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Il DSM di Prato e la salute mentale dei migranti: sguardi plurali su mondi in transizione

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Academic year: 2021

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gruppi nella clinica

Il Dipartimento di Salute Mentale di Prato e la salute mentale dei migranti: sguardi plurali su mondi in transizione

Fabio Bracci

, Giuseppe Cardamone

Riassunto

Con questo articolo intendiamo descrivere lo sfondo teorico-culturale, la metodologia di lavoro e le criticità che caratterizzano l’esperienza del composito gruppo di lavoro che all’interno del Dipartimento di Salute Mentale (DSM) dell’Azienda Usl 4 di Prato ha avviato a partire dalla fine degli anni ’90 un’intensa attività clinica, di ricerca e di riflessione teorica per migliorare la presa in carico degli utenti migranti afferenti ai servizi di salute mentale.

L’articolo si compone di due parti. Nella prima intendiamo dare conto dei presupposti teorici ed espistemologici del lavoro compiuto, nonché delle molteplici diramazioni (cliniche, formativo-culturali, di ricerca) che esso ha assunto nella pratica. Nella seconda ci focalizziamo sul dispositivo adottato, soffermandoci in particolare sui due aspetti operativi più importanti: il ruolo della mediazione linguistico culturale e la funzione del gruppo di lavoro.

Parole chiave: Salute mentale; Migranti; Mediazione linguistico-culturale;

Gruppo di lavoro.

Sociologo.

∗

Dirigente medico DSM Azienda Usl 4 Prato.

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The mental health of migrants in department of mental health (DSM) of Prato: plural looks as worlds in transition

Abstract

This article presents the theoretical and cultural background, the work methodology and the critical points concerning the experience of a work team in the Mental Health Unit of Azienda USL 4 in Prato (Italy). Since the end of the 90’s, the team has led an intensive clinical activity as well as scientific research and theoretical study in order to improve the conditions of migrants admitted to mental health services.

The article is divided into two parts. In the first part, the theoretical and epistemological starting points for the research are presented and related to clinical, educational, cultural and scientific aspects emerged from practical experience. In the second part, the focus is on the “clinical device” adopted, with particular attention to two main operative aspects: the role played by cultural and linguistic mediation, and the function of the work team itself.

Keywords: Mental health; Migrants; Mediation cultural-language; Working- group.

1. Il contesto teorico: appunti su un approccio transculturale

Il confronto con i migranti apre all’ascolto di nuove narrazioni e modalità di esperire e pensare la vita e la morte, la malattia e la guarigione. La psichiatria transculturale, l’ambito teorico all’interno del quale si colloca il nostro lavoro, nasce proprio dall’incontro con altre esperienze curative e dalla valorizzazione non meramente enunciativa delle visioni del mondo e dell’uomo di cui tali esperienze sono espressione. Essa mira a ripristinare una sequenza coerente di connessioni tra visioni del mondo, modelli antropologici, ideali di salute, forme della malattia e modalità della cura. Il dispositivo che ne consegue cerca di affrontare i disturbi della persona a partire dall’osservazione dei legami con ciò che la circonda, il gruppo e l’ambiente, e dalla basilare constatazione che non c’è manifestazione psichica rilevante che non sia immersa in un particolare contesto culturale (senza peraltro sottovalutare il contrario).

La cultura mette in forma la malattia, ne esplicita alcune manifestazioni e ne

nega delle altre. Ciò che e’ morboso in un contesto, può essere considerato

espressione culturale in un altro; inoltre, il modo in cui si interroga un disturbo

prepara già una risposta autoconvalidata alla sua natura. Le elaborazioni

culturali, le visioni del mondo, gli ideali di salute non sono altro che tentativi di

ordinare il disordine, di ricondurre ad un senso culturalmente condiviso il

disordine rappresentato dalla malattia. La psichiatria transculturale non si pone

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dunque come obiettivo il mero adattamento degli strumenti della psichiatria tradizionale alle realtà culturalmente più distanti, nell’intenzione più o meno consapevole di circoscriverle nei confini angusti della categoria etico-estetica dell’esotismo. Nel concreto della relazione di cura, il terapeuta è posto di fronte ad una inedita declinazione del fenomeno della pluridimensionalità della sofferenza: alla specificità problematica rappresentata dal disturbo si somma l’alterità culturale espressa dall’identità del migrante; da qui la relazione prende le mosse per avviare esperienze cliniche e terapeutiche inedite e significative, e ancora largamente inesplorate.

