negativo.

Ora, se si intende uscire a priori dal concetto di un oggetto, perché non si è nella condizione di averne alcuna intuizione, per la ragione è impossibile condursi ulteriormente senza determinare un principio che faccia da filo conduttore e che sia posto fuori dal concetto stesso. Nella conoscenza trascendentale è necessario compiere un passaggio in più se si vuol superare autenticamente la censura determinata dall'autocritica della ragion pura: la guida resta quella dell'esperienza possibile finché si tratta di fare i conti con il campo di applicazione delle categorie dell'intelletto; quando, invece, ciò a cui anela la ragione si pone al di là dell'attività della determinazione intellettuale, occorre in modo impellente giustificare la sintesi in altra maniera, come se si trattasse di un ordine altro di realtà. Dice

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Kant: «Il criterio è questo: che la dimostrazione non si volga direttamente al predicato desiderato, ma solo attraverso un principio della possibilità di estendere a priori il concetto dato fino alle idee, e che si realizzino le idee stesse»11.

Nella Dialettica trascendentale Kant ha definito le questioni che eccedono l'uso delle categorie dell'intelletto e che costituiscono la base di un continuo confliggere della ragione con se stessa. Spinta fino al limite della conoscenza, «lo scopo finale a cui tende la speculazione della ragione nel suo uso trascendentale concerne tre oggetti: la libertà del volere, l'immortalità dell'anima e l'esistenza di Dio»12. Prese in se stesse queste proposizioni

equivalgono a «conati oziosi», in quanto la ragione non è in grado di esibire in una intuizione, tanto pura che empirica, il concetto di nessuno di tali oggetti. Eppure può trovare piena soddisfazione soltanto nel dar conto di queste esistenze, perché soltanto in questo modo può rappresentare il suo sapere critico in un tutto sistematico e autosufficiente. Darne conto, dicevamo, rappresentando quegli oggetti nel modo a essi più adeguato, ovvero secondo una idea.

Kant può allora affermare: «[...] se quelle tre proposizioni cardinali non sono per nulla necessarie rispetto al sapere, e se tuttavia ci sono caldamente raccomandate dalla nostra ragione, vuol dire che la loro importanza non può riferirsi propriamente che al pratico»13.

Come tutto ciò che deriva dalla natura anche questo arrischiarsi della ragione oltre il campo dell'esperienza deve tendere a uno scopo buono, fondato sul presentimento di oggetti dati alla ragione in quanto tale: escluso in questo ambito l'uso empirico delle categorie – e vedremo in che termini si ponga questa esclusione – resterà da vedere se per l'uso pratico la tendenza naturale alla trasgressione dei limiti dell'esperienza non si riveli essere decisiva.

11 Ivi, p. 595. 12 Ivi, p. 603. 13 Ivi, p. 604.

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Ci riferiremo ora, poiché questo è il nostro tema, esclusivamente a una delle tre idee, ovvero all'idea della libertà del volere, richiamando le altre soltanto in virtù del principio di una esposizione sistematica dell'oggetto. In quanto è della storia che vogliamo trattare, prima di poter concepire filosoficamente il corso di questa, dobbiamo definirne l'oggetto specifico; e allora, quale che sia il concetto che ci si fa di storia, l'oggetto di questa storia, in quanto condizione pratica e trascendentale della sua possibilità, è la designazione di un soggetto-oggetto, il genere umano, la cui differentia specifica è pensata come la libertà del volere. La deduzione che Kant offre dell'idea trascendentale della libertà del volere, così come la legittimazione di un progetto che additi la massima unità possibile nei termini di una «unità morale» in quanto sistema della libertà che deve essere realizzato oggettivamente nella storia, è ciò che prenderemo in esame, perché – in una prospettiva trascendentale – è sommamente importante che sull'idea della libertà trovi fondamento il concetto pratico della medesima.

L'utilità dell'intera filosofia della ragione può allora consistere non soltanto nella costruzione di un organon in vista della delimitazione della nostra conoscenza possibile, come disciplina da applicarsi alla doppiezza originaria degli uomini; ma, proprio perché riconosce alla ragion pura un dominio autonomo di oggettivazione, può assumere quella stessa inclinazione naturale come oggetto specifico, per condurre, entro i limiti che ha fissato, a una vera moralizzazione degli uomini: questo è il compito che la ragione assegna alla storia, e questo agli uomini è lecito sperare compiuto il ciclo della conoscenza, per rispondere di quell'interesse della ragione che non è subordinato a nessun altro interesse superiore, ovvero la destinazione pratica dell'uomo.

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dell'universale, ovvero di un mondo conforme alle leggi morali in virtù della libertà degli esseri razionali, possa essere più che una semplice idea e si imponga alla ragione propriamente come una fede morale, sarà, infine, ciò che prenderemo in esame, come quella parte del discorso di Kant che si riferisce al dovere di riconoscere e di promuovere in concreto la realtà oggettiva di una ragione moralmente legislatrice. Se «l'animo umano [...] prende un interesse naturale alla moralità, quantunque questo interesse non sia esclusivo e non appaia praticamente preponderante [...]»14, non c'è da fare altro che assumere

riflessivamente la destinazione naturale che ci interpella come agenti morali, rafforzando e accrescendo questo interesse, per rendere gli uomini buoni e sperare che divengano sinceramente credenti: che della storia si faccia, dunque, il campo della realizzazione della destinazione morale degli uomini, e che questi vi agiscano per favorire la vittoria del principio buono su quello cattivo, come il raggiungimento di una «società civile» che faccia valere universalmente il diritto15.

Della coesistenza del principio cattivo accanto a quello buono o del male radicale nella natura umana, è il titolo del capitolo di apertura dell'opera di Kant, La religione entro i limiti della sola ragione. Opera che Kant riesce a far stampare a Jena nel 1793, superando tutta una serie di vicissitudini editoriali. La possibilità di adottare massime buone o cattive è un'altra determinazione del concetto di natura umana. Con l'espressione «natura umana», in Kant, si deve intendere il fondamento soggettivo dell'uso della libertà umana in generale; fondamento che è anteriore a ogni fatto e che è esso stesso un atto libero, altrimenti non si potrebbe imputare l'uso o l'abuso che l'uomo fa del suo arbitrio, in relazione alla legge

14 Ivi, p. 622, la nota a.

15 Cfr. I. Kant, Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784), in I. Kant, Scritti di storia,

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morale. Con questa espressione, allora, Kant vuole indicare che l'uomo ha in sé un fondamento originario, per il quale egli può adottare massime buone o cattive.

