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Andamento delle temperature all’interno degli alveari

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Academic year: 2021

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INDICE pag. 1

ABSTRACT pag. 7

LA SALUTE DELLE API E LA MORTALITÀ DEGLI ALVEARI pag. 9

LA VARROOSI pag.11

La varroa pag. 11

Origine e diffusione pag. 12

Cenni di biologia dell’acaro pag. 13

Sintomatologia pag. 15

Diagnosi pag. 16

L’INTERAZIONE APE-VARROA-VIRUS pag. 18

Dinamiche di popolazione del parassita pag. 18

La varroa come vettore di virus pag. 21

L’interazione ape-varroa –DWV pag. 22

VARROOSI E APICOLTURA pag. 23

Danni pag. 23

Controllo pag. 24

metodi fisici pag. 25

metodi meccanici pag. 25

metodi biologici pag. 26

metodi chimici pag. 26

prospettive pag. 29

Controllo e normative veterinarie pag. 29

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2

ACIDO FORMICO: PROBLEMATICHE, POTENZIALITÀ E IMPORTANZA pag. 31

SCOPO DEL LAVORO pag. 33

MATERIALI E METODI pag. 34

Gel di acido formico pag. 34

Effetti dell’acido formico su varroe in vitro pag. 34

materiale biologico pag. 34

acido formico evaporante pag. 34

acido formico liquido pag. 35

varroe in celle opercolate pag. 35

Sicurezza in laboratorio del gel di acido formico su api pag. 36

materiale biologico pag. 36

acido formico pag. 37

analisi statistica pag. 37

Prova di titolazione pag. 38

materiale biologico pag. 38

acido formico pag. 38

periodo di realizzazione della prova pag. 40

ingabbiamento della regina pag. 40

trattamento di verifica pag. 41

valutazione della mortalità delle varroe pag. 42 valutazione dell’efficacia dei trattamenti pag. 43

(3)

3

valutazione della mortalità delle varroe

all’interno delle celle opercolate pag. 44 tossicità sulle api operaie adulte pag. 44 effetti del trattamento sulla covata disopercolata pag. 44 effetti dei trattamenti sulle uova pag. 45 effetti dei trattamenti sulla vitalità delle regine

e sulla attività di deposizione delle stesse pag. 45

condizioni meteorologiche pag. 46

dati ambientali dentro gli alveari pag. 46

analisi statistica pag. 46

Prove cliniche di campo pag. 47

scelta delle stazioni sperimentali pag. 47

materiale biologico pag. 48

acido formico pag. 49

periodo di realizzazione della prova pag. 49

ingabbiamento della regina pag. 49

trattamento di verifica pag. 50

valutazione della mortalità delle varroe pag. 50 valutazione dell’efficacia del trattamenti pag. 50 valutazione della mortalità delle varroe

all’interno delle celle opercolate pag. 50 tossicità sulle api operaie adulte pag. 50 effetti del trattamento sulla covata disopercolata pag. 50 effetti dei trattamenti sulle uova pag. 50

(4)

4

effetti dei trattamenti sulla vitalità delle regine

e sulla attività di deposizione delle stesse pag. 50

condizioni meteorologiche pag. 50

analisi statistica pag. 50

Prova di tollerabilità pag. 51

materiale biologico pag. 51

acido formico e modalità di somministrazione pag.51 periodo di realizzazione della prova pag. 52 effetti dei trattamenti sugli alveari pag. 52 tossicità sulle api operaie adulte pag. 52 effetti dei trattamenti sulla covata opercolata e non pag. 52 effetti dei trattamenti sulla covata disopercolata pag. 53 effetti dei trattamenti sulle uova pag. 53 effetti dei trattamenti sulla vitalità delle regine

e sulla attività di deposizione delle stesse pag. 53

condizioni meteorologiche pag. 54

analisi statistica pag. 54

Autorizzazioni ministeriali pag. 54

RISULTATI pag. 56

Realizzazione di un prototipo di farmaco

a base di acido formico in gel pag. 56

Effetti dell’acido formico su varroe in vitro pag. 56 Sicurezza in laboratorio del gel di acido formico su api pag. 59

Prova di titolazione pag. 61

valutazione dell’efficacia dei trattamenti pag. 61

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5

valutazione della mortalità delle varroe

all’interno delle celle opercolate pag. 61 tossicità sulle api operaie adulte pag. 64 effetti del trattamento sulla covata disopercolata pag. 65 effetti dei trattamenti sulle uova pag. 66 effetti dei trattamenti sulla vitalità delle regine

e sulla attività di deposizione delle stesse pag. 66

condizioni meteorologiche pag. 69

dati ambientali dentro gli alveari pag. 71

Prove cliniche di campo pag. 74

scelta delle stazioni sperimentali pag. 74 periodo di realizzazione delle prove pag. 74 valutazione dell’efficacia dei trattamenti pag. 75 valutazione della mortalità delle varroe

all’interno delle celle opercolate pag. 79 tossicità sulle api operaie adulte pag. 84 effetti del trattamento sulla covata disopercolata pag. 87 effetti dei trattamenti sulle uova pag. 90 effetti dei trattamenti sulla vitalità delle regine

e sulla attività di deposizione delle stesse pag. 93

condizioni meteorologiche pag. 96

Prova di tollerabilità pag. 99

forza delle famiglie pag. 99

tossicità sulle api operaie adulte pag. 99 effetti dei trattamenti sulla covata opercolata e non pag. 100

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effetti dei trattamenti sulla covata disopercolata pag.102 effetti dei trattamenti sulle uova pag. 103 effetti dei trattamenti sulla vitalità delle regine

e sulla attività di deposizione delle stesse pag. 105

condizioni meteorologiche pag. 105

Redazione di un dossier per la registrazione del farmaco pag. 105

DISCUSSIONE pag. 106

Effetti dell’acido formico su varroe in vitro pag. 106 Sicurezza in laboratorio del gel di acido formico su api pag. 106

Prova di titolazione pag. 107

Prove cliniche di campo pag. 109

Prova di tollerabilità pag. 113

CONCLUSIONI pag. 114

ALLEGATI pag. 116

Allegato 1 (Schede di campo) pag. 117

Allegato 2 (Expert Safety Report) pag. 132

Allegato 3 (Expert Efficacy Report) pag. 138

RINGRAZIAMENTI pag. 149

BIBLIOGRAFIA pag. 151

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7 ABSTRACT

Abstract

This thesis concerns the problems of varroa control in Mediterranean area. Varroa mite is the most important parasite pest of honeybee worldwide. Formic acid (FA) has been used in several methods in the control of varroa. This acid is effective in killing the mites inside the capped cells, but causes often problem on the honeybee safety, with possible damages, also serious, on brood, adult bees and queens. In this work a new formic acid formulation for varroa mite control has been investigated and developed in order to safety effect against varroa. According to European and national guide lines for veterinary medicines, the formulation has been test in laboratory and field trials.

The product is made of a gel conteining formic acid. A field test of dose titration have been performed to assess the efficacy and safety administration dose of FA. According to official guidelines, clinical tests have been made in several apiaries spread throughout the Country, in different environment. In these tests the efficacy of the treatment and the effect on eggs, larvae, adult bee and queens have been investigated.

The average acaricide efficacy rate is more than 90%, with maximum level of 99%

About the safety no adverse reactions has been observed on larvae, adult bees and queens comparing with no-treated colony. One recorded adverse reaction has been reported on eggs with an high mortality rate. However the eggs are quickly replaced by the queen in few days, without affecting on the colony safety.

Moreover, the product is ready to use and safe for user and suitable for organic farming.

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8 Riassunto

Questo lavoro di tesi riguarda le nuove problematiche del controllo della varraoosi nei Paesi a clima mediterraneo. La varroa è una delle più importanti avversità dell’apicoltura moderna a livello mondiale. L’acido formico è stato usato in molte modalità per il controllo della varroosi. Infatti questo principio attivo è l’unico in grado di uccidere gli acari anche dentro le celle opercolate, ma spesso causa problemi relativi alla sicurezza degli alveari, producendo anche seri danni alle api adulte alla covata e alle regine.

