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È fragorosa. È un fuoco alimentato da legname, di sicuro. Ma legno

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Academic year: 2021

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Due volute di fumo in un momento dell’anno troppo caldo perché venisse acceso il caminetto nei cottage ci sorprendono alle prime luci del mattino, o perlomeno sorprendono quanti di noi non erano stati intenti a far guai nelle tenebre. La nostra terra è ricoperta di fiamme da un capo all’altro.

Oltre i fossati di confine dei nostri campi e al riparo dei nostri boschi, sul suolo comune, dove ieri non c’era nessuno che potesse innalzare un fumo, dei nuovi arrivati, sfruttando il chiarore di una compiacente luna in epoca di mietitura, hanno arrangiato una baracca – quattro mura spartane e svelte, un pezzo di tetto – e hanno acceso il più remoto di questi fuochi. Il loro fuoco è umido. Ci avranno buttato sopra fogliame bagnato, in modo da ottenere un pennacchio di fumo nerissimo e, di conseguenza, non passare inosservati. Si solleva in una colonna che quasi non si piega né si assottiglia finché non oltrepassa le cime degli alberi. Dice, Sono arrivati nuovi vicini; hanno costruito una casa; hanno messo su un focolare; conoscono gli usi e la legge. Il primo fuoco ha dato loro il diritto di rimanere. Vedremo.

Ma è la seconda voluta di grigio che ci fa avvicinare, che ci fa precipitare di buon’ora fuori dalle nostre case in questo giorno di riposo, verso la casa di padron Kent. Da lontano, questo fumo è pallido. Nessuno ha aggiunto del fogliame per annerirlo. Ma la fiamma stessa è meno debole.

È fragorosa. È un fuoco alimentato da legname, di sicuro. Ma legno

vecchio. Abbattuto da tempo. Nell’odore si avvertono gli anni. Temiamo sia

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la casa padronale a bruciare, e che verremo rimproverati per aver dormito tutto il tempo. Faremmo meglio a prepararci delle scuse, adesso. Quindi, se abbiamo sentito lo scricchiolio del tetto e delle travi nel nostro torpore mattutino, dobbiamo averlo scambiato per il consueto affaccendarsi degli alberi e del vento, o per il lavorio dei sogni, o per il cigolio delle nostre ossa. Abbiamo concluso ieri la mietitura, l’ultimo fascio. Ci aspettavamo di dormire a lungo e fino a tardi stamattina, con le spalle pesanti, ovviamente, ma i cuori lievi. La felicità ci ha resi sordi, diremo. È stato solo quando abbiamo sentito Willowjack, la cavalla saura purosangue del padrone, protestare contro il fumo con tale paura, che ci siamo svegliati e siamo andati ad aiutare, perché dovevamo aiutare, visto che nessuno vuole perdere la casa padronale.

Ora che abbiamo raggiunto i recinti del padrone e i suoi cortili, possiamo annusare e sentire la paglia. Il fumo e le fiamme non vengono da casa sua, ma dai suoi fienili e dai tetti delle sue scuderie. La sua graziosa colombaia dipinta è già andata. Ci aspettiamo di scorgere le ali candide dei suoi uccelli domestici contro il cielo grigio-fumo. Ma non ce ne sono.

Capisco subito di chi è la colpa. Quando Christopher e Thomas Derby, i nostri soli gemelli, e Brooker Higgs sono tornati dopo aver fatto legna ieri sera, sembravano un po’ troppo soddisfatti, ma non avevano con loro alcun volatile o coniglio da poter mettere in pentola, e neppure legna da ardere. Il loro unico bottino, per quel che ne sapevo, era un sacco ingombrante, quasi vuoto, e degli sfrontati scoppi di risa. Erano andati a funghi. E, dai loro sguardi, avevano già mangiato crudo qualche coprinus che avevano trovato.

Anch’io feci la stessa cosa l’estate del mio arrivo qui, circa una dozzina di anni fa, quando ero più acerbo e meno timido, anche se non giovane.

Ricordo di averli mangiati. Non si possono dimenticare. Proprio come ieri,

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avevamo tagliato e sistemato l’ultimo fascio della mietitura. E, proprio come oggi, eravamo in pausa dal lavoro, il che vuol dire che potei smaltire la mia mascalzonata dormendo. Così, in compagnia di John Carr, il mio nuovo vicino allora, mio vicino ancora oggi, quel pomeriggio me ne andai a ringraziare il Signore per la Sua Munificenza cercando coprinus in quegli stessi boschi. Non dimenticherò mai le luci danzanti, il loro fluttuare, la gaiezza, le aureole e le scie indistinte che seguivano tutto ciò che si muoveva, l’immensa audacia che provai, il timore persistente (sì, anche adesso), o come la luna divenne minacciosamente blu quella notte, e poi rossa. Vorrei aver avuto il coraggio, da allora, di provare a trovare quella luna un’altra volta.

Ieri sera, quando i gemelli e Brooker Higgs, gironzolando, sono passati davanti ai nostri cottage e ci hanno salutato con le mani sporche di lamelle di fungo, ho chiesto a quegli uomini allegri, «È andata bene?» Loro hanno subito svelato il loro sacco col bottino, perché erano troppo ebbri e intontiti per nasconderlo, nonostante capissero la mia antica confidenza con la casa padronale. Ho scostato l’umidità delle foglie e ispezionato i coprinus rimasti, conservati per ulteriori bisbocce, suppongo, oltre a un buon numero di gallinacci, i quali, stufati nel latte, sono così buoni che, messi in bocca a un morto, lo faranno resuscitare d’un balzo. A spiegare la mole del loro sacco c’era un’enorme langermannia, dalla superficie morbida come pelle di capretto che già espelleva spore, e davvero troppo giallognola e secca da cucinare. Perché l’avevano raccolta, allora? Perché non le avevano semplicemente dato una bella pedata? Che razza di giovani balzani erano mai questi?

Ecco cosa è successo. Questo è il mio resoconto, studiato senza fare

ricorso ad alcun poliziotto o giudice – ed è meglio così, perché questo posto

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è troppo isolato da ogni città per annoverare tali giudiziose creature tra il nostro bestiame; siamo troppo pochi e, anzi, sempre meno. Il nostro ultimo giorno di mietitura non è stato felice come avrebbe dovuto essere, e non solo perché il raccolto si è rivelato molto frugale, lo si vedeva dalla spiga.

Un signore che non abbiamo riconosciuto ci guardava estirpare il nostro campo d’orzo; un visitatore, un evento raro, emozionante e inquietante. Noi tagliavamo con le falci; lui lavorava con pennelli e penne d’oca. Ci stava documentando, o meglio, prendeva nota della nostra terra, su richiesta di padron Kent. Inclinava la sua tavola da disegno per chiunque glielo chiedesse, lasciandogli vedere le incisioni sulla sua carta, le figure geometriche che, ci disse, erano campi e boschi, i quadrati che corrispondevano ai cottage, gli stagni, i viottoli, la foresta.

Era un uomo piacevole, direi. Di non più di trent’anni e vestito quasi come il padrone, non da lavoro ma per stare all’aperto, con stivali solidi, calzoni, farsetto, e un semplice berretto senza piuma, fermaglio o emblema.

La sua barba era modellata e appuntita con la cera. Ho una piccola paletta da giardino con la quale combacia. La barba di un uomo di città. Una barba da benestante. Ed era sbilenco quando si muoveva, con il braccio e la spalla sinistri rigidi. Il suo era un corpo non bene adatto alle sporgenze e ai margini sconnessi di un campo. Aveva il passo malfermo. E c’era, pensai, la traccia di una passata malattia nella sua espressione, così come nella sua andatura. Ma non ho mai visto un uomo dal sorriso più pronto. Non potevamo fare a meno di fissarlo e chiederci, senza dirlo, se quelle incisioni sulla sua tavola non avrebbero inciso anche noi, in modo spiacevole.

Comunque, c’era del lavoro fondamentale da finire ieri, a prescindere

dalle nostre distrazioni. Se speravamo di avere cereali a sufficienza per

passare l’anno, dovevamo meritarceli con un po’ di sudore. Il raccolto di

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quest’estate non era ancora abbastanza buono. L’Abbondanza, qui, si è combinata con la Ristrettezza. Ai confini più bassi e ombrosi della piccola valle e sui pendii rocciosi più trascurati, le nostre piante si sono rivelate avare. Sono cresciute basse, sghembe e gracili come il nostro visitatore claudicante e quindi non valeva neanche la pena raccoglierle. Ma i campi più alti, che abbiamo lasciati intatti fino all’ultimo, sono sempre sembrati più vivaci – e più promettenti. Fin dalla primavera abbiamo aspettato con le dita incrociate mentre il nostro migliore orzo rinunciava con costanza al verde e si abbandonava al fulvo. Dal sentiero, guardando giù verso i grovigli dei salici sul torrente, l’estremità più alta del nostro campo d’orzo, innalzandosi e fremendo nella brezza, ci ha mostrato finalmente gli ocra e i color cadmio, i gialli ambra e cromo. E gli odori, che tanto a lungo nella lenta estate sono stati tenui e madidi, son diventati nocciolati e melliflui.