Secondo natura, nell'uomo è da ricercarsi l'originaria disposizione al bene e, insieme, la radicale tendenza al male. La differenza tra una disposizione e una tendenza (propensio), riguarda il carattere della relazione che intercorre tra le massime soggettive e il fondamento originario della natura umana: una disposizione si riferisce sempre a un insieme di determinazioni essenziali dell'uomo; una tendenza, invece, al fondamento soggettivo della possibilità di un'inclinazione, alla predisposizione a bramare un godimento contingente rispetto all'umanità in generale. «In tal modo si viene a dire che il bene o il male è presente nell'uomo fin dalla nascita, ma non che la nascita ne sia precisamente la causa»16.

In quest'opera la doppiezza originaria della natura umana viene esposta nella massima chiarezza in quanto specifica determinazione del concetto. Concetto che viene sviluppato dal critico della ragione pura in una sede così particolare, dopo aver portato a termine il suo assunto critico e avendo già scritto di storia universale. Il concetto di natura dell'uomo è concetto importante anche della nostra trattazione, ma in un modo che ci allontana dalla tematizzazione specifica che Kant ne offre ne La religione. Infatti, come si vedrà nel seguito, nella nostra analisi non ci soffermeremo affatto sul carattere del fondamento originario della libertà del volere, in quanto è questo un concetto che si pone al di là di ogni possibilità teoretica e pratica della ragione. Un andare oltre i limiti della ragion pura che Kant riesce bene a rappresentare grazie alla metafora dei due cerchi concentrici, con la quale apre la Prefazione alla seconda edizione17. Il fondamento originario, in quanto originario, si pone anteriormente ad ogni uso della libertà: in virtù di questa sua determinazione può fornire la

16 I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, tr. it. di Alfredo Poggi e a c. di Marco Olivetti, Laterza, Bari 2010, p. 20.

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base per il concepimento di una dottrina filosofica pura della religione. Ciò che invece noi tratteremo riguarderà proprio l'uso della libertà nel campo dell'esperienza, ovvero il tentativo kantiano di elaborare un sapere filosofico e sistematico dei fenomeni della libertà del volere. Che alla storia, poi, Kant assegni un compito morale potremo mostrarlo soltanto come sviluppo necessario della nostra argomentazione, la quale risponde, invece, di un interesse esclusivamente formale. Il campo della morale kantiana sarebbe davvero un terreno troppo grande da affrontare in questo luogo e partendo da questi presupposti.

In relazione al tema della costituzione del soggetto della storia è, a parer nostro, tanto importante riferirsi a un tale sviluppo del pensiero di Kant – sebbene si tenga sullo sfondo la sua filosofia pratica – in quanto quella vittoria è annunciata ne La religione nella forma di una fondazione: ciò che prescrive una fede morale nella determinazione di una religione concepita entro il limiti della sola ragione, grazie alla quale supportare la disposizione morale dell'uomo e affermare, in conclusione, il dominio del buon principio, è possibile realizzarlo soltanto nella fondazione di una «società della virtù», a cui aderire come compito e dovere di una ragione moralmente legislatrice. L'unico rimedio al male radicale è la costituzione di una società civile che faccia valere universalmente il diritto: il diritto di ogni individuo di diventare membro di una «comunità etica», come se si trattasse del «regno di Dio sulla terra»18.

Il critico della ragione ha potuto concepire filosoficamente la storia sviluppando la specificità del soggetto-oggetto di questa nei termini di una teleologia morale, ovvero nella forma di una destinazione. Ma è proprio della natura formale di un tale processo di fondazione trascendentale dell'intera attività di formazione della conoscenza e del suo risultato teoretico – oltre che sistematico – che nell'ambito di un discorso che addita la

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possibilità di concepire l'idea per una storia universale si trova proposto il contrasto tra il semplice «schema» logico del concetto del soggetto-oggetto della storia e il suo perfetto sviluppo e compimento. Sotto il profilo della concettualizzazione del tempo – e qui il riferimento è all' «antagonismo», all' «insocievole socievolezza», al «massimo problema» – questo contrasto è la riproposizione del contrasto che sussiste tra potenza e atto.

Da questo punto di vista la rivoluzione copernicana compiuta da Kant nell'ambito della filosofia trascendentale, ovvero il risultato della critica trascendentale per la pura conoscenza, non trova un corrispettivo adeguato nell'ambito di una critica della civiltà. La fondazione di ciascun ambito di oggettivazione umano pone la filosofia trascendentale di fronte a tutte le direzioni di sviluppo della civilizzazione, del raffinamento e dell'acculturazione, partendo dal presupposto che vi sia un unico punto focale, un unico centro ideale verso cui la molteplicità dei fenomeni tende secondo natura. Questo centro, ovvero la destinazione dell'uomo in quanto rappresentante della ragione e in quanto «unica creatura razionale sulla Terra», considerato criticamente, rimane un concetto problematico che non può mai consistere in un essere dato, ma solo in un compito comune. Un compito determinato trascendentalmente che per risultare effettivamente egemone nella storia deve tuttavia porsi nei termini di un «piano della natura», nei termini, cioè, di un compito trascendente la stessa storia degli uomini.

Ora, presupposta la Critica della ragion pura – presupposta in riferimento al corpus kantiano, a partire dalla data di pubblicazione della prima edizione, ovvero dal 1781 – ogni oggetto non può che essere fondato trascendentalmente. Allora, se in questa nostra dissertazione si sostenesse soltanto la tesi che la deduzione delle idee della ragione serve a sostenere poi che in Kant vi sia una fondazione trascendentale della filosofia della storia, non si farebbe altro che sostenere una tautologia. In questo dissertare di filosofia

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trascendentale, invece, si tratterà di dire che proprio perché in Kant si trova una fondazione trascendentale della filosofia della storia, la storia non può essere concepita se non nella forma di una teleologia morale. E che, dunque, se stare entro i limiti della sola ragione nell'ambito della fondazione pura della religione per la ricerca filosofica ha significato ampliare il suo campo di indagine, concepire una storia entro questi limiti, presupponendo una certa idea di natura umana, significa arrivare a concepire formalmente la storia di una destinazione, ovvero l'uomo nella storia e non la storia degli uomini in senso proprio e stretto.