Il potenziale euristico della psichiatria transculturale si manifesta sul piano operativo nella esplorazione di diversi e complementari filoni di sviluppo: la registrazione di frequenze e modi disfunzionali nei loro nessi con i contesti culturali; l’analisi della psichiatria occidentale come un sistema di gestione della devianza e del male di vivere culturalmente determinato, e l’orientamento a ridiscutere gli atteggiamenti ‘naturalistici’ ed oggettivizzanti delle letture della malattia e del disagio proprie della nostra scienza medica; l’analisi delle dinamiche trasformative e dei loro effetti sulla salute mentale nel nesso tra migranti e contesti adottivi.

Per la psichiatria transculturale il disagio non è soltanto un problema dell’individuo. Nell’accettazione di presupposti quali il riconoscimento del pluralismo dei sistemi di cura e la rilevanza attribuita al fattore ‘cultura’, essa si intreccia con quella parte dell’elaborazione teorica e clinica che risale ai movimenti e alle pratiche critiche di de-istituzionalizzazione. Il terapeuta deve saper anche riconoscere le altre risorse curative presenti nel territorio, conseguendo la prospettiva di un modello comunitario di prevenzione e cura che fa della salute mentale di comunità il suo perno fondamentale e della sofferenza mentale del singolo un problema che non interpella soltanto il soggetto ‘malato’.

A differenza della psichiatria (tradizionalmente definita come una branca della medicina che studia ed assiste i pazienti affetti da malattie mentali), la psichiatria transculturale considera la salute mentale (ossia la condizione di salute mentale degli individui e l’insieme delle azioni per promuoverla e conseguirla) come qualcosa di complesso, che comprende le dimensioni psicologiche e sociali della salute insieme ai fattori psicosociali che determinano salute e malattie.

Le identità culturali costituiscono sistemi dinamici continuamente soggetti a

processi di contaminazione. E’ proprio questo dinamismo sistemico che nella

nostra esperienza di operatori apre alla possibilità della negoziazione; ciò che

implica una coevoluzione di entrambi i sistemi, di quello che si pretende

osservatore (il terapeuta, il servizio in generale) e di quello che si vuole

osservato (la persona con problemi di salute mentale e il suo mondo altro), in

una relazione di reciprocità totale nella quale ambedue i poli sono riconosciuti

come portatori di senso.

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Lo sforzo del nostro lavoro è stato e continua ad essere quello di identificare l’accesso e la relazione che si definisce con i servizi come uno snodo decisivo e una pre-condizione essenziale per l’agibilità dei diritti riconosciuti dalla legge e l’acquisizione effettiva della cittadinanza economico-sociale. L’accessibilità, in questo quadro, deve essere intesa come indicatore di funzionamento e di qualità dei servizi, sul versante dell’offerta, e come parametro dell’effettiva capacità di integrazione e di risposta a bisogni nuovi, sul versante della domanda, nonché, infine, come verifica dell’effettivo passaggio dalla proclamazione di diritti alla effettiva fruizione degli stessi.

Lavorare sull’accesso significa anche analizzare le modalità con le quali le alterità culturali si strutturano all’interno del territorio. I molteplici microsistemi gruppali costituiti dalle catene migratorie e dalle reti familiari svolgono una funzione sistemica di collegamento tra il nuovo luogo di vita e le culture di origine. Dal punto di vista delle dinamiche di accesso ai servizi prendere in considerazione questo livello di analisi permette di comprendere la prestrutturazione che la situazione clinica riceve in base a quanto succede a monte dell’incontro. In questo senso l’alterità culturale si inserisce pienamente nella cornice pratica della salute mentale di comunità, che vede chiamati i servizi ad esprimere funzioni di interazione con, e di attivazione dei, gruppi comunitari (Cardamone, Zorzetto, 2000).

La salute mentale di comunità si prefigge infatti di promuovere la costruzione di gruppi sociali reali, così come di interagire con quelli che “naturalmente” si costituiscono nel territorio. Con quei gruppi, in sostanza, che creano rapporti variamente strutturati di interdipendenza fra le persone, a partire da un qualche tipo di intenzionalità e che comunque riproducono sempre un determinato assetto culturale (prassi sociali, forme dello scambio, ideologie, confini identitari, azioni tecniche…).

Queste scelte di fondo hanno garantito l’unitarietà dell’approccio tecnico- organizzativo e il collegamento tra le varie attività promosse dal nostro gruppo di lavoro. Queste ultime possono essere riassute come segue:

1. attività formativo-culturali, articolate in occasioni formative puntuali e tematiche (convegni, seminari, incontri con esperti, intervisioni e supervisioni cliniche, ecc.) ed in percorsi più strutturati, come docenze nell’ambito di percorsi formativi destinati a operatori di servizi interessati alle sperimentazioni avviate dal gruppo di lavoro(per una rassegna completa delle attività formativo- culturali realizzate negli anni si veda Cardamone, Bracci, Da Prato, Zorzetto, 2005);