In questo lavoro una nuova formulazione di acido formico è stata sviluppata per il controllo della varroa nell’ottica di ottenere un’alta efficacia acaricida associata ad un’elevata sicurezza per le api. In accordo alle normativi europee e nazionali relative alla registrazione di nuovi farmaci veterinari il formulato è stato testato in prove di laboratorio e di campo. In particolare è stata realizzata una prova di titolazione della dose per individuare la migliore dose e modalità di somministrazione, quindi sono state effettuate prove cliniche di campo su tutto il territorio nazionale, in diverse condizioni climatiche e ambientali. In queste prove sono state valutate l’efficacia acaricida e gli effetti sulle api operaie, sulle larve, sulle uova e sulle regine. E’ stato quindi realizzato un prototipo industriale di farmaco che nelle prove cliniche ha mostrato un’efficacia media superiore al 90% con punte del 99%. Riguardo alla sicurezza sulle api non sono state riscontrati effetti negativi sulle api operaie, sulle larve e sulle regine. L’unico effetto collaterale è dato da un’elevata tossicità sulle uova che comunque vengono prontamente sostituite dalla’attività di deposizione della regina non causando danni al generale funzionamento dell’alveare. Inoltre il prodotto si presenta di pronto e facile utilizzo, sicuro per l’operatore e utilizzabile in agricoltura biologica.

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LA SALUTE DELLE API E LA MORTALITÀ DEGLI ALVEARI

L’ape mellifera, Apis mellifera L., è forse uno dei più importanti animali zootecnici per quanto riguarda il valore economico che genera. Questa importanza delle api mellifiche infatti è data dalla loro attività di insetti pronubi, tanto che il valore economico dei prodotti apistici è molto inferiore, nell’ordine anche delle cento volte, rispetto al valore dato dall’attività di impollinazione (Morse e Calderone, 2000). Oltre l’84% delle colture agricole europee dipendono per le loro produzioni da l’impollinazione incrociata svolta dagli animali (Williams, 1994) e già agli inizi degli anni ’90 si stimava che oltre il 50%

della PLV agricola italiana dipendesse direttamente dalla attività pronuba delle api mellifiche e dagli altri impollinatori, senza considerare poi il loro valore ecologico praticamente incalcolabile (Accorti e Cerretelli, 1991).

In questo contesto la salute e la salvaguardia delle api mellifiche diventa una problematica di estrema rilevanza economica e ambientale, per quanto riguarda sia l’attività apistica, sia l’agricoltura e i servizi ecologici in generale. Questo è ancor più vero se si considera l’aggravarsi dello stato di salute degli alveari che si sta registrando da ormai non pochi anni.

Negli ultimi anni, con punte drammatiche a partire dal 2006, si è iniziato a registrare una elevata mortalità di colonie in Europa e negli Stati Uniti (Le Conte et. al., 2010). Le cause di questa mortalità anomala, spesso indicata con l’acronimo inglese CCD, colony collaps disorder, possono essere varie e sono state ricercate in molti fattori, patogeni e altri agenti di stress, magari in interazione tra loro (vanEngelsdorp et al., 2009). Negli Stati Uniti forti correlazioni sono state osservati tra CCD e virus quali il virus israeliano della paralisi acuta IAPV (Cox-Foster et al., 2007), in Spagna la scomparsa anomala degli alveari sembra associata a fungo microsporidio Nosema ceranae (Higes et al., 2008; Higes et al., 2006), mentre altri studi condotti nell’Europa centro settentrionale individuano nel virus delle ali deformate DWV il responsabile della mortalità soprattutto invernale delle colonie (Highfield et al., 2009; Dainat et al., 2012). Inoltre altri fattori di stress quali soprattutto i fitofarmaci usati in agricoltura (Moncharmont et al., 2003; Barnett et al., 2007; Desneux et al., 2007) come emerso anche da alcuni risultati dal progetto APENET (Maini et al., 2010; Mutinelli et al., 2010).

Tra i vari agenti patogeni l’acaro Varroa destructor (Anderson & Treuman) svolge un ruolo di primaria importanza. Prima del suo arrivo in Europa all’inizio degli anni ‘80, o anche nei primi anni dopo il suo arrivo, la mortalità invernale delle famiglie era attestata

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tra il 5% e il 10%, mentre oggi livelli superiori al 20% o al 30% sono ormai ordinari (Le Conte et al., 2010; Genersch et al., 2010).

Inoltre sebbene la varroa non sia immediatamente e direttamente associata alla CCD o comunque alla scomparsa anomala degli alveari, molti indizi la pongono come un fattore importante se non principale, soprattutto per la sua capacità di essere un efficientissimo vettore di virus (Bailey, 1981; De Jong 1990; Lavazza et al., 2002; Di Prisco et al., 2011), in particolare di DWV (Bowen Wlaker et al., 1999). Tra questi indizi, eclatante il fenomeno osservato nelle isole Hawaii, dove prima dell’arrivo dell’acaro nel 2007, non erano mai stati osservati casi di mortalità massive di colonie di fenomeni identificabili come CCD (Martin et al., 2012).

La varroosi rimane pertanto una delle principali problematiche per la salute delle api, e una suo controllo efficace risulta di primaria importanza per la salvaguardia delle api.

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11 LA VARROOSI

La varroosi, detta anche varroatosi, è una infestazione parassitaria causata dall’acaro Varroa destructor (Anderson & Treuman) che attacca in pari tempo sia le api informa immaginale che pre-immaginale, a differenza delle altre patologie apistiche che si possono dividere tra malattie della covata e malattie degli adulti, (De Jong, 1990) e ad oggi è considerata una delle più gravi piaghe dell’apicoltura mondiale (Martin, 2010).

La varroa

Varroa destructor (Anderson & Treuman), è un acaro della famiglia Varroidae - Acarina, Mesostigmata- (Anderson e Treuman, 2000).

Fino all’anno 2000 questo acaro, responsabile della varroosi, si riteneva che appartenesse alla specie Varroa jacobsoni Oudemas individuata per la prima volta da Edward sull’Isola di Giava nell’anno 1904 come parassita dell’ape asiatica Apis cerana Fabr. e fu successivamente descritta da Oudemans (Oudemans, 1904). In seguito Anderson e Treuman, mediante studi basati sul sequenziamento del DNA mitocondriale e su osservazioni morfologiche su acari provenienti da varie zone dell’Asia, distinto le due specie di acari, ascrivendo la responsabile della varroosi dell’Apis mellifera L. alla specie Varroa destructor (Anderson e Treuman, 2000).

Già nel 1983 alcuni acarologi avevano ipotizzato che sotto il nome di Varroa jacobsoni Oud. fosse compreso in realtà un complesso di specie, in quanto ritenevano difficile che questo parassita potesse attaccare uno spettro di ospiti così vasto, comprendente varie specie del genere Apis (Apis cerana Fabr., Apis indica Fabr., Apis mellifera L.), e anche perché l’acaro faceva registrare comportamenti differenti sulle diverse specie di insetti (Griffiths et al.,1983).

Dal punto di vista morfologico Varroa destructor ha una forma più larga e meno sferica rispetto a Varroa jacobsoni Oud.

Dal punto di vista genetico e sistematico, Varroa destructor (Anderson & Treuman) è un insieme di 6 aplotipi, cioè gruppi di individui caratterizzati da una specifica combinazione allellica. Due di questi aplotipi sono passati su Apis mellifera a seguito dell’introduzione di questa specie nella zona di diffusione di Apis cerana per la produzione di prodotti apistici (Anderson e Treuman, 2000). In Apis cerana il parassita attacca di preferenza solo la covata maschile (Anderson e Sukarsih, 1996) con danni

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limitati alle colonie anche grazie fenomeni comportamentali difensivi di questa ape nei confronti dell’acaro: il “grooming behaviour” e il “removal behaviour” (Peng et al., 1986; Boecking e Ritter; 1994) .

Quindi la maggior parte dei lavori pubblicati su "Varroa jacobsoni" prima del 2000 riguardano in realtà Varroa destructor. In questa tesi sarà usato sempre il nome di Varroa destructor, in accordo con le regole della nomenclatura, anche quando si citano o ci si riferisce a studi pubblicati prima del 2000, anno della determinazione della specie Varroa destructor da parte di Anderson e Treuman.

Origine e diffusione

La specie Varroa destructor (Anderson & Treuman) inizialmente era diffusa esclusivamente in Indonesia in quanto associata all’areale di diffusione del suo ospite naturale Apis cerana Fabr. (De Jong, 1990).