In breve, a quali condizioni è possibile, secondo il canone trascendentale, un discorso filosofico sulla storia, quale sia la natura del compito che a questa si assegna in virtù del principio sistematico della ragion pura e della natura di un essere che agisce secondo libertà, e quali sono le conseguenze formali che tale discorso determina sul piano della concettualizzazione del proprio presente come storia, saranno le parti secondo cui disporremo le nostre considerazioni sulla filosofia della storia del filosofo di Königsberg.

Intanto, però, si tratta di definire l'oggetto specifico del discorso, il criterio di possibilità di una filosofia della storia a partire dalla giustificazione dell'idea della libertà del volere, in relazione alla sua origine trascendentale come alle conseguenze dialettiche che comporta, per fissare l'idea della conoscenza storica adeguatamente al campo di fenomenicità a cui si ascrive e al bisogno che tale sapere avanza nella ricerca di un modello di scientificità che sia in grado di fornire un principio di spiegazione universale, in base al quale rappresentare in un tutto sistematico l'altrimenti assurdo andamento delle cose umane. Si tratterà, allora, prima di tutto, di riferirci ad alcune parti della Critica della ragion pura, e in particolar modo alla Logica trascendentale, come a quella parte in cui Kant espone le coordinate trascendentali su cui si fonda la stessa possibilità di un discorso scientifico sulla storia.

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I.1. Un «antico desiderio», quando si tratta di fondare un codice di leggi, spinge il pensiero a farsi l'idea di un principio che sia in grado di semplificare la molteplicità sconfinata degli ordinamenti e delle obbligazioni, che si tratti di regole per la conduzione dell'intelletto nel suo procedere alla conoscenza oppure delle regole del vivere civile in società. Un principio di tal sorta può operare una semplificazione dal momento in cui è capace di determinare le condizioni di un'unità possibile e legittima. Nel caso dell'attività dell'intelletto, stando al punto di vista trascendentale, è la ragione che si pone come facoltà dei principi, mentre nel caso di una legislazione civile è il concetto di libertà che fissa la forma dell'unificazione come la meta da raggiungere.

Nell'Analitica trascendentale Kant arriva a stabilire un importante risultato così espresso: «[...] tutti i principi dell'intelletto puro non sono che principi a priori della possibilità dell'esperienza, alla quale soltanto si riferiscono anche tutte le proposizioni sintetiche a priori; anzi la stessa possibilità di tali proposizioni riposa interamente su tale relazione»19. In questo senso si può dire che i concetti puri dell'intelletto contengono lo

schema20 dell'esperienza possibile, e non si può prescindere dalla distinzione che questi

implicano tra la possibilità logica dei concetti nel loro uso empirico e la possibilità trascendentale dell'esistenza delle cose in generale, alla quale si deve assegnare soltanto un valore problematico e per nulla assimilabile a quello delle categorie. Fuori dal campo dell'esperienza, infatti, non possono trovare alcun fondamento principi sintetici a priori. In breve, come condizioni formali della conoscenza empirica, le categorie pure hanno un significato semplicemente trascendentale, ma non un uso trascendentale, in quanto non sono

19 I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 264. 20 Cfr. Ivi, pp. 190-196.

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in grado di determinare alcun oggetto. Eppure non si riduce tutto a questa incapacità: il loro significato trascendentale pone la questione di un uso altro rispetto a quello che ne fa l'intelletto21.

Se il pensiero consiste nell'operazione di riferire una data intuizione a un oggetto per mezzo della funzione di sussunzione che svolge il giudizio, quando il genere di questa intuizione non è dato, l'oggetto è meramente trascendentale, e ciò accade perché l'intelletto non ha schemi adeguati da offrire come condizione della sussunzione che opera il giudizio. Kant spiega le conseguenze di questa situazione con l'esempio di due casi limite: «se da una conoscenza empirica tolgo ogni pensiero [...], non rimane più alcuna conoscenza di un oggetto; con la semplice intuizione, infatti, nulla assolutamente è pensato [...] se elimino invece ogni intuizione, mi resta ancora la forma del pensiero, cioè la maniera della determinazione di un oggetto per il molteplice di un'intuizione possibile»22.

La maniera della determinazione di un oggetto, che si conserva anche nel caso della mancanza di una esibizione sensibile del concetto dell'oggetto, addita la possibilità di un'estensione nell'uso delle categorie. Estensione, appunto, che supera i limiti imposti dall'intuizione sensibile, e grazie alla quale la ragione è condotta al concepimento di oggetti in generale. Tuttavia, questa estensione, non può determinare affatto un campo positivo di oggetti, perché non si è autorizzati in alcun caso a presupporre l'esistenza di un genere diverso di intuizione che non sia quello sensibile. Sappiamo che Kant fa derivare dall'analisi di questo problema il concetto limite di noumeno, il quale, stando al terzo capitolo dell'Analitica, non ha altro impiego se non quello di circoscrivere le pretese della sensibilità, ed ha quindi soltanto un valore negativo. Questo concetto rimane tuttavia ammissibile nel

21 Cfr. ivi, in particolare ciò che viene detto a p. 271. 22 Ivi, p. 276.

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progresso dell'analisi trascendentale della conoscenza, a patto che lo si assuma nel suo significato problematico23.

La problematicità del concetto di un oggetto che in se stesso non è fenomeno diventa la questione principale da risolvere nella parte che segue l'Analitica. La possibilità di ammettere l'esistenza di oggetti non sensibili coincide con la possibilità della ragione di definire un campo di autonomia rispetto all'intelletto e, insieme – poiché la ragione può essere autonoma soltanto in un campo che si colloca al di là dell'esperienza – con la sorgente di ogni sua illusione. In breve, intendere l'estensione richiesta dalla ragione nel senso oggettivo e non nel suo significato problematico costituisce la fonte di ogni dialettica trascendentale : «la causa sta nel fatto che nella nostra ragione [...] si danno regole fondamentali e massime del suo uso che hanno tutta l'apparenza di principi oggettivi, onde accade che la necessità soggettiva di una particolare connessione dei nostri concetti a favore dell'intelletto sia equivocata in necessità oggettiva della determinazione delle cose in sé»24.