2. attività di rete e collegamento nazionale e internazionale, che si sono

tradotte in scambi e collaborazioni con operatori sanitari operanti sia in Paesi in

via di sviluppo (Mali, Senegal, Marocco), sia in Europa ma impegnati nel lavoro

clinico con migranti (Francia). All’interno di queste attività, particolarmente

significativa è stata la realizzazione di un progetto di micro-cooperazione

sociosanitaria sulla presa in carico dei pazienti con epilessia nel Cercle di

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Bandiagara (Mali), sulla base di una collaborazione fra Azienda USL n.4 di Prato, l’associazione ORISS (Organizzazione Interdisciplinare Sviluppo e Salute) e CRMT di Bandiagara (Mali);

3. attivita di ricerca e produzione scientifica, avviate nel 2000 attraverso la produzione di una prima ricerca epidemiologica volta a fotografare l’utilizzo dei servizi di salute mentale territoriali e ospedalieri da parte di persone migranti a Prato (in collaborazione con l’Istituto di Ricerche Farmacologiche M. Negri) e proseguita negli anni successivi con il sostegno della Provincia di Prato;

4. attività clinica e di consulenza ad altri servizi (anche fuori dal territorio pratese), che sono consistite nella promozione e nella realizzazione di un approccio clinico e culturale coerente con le impostazioni teorico-metodologiche sopra indicate. Con il supporto, anche in questo caso, della provincia di Prato, a partire dalla fine degli anni ’90 Prato si è in effetti costituita come uno dei principali centri operativi, a livello nazionale, sulle questioni relative alla presa in carico dei problemi di salute mentale delle popolazioni migranti.

2. Il dispositivo: mediazione e gruppo, i due snodi decisivi

Il dispositivo sperimentale adottato prevede che sulla base della richiesta avanzata da un clinico, un gruppo di mediazione si attivi per un affiancamento della presa in carico, offrendo la possibilità di condurre una serie di incontri nella lingua madre dell’utente (o in una lingua veicolare, dato che la complessità linguistica dei mondi da cui provengono gli interpreti non rende sempre realizzabile la coincidenza di lingue madri fra interprete e utente). L’offerta della possibilità di condurre i colloqui clinici in lingua non mira semplicemente a rendere possibile l’interazione, ma a fornire ulteriori strumenti di comprensione e di intervento in uno scenario clinico che si fa più complesso e denso. Questo aspetto è ripetutamente sottolineato anche agli operatori con i quali il nostro gruppo si trova ad interagire. In particolare si evidenzia il fatto che la competenza nell’utilizzo dell’italiano non è un criterio di esclusione dei pazienti dal protocollo di ricerca.

Le fasi iniziali del lavoro sono incentrate sulla presentazione ai clinici del

dispositivo: finalità, composizione del gruppo di mediazione, modalità di

attivazione della mediazione, lingue disponibili, specificazioni relative ai

rispettivi ruoli, responsabilità nella conduzione delle sessioni di mediazione,

necessità della registrazione (previo assenso degli utenti). Le presentazioni

avvengono sia in discussioni di gruppo che individualmente. Si tratta di un

passaggio importante al fine di chiarire ai clinici la possibilità tecnica cui

possono far ricorso e per attenuare dubbi e perplessità. Questi ultimi si

concentrano spesso sul numero di persone che prendono parte agli incontri

clinici, sull’effetto che tale configurazione del setting può determinare sui

pazienti (sensazioni di invasione, di mancanza di privacy, ecc) e sulle modalità

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di impiego a fini curativi di questa perturbazione rispetto al modello clinico – diadico- tradizionale.

Le sessioni di mediazione sono infatti fondate su un setting multiprofessionale e multiculturale composto dallo psichiatra/neuropsichiatra di riferimento (eventualmente assistito da un’infermiera), dal gruppo di mediazione e dall’utente (quasi sempre accompagnato da familiari nel caso degli adulti, sempre nel caso dei minori). Il formato base del gruppo di mediazione è composto da uno psicologo, da un semiologo e dall’interprete. Si tratta comunque di una struttura aperta alla quale possono partecipare anche altri soggetti (sociologo, persone appartenenti a reti familiari o informali, a vario titolo legate all’utente). L’impostazione che guida l’azione del gruppo è quella dell’affiancamento e del supporto all’interazione clinica: è il clinico che mantiene sempre la direzione degli incontri, impostandone gli obiettivi e le modalità (colloquio, somministrazione di test, ecc.) e definendone i tempi.