A seguito delle ripetute introduzioni di Apis mellifera L. per l’esercizio dell’apicoltura in Cina, Filippine, Giappone e altre regioni asiatiche, si sono verificate le condizioni per un continuo contatto tra Apis mellifera L e Apis cerana Fabr. e conseguentemente per il passaggio del parassita dalla seconda alla prima, passaggio di ospite che è stato scoperto per la prima volta intorno agli anni ’60 (De Jong, 1990). Le moderne pratiche apistiche, in particolare il nomadismo e gli scambi commerciali hanno di seguito contribuito alla rapida diffusione del parassita in gran parte del mondo (Ruttner, 1983).

A livello naturale la diffusione può avvenire anche da colonia a colonia durante la sciamatura o in seguito a fenomeni di saccheggio o di deriva (De Jong, 1990), nonché da vari insetti antofili in grado di trasportare sul proprio corpo l’acaro distribuendolo su altri fiori che potranno essere visitati dalle api (Kevan et al., 1992).

Riguardo ai luoghi, ai tempi e alle modalità di diffusione della varroa nel mondo, in Sud America l’acaro è arrivato negli anni 60 con l’importazione dal Giappone di colonie infestate (Robaux, 1986). In Europa sembra che la parassitosi sia giunta intorno agli anni ’70 prima in Bulgaria dalle Repubbliche orientali dell’ex URSS e dall’area caucasica, e da qui è stata poi essere trasportata in tutta l’Europa orientale oltre che introdotta in Tunisia (Ruttner, 1983).

In Italia i primi focolai furono segnalati nel giugno del 1981 in provincia di Gorizia, ai confini con l’ex Jugoslavia, e nel novembre 1982, ad Acquapendente in provincia di

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Viterbo, zona di transito molto importante per il nomadismo tra il nord e il sud del Paese (Frilli, 1983).

Ad oggi il parassita è diffuso in tutti i Paesi in cui viene praticata l’apicoltura, con l’eccezione per il momento dell’Australia (Goodman, 2005).

Cenni di biologia dell’acaro

Varroa destructor è caratterizzata da uno spiccato dimorfismo sessuale (Ritter 1981).

La femmina, allo stadio adulto, misura circa 1100 μm di lunghezza X 1600 μm di larghezza, ha forma appiattita ed è di colore rossastro tendente al marrone (De Jong, 1990). Osservando un esemplare in posizione dorsale è possibile vedere solo lo sclerite dorsale detto anche idiosoma. In visione ventrale sono invece osservabili l’apparato locomotore e l’apparato boccale e, per trasparenza, l’apparato respiratorio, l’apparato escretore e quello riproduttore (Robaux, 1986).

Il maschio adulto è più piccolo della femmina (circa 700 μm di lunghezza), più chiaro e con un esoscheletro meno sclerotizzato. L’apparato boccale non è adatto per l’alimentazione, ma è modificato ed è utilizzato nel trasferimento dello sperma, così che l’acaro maschio non e grado di nutrirsi. Gli esemplari maschi di varroa infatti permangono allo stadio adulto solo per circa 7 giorni, dopo aver effettuato 5-6 giorni di sviluppo embrionale. Durante la fase adulta si accoppiano con 2-3 femmine quindi muoiono, compiendo tutto il loro ciclo ontologico all’interno della stessa cella opercolata in cui sono nati (De Jong, 1990).

Le femmine allo stadio adulto si trovano sull’addome delle api adulte, in particolare tra gli sterniti addominali (dove sono maggiormente protette da eventuali comportamenti di difesa dell’insetto) e da qui possono raggiungere le membrane intersegmentali e perforale per nutrirsi dell’emolinfa. Questa fase è detta fase foretica dell’acaro (De Jong, 1990).

Quando la femmina di varroa entra in fase riproduttiva lasciano le api adulte solo per entrare nelle celle di covata, preferendo maggiormente le celle maschili rispetto a quelle di operaia, mentre molto raramente, solo in casi di forte infestazione, sono state trovate all’interno di celle reali (De Jong, 1990). La scarsa preferenza delle celle reali sembra essere dovuta anche all’azione repellente di alcuni composti presenti nella gelatina reale quali ad esempio l’acido ottanoico (Nazzi et al., 2009)

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La femmina fertile entra nella cella contenente una larva di 3-4 giorni di età, attratta anche da sostanze chimiche a azione allomonica quali l’acido palmitico, il palmitato di etile e altri esteri di acidi grassi (Milani e Nazzi, 1994).

Dal punto di vista della determinazione del sesso, la varroa ha un sistema di tipo aplodiplonte: i maschi nascono da uova non fecondate per partenogenesi arrenotoca (De Jong, 1990).

Riguardo il ciclo riproduttivo, dopo circa 60 ore dall’opercolatura della cella da parte delle api, la femmina di varroa depone il primo uovo non fecondato che darà origine a un maschio. In seguito depone uova fecondate, da cui nasceranno le femmine, a intervalli di 30 ore fino a un massimo di 9 uova. Lo sviluppo embrionale delle femmine avviene dentro l’uovo che schiude dopo circa un giorno e mezzo con la fuoriuscita della protoninfa. Questo stadio e quello seguente (deutoninfa) durano entrambi circa 3 giorni, per un tempo di sviluppo complessivo di 7-8 giorni (De Jong, 1990).

L’accoppiamento avviene tra il maschio e le femmine che hanno raggiunto lo stadio adulto, avviene quindi tra fratelli, all’interno della cella opercolata dove hanno compiuto il loro sviluppo (Milani e Nazzi, 1994).

Fig.1: Varroe a vari stadi di sviluppo, come si possono ritrovare in una cella di covata dopo circa 11 giorni dall’opercolatura. Fila in alto da sinistra: protoninfa femmina, deutoninfa femmina, deutocrisalide femmina. Fila in basso da sinistra: femmina adulata giovane, femmina madre, maschio adulto (foto Ziegelmann et al., 2010).

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Nonostante lo spazio in cui avvengono gli accoppiamenti sia limitato e strettamente circoscritto, è stato dimostrata comunque l’importanza di sostanze semiochimiche con funzione di feromone sessuale femminile, necessarie ai maschi ad individuare e raggiungere le partner (Ziegelmann et al., 2013).

Al momento dello sfarfallamento dell’ape adulta, solo le femmine adulte fuoriescono, mentre i maschi e alcune femmine rimaste allo stadio ninfale perché non hanno avuto il tempo di raggiungere lo stadio immaginale, muoiono. La femmina deponente, quella che ha dato origine alla nuova generazione di acari, al momento della disopercolatura può uscire e tornare in fase foretica su api adulte o, in funzione dell’età, morire (De Jong, 1990).

La varroa sverna allo stato di femmina adulta, la cui lunghezza di vita varia da 2-3 mesi nel periodo estivo, a 6-8 mesi in quello invernale, e può dar luogo a più cicli riproduttivi (De Jong, 1990).

Sintomatologia

L’infestazione da varroa può avvenire in qualsiasi momento dell’anno anche solo per mezzo di uno o due individui. Di solito non viene rilevato nei primi mesi (Robaux, 1986). Nei primi anni successivi all’avvento della varroa anche nel primo anno di infestazione i sintomi erano difficili da rilevare e i danni si manifestano quando gli acari superano la soglia di 10.000 individui (Robaux, 1986). A questo grado di infestazione iniziava il collasso della famiglia, che generalmente avviene nei mesi autunnali o invernali (Robaux, 1986). Oggi invece un’infestazione di 3000 varroe è considerata letale e questo livello di parassitizzazione può facilmente essere raggiunto in 6-8 mesi (Le Conte, 2010).

Tuttavia, prima di giungere ad un stadio di infestazione tale da essere considerato letale, al quale ogni metodo di terapia risulta difficoltoso, la presenza della varroa nell’alveare può essere denunciata dalla presenza di api agitate al di fuori dell’arnia, da cadaveri sul predellino di volo, dalla presenza di api con ali malformate di covata irregolare e di celle disopercolate contenenti pupe (Frediani, 1995).

Oltre a ciò il sintomo più evidente di infestazione è l’osservazione di esemplari di varroa vivi sulle api adulte o dentro le celle opercolate, soprattutto di fuchi, o di

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esemplari (vivi e/o morti) nei fondi diagnostici presenti nelle arnie moderne proprio a questo scopo (Contessi, 2010).