Ora, poiché è un puro interesse della ragione che spinge al sovvertimento delle regole, in vista di un'unità che superi quella di cui è capace l'intelletto, si deve concludere che è la ragione stessa a essere la sede della parvenza trascendentale, in cui cade perché non si limita a essere la facoltà logica delle condizioni di possibilità della conoscenza empirica, ma ambisce alla formazione positiva di concetti e principi. La ragione appare così in se stessa divisa in facoltà logica e facoltà trascendentale, e «si rende necessaria la ricerca di un concetto più alto di questa sorgente conoscitiva, tale da comprendere sotto di sé entrambi i concetti»25.

Nella prima parte della Logica trascendentale Kant ha definito l'intelletto come la

23 Cfr. ivi, pp. 264-280. 24 Ivi, p. 303.

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facoltà delle regole e la ragione come la facoltà dei principi. Ma bisogna essere rigorosi nell'assegnare il giusto significato all'espressione ʻprincipioʼ. Con questo termine si indica comunemente una conoscenza che può valere come principio di spiegazione causale di una serie di fenomeni, senza essere, tuttavia, il principium della serie, né in senso matematico, come lo intende Kant, ovvero di un primo nell'ordine spaziale, né nel senso dimanico, ovvero di un primo nella relazione. Con principio, invece, Kant vuole intendere la posizione di un primo matematico e, al contempo, dinamico, in quanto condizione di possibilità generale della sintesi nella serie successiva dei fenomeni e in quanto cominciamento del processo di rigorizzazione scientifica stesso.

Come si è detto, anche i concetti dell'intelletto svolgono la funzione di principi; tuttavia, per l'intelletto vale il significato determinato dalla prima occorrenza del termine. L'intelletto, infatti, non è in grado di darsi conoscenze sintetiche che non siano anche «principi relativi». E sono proprio questi principi relativi a fare dell'intelletto la facoltà delle regole e dell'unità dei fenomeni, e a rendere, conseguentemente, la ragione la facoltà che mira ad ottenere l'unità delle regole dell'intelletto sulla base di principi. Questa unità secondo principi, distinta dall'unità intellettuale, è detta da Kant unità razionale, ed è soltanto in virtù del principio di una unità razionale che facoltà logica e facoltà trascendentale possono essere concepite come parti di un tutto.

Resta da capire se la ragione possa arrivare a legittimare in assoluta autonomia questa sua unità di principi, o se debba continuare ad apparire come una facoltà subalterna dell'intelletto. La questione consiste, allora, nel determinare se la ragion pura contenga principi sintetici e regole che siano diverse da quelle dell'intelletto.

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di concetti ottenuti tramite inferenza, poiché le condizioni di possibilità della conoscenza dipendono interamente dai concetti puri dell'intelletto e ogni sapere che voglia presentarsi come scienza non può non partire da questi, e tramite questi tentare un ampliamento possibile. Le categorie sono l'unica fonte da cui si può addurre la materia per ogni sorta di inferenza trascendentale, così come è dalla forma della deduzione di queste che si può ricavare lo schema logico dell'uso delle idee della ragione. Tuttavia, mentre i concetti dell'intelletto servono all'intellezione delle percezioni sensibili, i concetti puri della ragione servono alla comprensione: tra i due gruppi di concetti sussiste, allora, una distinzione di campo e un'analogia. Concentriamoci sul secondo aspetto.

In quanto funzioni di sintesi, sussiste tra le categorie e le idee un'uguaglianza di rapporti nella sussunzione dei rispettivi oggetti ai rispettivi principi. Un'analogia è un ponte che lega parti diverse di uno stesso territorio26: in questo territorio, che è quello della ragion

pura in relazione all'esperienza, e dunque della conoscenza in generale, trova domicilio una progressione scalare27 di forme di conoscenza, tale che la facoltà di giudizio si applica alla minima percezione come all'idea più comprensiva. Nel lessico kantiano si parla di percezione nel caso di una rappresentazione con coscienza. Questa si divide in sensazione, se si riferisce esclusivamente al soggetto, in quanto modificazione del suo stato, e

26 Cfr., I. Kant, Critica della capacità di giudizio, cit., pp.81-87. Con territorio ci riferiamo a un concetto che Kant determina esplicitamente in un fondamentale paragrafo della sua terza critica, a cui, inevitabilmente, si rimanda. Vale la pena, tuttavia, citare il passo in cui compare il termine, per chiarire meglio il senso del nostro farvi riferimento, e perché nello scorcio che ora proponiamo trova posto la determinazioni di altri due concetti di cui ci serviamo ora, come nell'intero corso della trattazione. «I concetti, in quanto vengono riferiti ad oggetti, senza considerare se una loro conoscenza sia possibile o no, hanno il loro campo, che viene determinato solo in base al rapporto che il loro oggetto ha con la nostra facoltà conoscitiva in generale. - La parte di questo campo nella quale la conoscenza ci è possibile, è un territorio (territorium) per questi concetti e per la facoltà conoscitiva richiesta per tale scopo. La parte del territorio sulla quale essi sono legislatori è il dominio (ditio) di questi concetti e delle facoltà conoscitive loro corrispondenti. I concetti dell'esperienza hanno dunque sì il loro territorio nella natura, come insieme di tutti gli oggetti dei sensi, ma non un dominio (bensì solo un domicilio, domicilium), perché essi vengono prodotti secondo leggi, però non sono legislatori, ma invece le regole che su di essi si fondano sono empiriche e quindi contingenti».

27 Cfr. ivi, p. 318. L'espressione è espressione di Kant e introduce quello che si potrebbe definire come il glossario minimo della filosofia trascendentale, composto dall'autore stesso.

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conoscenza, se invece ha valore oggettivo. Una conoscenza può essere a sua volta una intuizione, quando si riferisce immediatamente all'oggetto, ed è perciò singolare; mentre è un concetto se si riferisce all'oggetto mediatamente, tramite una nota. Un concetto può essere empirico o puro: hanno entrambi origine dall'intelletto, ma nel primo caso ci si riferisce agli oggetti in quanto fenomeni, nel secondo esclusivamente a una nozione intellettuale. Quando un concetto intellettuale trascende il campo dell'esperienza possibile si dice idea o concetto della ragione.