Promettevano birre e porridge invernali. I filamenti e le ariste delle spighe d’orzo erano friabili e secchi a sufficienza da cicalare ogni volta che venivano disturbati, chiacchierando con diecimila voci a ogni sforzo del vento o a ogni ritirata di lepre, topo o uccello. Dicevano, «Ne abbiamo abbastanza. Le nostre teste sono abbrustolite e pesanti ora. Siamo secche.

Tirate fuori le vostre lame e fate quello che dovete».

Mietere e spettegolare. Questa è la regola. Nei giorni della mietitura,

chiunque abbia un paio di gambe e di braccia può aspettarsi di guadagnarsi

la pagnotta col lavoro incessante. Il nostro numero si è ridotto troppo,

ultimamente, per permettere a una singola anima utile di assentarsi. Non c’è

mano che scamperà illesa alla paglia friabile. I bambini ci precedono,

cercando le estremità grigie di quei cardi che abbiano superato il nostro

orzo ruggine-oro, poi si abbassano sotto il livello delle spighe per sradicare

ortiche, scardaccioni selvatici, erba pazienza; «gestire le lamentele»,

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diciamo. Le spalle più larghe agitano le falci e i falcetti contro i declivi traboccanti di steli; lepri, pernici e passeri si dileguano davanti alle lame; le nostre mogli e le nostre figlie raggruppano e legano i fasci, anche se non con troppa cura – lavorano in base al principio di dieci per la comunità e uno per la spigolatura; i nostri padri scricchiolanti formano le file di biche;

il sole inizia a seccare ciò che abbiamo mietuto. Il nostro lavoro viene consacrato dal sole. In confronto ai giorni invernali, mettiamo, o ai giorni in cui si zappa, è un lavoro soddisfacente, tanto più per la compagnia di cui godiamo, perché in tali giorni tutte le facce che conosciamo e che amiamo (assieme a quelle che conosco ma che non gradisco del tutto) sono radunate in un solo spazio, e unite da fossati comuni e speranze collettive. Se, per caso, sentiamo il bramito di un cervo che brontola perché vuole essere catturato e stufato, o una beccaccia che ci implora di fare di uno sformato il suo carro funebre, solleviamo la testa tutti insieme e guardiamo verso i boschi tutti insieme; insieme ci raddrizziamo e fissiamo il sole, con aria di riprovazione, se viene oscurato da una nuvola; le nostre falci e gli attrezzi schioccano e chiacchierano all’unisono. E ogni cosa che diciamo viene sentita da tutti. Quindi c’è franchezza e giovialità.

Il lavoro in gruppo della mietitura ci consente di essere sboccati. Il

nostro umorismo matura mentre l’orzo cade. Possiamo diffondere

chiassosamente i pettegolezzi, possiamo stuzzicare e pungolare, Chi sta

condividendo la moglie? Quale scapolo barbuto è un po’ troppo amichevole

con la sua capra? Quale vedovo (guardano me) ha intinto il dito nella

ciotola di qualcun altro? Quali giovanotti vergognosi sono le riserve del

villaggio, vale a dire quei bambini concepiti nel letto di un uomo e poi

consegnati in quello di un altro? Non ci sono freni per noi, quando tagliamo

l’orzo.

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Quindi ieri non è stata una sorpresa che, una volta che il «signor Penna», fianco a fianco con padron Kent, stava occupandosi coi suoi legnetti e i suoi metri a nastro della forma e del volume del nostro campo a maggese, e dunque senza essere sentiti, ci chiedessimo, a voce alta, se il nostro ospite dalla città avesse mai superato le sue palesi deficienze per assicurarsi una moglie compiacente. Era già sposato? E, se lo era, quali piaceri scabrosi poteva trarre la signora Penna da tali barcollamenti e rigidità, e dall’avere le proprie pelose parti intime così simili al mento del suo amante menomato? «Mi piacerebbe mettergli in mano una falce», ha detto il mio vicino John. Un altro ha detto, «Io preferirei mettere in mano a lei la mia mazza di legno». E dopo, ovviamente, la scurrilità è aumentata con tale spasso sulla prospettiva di accarezzare la barba triangolare del signor Penna e l’attributo gemello della signora Penna che, quella sera e in nostra compagnia, ogni volta che egli rifletteva con la mano intorno al mento, com’era sua abitudine, le donne che erano là a mala pena riuscivano a celare i loro sorrisi mentre i loro uomini stavano a guardare, mordendosi le labbra. «E avete notato che mani bianche?» ha chiesto una delle figlie del villaggio. «Mi chiedo se se le è mai sporcate, se non per …» No, non finiva.

Quello che aveva in mente non sembrava possibile.

È stato solo quando quel signore è tornato, a pomeriggio inoltrato, e se

n’è stato alle nostre spalle sulla parte ispida del campo, a quantificarci e a

misurarci, che abbiamo ricominciato a chiederci cosa ci fosse in serbo per

quei preziosi dintorni, e a sentirci a disagio. Cosa voleva dalla nostra terra,

cosa stavano stabilendo le sue carte? Abbiamo visto il suo dito agitarsi in un

conteggio. Lo abbiamo sentito contare, finché non ha raggiunto il misero

cinquantotto che ci rappresenta. Ne sappiamo abbastanza da capire che, nel

mondo là fuori, farina, carne e formaggio non vengono divisi in parti e

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porzioni per la dispensa, come avviene qui, ma solo pesati e dosati per la vendita. Il signor Penna era la conferma della voce corsa alle nostre porte secondo la quale padron Kent era in tali ristrettezze, ora che era vedovo, che avrebbe avuto bisogno di misurare e vendere la nostra terra? Non c’era franchezza e giovialità a sufficienza che potesse risollevare i nostri spiriti, una volta radicatasi quella paura. Il sorriso pronto del nostro osservatore era minaccioso.

Ci abbiamo messo molto a diffondere la nostra preoccupazione. Ma abbiamo afferrato i nostri ultimi fasci d’orzo più silenziosamente, senza fare gli sboccati – e più scrupolosamente, come se ci stessero osservando.

Adesso ogni bramito di cervo o richiamo di beccaccia era un avvertimento.

Ogni nube oscura ci ricordava che niente era garantito nei nostri campi.

Abbiamo soltanto borbottato tra noi e noi, troppo in ansia per alzare la voce abbastanza forte da farla giungere ai nostri vicini lungo la fila della mietitura. Le facce di alcuni degli uomini più giovani dichiaravano che avrebbero difeso i nostri acri con le loro vite, o con le vite di chiunque li avesse ostacolati. Le solite tacite sbruffonate. Piuttosto che esprimersi apertamente, hanno rivolto la loro rabbia verso i piccioni e i corvi, e verso un gruppetto delle colombe quasi bianche del nostro padrone, che erano discese sul campo monco e stavano già rubando dei chicchi caduti che, in base agli antichi diritti della spigolatura, avrebbero dovuto essere nostri.

Questi «diavoli candidi», col loro biancore fuori stagione che ne metteva

ancor più in risalto gli occhi simili a piselli e l’avidità rispetto ai compagni

grigi e neri, stavano banchettando col nostro pane e la nostra birra,

dicevano, così hanno spedito i bambini armati di fionde a sommergerli con

manciate di pietruzze o a scacciare i ladri con le grida, qualunque cosa

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dimostrasse il nostro usufrutto. L’aria era piena di ali e strilli. Procedeva così l’ultimo giorno di mietitura.

In base al mio resoconto, non appena la nostra difficile giornata di lavoro era finita e tutto l’orzo dalle spighe appiattite era stato riposto e portato via col carro, i gemelli Derby e Brooker Higgs, uomini non sposati in un villaggio inspiegabilmente a corto di donne non sposate, si sono avviati verso i boschi, mentre la maggior parte di noi, i rimanenti, ci siamo rifocillati a casa, tirando le somme. Abbiamo scrollato il capo e ci siamo messi una mano sul cuore, finché ci siamo persuasi che padron Kent era un uomo troppo buono e giusto per vendere i nostri campi. Si era sempre preso cura di noi. Ci eravamo sempre presi cura di lui. Oltretutto, che prove c’erano di una vendita? Un signore barbuto e sbilenco? Una carta? Il conteggio delle nostre teste? No, non dovremmo essere sospettosi.