Diagnosi

La diffusione dell’acaro oramai è ritenuta ubiquitaria, tuttavia l’uso di metodi diagnostici può essere utile, in certi casi, a stabilire il livello di infestazione e a programmare gli interventi di lotta.

La diagnosi della varroosi può essere fatta in vari modo, tuttavia un metodo rapido, poco invasivo e soprattutto attendibile, in grado di dare cioè una misura precisa del grado di infestazione della colonia non è al momento disponibile. La difficoltà è legata soprattutto al fatto che la distribuzione dei parassiti, sia sulle api adulte che all’interno delle celle, non è uniforme né poissoniana, e questo aumenta il margine di errore dei campionamenti volti a stabilire il grado di infestazione. Il numero di acari trovati su campioni di api adulte o di covata poi può essere inferiore alla metà o superiore al doppio di quello reale (Milani, 1990).

Uno dei metodi più semplici, consiste nella rilevazione e nel conteggio degli acari caduti per morte naturale. Questo può essere fatto osservando i detriti che si depositano sul fondo diagnostico delle arnie moderne o in sua assenza su un foglio fissato sul fondo dell’arnia (De Jong, 1990). Il foglio deve essere separato dalle api mediante una reticella a maglie di 3 mm, per evitare che le api rimuovano le varroe morte durante le normali attività di pulizia dell’alveare (Frediani, 1995). Per un monitoraggio continuo il fondo diagnostico o il foglio potrà essere controllato ogni 3-7 giorni (De Jong, 1990).

Questo metodo è da considerarsi indicativo, pressoché semplicemente qualitativo. Il numero degli acari caduti dà infatti solo un’idea dell’entità dell’infestazione, dal momento che il grado di correlazione tra caduta naturale e grado di infestazione rimane incerto (Baggio, 1984: Milani, 1990; Marcangeli, 1997).

Vi sono poi metodi di diagnosi chimici, che si basano sulla valutazione del numero delle varroe cadute a seguito dell’applicazione di sostanze ad azione acaricida o acarifuga. A questo scopo possono essere usati tutti i principi attivi utilizzabili nella lotta al parassita, a dosi minori rispetto ai trattamenti terapeutici. Questi metodi si configurano quindi come veri e propri pre-trattamenti e come tali comportano tutta una serie di problematiche (Robaux, 1986). Infatti tali interventi devono essere fatti in assenza di melario, al fine di evitare la contaminazione del miele e possono essere causa di

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induzione di fenomeni di resistenza per via delle minor dosi di somministrazione del principio attivo (Robaux, 1986). Dal momento che la maggior parte dei principi attivi chimici agiscono solo su gli acari in fase foretica, per avere risultati più attendibili sarebbe opportuno effettuarli in periodi in cui non sia presente covata opercolata, in quanto altrimenti non verrebbero colpiti gli esemplari all’interno delle celle opercolate, sottostimando di fatto la misura (Robaux, 1986).

In passato, trai metodi empirici più semplici vi era il così detto”ape-test”, che consisteva nel provocare la caduta degli acari inserendo una sigaretta accesa all’interno dell’alveare (Petraccone, 1997), dovuto al fatto che la nicotina ha un’azione acaricida (De Ruijter, 1983).

Vi sono poi dei metodi che si basano fondamentalmente sulla osservazione dell’infestazione delle api adulte e della covata, che pur risultando meno precisi, hanno il vantaggio di poter essere effettuati in qualsiasi momento dell’anno senza rischi concernenti la contaminazione dei prodotti dell’alveare e l’induzione di resistenza negli acari (Robaux, 1986).

Per l’analisi delle api adulte si prelevano 300 operaie, si introducono in una beuta e si aggiunge della benzina o dell’acqua saponata. Quindi si filtra il tutto una rete a maglie di 3 mm. Nel filtrato rimarranno gli acari staccatisi dalle api in seguito alla morte che potranno essere agevolmente contati (Frediani, 1995).

Oggi questa pratica è stata sostituita con un metodo “cruelty free” con l’uso di zucchero a velo in polvere al posto della benzina o dell’acqua saponata. Lo zucchero a velo è in grado di far staccare le varroe dal corpo delle api, che però non vanno incontro a morte e possono essere reinserite in alveare (Macedo et al., 2002).

L’analisi della covata si basa sulla disopercolatura a mezzo di un bisturi, o di altri strumenti adatti, di almeno 2-300 celle di covata preferibilmente maschile e il seguente conteggio degli acari presenti sulle larve, previamente prelevate con una pinzetta (Frediani, 1995).

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18 L’INTERAZIONE APE-VARROA-VIRUS

Dinamiche di popolazione del parassita

All’interno degli alveari l’aumento della popolazione di varroa avrebbe, in prima approssimazione, una progressione geometrica che segue la formula finanziaria dell’interesse composto (Milani et al., 1994).

Per il fatto che la varroa si riproduce all’interno delle celle opercolate, l’aumento della popolazione di acari si ritiene favorito dalla presenza di covata, così riportato da alcuni autori (Robaux, 1986; Floris e Satta, 2002),e come ipotizzato in un modello matematico (Calis et al., 1999). Questa ipotesi sarebbe confermata da uno studio che mette in relazione l’aumento dell’attività riproduttiva dell’acaro con la maggior prese senza della covata in primavera estate e, al contrario, un aumento della mortalità naturale dell’acaro con la diminuzione della covata durante i mesi autunno-invernali (Kokkinis e Liakos, 2004). Un andamento simile è stato osservato anche in un altro studio, realizato in California dove si è registrato un aumento della presenza di varroa crescente da febbraio a metà luglio e calante dai primi di agosto a novembre (Rinderer et al., 2001).

Tuttavia alcuni Autori non registrano una correlazione tra il grado di infestazione dell’acaro e la quantità covata presente nell’alveare, sebbene ipotizzino che l’incremento della popolazione di varroa in primavera possa esser dovuto alla presenza di celle di maschili (Rinderer et al., 1993).

Nel cercare di interpretare gli andamenti di popolazione dell’acaro è poi necessario tener conto alcuni dei possibili fattori intraspecifici di Varroa destructor.E’ stato infatti osservata una riduzione del numero di figlie e un aumento di prole maschile per singola femmina di varroa deponente all’aumentare del numero di acari che infestano la cella, un fenomeno che sembrerebbe dovuto a una diminuzione del tasso riproduttivo di discendenti femminili di ciascuna varroa fertile (Fuchs, 1994).

Nel’ambito delle dinamiche di popolazione della varroe un aspetto importante è ricoperto dall’andamento della mortalità naturale dell’acaro, spesso indicata con il termine di caduta naturale, in quanto si vanno ad valutare gli esemplari morti caduti sul fondo dell’arnia.

In generale l’andamento della mortalità naturale dell’acaro cambia sensibilmente da colonia a colonia (Milani, 1990; Andrade, 2004), cosa che porta ad ipotizzare che la

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mortalità delle varroa possa dipendere anche da fattori interni e specifici di ciascun alveare (Milani, 1990)

Relativamente alla dinamica stagionale delle cadute, è stato rilevato un aumento della mortalità sia in estate, attribuito alla crescita della popolazione parassitaria, sia in inverno imputandolo alla riduzione della colonia (Marcangeli, 1997). In estate un incremento di mortalità naturale degli acari è stato notato in Italia specialmente nel mese di agosto (Baggio, 1994; Petraccone, 1997). Riguardo la caduta invernale, alcuni Autori la associano al fatto che molti acari cadono assieme alle api che si staccano dal glomere (Fries et al., 1994), cosa che sembrerebbe confermata dal fatto che in assenza o in presenza di pochissima quantità di covata la mortalità delle varroe può essere correlata alla mortalità delle api (Fries e Perez-Escala, 2001).

Una stretta correlazione è stata riscontrata tra la caduta naturale e la disopercolatura della covata a seguito dello sfarfallamento delle api adulte, in particolare delle celle di operaia, (Baggio, 1994; Lobb e Martin, 1997). Infatti la covata femminile, avendo un periodo di sviluppo minore rispetto a quella dei fuchi, presenta, al momento della disopercolatura, un maggior numero di acari ad uno stadio giovanile. Lobb e Martin stimano che circa il 50% degli acari caduti siano già morti all’interno delle celle, cosa che farebbe ritenere che la correlazione tra caduta e grado di infestazione esista solamente nel caso in cui sia presente la covata (Lobb e Martin, 1997).