Nell'uso che fa di questi suoi concetti, la ragione mira all'universalità della conoscenza e alla massima estensione delle sue condizioni. Un concetto della ragione, dunque, non è altro che il concetto di una quantità integrale dell'estensione, rispetto a una determinata condizione, e la possibilità formale di una totalità della sintesi delle condizioni. La ragione ricerca questo genere di totalità una volta assunto come oggetto specifico l'esigenza di sospingere l'unità intellettuale fino all'incondizionato, perché solo nel concetto di incondizionato è contenuta la possibilità di una totalità delle condizioni, quale fondamento della sintesi dei condizionati in generale.

Spinta più innanzi dell'unità dell'esperienza possibile, delle condizioni formali dell'esperienza, la ragione escogita per il suo uso puro l'idea di un incondizionato, secondo la quale sia possibile la fondazione di un'unità assoluta, di un'unità prorpia della ragion pura. E, allora, «il compito che ci aspetta nella dialettica trascendentale, che ora svolgeremo a partire dalle scaturigini che risultano profondamente nascoste nell'umana ragione, è questo: stabilire se quel principio per cui la serie delle condizioni [...] perviene infine all'incondizionato, possegga o meno una legittimità oggettiva [...] onde si pervenga alla più alta unità razionale possibile della nostra conoscenza»28.

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Ricapitolando: un concetto è un concetto della ragione quando considera ogni conoscenza empirica come determinata da una totalità assoluta di condizioni. Di conseguenza, l'uso oggettivo dei concetti puri della ragione non può che essere trascendente, mentre, soggettivamente, in quanto idee necessarie della ragione, a queste viene assegnato il predicato di trascendentali. Un idea trascendentale, nel suo uso, è in primo luogo un canone per l'estensione e la coerenza dell'uso empirico dell'intelletto; e questo, come sappiamo, non costituisce un problema; in secondo luogo, invece, data la natura trascendente dei concetti della ragione, rappresenta la fonte di ogni dialettica della ragion pura; e questa è l'unica questione che si impone alla ragion pura se vuole presentarsi legittimamente per quel che è, ovvero se vuole presentarsi come sistema.

Prima di sviluppare questo aspetto dobbiamo però ancora riferirci a un sistema, per così dire, preliminare e incluso in quello più ampio che coincide con una architettonica della ragione in quanto tale: stiamo parlando del sistema delle idee trascendentali.

L'uso di queste idee intrattiene una relazione naturale con l'uso logico delle categorie, e abbiamo già visto come questo legame possa fare da filo conduttore nella determinazione della funzione e del campo di applicazione delle idee della ragione, ovvero secondo analogia. Così come i concetti puri hanno a che fare con l'unità delle rappresentazioni, così le idee hanno a che fare con l'unità sintetica incondizionata di tutte le condizioni in generale. Poiché nel progredire verso le idee trascendentali la ragione non può che essere sollecitata e indirizzata dall'intelletto, ne consegue che tutte le idee trascendentali si possono ridurre a «tre classi»29: in relazione al concetto di soggetto, la prima classe contiene l'unità assoluta

del soggetto pensante; in relazione al concetto di oggetto in quanto fenomeno, la seconda contiene l'unità assoluta della serie delle condizioni; in relazione al concetto dell'esistenza

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delle cose in generale, la terza contiene l'unità assoluta delle condizioni di tutti gli oggetti del pensiero. Si parlerà, allora, rispettivamente, di una psicologia, di una cosmologia e di una teologia razionale30.

L'incombenza della ragione è quella di costruire un sapere sistematico che dalla conoscenza di sé passi a quella del mondo, fino all'ente supremo, definendo così un campo di oggettivazione specifico e distinto da quello intellettuale. In questo campo, le idee trascendentali, non servono ad altro che a salire nella serie delle condizioni fino all'incondizionato, ovvero fino ai principi. Ed è facile vedere come questi principi non siano pensati dalla ragione come sussidio per l'uso logico delle categorie, in quanto esprimono la possibilità di un'unità che non si pone dal lato del condizionato, ma dal lato delle condizioni in generale. Ciò significa che una deduzione oggettiva di queste idee non è possibile in senso proprio, ossia al modo delle categorie, mentre una deduzione soggettiva, che guardi alla natura architettonica della ragione, deve essere tentata in quanto necessaria.

C'è una nota, aggiunta nella seconda edizione della Critica della ragion pura, che esplicita con profonda chiarezza le ragioni del modo dell'esposizione seguito da Kant e la meta che si è prefissato, e che ci aiuta a chiarire ciò di cui stiamo ragionando. In questa nota viene detto: «[...] In una rappresentazione sistematica di tali idee, l'ordine già addotto, o sintetico, sarebbe il più idoneo; ma nella disamina, che deve necessariamente precedere, sarà più conforme allo scopo l'ordine analitico, che è l'inverso; si tratta infatti di procedere da ciò che l'esperienza ci mette immediatamente a disposizione, la dottrina dell'anima, alla dottrina del mondo e da qui fino alla conoscenza di Dio, portando in tal modo a compimento il nostro grande disegno»31. Di questo grande disegno fanno parte le idee trascendentali e i

30 Cfr. ivi, p. 327. 31 Ivi, p. 329.

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ragionamenti dialettici che da queste si originano, in virtù del fatto che nessuna delle idee ha una premessa empirica. La realtà di questo grande disegno, allora, se si vuole evitare di assegnare alle idee il valore di sogno o di patologia della mente32, è da ricercare nella

relazione di necessità che idee e ragionamenti dialettici instaurano con le categorie dell'intelletto.

I.3. Ci sono ragionamenti mediante i quali, muovendo da qualcosa che conosciamo, giungiamo a qualcos'altro di cui non abbiamo intuizione e a cui attribuiamo tuttavia realtà oggettiva per l'effetto di una naturale parvenza. Nel ragionamento della prima classe, muovendo dal concetto di soggetto, la ragione perviene all'assoluta unità di questo soggetto come soggetto pensante. Si tratta di un paralogismo trascendentale in quanto, in questo ragionamento, la ragione si illude che una sua idea, l'unità sintetica dell'autocoscienza, possa rendersi autonoma dalla sintesi delle percezioni sensibili, ovvero porsi come un'entità trascendente e a se stante.