Dovremmo far fronte al giorno di riposo con il cuore sereno e, dopo, goderci la spigolatura che seguirà, con la nostra Regina della Spigolatura che si piega a raccogliere per prima un chicco. Dovremmo aspettarci che tutte le stagioni si dispieghino nelle loro usuali fasi, e così via lungo le mietiture e gli anni. Tutto era destinato a mantenere le proprie fattezze.

Questo è ciò che abbiamo pensato. Eravamo calmi e rilassati. Ma, a

differenza dei tre scapoli, noi non avevamo trovato e mangiato coprinus, ed

escogitato poi dei modi per pareggiare i conti con gli uccelli ladri, in

particolare quelli bianchi della colombaia del padrone. E non ci eravamo

neppure imbattuti in una langermannia più grossa della testa di un

maniscalco, ma troppo rinsecchita. Una langermannia così asciutta e

incavata va bene, come ogni canaglia dei boschi sa, per dare fuoco da un

punto a un altro. Va bene, se sei orientato in tal senso, per appiccare un

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fuoco dentro i cortili del padrone mentre tutti dormono e solo i neri agenti della notte sono all’opera.

Chiaramente, quelle teste biondastre non intendevano uccidere così tante colombe. O, addirittura, neanche provocare un incendio. Era loro intenzione solo creare un po’ di fumo e scacciare gli uccelli. Ma quando, prima dell’alba, hanno spinto la loro lanterna di langermannia nel sottotetto, fra la pula asciutta e lo strame che le colombe avevano raggranellato e portato dentro per fare il nido, non ci è voluto molto prima che il fuoco che covava sotto la cenere diventasse fiamma, e la fiamma, aizzata dalla frenesia delle ali che sbatacchiavano, si propagasse lungo la parte inferiore delle travi del tetto, nutrita dagli oli del legname, e trovasse le balle del fieno di quell’estate che stavano in cima. Gli uccelli stanno lontani dal fumo. Quindi queste colombe avrebbero cercato gli angoli della piccionaia, o sbattuto contro i listelli del tetto, o avrebbero tentato di aprirsi un passaggio col becco. Ma chi sa davvero cosa avrebbero fatto delle colombe in un incendio? Magari una colomba se ne sta semplicemente posata a tubare, troppo stupida per fare altrimenti, finché non avrà le piume annerite per le bruciature, finché la carne non le si sarà arrostita fino all’osso.

Qualsiasi cosa fosse accaduta, questo è certo: il recinto della scuderia stamattina odorava di carne indegna. E i gemelli e Brooker Higgs si sono svegliati nell’alba peggiore della loro vita.

In qualsiasi altro posto tranne questo, dei piromani ostinati come quelli

sarebbero finiti alla forca. Sarebbero stati appesi in bella vista, a fornire

nutrimento a quegli stessi uccelli ladruncoli che avevano sperato di tenere

lontani dalla spigolatura. Ma, come ho detto, questi campi sono lontani da

qualsiasi posto, due giorni col cavallo della posta, tre giorni in carrozza,

prima di trovare una piazza col mercato; non abbiamo giudici, né poliziotti;

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e padron Kent, il nostro proprietario terriero, è giusto. Ed è impacciato per quel che concerne leggi e punizioni. Tollererebbe un malfattore fra i suoi braccianti piuttosto che privare una famiglia del padre, del marito o del figlio. Di certo il rogo delle scuderie e della colombaia del padrone, la perdita del fieno e delle colombe, non è un crimine che dovrebbe rimanere del tutto impunito. Se i responsabili vengono identificati, possono aspettarsi delle bastonate, seguite da una lunga permanenza oltre i nostri confini, a dormire all’aperto. Qualche capo del loro bestiame – un paio di capre, magari, qualche maiale svezzato – potrebbe certo essere rivendicato come indennizzo. Ma le loro vite non saranno mai a rischio, non qui. Quindi, forse, è opportuno che gli scapoli mantengano la calma, vengano fuori a combattere il loro stesso fuoco, sembrino innocenti, e sperino che la conclusione generale sia che l’incendio è stato una fatalità. Sfortuna, in altre parole, e non una sola anima da biasimare.

Ma Brooker e i gemelli non sono bravi a mentire. Non avrebbero

successo come attori su di un palco, al contrario di tanti altri banditi e

tagliagole che sfuggono alla giustizia grazie a un camuffamento. La loro

colpa è sotto gli occhi di tutti. Sono troppo chiassosi e troppo infervorati,

specialmente quando viene giù lo stesso padron Kent, avvolto nel tabarro

senza maniche che la moglie ha intessuto per lui l’inverno in cui è morta, e

se ne sta scioccato a fianco della sua cavalla illesa, a distanza, lontano dal

calore, a guardare le scuderie scomparire. La sua casa e la sua serenità sono

ridotte in cenere. I colpevoli fanno quello che possono per farsi notare da

lui, fargli vedere che sono pronti a essere leali e instancabili per lui. A

differenza di tutti noi, incluso padron Kent, non ammetteranno perlomeno

una qualche errante, infantile fascinazione verso le fiamme, verso il modo

antico e appagante con cui trasformano dei solidi in cenere e aria. Loro,

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invece, dirigono la corsa per portare dentro l’acqua dagli stagni e dalle cisterne. Ostentano troppo il loro respingere le fiamme con le vanghe.

L’incendio ha reso le loro lingue secche come il fieno. Non mostrano paura.

È come se la loro vita dipendesse dall’estinzione di questo fuoco.

Ovviamente, sono loro – e in special modo Brooker Higgs; è lui l’oratore – che organizzano la caccia ai responsabili. È subito chiaro – non appena egli lo insinua – che nessuno è pronto a credere alla sua affermazione che questo incendio è avvenuto per caso, o per il naturale surriscaldamento di un covone. Un buon covone è solido come un cottage, composto da fasci. Può traspirare e cuocersi. Ma cosa può aver attizzato le fiamme? Non ci sono stati fulmini durante la notte. Nessuno che bruciasse rifiuti organici poco distante ha spedito una scintilla vagante all’interno del chiostro del padrone. Nessuno ha dormito dentro le scuderie al lume di candela. Il padrone non può essere accusato di essere salito fra le colombe con la pipa da tabacco. No, è stato fatto intenzionalmente. Brooker assente con un cenno del capo. Chiunque abbia causato quest’«opera del demonio», suggerisce, indicando i resti anneriti dei covoni disposti a scala, che solo stamattina lui e i suoi complici hanno appoggiato contro il muro delle scuderie per avere accesso alla colombaia, probabilmente pensava di scappare con le colombe del padrone. Per mangiarle. Ora, chi fra loro ha lo stomaco così vuoto da aver bisogno di rubare il cibo di un vicino? Perché solo ieri sera il padrone stesso ha detto che avrebbe ucciso un vitello per suggellare la fine della mietitura e l’elezione della Regina della Spigolatura.

Quindi, chi, fra loro, avrebbe rubato e mangiato una colomba, trovandosi

poi troppo sazio per godersi la carne di vitello? No, il dito del sospetto non

va puntato su un paesano – che pensiero assurdo! – ma su un forestiero.

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Ci sono dei nuovi arrivati, venuti fuori dal nulla ai margini dei nostri boschi, dice qualcuno, proprio come Brooker sperava. Questo informatore indica con dei cenni il lato opposto dei campi e quell’altro pennacchio di fumo più umido e più scuro che tutti abbiamo visto coi nostri occhi stamattina, mentre andavamo a salvare le scuderie. Da dove ci troviamo, il loro fumo sta ancora piegandosi minacciosamente nella brezza, al di sopra delle cime degli alberi.

«Andremo da loro, credo», dice il padrone affabilmente. «Andremo da loro per vedere quali risposte forniranno, ma non prima di aver inumidito tutto e messo in sicurezza gli edifici». Si guarda intorno e scuote la testa.

Questo è stato un colpo per lui, un altro fardello a cui sopravvivere. Ha gli occhi lucidi. Forse è solo il fumo che li rende lucidi. «Be’…» dice, guardando verso il cielo chiazzato sopra i nuovi arrivati, e lascia il suo commento in sospeso. Vuol dire che è afflitto al pensiero – al sospetto logico, anzi – che il secondo pennacchio di fumo lo porterà alle colombe arrostite. E allora sa che il suo dovere richiederà una mano ferma e vigorosa.