Controversa è la questione se la caduta naturale sia correlabile al grado di infestazione.

Una correlazione di questo tipo è infatti esclusa da alcuni Autori (Rademacher, 1985;

Milani, 1990), mentre è stata rilevata in altri studi (Baggio, 1994; Kralj, 2004).

Un altro tipo di correlazione è stata osservata tra caduta naturale e varroe danneggiate (Ruttner e Hänel, 1992; Moosbekhofer, 1992; Baggio, 1994; Arechavoleta-Velasco e Guzman-Novoa, 2001). Tale correlazione invece viene meno negli acari caduti dopo un trattamento antiparassitario (Moosbekhofer, 1992). è stato osservato anche che la percentuale delle varroe danneggiate è correlata negativamente all’aumento della mortalità a indicare che quando è maggiore il tasso di danni risulta minore lo sviluppo della popolazione parassitaria e quindi della mortalità successiva (Büchler, 1993). Una correlazione negativa tra sviluppo dell’infestazione e tasso di acari danneggiati è stato osservato anche nello studio di Arechavoleta-Velasco e Guzman-Novoa (2001), che comunque rilevano che in alcune colonie caratterizzate da un alto numero di varroe danneggiate la mortalità naturale è correlata negativamente allo sviluppo della infestazione (Arechavoleta-Velasco e Guzman-Novoa, 2001), confermando in parte

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quanto già ipotizzato da Milani, cioè che la caduta fosse influenzata anche da fattori intrinseci alle colonie stesse (Milani, 1990).

Riguardo gli andamenti della mortalità naturale delle varroe si deve tener conto del fatto che, come detto, molti studi sulla mortalità naturale sono stati effettuati valutando il numero di acari trovati morti trai residui sul fondo delle arnie. Questo metodo di indagine fa sì che non siano tenuti in conto quelli che muoiono al di fuori dell’alveare o che vengono espulsi attivamente dalle api stesse, e tal proposito uno studio italiano ha messo in luce che un considerevole quantitativo di varroe possono essere ritrovate sul fondo delle trappole di Gary, proprio a seguito della rimozione da parte delle api, o cadute assieme alle api morte (Lodesani et al., 1996).

La presenza di acari danneggiati tra i detriti raccolti sul fondo delle arnie è stato osservato da molti Autori, ma ancora rimane da capire la natura e l’importanza che questi danni hanno (Baggio, 1994; Boecking e Spivak, 1999). Le principali tipologie di danni rinvenibili sul corpo degli acari sono: danni all’idiosoma, in particolare una sorta di ammaccature (Boecking e Spivak, 1999; Moosbekhofer, 1992; Ruttner e Hänel 1992) e amputazioni degli arti (Peng et al., 1987; Wallner, 1990; Morse et al., 1991;

Moosbekhofer, 1992; Boecking e Ritter, 1993; Baggio, 1994; Boecking e Spivak, 1999;

Correa Marquez et al., 2002).

Riguardo alle lesioni a carico dell’idiosoma la causa è stata è attribuita in pricipio all’azione delle mandibole dell’ape (Ruttner et al., 1992) in analogia a quanto osservato su Apis cerana (Morse et al., 1991) che esplica un comportamento che in alcuni casi può portare anche all’uccisione dell’acaro (Peng et al., 1986; Soutwick, 1992; Boecking e Spivak, 1999). In realtà da studi più recenti risulta che le ammaccature presenti sull’idiosoma sono compatibili con la vita (Lodesani et al., 1996; Lodesani et al., 2002) e acari con tali lesioni sono stati trovati in fase foretica su api adulte (Lodesani et al., 1996). Altro particolare di questo tipo di danno è che sia stato rilevato anche in acari presenti all’interno delle celle opercolate (Lodesani et al., 1996; Harbo e Harris, 1999).

Questi esemplari sono anche in grado di riprodursi dando origine a una progenie in cui sono presenti anche individui con ammaccature simili a quelle delle genitrici, con un significativo grado di correlazione tra madri e figlie. Quest’ultimo dato non fa escludere la possibilità cha la causa di questa tipologia di danno risieda in alterazioni metaboliche trasmissibili geneticamente (Lodesani et al., 1996).

Relativamente alle amputazioni a carico degli arti è attribuibile a diversi fattori. Tra questi ci sono fattori esterni alla colonia e al rapporto ape varroa, quali l’azione delle

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formiche e da larve della tarma della cera, il lepidottero Galleria mellonella L. su acari già morti (Rosenkranz et al., 1997; Aumier, 2001). In altri casi l’azione può essere attribuita all’ape. La morfologia delle mandibole e il sistema muscolare dell’apparato boccale in Apis mellifera sarebbe infatti in grado di procurare tali lesioni (Soutwick, 1992) e secondo alcuni Autori anche di uccidere (Boecking e Drescher, 1991; Boecking e Spivak, 1999). Le amputazioni a differenza delle ammaccature dell’idiosoma risultano sempre mortali (Lodesani et al., 1996) tanto che esemplari mutilati di recente e rinvenuti ancora vivi sul fondo dell’arnia andavano incontro a morte in pochi minuti (Ruttner e Hänel, 1992). Tuttavia è stato osservato che anche le api possono provocare amputazioni su acari già morti, probabilmente nel tentativo di rimuoverli dall’arnia (Rosenkranz et al., 1993; Lodesani et al., 1996).

La varroa come vettore di virus

Un aspetto importante del rapporto ape e varroa, e la capacità dell’acaro di essere un efficiente vettore di virus. Il ruolo della varroa nella trasmissione dei virus e l’effetto che questi hanno sulle famiglie di api è un argomento di sempre maggior interesse scientifico. La varroa sin da subito è stata riconosciuta come vettore di virus (Bailey, 1981). In particolare i virus di cui oggi è accertata la trasmissione tramite la varroa sono il virus della paralisi acuta delle api ABPV (Bailey, 1981; Ball, 1983; De Jong 1990;

Brodsgaards C.J. et al., 2000; Lavazza et al., 2002), il virus israeliano della paralisi acuta IAPV (Di Prisco et al., 2011), il Kashmir virus KBV (Shen et al., 2005b) e il virus delle ali deformate DWV (Bowen Walker et al., 1999; Lavazza et al., 2002; Nordstrom, 2003;). L’efficienza della trasmissione virale da parte della varroa è dovuta anche al fatto che le particelle virali sono in grado di replicarsi anche all’interno dell’acaro, almeno per alcuni virus come il DWV, con la conseguenza che il numero di particelle virali trasmesse da un ape all’altra ape a seguito della puntura della varroa, possono essere maggiori, rispetto al numero di virioni presenti nella prima ape (Gisder et al., 2009).

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22 L’interazione ape-varroa-DWV

Tra i vari virus trasmissibili dalla varroa DWV è il virus più associato alla varroa anche nell’immaginario comune degli apicoltori, perché in caso di alta concentrazione di particelle virali nelle api sono bene riconoscibili i sintomi rappresentati da api piccole con le ali visibilmente deformate, fenomeno spesso riscontrabile in caso di alte infestazioni da varroa (Highfield et al., 2009). Il DWV è sempre stato presente negli alveari anche prima dell’arrivo della varroa, così come è presente in altri insetti della Superfamiglia degli apoidei non parassitizzati dalla varroa come i bombi (Genersh et al., 2006). Il DWV è stato ritrovato su tutti i componenti della famiglia, dalle operaie, alla regina ai fuchi, sia allo stadio adulto che nelle fasi di larva e di pupa e ovviamente anche nelle varroe (Highfield et al., 2009). Inoltre particelle virali di DWV sono presenti anche su tutte le matrici apistiche: polline, propoli, pappa reale e miele, con l’unica eccezione della cera (Mazzei et al., 2012). L’azione di vettore compiuta dalla varroa fa sì che la carica virale all’interno delle famiglie aumenti in maniera drammatica. Se in famiglie senza varroa, le particelle virali sono meno di 103 per ape (Martin et al., 2012; Francis et al., 2013), o addirittura sotto la soglia registrabile con gli strumenti oggi a disposizione, come in colonie in alcune isole della Gran Bretagna in cui non è mai arrivata la varroa, in caso di infestazione dell’acaro le particelle virali possono essere oltre 1011 e manifestare i classici sintomi della ali deformate (Highfield et al., 2009). Inoltre si deve tenere in considerazione che spesso la presenza di DWV negli alveari è asintomatica, cioè non si vedono api con le ali deformate, ma comunque molto grave, con presenze di particelle virali nell’ordine dei 100 milioni per ape (Highfield et al., 2009). Negli studi condotti alle isole Hawaii, prima e dopo l’arrivo della varroa nel 2007, o tra isole dell’arcipelago infestate e altre ancora libere da varroa, è stato messo in evidenza un cambiamento generale dell’ecologia virale degli alveari, con una crescente predominanza del DWV la dove è stata registrata la presenza di varroa (Martin et al., 2012). Da studi recenti risulta che il DWV, anche a livelli di infezione asintomatica, svolge un ruolo centrale nella mortalità soprattutto invernale degli alveari (Highfield et al., 2009; Dainat et al., 2012; Martin et al., 2012; Francis et al., 2013), in alcuni casi non mostrando nemmeno una evidente correlazione con una alta infestazione di varroa (Highfield et al., 2009; Francis et al., 2013).