Nel ragionamento della seconda classe, muovendo dal concetto di una totalità assoluta delle condizioni di un fenomeno dato, la ragione fissa la contraddittorietà delle condizioni del condizionato che rileva nella sua disamina fenomenica, e le assume in quanto tali. Questo contraddirsi delle condizioni le appare come un conflitto che è essa stessa a generare, come se si trattasse di un confliggere delle sue leggi. Questo conflitto della ragione con se

32 Nel 1764 Kant pubblicò in quattro puntate sulle "Königsbergsche Gelehrte und politischen Zeitungen" il Saggio

sulle malattie della mente, e continuò ad interessarsi del tema anche successivamente, ovvero nel saggio,

conosciuto certo più del primo, pubblicato due anni dopo in cui traccia il parallelo tra i sogni di un visionario e la forma del discorso metafisico, paragonando la metafisica, priva di riscontro con l'esperienza, a una forma di patologia della mente. Per le notizie bibliografiche relative ai saggi a cui si è fatto fugace riferimento, come alle opere successive in cui Kant ritorna sul problema, e sulla possibilità che il criticismo kantiano, da questo punto di vista, metta capo a una dietetica della mente, organizzata secondo la forma di una architettonica delle facoltà, in base alla quale l'uomo può vincere i sentimenti morbosi per mezzo della volontà di adeguarsi alla sola ragione, si guardi la Prefazione di Fulvio Papi, in I. Kant, Saggio sulle malattie della mente, tr.it. di Alfredo Marini, Ibis, Como-Pavia 2009.

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stessa prende il nome di antinomia: qui si tratta di dover decidere del valore da assegnare ai concetti cosmologici formati a partire dall'idea di una totalità assoluta della sintesi dei fenomeni. La ragione, in questo suo ragionamento dialettico, muovendo dal principio che se il condizionato è dato è data conseguentemente l'intera serie delle condizioni, si crea il concetto di un assolutamente incondizionato.

Ora, esistono due modi di concepire l'incondizionato: o viene inteso come totalità nella serie e della serie, ovvero come relativamente incondizionato in quanto risultato di un regresso all'infinito; oppure è inteso come assolutamente incondizionato, non subordinato ad alcun regresso ma dedotto e posto fuori dalla serie. Nel primo significato, non si fa riferimento ad alcun cominciamento assoluto, mentre è a questo che si riferisce il secondo modo di intendere l'incondizionato.

Il concetto di un assolutamente incondizionato si distingue dal concetto di un incondizionato della serie in quanto può essere così determinato: rispetto alla serie temporale è il concetto dell' inizio del mondo; rispetto alla serie spaziale, è il concetto del limite del mondo; rispetto alla serie causale, è il concetto della spontaneità assoluta o della libertà; infine, rispetto alla serie dell'esistenza delle cose in generale, assunte secondo la loro contingenza, è il concetto di necessità naturale assoluta33. Nei primi due casi Kant fa

riferimento a due concetti cosmologici in senso stretto, in quanto sviluppati a partire dal concetto di mondo come insieme di tutti i fenomeni; nei restanti casi, invece, definisce i concetti ottenuti come concetti trascendenti della natura, perché si riferiscono all'unità dell'esistenza dei fenomeni secondo il principio di una causalità condizionata naturale e di una causalità incondizionata libera.

Infine, riguardo ai ragionamenti della terza classe, muovendo dal concetto della totalità

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delle condizioni per pensare l'esistenza degli oggetti in generale, la ragione si forgia l'idea di un'unità sintetica assoluta delle condizioni di possibilità delle cose. Una siffatta unità non viene esibita in concreto poiché designa una singolarità assoluta e una singolarità così concepita è impossibile collocarla nel campo di una molteplicità di condizioni e di condizionati. Un'esibizione è possibile soltanto in individuo, ovvero rappresentata come oggetto singolo in un ideale della ragion pura: «[...] dobbiamo riconoscere», afferma Kant, «che l'umana ragione, oltre alle idee possiede anche ideali, che [...] sono tuttavia dotati d'una capacità pratica ( in quanto principi regolativi ), e fungono da fondamento della possibilità di perfezione di certe azioni»34.

I.4. Nei ragionamenti innescati dalle idee cosmologiche, la ragione non può trattenersi dal formare proposizioni raziocinanti: secondo il modo dell'intelletto, crede di poter determinare la natura di un insieme di oggetti di cui non possiede alcuna intuizione. Proposizioni del genere, proprio perché raziocinanti, assumono significati antitetici e, dal momento in cui non esiste una esibizione empirica possibile, la ragione deve abbandonare la speranza di trovare nell'esperienza una conferma o una confutazione definitiva di queste. Tutto ciò che può fare una mente raziocinante è stabilire per convenzione o falsa coscienza la preminenza di una delle parti in contesa, senza riuscire a determinare, né tanto più a risolvere, il motivo profondo del dissidio.

Nella terza antinomia Kant rappresenta il conflitto che nasce dall'impossibilità della ragione di decidere per la validità del concetto di una causalità esclusivamente naturale oppure dell'idea di una causalità mediante libertà. In questa condizione di indecidibilità, la ragione assiste al contrapporsi di due conoscenze apparentemente dogmatiche, secondo la

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posizione di tesi e antitesi, allorché non è in grado di conferire né all'una né all'altra l'assenso definitivo. Vediamo:

- nella tesi viene sostenuto il punto di vista del dogmatismo trascendentale, secondo il quale la causalità in base alle leggi naturali non è l'unica causalità che determina la serie dei fenomeni. Si deve ammettere l'esistenza di una causalità mediante libertà. Ammettere l'esistenza di una forma di causalità di tal sorta significa fissare trascendentalmente la possibilità di una totalità delle condizioni fenomeniche: «[...] la legge della natura sta proprio in ciò, che nulla accade senza una causa sufficientemente determinata a priori. Di conseguenza, l'affermazione che ogni causalità non è possibile che in base a leggi di natura, nella sua illimitata universalità, contraddice se stessa; e dunque una siffatta causalità non può venire assunta come l'unica»35. È necessario, nella considerazione di una totalità delle

condizioni, affermare il concetto di una spontaneità assoluta nell'ordine causale, un inizio assoluto della serie, in mancanza del quale risulterebbe incompleta la serie dei fenomeni dal lato delle cause. In questo consiste l'idea trascendentale della libertà, la condizione formale di possibilità di una completezza assoluta delle cause nella serie dei fenomeni;

- nell'antitesi viene sostenuto il punto di vista dell'empirismo trascendentale, secondo il quale si asserisce l'onnipotenza e l'onnipresenza della causalità naturale nell'ordine fenomenico. Il concetto di una spontaneità assoluta non è che un vuoto pensiero in questa prospettiva, perché non esiste altro che la natura con le sue regole e i suoi principi: se «[...] nel mondo non ammettete un primo matematico quanto al tempo, non siete allora neppure costretti a cercare un primo dinamico quanto alla causalità»36.