Capisco che questo è il momento in cui dovrei sollevare la mano e dire

la mia parte, riferire della langermannia secca. O perlomeno dovrei portare

Brooker Higgs in disparte e dargli di gomito tra le costole. Invece tengo a

freno la lingua. Una langermannia non è una prova. Come non lo è una

dissimulazione malriuscita. Per di più, percepisco l’inclinazione a lasciare

che questo dramma segua il suo corso e muoia con le fiamme. Oggi è un

giorno di riposo e vogliamo che l’aria si pulisca – si pulisca dal pericolo e si

pulisca dal fumo – così che possiamo svagarci come meritiamo. Stasera c’è

birra da bere, c’è carne di vitello da mangiare, e sceglieremo la più graziosa

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come Regina della Spigolatura. Sono sicuro di non essere il solo ad aver scelto di tenere a freno la lingua e non alzare la mano, come dovrebbe.

In realtà, la mia mano – la sinistra – è troppo compromessa per essere sollevata. Ero fra i volontari incoscienti che hanno cercato di far rotolare alcune delle balle in fiamme nel cortile verso la fila di secchi d’acqua, in modo da poter salvare almeno un po’ del foraggio invernale del padrone, le sue grandi, rigonfie porzioni di fieno. Ho immerso il mio fazzoletto da collo in un secchio d’acqua e me lo sono legato attorno alla bocca contro il fumo e, dopo, col vicino Carr al mio fianco, sono entrato dentro la scuderia, sotto i legni scricchiolanti, per vedere cosa potevamo salvare. Abbiamo appoggiato le mani e il petto sulla balla più vicina, puntato i piedi contro il lastricato e abbiamo spinto. La balla ha barcollato in avanti, facendo solo un mezzo giro. Ci siamo puntellati per spingere di nuovo, ma stavolta la mia mano è affondata nella paglia rovente e ha bruciato senza fiamma per un momento. Ho le dita bruciate. Non ho un pelo al di sotto del polso. Ho il palmo bruciacchiato e dolorante oltre misura. Devo dire che una mano arrostita non ha l’odore invitante di una colomba arrostita. Il danno è serio.

La pelle è più rossa di una bacca. Faccio del mio meglio per masticare il

dolore, per non creare un ulteriore spettacolo. Tuttavia, non mi manca la

solidarietà. Il padrone stesso mi prende per le spalle in un abbraccio che

esprime compassione e preoccupazione. Sa che un contadino con una mano

offesa è utile come un forcone a una sola punta. Di nessuna utilità,

specialmente in tempi di mietitura. Per forza sono più preoccupato della

mia pelle, al momento, che di quella di qualsiasi forestiero. Adesso devo

tornarmene a casa e fare un impacco per la ferita col bianco d’uovo e la

farina fredda. Poi, un pizzico di sale per alleviare le vesciche. Dovrò fare

l’invalido, per oggi. Oggi, almeno, dovrò starmene seduto a osservare il

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mondo. Qualsiasi cosa sia destinata a succedere, quando i miei vicini

raggiungeranno quei nuovi arrivati che hanno messo su casa ai margini

comuni dei nostri campi, avverrà senza di me.

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III

È la sera di questo irrequieto giorno di riposo e il lontano granaio che è sopravvissuto all’incendio è pieno di mietitori, distesi sulle balle di fieno, che stimolano l’appetito col pane manchet giallo dei ricchi dal vassoio in legno d’olmo di padron Kent. Beviamo la birra fatta con l’orzo dell’anno scorso. Ancora una volta traiamo vantaggio dalle stagioni. Le lanterne gettano delle ombre così profonde e concitate che è difficile capire dove si trovino i visi dei miei vicini. Sono grotteschi, ma solo per un momento.

Non ho bisogno di contare le teste per sapere che ci siamo tutti. Non una

sola anima è rimasta a casa stasera. Persino l’anziana mamma dei gemelli,

che non riesce a fare neanche un passo strascicando i piedi, a meno di non

essere sorretta da entrambi i gomiti e sollevata come un santo di gesso, è in

qualche modo riuscita, con l’aiuto di un setaccio di legno – «la mia lettiga

da gran signora», come dice lei – a essere trasportata alla festa. Ci sono

polpette di prezzemolo, frattaglie di cuore saltate e rigaglie stufate. C’è

anche della pancetta affumicata. E il vitellino addomesticato, tenuto da

padron Kent nello stesso granaio, oltre a essere stato rifiutato dalla madre in

primavera è stato per di più macellato, scuoiato per intero e infilzato a un

palo ad arrostirsi. Per noi. La sua pelle penzola da una trave del tetto sopra

il fuoco, asciugandosi e affumicandosi nel fumo e nell’odore della propria

carne.

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Dovremmo essere soddisfatti. La mietitura è al chiuso. I nostri vassoi sono ricolmi di carne. Abbiamo tutti il mento unto. La birra ci infiacchisce la mente. Eppure capisco che il nostro villaggio è turbato. I fuochi e le schermaglie di stamattina gravano su di noi, specialmente sui gemelli e Brooker Higgs, ma anche su quegli uomini che si sono offerti con troppa prontezza di bloccare a terra la sputatrice e di sforbiciarla. A dire il vero non c’è nessuno fra noi che si senta completamente a proprio agio, che non sia insudiciato da una macchia di vergogna. A sentire le dicerie, non ho dubbi che, fatta eccezione per padron Kent e il signor Penna, chiunque voglia sapere chi ha davvero dato fuoco alla colombaia l’avrà capito, ormai.

Da queste parti i segreti sono come le gravidanze. Li puoi nascondere per un po’, ma poi inizieranno a gridare. Quindi siamo tutti cospiratori, stasera.

Potremmo essere assolti solo se quei tre amici colpevoli si appuntassero il coraggio al petto e sussurrassero all’orecchio del padrone che i due uomini, finora senza nome, che adesso se ne stanno fianco a fianco, ammanettati, col collo bloccato e sottochiave alla gogna del villaggio, al cancello della chiesa che non abbiamo mai costruito, che sopportano il primo freddo della sera e un po’ di pioggia, dovrebbero essere liberati e portati nel granaio dell’anfitrione a titolo di scuse. Un taglio di carne di vitello potrebbe essere il nostro risarcimento.

È possibile – no, probabile, direi – che padron Kent non si vendicherà

sui gemelli e Brooker Higgs se diranno la verità. Stasera fanno parte della

famiglia, in un certo senso. E a padron Kent, specialmente da quando sua

moglie è passata a miglior vita, lasciandogli un telaio incustodito ma non un

solo figlio, la nostra compagnia è molto cara. Inoltre, non ci vuole una gran

quantità di birra per renderlo cordiale e mite. A differenza di molti di noi,

più beve, più apprezza l’armonia. Così, i nostri uomini allegri –

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notevolmente taciturni, vedo, e pigiati nella balla più lontana, evitando la luce della lanterna – potevano tranquillamente e senza troppa paura mettere a punto una versione quasi sincera dell’incendio di stamattina e fare ammenda, sia nei confronti del padrone che dei nuovi arrivati – e anche del mio palmo dolorante; sono l’unico paesano che hanno ustionato. Ma non lo fanno. Non vogliono rischiare dicendo la verità.

E neanch’io, se è per quello. Malgrado ciò che io stesso ho visto camminando verso il granaio, è ingiusto ma saggio, credo, ignorare la gogna. La tazza dell’ospitalità si è già rotta. Per quel che ne so, è improbabile che i nostri visitatori, una volta scontati i sette giorni, vorranno comunque mettere su casa in mezzo a noi. Non ci siamo resi simpatici.

Ripiegheranno le loro sacche di tela e se ne andranno, non appena saranno liberi di farlo. Quindi, forse è meglio per tutti noi tenere a freno la lingua, per il momento, e lasciare che si sorbiscano tutta la colpa. Sette giorni non fanno nessuna differenza per uomini come quelli, uomini che non hanno terra né una grande famiglia, uomini che non hanno radici, ma sono come il vischio. Inoltre, c’è un resoconto che ancora non mi sento di prendere per buono, visto che ero assente alla scena di stamattina, secondo il quale questi nuovi arrivati meritano comunque la gogna, a prescindere da chi ha dato fuoco alle vecchie travi di padron Kent. Nessuno dimentica i due archi tesi, l’impudenza nel dire a tutti che avrebbero fatto meglio a stare indietro, o peggio per loro.