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23 VARROOSI E APICOLTURA

La varroosi è considerata da molti la più importante problematica dell’apicoltura moderna (Le Conte et al., 2010; Dainat et al., 2012), il parassita chiave, che riveste un ruolo centrale nell’insorgere di danni biologici agli alveari e danni economici alle aziende apistiche (Dieteman et al., 2012) , senza considerare i danni monetari e ecologici dovuti alla mancata o ridotta attività pronuba delle api mellifiche (Rinderer et al., 2001).

Danni

I danni arrecati dalla varroosi possono essere divisi in danni biologici arrecati alle api e danni economici arrecati alle imprese che svolgono l’attività apistica.

I danni biologici possono essere divisi tra danni rilevabili alle singole api, e danni a carico dell’intero superorganismo alveare.

Riguardo i danni relativi alle singole api si può distinguere tra danni riportati dalle api adulte e danni riportate dalle api allo stadio pre-imaginale. Le principali alterazioni delle api adulte sono la riduzione della vita media anche di oltre il 50% in colonie fortemente infestate (Ritter et al., 1984) dovuta anche alla carica virale delle api (Highfield et al., 2009); la perdita di peso delle operaie compresa tra il 6% e il 25%, in maniera direttamente proporzionale al numero di acari che hanno parassitizzata le singole larve (De Jong et al., 1982); la diminuzione del volume totale di emolinfa e del suo contenuto in proteine nelle api parassitizzate allo stadio larvale (Weinberg e Madel, 1985); la riduzione della frequenza dell’attività di volo nei fuchi (De Jong, 1990); e ovviamente la presenza di api con un alta carica di particelle virali, che nel caso del DWV sopra un certo livello possono portare alla presenza di api con le deformate e l’addome raccorciato, e con una aspettativa di vista molto breve (Highfield et al., 2009).

A livello per-imaginale si può avere una diminuzione del peso delle pupe infestate (Robaux, 1986), e la morte dell’individuo stesso qualora sia infestato da più di 8 acari (De Jong, 1990). Oltre a ciò si può assistere ad una riduzione della covata opercolata rispetto a quella fresca attribuibile alla mortalità delle pupe e delle larve fortemente infestate e/o al loro abbandono o rimozione (Ritter et al., 1984).

Relativamente ai danni carico della colonia si ha indubbiamente un indebolimento generale del superorganismo, con una conseguente maggiore suscettibilità all’attacco di altri agenti patogeni (De Jong, 1990). Da quando è comparsa la varroatosi, infatti, si è

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avuto un incremento delle patologie tradizionali, quali la peste americana e la covata calcificata (Lavazza et al., 2002). In queste condizioni di debolezza, anche i danni inferti da altri patogeni o parassiti, quali ad esempio il dittero sarcofagide Senotainia tricupsis Meigen (Bedini et al., 2006)., la nosemosi o l’acariasi dovuta all’acaro Tropilaelaps clarae Delfinado & Baker, là dove presente, possono portare al collasso della colonia in meno di una stagione (Robaux, 1986).

La mortalità delle colonie risulta comunque il più grave dei danni ascrivibili alla varroa.

La mortalità degli alveari può essere dovuta da un lato all’aumento della carica virale, come visto sopra (Highfield et al., 2009; Dainat et al., 2012; Martin et al., 2012;

Francis et al., 2013), e da un altro alla pericolosità, alle volte anche mortale dei trattamenti stessi effettuati contro la varroa. Ben noti sono gli effetti negativi dell’acido formico su api adulte, regine e covata (Hood e McCreadie, 2001; Amrine e Noel, 2006) soprattutto se usato impropriamente o in modalità fai da te più o meno bizzarre. Altri problemi legati ai trattamenti antivarroa sono gli avvelenamenti da acaricidi in particolare sulle larve. La presenza contemporanea di tau-fluvalinate e coumaphos anche a livelli sub letali delle due molecole se prese separatamente, può indurre un’elevata tossicità sulle larve (Johnson et al., 2009).

Relativamente ai danni economici sicuramente bisogna ascrive quello dovuto alla perdita di alveari. Vi è poi da considerare l’aumento dei costi di gestioni dovuto all’acquisto di prodotti antiparassitari e all’aumento del lavoro necessario alla gestione delle colonie stesse. Difficile è calcolare la perdita di produzione di miele e ancor di più quello dovuto alla diminuzione dell’attività di impollinazione sia delle colture agrarie che delle piante spontanee.

Controllo

Ripercorrendo la storia dell’avvento della varroa in Europa e in Italia i primi mezzi di difesa adottati contro la varroosi sono stati di tipo legislativo, mirati a limitare la diffusione o ad impedirla la dove questa non era presente. In Italia la linea fu data da tre decreti del Ministero della Salute emessi nel 1978, nel 1980 e nel 1981 che prevedevano il blocco dei movimenti degli alveari infetti e della cera non sterilizzata,la distruzione degli alveari infestati e la fusione dei favi, la disinfestazione delle arnie e delle altre attrezzature apistiche, i controlli diagnostici in apiari posti in aree a rischio, ed infine la

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realizzazione di trattamenti autunnali o primaverili da effettuare sotto il controllo delle istituzioni sanitarie (Frilli, 1983). Tuttavia queste misure, per quanto possano essere efficaci nel controllo di altre epidemie animali, si sono rivelate di scarsa utilità nei confronti della varroa. Questo è stato dovuto principalmente alla difficoltà di diagnosticare l’infestazione nei primi anni e alla elevata capacità di diffusione del parassita, che può avvenire non solo attraverso gli scambi commerciali, ma anche a seguito di fenomeni naturali quali le sciamature e l’attività di volo delle singole api (Gnädinger, 1983).

Oggigiorno là dove è presente il parassita diviene praticamente impossibile praticare l’attività apistica senza annuali trattamenti volti a controllare l’infestazione (De Jong, 1990; Dieteman et al., 2012).

Dal punto di vista delle modalità di controllo, le strategie utilizzabili possono essere classificate in metodi fisici, biomeccanici, biologici e chimici (Dieteman et al., 2012).

Metodi fisici

I trattamenti fisici in realtà riducono alla così detta termoterapia, che però può considerarsi uno metodo esclusivamente sperimentale e non utilizzato nella tecnica di allevamento. Questo metodo si basa sulla diversa resistenza alle alte temperature delle api e della varroa e può essere effettuato immettendo nell’alveare aria calda mediante apposite apparecchiature (Robaux, 1986). Il metodo sarebbe interessante in quanto assolutamente non inquinante, Il limite però sta nell’esigua differenza tra la temperatura massima sopportata dall’ape (49°-50°C), oltre la quale non può sopravvivere, e quella sopportata dalla varroa (47°-48°C) e nella difficoltà di realizzazione pratica in pieno campo (De Jong, 1990).

Metodi biomeccanici

I trattamenti biomeccanici si basano sull’asportazione della covata maschile, che generalmente esplica una maggiore attrattività per le varroe e può essere effettuata sia mediante la rimozione di zone con celle di fuchi spontaneamente allevate dalle api o inducendo la covata maschile con specifici telai trappola, come nel così detto metodo Campero, dal nome dell’apicoltore, Michele Campero, che lo ha messo a punto (Pistoia, 2010).