In questa lotta di proposizioni la ragione cade necessariamente perché nel progresso

35 Ivi, p. 382. 36 Ivi, p. 385.

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incessante della sintesi empirica arriva a porsi il problema dell'esistenza di un concetto svincolato da ogni condizione empirica. Questa «smagliante pretesa» conduce a farsi l'idea di una spontaneità assoluta su cui risposa un interesse speculativo e, insieme, un interesse pratico. Il punto di vista del dogmatismo trascendentale, allora, poiché giudica come necessaria la possibilità della ragione di pensare a un proprio dominio che si estenda al di fuori del campo dell'esperienza, è, secondo Kant, il punto di vista più congeniale alla ragion pura, la quale è per sua natura architettonica, ossia non può che concepire «[...] tutte le conoscenze come rientranti in un sistema possibile» e accogliere «soltanto quei principi che almeno non impediscono a una conoscenza posseduta di rientrare in un qualsiasi sistema con altre conoscenze»37. È questo interesse architettonico, in quanto ricerca di un'unità

speculativa e pratica, a legare implicitamente il destino delle pretese della ragion pura alla legittimità degli enunciati cosmologici del dogmatismo trascendentale.

Dall'altro lato, invece, cioè in conformità all'empirismo trascendentale, non si trova alcun interesse pratico, se non quello di una decostruzione delle credenze e delle motivazioni degli uomini; inoltre sembra che questo modello teorico riesca a screditare in linea di principio la stessa possibilità di una conoscenza sistematica. L'empirismo ha dalla sua parte, però, la capacità essenziale di mantenere costantemente l'intelletto sul proprio terreno, nell'ambito, cioè, dell'esperienza possibile. A ben guardare, seguendo la cautela scientifica prescritta dall'empirista, le pretese della ragione cadrebbero soltanto nell'indifferenza, senza, tuttavia, cessare di esistere, e questo perché un'affermazione dialettica della ragion pura non è una semplice proposizione sofistica: sebbene possa esprimersi in forme sofistiche, essa non concerne questioni che vengono sollevate dall'arbritrio di un intelletto raziocinante. Una proposizione dialettica si riferisce a un problema in cui ogni ragione umana, in un dato

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momento del suo progresso, è costretta ad imbattersi. L'empirista esclude la possibilità di una ricerca delle cause, di una radice profonda delle scaturigini di tali enunciati, fermando le sue considerazioni a una questione di analisi dell'argomentazione dialettica. Sfotrunatamente, però, per l'empirista, proposizioni del genere non vengono distrutte neppure dopo la sua opera di smascheramento.

Ora, se la ragione sostiene l'angolo visuale dello scetticismo, quale principio di un non-sapere scaltrito e scientifico, che manda in rovina le fondamenta di ogni conoscere, proprio lì dove avanza le sue maggiori speranze, si troverebbe immobilizzata nella disputa tra dogmatismo ed empirismo, senza la possibilità di decidersi per l'uno o per l'altro. L'unico modo che la ragione ha per decidere della verità della tesi o dell'antitesi è quello di spostare l'indagine dai contenuti alla forma e all'origine trascendentale della disputa, per stabilire quale sia la radice del dissidio e se questo non ponga le sue basi su un equivoco, rimosso il quale non resterebbe nulla dell'antinomia stessa. Questo metodo di assistere e provocare un conflitto di affermazioni, che mira a stabilire se l'oggetto della contesa non sia magari una semplice illusione, e che invece di prendere una parte piuttosto che l'altra, mira alla certezza, per individuare il punto in cui ha luogo l'equivoco, è il metodo scettico tipico della filosofia trascendentale. Esso, dice Kant, non ha nulla a che fare con lo scetticismo, perché nel campo delle proposizioni sintetiche concernenti cose in generali, ovvero nel campo delle proposizioni trascendentali, sceglie di comportarsi «come i legislatori saggi, i quali, dall'imbarazzo in cui vengono a trovarsi i giudici nei processi, traggono ammaestramento per sé, rispetto a ciò che nelle loro leggi si ritrova di insufficiente e di inadeguatamente determinato»38.

Come ogni cosa che si riferisce alla ragione, anche questo dissidio trova la sua

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soluzione su un piano trascendentale, in quanto, dice Kant, «[...] fra tutte le conoscenze speculative, la filosofia trascendentale è caratterizzata dal fatto che nessuna questione concernente un oggetto dato alla ragione pura riesce insolubile a questa stessa ragione umana [...]»39. Secondo la filosofia trascendentale gli oggetti della ragion pura devono essere

considerati soltanto in quanto puri oggetti di pensiero, nel riferirsi alla totalità assolutamente incondizionata della sintesi dei fenomeni, e non come fenomeni in sé. Per Kant, allora, esiste un solo modo, articolato in due passaggi, per eliminare la parvenza trascendentale che accompagna di necessità ogni proposizione dialettica della ragion pura: l'esposizione formale dei ragionamenti dialettici per trovare l'elemento di sofisticazione logica, prima, e la determinazione del da dove proviene questa naturale esigenza a formarsi idee trascendentali, poi. Questo significa che, se una soluzione è possibile in quanto è necessaria alla luce della natura architettonica della ragion pura, questa soluzione non può che essere definita come «soluzione critica». La soluzione critica è propriamente risolutiva in quanto fonda le sue pretese di conciliazione sul concetto di idealismo trascendentale.