Tuttavia, siamo certamente turbati. È da tanti anni che la gogna non

viene usata. La chiave del suo catenaccio di ferro, che padron Kent tiene

con una dozzina di altre chiavi in una catena di bronzo da qualche parte nel

suo salotto, è arrugginita e ha gli intagli rotti. I suoi ultimi frequentatori

furono due cugini – entrambi Saxton, dunque parenti di mia moglie – che

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entrarono in conflitto per la proprietà di un maiale. Non è una questione banale. Non minimizzo la cosa. I maiali sono i nostri fratelli del cortile posteriore, in un certo senso, e vale la pena lottare per loro. C’era voluta mezza dozzina dei nostri ragazzi per calmarli. Anzi, per immobilizzarli. Fu un pomeriggio interessante. I cugini trascorsero solo una notte intrappolati, per quel che ricordo, e al mattino avevano soppresso le loro discrepanze.

Ripartirono il maiale equamente, dal grugno alla coda, due zampe ciascuno, pesando ogni cosa e dividendo persino il fegato e il cuore con la cura di un mercante che spacca un’oncia d’oro o che taglia un pezzo di tessuto. Da allora hanno fama di essere le nostre canaglie preferite. Non hanno che da lamentarsi perché ci attacchiamo gli uni alle costole degli altri. Ancora oggi perdono raramente l’occasione di sostenere, generalmente quando l’altro è in ascolto, che finire alla gogna non era stata una punizione crudele, sebbene lo era stata rimanere in compagnia del cugino. E lo è ancora adesso. Avevano pagato un prezzo troppo alto per un maiale.

Questo avvenne circa dieci mietiture fa, durante il secondo o terzo anno

di matrimonio del padrone e della sua proprietà fondiaria su di noi. Non ha

mai ritenuto opportuno utilizzare la gogna da allora. È stata la croce del

nostro villaggio. Non abbiamo molto altro. Nell’appezzamento di terreno

che è stato riservato per una chiesa non c’è niente che non siano le nostre

troppe tombe, un cumulo di pietre benintenzionate, ma finora non collocate

e, da qualche parte sotto la felce, le malvacee del dolore e l’epilobio, un

blocco piatto di fondamenta. Finora nessuno ha trovato il tempo di scavare

un fosso per l’edificazione, di scegliere una singola selce per le mura della

nostra chiesa o di miscelare una pinta di malta. Non ci arrischiamo a dire

che ci consideriamo al di fuori del Regno di Dio. Ma di certo non Gli

stiamo incollati al petto; piuttosto, siamo alla portata della Sue dita. Ci

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sfiora appena. Lavoriamo a stretto contatto con specie che chiocciano, e grugniscono, e muggiscono, ma mai col Padre che ha creato noi e loro. Non ho ancora avvertito dietro di noi la Sua presenza, falce in mano. Non l’ho ancora avvertita intenta ad alleggerire l’aratro. No, ci arrischiamo a pensare e anche a dire fra di noi, non ci sarebbe orzo se lo lasciassimo al Signore, neanche un filo. Be’, in realtà, non ci sarebbe neanche il campo, se non un campo di fioriture illegittime ed erbacce; le ortiche e le veccie, le spine e i rovi che Egli ha preferito quando ha abbandonato l’Eden. Non Lo trovi mai a seminare per noi. E tuttavia dobbiamo combattere con la Sua zizzania e la Sua fumaria, dobbiamo soffrire per le Sue pulci, i Suoi moscerini e i Suoi parassiti. Ci fa pagare la punizione di Adamo. Talvolta siamo grati del fatto che il campanile più vicino è ad almeno un giorno di viaggio (e anche la birreria, se è per quello!). Non ci possiamo permettere di mantenere un prete. Ci riveleremmo un gregge troppo piccolo e mediocre per lui. Il nostro risentimento sarebbe superiore alla nostra deferenza. Per cui andiamo avanti, non come pagani ma in maniera del tutto autonoma, scegliendo di non ricordare troppo spesso a noi stessi che esiste un Paradiso e un Inferno, e che tutto ciò che consideriamo quotidianità è in realtà un peccato.

Tuttavia, abbiamo la nostra croce di legno, la nostra gogna trascurata, al

cancello incompiuto della chiesa incompiuta. È un po’ più alta di un uomo

normale, in quercia. Le due assi incardinate, che formano delle ali e

forniscono due postazioni per i prigionieri, sono più larghe e un po’ più

lunghe rispetto alla parte verticale. Ciò rende la nostra croce più robusta e

ampia del consueto crocifisso, più stretto. I buchi, che in un luogo più

spietato fornirebbero abitualmente una sistemazione per il collo e i polsi dei

criminali, ultimamente sono stati per noi uno spazio utile per appendere

rosari per le preghiere o collane dell’amore fatte di fiori. È qui che padron

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Kent celebra matrimoni e battesimi, che pronuncia elogi funebri per coloro che ci hanno lasciato – mia moglie e la sua furono commemorate in questo punto – e conforta chi è in lutto. È qui che ci riuniamo per consacrare la nostra semente, esprimere gratitudine per la mietitura, e benedire l’aratro.

Quindi, questa sera, è stato uno spettacolo triste e infernale per me vedere i due uomini con le teste e le mani penzolanti, assicurati alla croce del villaggio e lasciati ad afflosciarsi per sette giorni. Fino a quel momento, avevo solo assistito al loro fumo e avevo saputo di questi nuovi arrivati, del loro atteggiamento di sfida e dei loro archi, tramite i racconti vanagloriosi e vivaci dei miei valorosi vicini, soprattutto John Carr ed Emma Carr e la vedova Gosse, con la quale, in tutta onestà, ho instaurato negli ultimi tempi un legame occasionale. Dalla sua irritante descrizione, mi aspettavo degli uomini più rudi. Tutto quello che potevo vedere a una distanza di sicurezza, passando loro accanto in direzione dell’odore di vitello e pancetta, erano le estremità innocue di due teste umiliate e rasate frettolosamente, mietute di fresco come il nostro campo grande, una grigia pallida, l’altra già scurita da capelli ispidi e neri come catrame. Il più anziano era l’uomo più basso.

Stava in punta di piedi ed era palesemente a disagio. Se avesse posato i piedi a terra, la morsa di legno che lo imprigionava lo avrebbe strozzato.

Decisi allora di trovare un tronco piuttosto piatto sul quale potesse salire, quando fossi passato nuovamente da là, più tardi.

Padron Kent sta in piedi, adesso, e ci cava dei sorrisi speranzosi. Questi

momenti di festa sono quelli in cui, alimentato dalla birra, egli ama

ricordare ai suoi ospiti legati alla terra la vita che ha condotto prima del suo

gioioso arrivo qui. Le sue sono storie ricamate di un mondo strano e

pericoloso: folletti e oceani; palazzi e guerre. Lasciano sempre i miei vicini

contenti di non farne parte. Ma stasera chiaramente non è in vena di scherzi.

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Invece, ha invitato il signor Penna a unirsi a lui alla tavola improvvisata ed entrambi ci hanno cucito le bocche. Questo è un momento di cui dobbiamo aver paura? «Ecco un buon uomo di mia conoscenza, Philip Earle», dice, prendendo il signor Penna per il gomito e spingendolo in avanti affinché possiamo salutarlo ed esaminarlo. «Lo avrete visto ieri, e lo vedrete da queste parti per un’altra settimana. È venuto da noi, assunto da me, per fare una mappa di tutta la nostra terra e del terreno comune. Prepareremo dell’umile pergamena grezza per il suo compito da quella pelle di vitello che ora pende sopra la mia testa. Prenderà nota di tutto e poi redigerà un’istanza per le corti. Ciò che ne segue è – con il vostro volontario, gentile benestare – un’organizzazione tutta a nostro vantaggio. Troppe stagioni sono state difficili per noi …» A questo punto il signor Earle (che non ci abitueremo mai a chiamare così) srotola una delle bozze che ha preparato e ci chiede di avvicinarci per guardare il nostro mondo «così come lo vedono i nibbi, e i rondoni, e le stelle». Ci spingiamo per avanzare, trascinandoci gli uni addosso agli altri per trovare posto nell’alone della lanterna. «Queste sono più complete rispetto a ieri», dice il signor Penna, ma di nuovo vediamo solo le forme geometriche e i quadrati. La sua mappatura ci ha ridotti a un reticolo di linee. Non c’è vita in esse. Adesso ci mostra una seconda carta con altri spazi. «Questo è il vostro avvenire», dice.