Un altro sistema di controllo meccanico può essere effettuato mediante la distribuzione di prodotti polverulenti inerti all’interno dell’alveare, come farina (Petraccone, 1997) o

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zucchero a velo (Fakhimzadeh, 2001). Le particelle fini infatti rendono difficile o impossibile l’adesione delle varroe in fase foretica al corpo delle api (Sadov, 1980;

Sadov et al., 1980). e di conseguenza cadono sul fondo delle arnie, che devono essere provviste di fondi mobili ricoperti di materiale viscoso per impedire la risalita degli acari. Questo metodo sfrutta lo stesso meccanismo usato nel medoto diagnostico dello zucchero a velo. Tuttavia come metodo non riesce ad ottenere un’elevata efficacia acaricida.

Metodi biologici

I trattamenti biologici si basano sull’uso di altri organismi in grado di contrastare la varroa, secondo i classici metodi della lotta biologica. A livello sperimentale ad oggi sono stati testati alcuni ceppi batterici dei generi Bacillus e Micrococcus in grado di accorciare significativamente la lunghezza di vita dell’acaro in test di laboratorio (Tsagon et al., 2004). Riguardo all’utilizzo di fungi entomopatogeni, alcuni Autori hanno messo in evidenza le potenzialità acaricide del genere Bauveria, in particolare della specie Bauveria bassiana, ritrovato anche in natura come agente patogeno della varroa (Meikle et al., 2006, García-Fernández et al., 2008, Steenberg et al., 2010). Ma soprattutto il fungo Metarhizium anisopliae Metschnikoff ad aver ricoperto un maggiore interesse nell’ambito della lotta biologica alla varroosi. Metarhizium anisopliae risulta capace di parassitizzare e uccidere gli acari senza provocare danni alle api (Flores, 2004). Questo fungo in particolare sta riscuotendo un sempre maggiore interesse a livello scientifico e potrebbe non essere lontano il lancio di un prodotto commerciale (Hamiduzzaman et al., 2012) .

Metodi chimici

I trattamenti chimici rappresentano attualmente il fulcro fondamentale su cui si basa la lotta alla varroosi. I trattamenti chimici disponibili si possono dividere in due categorie principali:

1. gli acaricidi di sintesi

2. i principi attivi di origine naturale

Entrambe le tipologie di prodotti presentano la problematica di avere effetti letali sia sulle varroe, sia sulle api mellifiche data la vicinanza filogenetica tra aracnidi e insetti, per tanto la strategia di utilizzo si basa sull’effetto dose, in quanto le varroe, più piccole delle api, spesso mostrano una suscettibilità a dosi a dosi minori di principio attivo.

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Tra gli acaricidi di sintesi vi sono diverse molecole attive utilizzate in farmaci per la lotta alla varroosi, spesso mutuate dall’agricoltura dove erano già impiegate come acaricidi o anche come insetticidi. Tra queste si annoverano il bromopropilato, aloidrocarburo ad azione di contatto che agisce interferendo sulla trasmissione degli impulsi nervosi a livello dell’assone – neurotossicità diretta (Muccinelli, 2011), utilizzato col nome commerciale di Folbex VA® della ditta Ciba-Geigy, disponibile in strisce fumiganti da inserire nell’alveare (Marchetti et al., 1984).

Il coumaphos, insetticida fosforganico sistemico attivo per contatto e per ingestione a seguito della suzione dell’emolinfa, che interferisce nella trasmissione dell’impulso nervoso a livello delle sinapsi – neuro tossicità indiretta (Muccinelli, 2011), impiegato col nome commerciale di Perizin® disponibile in soluzione zuccherina e di Check- Mite™ in strisce da inserire in alveare, entrambi prodotti dalla Bayer (Kanga et al., 2003)

Il cymiazolo cloridrato ad azione sistemica ( http://www.pesticideinfo.org ) utilizzato nel Apitol® della Ciba-Geigy, da distribuire anch’esso a mezzo di una soluzione zuccherina (Stanimirovič et al., 2005).

Il fluvalinate, piretroide ad azione di contatto e di ingestione con neuro tossicità diretta (http//:extoxnet.orst.edu) usato nel prodotto commerciale Apistan® della Sandoz, da applicare in strisce di PVC contenenti il principio attivo da apporre all’interno dell’alveare dove agirà per contatto (Milani e Della Vedova, 2002).

L’amitraz, acaricida azotorganico con neuro tossicità indiretta che agisce per contatto, ingestione e asfissia (Muccinelli, 2011) con il prodotto commerciale Apivar® della Véto-Pharmadisponibile in strisce da inserire in alveare (Martel et al., 2007).

Il malathion, insetticida fosforganico con neuro tossicità indiretta che agisce per contatto e ingestione (Muccinelli, 2011) utilizzato nel (Marchetti et al., 1984).

Le problematiche principali di queste sostanze consistono nell’induzione di fenomeni di resistenza negli acari e nella contaminazione dei prodotti apistici (Martel et al., 2007;

Rosenkranz et al., 2010). L’iduzione di resistenza è stata rilevata in particolare per per fluvalinate (Lodesani et al, 1995; Imdorf et al., 1999; Milani, 1999; Eördeg et al., 2002;

Milani e Della Vedova, 2002,) e coumaphos (Imdorf et al., 1999; Milani, 1999;

Spreafico et al., 2001), per quanto a seguito di una prolungata sospensione dei trattamenti tale resistenza può parzialmente regredire (Eördeg et al., 2002; Milani e Della Vedova, 2002). La contaminazione e la presenza di residui di prodotti

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antiparassitari usati nella lotta alla varroosi sono di norma rinvenuti nel miele e soprattutto nelle cera(Bogdanov et al., 1998; Wallner, 1999; Rosenkranz et al., 2010).

Riguardo i principi attivi di origine naturale, o biopestici, si considerano gli acidi organici, gli oli essenziali e altre sostanze di origine naturale (http://www.epa.gov).

Questi prodotti sono ammessi in agricoltura biologica (Reg. CE 834/07 e Reg. CE 889/08) e utilizzati nella cosidetta “lotta alternativa” (Imdorf et al., 2003). I prodotti di origine naturale hanno il vantaggio di avere una minore residualità nei prodotti apistici (Bogdanov et al., 1999; Imdorf et al., 2003; Nanetti et al., 2003). In alcuni casi, come per gli acidi organici, alcuni come acido formico e acido ossalico si possono ritrovare naturalmente nel miele (Bogdanov et al., 2002) . I prodotti di origine naturale presentano inoltre una buona azione acaricida (Arculeo et al., 1993; Milani e della Vedova, 2002; Imdorf et al., 1999) e una discreta semplicità di distribuzione che li rende adatti anche per aziende apistiche di grandi dimensioni (Imdorf et al., 2003).

Tra i principali principi attivi di origine naturale vi è l’acido ossalico somministrabile sia in soluzione zuccherina da distribuire mediante sgocciolamento (Nanetti e Stradi, 1997; Nanetti et al., 2003) sia in forma solida da somministrare previa sublimazione tramite apparecchiature appositamente brevettate come il Varox® (Imdorf et al., 2003) o il Varroglass® (Pietropaoli et al., 2012). Oggi in Italia l’acido ossalico è reperibile sottoforma di farmaco veterinario registrato con il nome di Apibioxal®, della ditta Chemical Laif. L’acido ossalico mostra una elevata efficacia zuccherina, superiore al 90%, ma solo in assenza di covata, per tanto i trattamenti devono esser fatti in determinanti momenti dell’anno o preparando le colonie con dei blocchi artificiali di covata (Nanetti et al., 2003).

L’acido lattico, distribuito in soluzione acquosa nebulizzata sulle facce dei telaini (Ritter, 1981), che non è disponibile sottoforma di farmaco veterinario registrato.

L’acido acetico, svolge una discreta azione acaricida tanto da essere stato recentemente utilizzato in una formulazione commerciale TO-BEE® registrato in Austria (Giacomelli et al., 2011).

Altro prodotto largamente utilizzato è il timolo, utilizzato nei trattamenti estivi (Imdorf et al., 2003) un tempo distribuito anche in polvere o in soluzione alcoliche evaporanti (Nanetti et al., 2002). Il timolo agisce per evaporazione ed è disponibile in vari prodotti commerciali registrati anche in Italia quali l’ Api Life Var® (tavolette evaporanti di timolo + eucaliptolo + mentolo + canfora) della ditta Chemical Laif, l’Apiguard® (gel

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evaporante) della ditta Vita Europe, e il Timovar® (spugnette evaporanti) della ditta Biovet soluzioni alcoliche evaporanti (Nannetti et al., 2002).