È noto che con questa espressione si intende il carattere specifico della filosofia kantiana basato sul concetto dell'idealità dei fenomeni dell'esperienza. Nell'Estetica trascendentale – ed è lo stesso Kant a dirlo nelle pagine che stiamo tematizzando40 – ciò che

viene dimostrato è che con «realtà» si intende tutto ciò che sta in relazione con una percezione ed è conforme alle leggi dell'intelletto. Questo, a sua volta, significa che tutti gli oggetti dell'esperienza non sono che fenomeni, ossia semplici rappresentazioni e non cose in sé. Ma qui, nella dialettica, non è questione di un fenomeno collocabile nello spazio e nel tempo: la causa della rappresentazione di un oggetto trascendentale, che porta con sé

39 Ivi, p. 405.

40 Cfr. ivi, pp. 414-418, ovvero la sezione dedicata alla determinazione del concetto di idealismo trascendentale come

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l'apparenza più irriducibile, non è da ricercarsi su un piano meramente intellettuale. Secondo le regole di tale facoltà, infatti, questa causa, perché non sensibile, è semplicemente sconosciuta e quindi non può essere intuita come un oggetto reale. Ma se la ragione si forma una rappresentazione unica di tutti gli oggetti dei sensi, in ordine alla massima estensione temporale e spaziale, ciò non vuol dire che afferma la loro esistenza oggettiva come anteriore all'esperienza. Una rappresentazione del genere costituisce soltanto il pensiero di un'esperienza possibile nella sua completezza e la radice profonda da cui si origina ogni antinomia di argomento cosmologico consiste esclusivamente nel modo di concepire questa completezza: «[...] allorquando cioè si pretenda di usare i fenomeni per l'idea cosmologica di un tutto assoluto, – allorquando, dunque, si abbia a che fare con una questione oltrepassante i confini dell'esperienza possibile – la distinzione del modo in cui si assume la realtà degli oggetti sensibili acquista rilievo per garantirsi da un'illusione sviante, che trae origine inevitabilmente dalla equivocazione dei concetti di esperienza di cui siamo in possesso»41.

Formalmente, nella terza antinomia, questa equivocazione si rappresenta con il costituirsi del sillogismo ipotetico seguente:

"se il condizionato è dato, è data anche la serie globale di tutte le sue condizioni; ma sussistono oggetti sensibili che ci sono dati come condizionati; dunque sussiste l'intera serie

di tutte le condizioni del condizionato e con essa l'assolutamente incondizionato"

In tale argomentazione dialettica il problema non si pone affatto se consideriamo l'enunciato della premessa maggiore. In quanto proposizione analitica, l'inferenza si basa sul concetto stesso di condizionato. Il concetto di condizionato, infatti, implica già che alcunché

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venga per ciò stesso riferito a una condizione. Ma se un regresso nella serie delle condizioni non deve essere soltanto imposto poiché ne ricerchiamo la condizione formale a priori, dobbiamo riferirci alla possibilità di pervenire a una sintesi del condizionato in quanto presupposto assoluto della serie. È un postulato logico della ragione quello per cui l'intelletto deve perseguire e condurre il più innanzi possibile il concatenamento di un concetto dato con le sue condizioni. Il problema nasce allorquando si tenta l'interpretazione dell'enunciato della premessa minore: qui si inferisce che essendo dato il condizionato, reso possibile dalla serie delle condizioni, sarà per ciò stesso data, o meglio presupposta, l'intera serie delle condizioni e, con questa, anche l'incondizionato. Ma dal fatto che fenomenicamente sia dato il condizionato non segue per nulla che sia dato al contempo anche la sintesi assoluta delle condizioni empiriche. Tale sintesi, infatti, non è raggiungibile se non nel regresso e mai al di là di questo. Presupporla è una chiara escogitazione della ragione: è propriamente una ipotesi.

L'inganno della ragione consiste nel fatto che viene assegnato al termine «condizionato» un valore antitetico nella premessa maggiore e in quella minore. E cioè: nell'enunciato della premessa maggiore la ragione assume il condizionato nel senso trascendentale di categoria pura, presupponendo un intero che non può esibire se non in una idea; mentre nell'enunciato della premessa minore la ragione assume il condizionato nel significato empirico di concetto dell'intelletto, e dunque come serie progressiva di fenomeni soggetti a regole. Da ciò risulta che non è possibile presupporre in entrambi i casi la totalità assoluta della sintesi e della serie delle rappresentazioni fenomeniche: «nel primo caso infatti tutti i termini della serie sono dati in sé (fuori di ogni condizione temporale), nel secondo caso sono possibili solo in virtù del regresso continuato, il quale non è dato a patto

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d'essere compiuto effettivamente»42.

L'antinomia della ragion pura nelle sue idee cosmologiche può essere soppressa solo se si pone in chiaro il suo intrinseco carattere dialettico, che consiste in un dissidio di parvenze originatosi dall'applicazione dell'idea della totalità assoluta della sintesi empirica – valente soltanto nella designazione delle cose in sé – alla serie dei fenomeni. In tale applicazione la ragione è spinta a nascondere il valore trascendentale delle sue idee e ad affermarne un valore oggettivo in modo del tutto ingiustificato. L'autentico smascheramento di questo processo della ragion pura si deve, allora, al tipo di soluzione fornita da Kant, coerente con la filosofia trascendentale. Il valore e la validità di questa soluzione, che è detta propriamente critica, consiste, da un punto di vista speculativo, nel fornire una dimostrazione indiretta della idealità trascendentale dei fenomeni, mentre, dal punto di vista pratico, consiste nel predisporre la ragione, chiusa la strada del giudizio determinante, al concepimento della sua attività specifica in quanto investita di uno scopo e di una destinazione che si determinano su un ordine di realtà diverso da quello intellettuale.

Tuttavia, a ben vedere, la soluzione critica dell'antinomia possiede ancora un altro importante elemento, sia nei riguardi della ragione che dell'intelletto. Il principio cosmologico della totalità non ci fornisce alcun massimo oggettivo della serie delle condizioni e, dunque, non potrà presentarsi come assioma per pensare la totalità come reale in oggetto possibile. In quanto principio problematico dell'intellletto, però, si risolve in una regola per il soggetto che nell'atto della sintesi empirica conduce la sua ricerca in conformità alla compiutezza postulata dall'idea, senza rinunciare alle regole che l'intelletto prescrive. Non è pertanto un principio della possibilità dell'esperienza e neppure può essere un principio costitutivo della massima estensione possibile della serie fenomenica. Il suo valore

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