«Sì, il nostro domani avrà questo aspetto», aggiunge padron Kent. Quel

«Sì» è più incerto di come dovrebbe essere. Esita, sorride. «Sarò più preciso…» promette. Ma non adesso, pare.

Dilla, dilla ora, di’ la parola, lo sollecito in silenzio. Non ho bisogno di

essere un rondone o un nibbio per sapere qualcosa del mondo e di come sta

cambiando – sta cambiando aspetto, come suggerisce padron Kent – e per

udire il lontano belato di animali in arrivo che non sono né mucche né

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maiali né capre, che non sono fratelli. Lo capisco all’istante; ho temuto questo «Sì» fin da quando la padrona è morta. L’organizzazione tutta a nostro vantaggio che il padrone ha in mente – contrariamente alla sua indole consueta e alle sue inclinazioni, contrariamente alle sue promesse – comporta la monopolizzazione e la chiusura dei nostri campi con mura e siepi, fossi, cancelli. Intende gettare una cavezza attorno alle nostre vite.

Intende sgomberare il nostro terreno comune. Intende abbattere gli alberi.

Intende far sì che il nostro villaggio, lontano da tutto, che è sempre stato un posto per corna, granturco, zampe e poco altro, sia destinato a diventare un rifornitore di lana. La parola che egli e nessun altro osa sussurrare, figurarsi poi dire ad alta voce, è pecore. Invece padron Kent ci presenta in modo un po’ agitato un sogno che ha fatto. Spera che, se riesce a descrivere questi cambiamenti come venuti a lui in sogno, allora lo capiremo meglio e lo temeremo meno, poiché i sogni sono la norma anche fra la gente normale.

Di certo anche noi siamo sognatori.

In questo sogno, tutti i suoi «amici e vicini» – vale a dire noi – non

devono più lavorare sodo e a lungo durante l’anno, e senza la certezza che

ciò che seminiamo un giorno dia frutto. Abbiamo buone annate; ne abbiamo

di cattive, ci ricorda. Condividiamo soddisfazioni, ma anche difficoltà. Il

sole non è affidabile. Né lo è la pioggia. Un vento burrascoso può

schiacciare tutte le nostre colture. La muffa lo riduce in poltiglia. Il

bestiame potrebbe venir decimato dalla babesiosi. La mietitura può venire

portata via dai corvi («E dalle colombe», dice una vocina. La mia). Ma la

lana è più prevedibile. Il vello non richiede sole. Il vello, anzi, cresce e si

ingrossa al buio. Il vello non è soggetto al vento o alle stagioni, dice,

infervorandosi sempre più nel suo compito – perché si tratta di un compito,

un lavoro di persuasione. E, per quanto ne sa lui, i corvi non gradiscono la

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lana, nonostante – sorride, avvertendoci della battuta in arrivo – la loro brama di greggi.

No, padron Kent ha fatto un sogno che ci rende ricchi e sereni. Ogni giorno diventa per noi un giorno di riposo. Passeggiamo attorno al nostro campo recintato assieme ai ladruncoli. Ce ne stiamo seduti sui ciuffi d’erba e guardiamo, semplicemente. Non ariamo; pascoliamo. Non mietiamo;

tosiamo. Non ci congeliamo fin dentro le ossa negli umidi e ardui giorni d’inverno, estraendo pietre dal terreno, torcendo il collo alla zizzania, o strappando grovigli di radici e gramigna finché la nostra schiena è più rigida di un giogo. No, ce ne stiamo a casa seduti accanto al fuoco, intessendo le nostre fortune dal filato. La nostra unica occupazione è schizzare avanti e indietro, come se si trattasse di un passatempo, un gioco da bambini. Il nostro unico sforzo è uno sforzo lieve – un delicato reggere i licci, occuparci dell’ordito e della trama solo con le dita, snodando i fili ingarbugliati e allentando la presa. Al posto dei buoi ci saranno dei telai.

Invece di pregare che gli steli delle colture stiano dritte e alte contro ogni

probabilità, contro i tentativi degli elementi, e che le spighe di orzo

ingrossino e maturino, avremo chiuso le stalle per del pettinato a doppia

altezza, del fustagno, della lana pettinata e del twill. «Una prospettiva

entusiasmante, vero?» dice. Da qualche parte, in un posto troppo lontano

per conoscerne il nome, in luoghi che non potremo mai vedere, un uomo

indossa un cappotto che abbiamo pascolato e poi assemblato con le nostre

mani; una donna si mete una sciarpa sopra la testa e avverte fra le maglie

l’aroma della campagna e dei nostri focolari. Iniziamo con la lana untuosa

sulla groppa del nostro bestiame, i nostri Zoccoli d’Oro, e concludiamo con

indumenti che coprono la schiena della gente nobile. È un sogno che, di

certo, nessuno di noi giudica ignobile. E tuttavia non l’ha ancora detto:

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Pecore. Sono l’unico a capire cosa sta cercando di camuffare il sogno? I covoni stanno per cedere il passo alle pecore.

Padron Kent ha calcolato bene il momento della sua rivelazione. Il vitello è suo. Anche la birra è sua. Non siamo più affamati. Di certo non siamo sobri. Gli siamo debitori, stasera, e lo conosciamo abbastanza bene da aver voglia di fidarci della sua parola, almeno per ora. Per i suoi progetti potrebbero volerci cinque anni. O dieci. Ciò che conta è questa sera, e questa sera ci ha saziati col suo banchetto. Gli basta alzare una mano per scacciare le preoccupazioni e far sì che si riprenda a bere. Siamo diventati come animali, ciascuno a modo suo, proprio come dice la ballata del birraio: ubriachi come capre e lascivi; ubriachi come cani che si guatano in cagnesco; ubriachi come tori e attaccabrighe; ubriachi come maiali e cocciuti. Ma il più delle volte siamo ubriachi come cavalli da posta – la loro sete non è mai soddisfatta – e quindi, almeno per questa sera, liberi da ogni ansia.

Comunque, abbiamo voglia di musica e balli. Il giovane Thomas Rogers

è il nostro unico pifferaio, e il nostro usignolo. Non ha bisogno di essere

pregato per prendere il suo strumento. Per qualsiasi occasione si riempie i

polmoni e li svuota per noi. Prima produce un poco raffinato ritmo per la

mietitura coi piedi e poi inizia coi fori e con le dita. Abbiamo già ascoltato i

suoi tentativi molte volte. Quando Thomas la notte si siede e si esercita, non

possiamo sfuggire alle sue stonature e alle sue melodie, per quanto ci

sforziamo di dormire. Ma dopo lo apprezziamo. Senza di lui non potremmo

mai ballare. Così, stasera lo sproniamo. Quello che non ci aspettiamo è

questa seconda voce che si unisce a lui, che si inserisce con grande maestria

alle nostre spalle. È il signor Penna, il signor Earle. Lo dovremo chiamare

signor Violino, d’ora in poi. Si fa avanti con la sua camminata goffa,

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avanzando di sbieco con la spalla, e non col busto. Trova un posto a sedere accanto a Thomas Rogers, appoggia lo strumento sulle gambe e accosta l’archetto alle corde. Prima fa da eco, poi da ornamento, poi si appropria di ciò che il pifferaio tenta di suonare.

Thomas Rogers non sembra compiaciuto quanto il signor Penna del calore dei nostri applausi. Il pifferaio perde la fiducia e la faccia. Ma la voce del violino – perlomeno, una volta che il nostro ospite si è sistemato sullo sgabello – sollecita al contempo le nostre risate e le nostre lacrime. La sua melodia è sia lieta, perché infelice, e triste, poiché così gaia. Molto presto i bambini smettono di giocare a loggats 1 , lanciano i loro ultimi legnetti verso il palo, si affrettano verso il pavimento del granaio per scivolare sulla paglia sparpagliata a tempo di musica. Ora, le poche teste calde rimaste nel villaggio – i gemelli Derby, ovviamente, ma anche altri rappresentanti dell’anarchia – aprono le danze, prendendo per mano le sorelle minori e le nipoti e facendole volteggiare. Dopo è il turno delle coppie sposate. E infine si fa avanti il nostro gruppo di ragazze non sposate, con grande solennità, all’inizio, ma ben presto le loro guance diventano rosse per lo sforzo, e non per il belletto. Una di loro, colei che mostrerà più delle altre una vivace leggiadria e devozione, sarà la nostra Dama della Mietitura. Sarà lei la Regina della Spigolatura. La sceglieremo una volta che la musica si sarà conclusa, se mai quel momento arriverà, se lasceremo che arrivi. Domani sarà la prima a mettere piede nel campo d’orzo sgominato, per camminare fra le spighe mozzate, per piegarsi a cercare e salvare un chicco contro i gelidi tempi a venire.