L’acido formico ha rivestito una importanza nei trattamenti antivarroa, per poi subire una flessione nel suo uso a causa della pericolosità sulle api e sull’operatore (Imdorf et al., 2003). L’importanza del formico è data soprattutto di essere l’unico prodotto capace di avere un’azione acaricida anche sulle varroe dentro le celle opercolate (Fries, 1991;

Amrine e Noel, 2006). Oggi, sta uscendo un prodotto registrato, di origine canadese, a base di acido formico con il nome commerciale di MAQS™ (Giacomelli et al., 2012).

Un nuovo prodotto commerciale di origine naturale con una buona azione acaricida è l’Hopguard™ a base di estratti di luppolo, attualmente registrato in Germania (De Grandi-Hoffman et al., 2014).

Prospettive

Tra le innovazione in fase di studio riguardo alla lotta alla varroosi, oltre ad eventuali nuovi prodotti per la lotta biologica si prospettano, in via sperimentale strategie completamente innovative. Tra queste vi è la confusione sessuale, effettuata mediante una saturazione dell’ambiente con feromoni sessuali femminili di varroa che, da test in laboratorio, riescono efficacemente a impedire al maschio di individuare le femmine e quindi di realizzare l’accoppiamento (Ziegelmann e Rosenkranz, 2012). Una altra prospettiva altrettanto innovativa è quella dell’utilizzo di RNA interference, frammenti specifici di RNA in grado di legarsi e interferire all’RNA prodotto da un particolare gene di un organismo silenziandolo, cioè rendendolo inattivo. Al momento in fase speriementale è stato messo a punto un RNA interference in grado di silenziare 14 geni della varroa i cui effetti sono già stati testai in laboratorio e in condizioni di semicampo su arniette da osservazione (Garbian et al., 2012).

Controllo e normativa veterinaria

In Italia, in per il controllo della varroosi è possibile usare solo farmaci registrati per questo scopo.

Dei vari principi attivi descritti nel capitolo precedente, al momento in Italia sono ammessi per il controllo della varroa sei prodotti di cui due non ammessi in agricoltura

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biologica e quattro ammessi. I farmaci registrati in Italia non ammessi in agricoltura biologica sono l’Apistan® a base di tau-fluvalinate, e Apivar® a base di amitraz.

Riguardo ai prodotti registrati, ammessi in agricoltura biologica troviamo l’Apibioxal®, a base di acido ossalico, l’ApiLifeVar®, con ingrediente attivo principale timolo, l’Apiguard® e il Timovar® entrambi con il timolo come principio attivo.

Siamo di fronte quindi a una disponibilità di farmaci ridotta, che da un lato limita l’apicoltore e dall’altro, di conseguenza, stimola alla messa a punto e alla registrazione di nuovi prodotti per il controllo della varroa.

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ACIDO FORMICO: PROBLEMATICHE, POTENZIALITÀ E IMPORTANZA

L’acido formico è conosciuto e utilizzato come principio attivo antivarroa almeno fino dalla metà degli anni ’80 (Anonimo, 2003).

Il limite principale dell’acido formico è quello di essere molto dipendente dalla temperatura esterna (Underwood e Currie, 2003). In particolare temperature esterne troppo basse lo rendono poco efficace contro la varroa, mentre in condizioni di temperature esterne troppo elevate può risultare pericoloso per la colonia di api (Wachendörfer et al., 1985; Anonimo, 2003). Inoltre la pericolosità dell’acido formico risulta elevata anche nei confronti dell’operatore, in quanto si tratta di un acido molto corrosivo in grado di provocare lesioni nonché danni alle attrezzature. Per questa serie di problematiche l’acido formico, usato soprattutto nei trattamenti estivi è stato gradualmente sostituito con i trattamenti a base di timolo (Imdorf et al., 2003).

Dal punto di vista delle potenzialità invece l’acido formico risulta estremamente interessante in quanto è l’unico principio attivo fin ora conosciuto e utilizzato contro la varroa in grado di uccidere gli acari anche all’interno delle celle opercolate, cosa che nessun prodotto, né di sintesi né di origine naturale può fare (Fries, 1991; Amrine e Noel, 2006). All’atto pratico questa capacità consentirebbe di poter effettuare trattamenti estive con elevata efficacia, e magri con tempi di somministrazione brevi, in presenza di covata e senza la necessità di preparare le famiglie con eventuali blocchi artificiali di covata, come avviene per l’uso di acido ossalico.

Attualmente nel mondo, le modalità di somministrazione del formico si dividono in due tipologie:

 gli short-time, somministrazioni ad alta concentrazione e/o alta evaporazione per pochi giorni, che raggiungono valori di efficacia superiori al 90%, ma con consistenti danni alle api, alla covata e alle regine (Fries, 1991; Hood e McCreadie, 2001; Anonimo, 2003; Amrine e Noel, 2006);

 i long-time, che utilizzano l’acido formico in concentrazioni e/o velocità di evaporazione basse per diversi giorni (più di 20gg) con valori di efficacia acaricida nell’ordine del 60-70% (Hood e McCreadie, 2001, Anonimo, 2003, Greatti et al., 1992), ma con minori danni agli alveari (Currie, 2003; Underwood e Currie, 2005)

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Preparati di acido formico in gel sono già presenti e registrati come presidi sanitari per l’apicoltura negli USA, Apicure™ e BeeVar™ (Hood e McCreadie, 2001; Anonimo, 2003) e in Canada, MAQS™ (Pietropaoli et al., 2011; Giacomelli et al., 2012) e sono pensati e utilizzati secondo le modalità di somministrazione di tipo long-time.

Riuscire a mettere punto un nuovo prodotto a base di acido formico meno dipendente dalla temperatura esterna e quindi con una efficacia acaricida e una sicurezza per l’alveare nota e costante, risulterebbe di estrema importanza tecnica per l’attuale apicoltura, alla ricerca di farmaci antivarroa sicuri, non inquinanti, e di facile somministrazione. Una importanza che si rispecchierebbe anche dal punto di vista farmaceutico industriale come interessante ritorno economico.

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33 SCOPO DEL LAVORO

Lo scopo di questo lavoro, condotto in collaborazione con l’azienda farmaceutica IZO srl di Brescia, è stato quello di mettere a punto un nuovo farmaco antivarroa a base di acido formico, pronto all’uso e in grado garantire una elevata efficacia acaricida ed una elevata sicurezza per l’alveare, il tutto associato ad un facile e sicuro utilizzo da parte dell’operatore.

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34 MATERIALI E METODI

Gel di acido formico

Per la messa a punto del prodotto è stato testato un gel di acido formico, messo a punto dal nostro gruppo di ricerca, in collaborazione con l’azienda IZO srl.

Il gel contente acido formico è stato preparato con il 9,2% di acqua, 36,7% di una soluzione di acido formico, 49,6% di glicerolo e il 4,5% di idrossietilcellulosa, valori espressi in percentuale di peso sul prodotto finito.

Il gel è stato poi confezionato in sacchetti termosaldati di tessuto non tessuto (TNT) della grammatura di circa 60g/ m2, con un contenuto di 250g di gel per ogni sacchetto.

Effetti dell’acido formico sulle varroe in vitro

Materiale biologico

Le varroe sono state reperite da un alveare dell’apiario sperimentale di San Piero a Grado, non trattato da almeno 2 mesi, come previsto dai protocolli EPPO per le prove di tossicità sulle api (EPPO, 2005).

. Le varroe raccolte sono state alloggiate in una piastra Petri provvista di una platea in cera d’api e utilizzate per la prova nell’arco di 12 ore.

Acido formico evaporante

Per la prova 5 varroe sono state poste in una piastra Petri da 90 mm senza arena di cera.

All’interno della Petri è stata introdotta un’altra piastra Petri, più piccola da 35 mm priva di coperchio contente 500 µl di acido formico al 99%, quindi è stato richiuso il coperchio della Petri grande ed è stato osservato il comportamento delle varroe. Il comportamento è stato osservato anche sotto stereo microscopio per osservare in maggior dettaglio i comportamenti.

La prova è stata ripetuta per 10 volte osservando il comportamento delle singole varroe anche mediante registrazioni filmate.

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