Il signor Penna, il violinista, di nuovo ci plasma, rendendoci proporzionati e geometrici con le sue melodie così come ha fatto con le sue

1

Antico gioco simile alle bocce o al bowling, consistente nel lanciare dei bastoncini (dai quali trae

il nome) il più vicino possibile a un palo fissato al suolo o a un pezzo di legno. [NdT].

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carte e l’inchiostro. La sua danza è circolare, poi quadrata. È un incedere e arretrare, è oscillazione e sbalordimento; è vertigine e aggruppamento e fragore. Ai banchettatori è richiesto di andare oltre il loro normale essere, di diventare più liquidi, in effetti. Io stesso sono tentato di unirmi, malgrado sia vedovo. Ma non mi arrischio a mettere alla prova le mie dita e i miei palmi doloranti in mezzo a questa accozzaglia di mani che si afferrano e si stringono. Me ne sto a guardare con padron Kent, l’altro recente vedovo, che vacilla al mio fianco. Le donne ingaggiano una schermaglia con gli uomini, pestando i piedi e facendo vorticare i fazzoletti. Le ragazzine stanno fin troppo attaccate ai giovanotti. Si tengono stretti per i polsi. Le loro cintole si toccano. È probabile, in una luce così bassa e con un tale gioioso scompiglio imperante, che vengano scambiati baci e promesse.

Siamo una compagnia pagana, maggiormente devoti alle usanze e alle feste sante che alla Santità in sé. Traiamo maggior piacere dai canti e dalle danze di Dio che dalla devozione. Grazie al cielo non abbiamo un prete che assista a tutto ciò.

Dovevamo aspettarcelo che la sputatrice sarebbe arrivata proprio nel

momento in cui eravamo più allegri. È la prima volta che la vedo. È al

cancello del granaio, oltre la portata delle luci, ed è così immobile che

sembra anche oltre la portata del piffero e del violino. Ma non c’è dubbio

che sia lei, a meno di non avere un visitatore fantasma, una delle nostre

mogli o figlie resuscitate dalla tomba, dimagrita per via della morte. È più

minuta di quanto mi aspettassi, imponente pur nella sua piccolezza. Ma c’è

lo spesso scialle di velluto di cui ho sentito parlare, e c’è la testa dai ciuffi

malamente tagliati. È fradicia come una strega o una vecchia megera che

abbia fatto il bagno in uno stagno. «È la signora Beldam», mi sussurra

padron Kent, dandole un nome che so che attecchirà. Beldam, la

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fattucchiera. Belle Dame, la bella. I ballerini non l’hanno vista, però. È solo quando il nostro violinista mette da parte l’archetto, arresta la sua melodia, e si solleva dallo sgabello per guardare al di sopra delle teste dei miei vicini in direzione della nostra visitatrice dalla testa rapata che tutti si fermano e si voltano. È appena visibile. È poco più di una sagoma oscura nell’oscurità.

Non possiamo ancora vederle gli occhi o il viso, o distinguere la cicatrice insanguinata sulla testa nuda. Non parla – forse ce la siamo immaginata; è uno spettro evocato dalla birra e dalle danze. L’atmosfera è cambiata. È più opprimente. Eravamo liquidi; ora siamo pietre. La serata si chiude su una nota spezzata.

Capiamo che dovremmo cercare una riparazione per averle tagliato i

capelli. Ecco perché se ne sta ferma là, aspettandoci. Ci chiede di assistere a

ciò che abbiamo fatto. Ho la sensazione che uno degli uomini tra la calca

potrebbe offrirle la mano da un momento all’altro, o anche una della donne,

e condurla all’interno dei nostri cerchi e dei nostri quadrati per volteggiare

con noi. Per un istante, nel granaio non c’è la sensazione che la donna abbia

mortificato la nostra serata, ma che abbiamo trovato la nostra Regina della

Spigolatura. Non dobbiamo fare altro che portarla nella luce e incoronarla

all’istante, e tutto è bene ciò che finisce bene. Un altro sogno. In questo, i

capelli di lei sono di nuovo lunghi e neri; i suoi uomini sono liberi, senza

collare né manette; la nostra croce di legno è restituita alla santità e

ricoperta di rosari; e, no, non siamo stati sorpresi da volute di fumo oggi

all’alba; e ci sono le colombe. Sì, ci sono le colombe. Volano in cerchio,

bianche coscienze alate. Dapprima la loro vista è rincuorante. Tuttavia,

volano in cerchio. Non riescono a trovare un posto per sfamarsi. Questo è il

loro avvenire. Cercano campi per spigolare, ma non ce ne sono.

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Alla mossa dei danzatori, le loro mani alzate, la donna si ritrae, senza voltarci le spalle, forse perché non si fida di noi. Immaginerà che, se esita, gli uomini pulluleranno intorno a lei come una nuvola di moscerini. È solo quando arriva all’altezza del cancello che si volta verso l’uscita e verso la notte e avanza, va fuori, e ci lascia a guardarci, be’, come timide pecore.

Capiamo che il piffero e il violino non possono più suonare. Non possiamo ballare. Ci auguriamo buonanotte l’un l’altro, a disagio, e ci affrettiamo a tornare a casa per smaltire la serata con una nottata di sonno, o per stare distesi a letto a vegliare, o peggio.

Spero – come tutti – di trovare la donna quando vado via. Ma ho motivi

migliori di loro. Padron Kent me l’ha chiesto. Dice che dovrei riportarla

indietro, portare la signora Beldam nel granaio e farle passare la notte con

le balle di fieno come materasso e uno scialle di velluto come coperta. Non

ritiene appropriato che una donna, qualsiasi donna, non importa quali siano

i suoi crimini, debba trascorrere la notte sola e indifesa dai pericoli. Lo vedo

esitare. Vuole specificare quali pericoli potrebbero esserci, ma non pensa

sia opportuno. Non ci sono più lupi di cui preoccuparsi. Non abbiamo visto

le tracce di un lupo da tempo immemore. Non ci sono orsi o gatti-drago. E

padron Kent non è un tipo superstizioso, che teme l’operato di demoni o

spiriti, draghi sputafuoco o spiritelli di bosco. Non c’è ghiaccio né neve,

ovviamente. Non farà straordinariamente freddo stanotte. Il fresco estivo

che possiamo aspettarci quando le ore sono piccole e la notte è fonda non

risulterà mai essere un pericolo per chiunque dorma all’aria aperta, ma solo

una seccatura. Tuttavia, ora che io stesso ho visto la donna e ho poi notato

la consapevolezza negli occhi del mio padrone, capisco qual è l’esito che

egli paventa per lei; quello che ammette a se stesso, a dire il vero; quello

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che ho provato e ancora provo; quello che ogni uomo fra noi – anche il mite e coraggioso signor Penna – sognerà stanotte.

«Fa’ quel che puoi per metterla al sicuro», dispone, infine.

Per prima cosa vado a mantenere la promessa alla gogna, la croce. Non sarei sorpreso di trovare là la signora Beldam che si prende cura dei suoi uomini. Per la verità, prego che sia lì. Fra le altre cose, voglio che lei sia testimone del mio buon cuore. Lascio il granaio animato dalla mia mansione, ma il mio entusiasmo si spegne immediatamente. Mentre ballavamo alla festa, sordi alle intemperie grazie al violino e al piffero, un fattore ben più grande del signor Kent ha notato che il nostro orzo è stato correttamente tagliato e abbicato, e ha detto al cielo che può piovere. È pioggia di mezzanotte, di quel tipo che non ha forma nell’oscurità finché non ti raggiunge, finché non ti colpisce col gelo di un martelletto da argentiere.

Devo fare alcuni passi prima di rendermi conto di quanto stia piovendo forte. I miei vicini si sono già precipitati verso i loro cottage, a quanto vedo.

Non vedo sagome di altre anime. Dovrei precipitarmi a casa anch’io e accantonare le mie mansioni finché non smette di piovere. Ma la pioggia è gradevole. Lava via le impurità. Le mie dita e il mento si ripuliscono presto dall’unto della carne. La mia bocca viene lavata da un’acqua più pura e gratificante al palato di qualsiasi cosa i nostri stagni e il nostro servizievole ruscello abbiano da offrire. Persino la mano ferita mi duole meno, lenita dalla pioggia. Mi passo la lingua sul labbro superiore e assaporo l’acquazzone. Non è né esattamente dolce, né insapore. Mi rinsavisce ma, d’altra parte, sono stato più moderato e contenuto nel bere di molti altri.

Questa notte la luna non si vede, ovviamente. Le nuvole basse, per

come me le immagino, formano una coltre greve, intessuta di nero e grigio.

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Finora non c’è la minima traccia di un vento che possa portare via la pioggia e irrigare le terre dei nostri lontani vicini invece che le nostre.

Possiamo aspettarci che questo temporale si fermi e persista fino all’alba. Il domani ci procurerà un miscuglio di pozzanghere e pantani nelle stradine e nei campi. I nostri stagni e le nostre cisterne saranno colmi, e noi ne saremo lieti. Per quanto adesso possa non sembrare così per chiunque vi incappi, siamo i beneficiari della dote della Natura. Tuttavia, dubito che ci vorrà molto per convincere la signora Beldam che è nel granaio che dovrebbe cercare un rifugio sicuro dal maltempo.

Mi inoltro nella stradina incrostata di fango che si allontana dagli edifici del mio padrone, oltre i suoi frutteti e le sue vaccherie, in direzione dell’anelata guglia. Un po’ di luce mi gioverebbe, anche se non c’è lanterna al mondo, per quanto chiusa, che potrebbe sopravvivere a lungo a questa quantità di pioggia. Devo affidarmi ai graffi e ai segni che i miei dodici anni vissuti qui, lavorando qui e camminando qui, hanno inciso su di me. Il temporale ci ha privati di tutti i colori – i consueti blu e malva che impreziosiscono la notte. Distinguo però i contorni; quella quercia curvata, le sue fruscianti maniche d’edera, quel piccolo olmo polveroso che dovremmo abbattere per farne legna prima che blocchi il sentiero.

Riconosco i rigonfiamenti e gli ingrossamenti delle siepi, su entrambi i lati,

dove ci sono aperture e cancelli, dove ci sono sommità e vette biforcute,

dove si possono sgraffignare le susine selvatiche. Colgo odori che posso

catalogare. Le vaccherie del padrone, ovviamente. L’essudazione dei suoi

cumuli di foraggio insilato. Ma anche altri odori più delicati. L’odore aspro

– esaltato dalla pioggia – dei sambuchi. L’odore di pane e biscotti del legno

marcescente. L’odore pungente di piscio e miele del melo. Percorro il mio

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villaggio di mezzanotte come un cieco, con l’ausilio del naso, delle orecchie, del tatto, e delle forme più indistinte e più nere.

Vedo gli uomini prima che loro sentano o vedano me, o meglio, vedo il profilo della loro croce dalle ampie ali, e come essa è diventata voluminosa e pesante, corredata com’è dai prigionieri bagnati fradici. Me ne sto fermo a guardare e non oso palesare la mia presenza per un po’, ma mi godo ancora quella che deve essere una punizione ulteriore per loro, la pioggia implacabile. Non possono farmi del male, questo è certo. Hanno le braccia immobilizzate e il collo intrappolato. Il mio unico pericolo è un calcio da tergo. Devo trattarli alla stregua di un paio di cavalli incavezzati, e guardarmi dall’ispezionare loro la coda o la groppa. Trattengo il respiro per non essere scoperto. Che silenzio si è creato, sotto la raffica di pioggia.

Temo che nessuno abiti questo luogo. La notte è opprimente. Non c’è gufo o volpe desideroso di interrompere l’oscurità. Sembra che anche gli alberi abbiano smesso di allungarsi e scricchiolare, di esprimere desideri nel vento, per trattenere il respiro e osservare, come me, la gogna.

Se potessi, se avessi i poteri di un mago o di un dio, costruirei quel

cancello della chiesa seduta stante. Lo farei inarcare sopra la gogna. Lo

costruirei con una tettoia per tenere questi due uomini all’asciutto. Ora che i

miei occhi si sono abituati al buio, li vedo meglio. Stamattina mi sono

convinto che probabilmente è meglio per tutti noi tenere a freno la lingua,

per il momento, e lasciare che questi nuovi arrivati si sorbiscano tutta la

colpa. Ma ora, sotto queste nuvole pesanti, mi rendo conto della mia

stupidità; no, chiamiamola per quella che è, la mia mancanza di coraggio e

di sincerità. Sorbirsi non è una espressione felice, penso. Questa pioggia è

gradevole solo per chi non ne è prigioniero, per chi può confidare in un

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pezzo di stoffa asciutta, un tetto, un letto, bei sogni. Stanotte i beneficiari della dote della Natura non includono la famiglia della signora Beldam.

Così mi avvicino a loro, e parlo. «Mi chiamo Walter Thirsk … Walt».

Non c’è risposta. «Non c’ero, stamattina, quando avete estratto gli archi», dico. Devono capire subito che io non dovrei essere annoverato fra i loro accusatori. Non ho agitato il mio bastone contro di loro. Non ho aiutato a rasare loro la testa. Non li ho condotti verso la gogna. Non possono sapere che ho omesso di parlare a loro favore. A dire il vero, sono il solo fra gli abitanti del villaggio contro il quale non dovrebbero nutrire alcun rancore.

Eppure, non danno una risposta. Sono come dei bovini intenti a mangiare; i loro volti tendono verso terra. La pioggia gocciola senza posa sulle loro spalle e sul collo, convoglia lungo la loro spina dorsale. Hanno entrambi un rivolo appiccicoso di pioggia. Il più giovane solleva il mento e mi guarda, dopodiché lascia cadere nuovamente la testa. È estenuato dal peso della propria testa, pare. Il più basso si strascica in punta di piedi.

Com’è ovvio, non riesco a trovare un tronco su cui il padre possa stare in piedi, non con questo buio o con questo tempo. La legna caduta più vicina è a una certa distanza, al di là dei nostri campi. Non intendo andare a foraggiare a una così tarda ora della notte. Avrei dovuto pianificarlo prima.

Avrei potuto spedire un paio di ragazzi fuori dal granaio per andare a prendere un tronco. L’ho dimenticato. Ma so che c’è una pila di pietre larghe, preparate rozzamente, destinate alla chiesa, solo a una ventina di passi dalla gogna. Non è difficile estrarne una e sollevarla per quella breve distanza – perlomeno, all’inizio non è difficile. Poi la mia mano lacrimante, della quale non mi ricordavo in quel momento, ricomincia a farmi male.

L’ho trattata davvero male, l’ho messa troppo a dura prova, stasera.

Qualsiasi crosta si sia formata sopra ora si sarà lacerata di nuovo. Non

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riesco a vedere il danno, ma di certo lo sento. Lascio cadere la pietra e cerco di farla rotolare in avanti con la mano illesa. Il terreno è davvero troppo irregolare e la pietra è davvero troppo squadrata per questo. La capovolgo e la ribalto una o due volte, ma fa di testa propria e nessuno degli avanzamenti che le imprimo è precisamente in direzione della gogna.

Non riesco a pensare a niente, in casa, che possa fungere da trespolo per il più anziano. Ho una panca fuori dal mio cottage, ma è in quercia ed è anche pesante. Ci vogliono due paia di mani per trasportarla. Ho una cassapanca e uno forziere più piccolo, ma non sono rafforzati col ferro, e di conseguenza sono troppo fragili per sostenere un uomo, anche uno basso.

Ed entrambi le mie botti sono piene e troppo pesanti per essere spostate. A meno di non stendermi io stesso sul terreno bagnato e farlo mettere in piedi sulla mia schiena, non c’è niente che possa fare per lui fino a domani. Devo curarmi la mano, se spero un giorno di tornare a lavorare. Ad ogni modo, questo della gogna non è solo un problema mio – e forse non è impellente come pensavo. L’uomo più anziano ha già resistito in punta di piedi per la maggior parte della giornata. Di sicuro può sopportare la notte. Poi, alle prime luci del mattino, andrò da John Carr e possiamo dividerci il carico della pietra o prendere, ognuno con una mano, un’estremità della panca.

Meglio ancora, posso trovare quei ragazzi e mandarli a cercare tronchi. Per ora devo salvaguardare la mia ferita. Mi sento improvvisamente in imbarazzo. Riprendo a camminare nell’acquazzone e nell’oscurità. Quegli uomini non hanno scambiato una parola con me.

Solo ora posso concentrarmi sulla signora Beldam, e sulla richiesta del

signor Kent, anzi, sulle sue disposizioni, di scovarla e portarla nel suo

granaio. Raramente l’ho deluso. Ciò è per me motivo di orgoglio. Mio

padre era l’assistente di suo padre. Mia madre era la sua nutrice. Abbiamo

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