Compatibilmente con le disponibilità degli operatori, per ogni caso sul quale sia richiesta l’attivazione del gruppo di mediazione si cerca di organizzare un momento di confronto sia prima dell’incontro clinico, al fine di condividere con il clinico la conoscenza della situazione problematica e gli obiettivi che egli si propone di raggiungere, sia dopo l’incontro, al fine di discutere quanto emerso sia in termini di contenuti che di processi (compreso il funzionamento del dispositivo di mediazione). D’altra parte, anche nell’impossibilità del clinico di assistere, il gruppo di mediazione si riserva uno spazio di discussione dopo ogni caso. Su questo punto decisivo si tornerà più avanti.

E’ necessario a questo punto tematizzare due momenti-chiave del dispositivo e più in generale dell’impianto metodologico adottato. Gli aspetti fondamentali sui quali vogliamo sinteticamente soffermare il ragionamento sono la mediazione linguistico culturale ed il ruolo del gruppo di lavoro.

Per quanto riguarda la mediazione linguistico culturale occorre prioritariamente

richiamare un nodo epistemologico. L’opzione a favore della mediazione

permane anche nei casi nei quali l’utente mostra una buona o discreta

padronanza dell’italiano, che di per sé potrebbe consentire lo svolgimento di

scambi comunicativi essenziali. Se si preferisce, anche in questi casi,

l’interposizione tra i locutori di un terzo soggetto, ciò dipende dal fatto che la

mediazione non è concepita come funzionale al mero scioglimento dei nodi che

ostacolano il passaggio di significato da una lingua ad un’altra, ma come uno

strumento che serve ad accedere con più efficacia alle informazioni ed

all’interiorità del paziente, dimensioni che sono entrambe custodite nell’alveo di

un patrimonio linguistico e culturale spesso intraducibile senza perdita di

porzioni di senso: la lingua rappresenta per il migrante “il più profondo e

affidabile legame con la cultura che lo ha nutrito” (Akhtar, 1999). Allo stesso

tempo, un opzione di questo tipo mette in discussione la centralità

nell’interazione del sapere del clinico, perché non dà per scontata la scelta della

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lingua dell’ospite come implicita ‘regola del gioco’ implicita (Casadei, Inglese, 2005).

Vi è poi il problema clinico, di come si lavora con il mediatore. Un esempio può aiutare a focalizzare meglio il livello di complessità intrinseco a questa modalità di esplorazione dei significati portati da utenti stranieri. Un bambino tunisino di otto anni, affetto da una sindrome epilettica a evoluzione benigna, racconta al mediatore – nel corso dell’incontro clinico - una cosa vista a scuola che lo ha spaventato molto: il maestro, durante la lezione, ha cambiato improvvisamente la sua espressione mimica. Nel racconto del bambino le mimiche facciali deformanti del maestro di scuola si confondono con altre visioni perturbanti, quali quelle di certi buffi eroi cinematografici o di animali che divorano altri animali. Il mediatore, che fino a quel momento è riuscito a inventare, con garbo, un complesso sistema di segni verbali e di gesti per entrare in contatto col piccolo paziente, chiede al bambino di continuare il racconto, gli sorride per incoraggiarlo, poi aggrotta la fronte ascoltando la sua lunga risposta. Il mediatore dice al gruppo che non è facile comprendere il discorso del piccolo paziente, perché la grammatica araba è sottoposta a una mutazione particolare: le parole non sembrano stare al posto giusto. All’improvviso il bambino, sempre riferendosi all’episodio pauroso avvenuto in classe, pronuncia il termine jinn, uno dei lemmi più complessi e polivalenti dell’etnopsichiatria maghrebina (Casadei, Inglese, 2005). Il jinn è un essere spirituale che nella cultura araba e africana è ritenuto causa possibile di molte malattie psichiatriche e neuropsichiatriche (Aouattah, 1993; Nathan 2001). Tra le sue caratteristiche principali figurano quella di vivere in luoghi indeterminati e inospitali (foreste, anfratti rocciosi, termitai, fognature, mucchi di rifiuti), di parlare una propria lingua, di avere grandi capacità e rapidità di metamorfosi.

I passaggi oscuri, piuttosto difficili da tradurre come questo appena illustrato, si

rivelano in genere come luoghi testuali estremamente ricchi di informazioni. I

momenti critici della mediazione non vanno perciò lasciati in ombra, bensì

interrogati fino a far emergere la natura dei problemi che il mediatore sta

affrontando. Nel caso descritto, ciò che lascia perplesso il mediatore, quando il

gruppo lo invita a commentare la sua perplessità nel tradurre le immagini fosche

sopra evocate, non è cosa il bambino sta dicendo, ma come lo sta dicendo. Nel

tentativo di raccontare quello che ha visto, il paziente deforma in modo peculiare

la grammatica dell’arabo. L’interprete sottolinea che l’ordine delle parole non è

sintatticamente corretto: c’è uno spostamento nella sequenza normale della frase

capace di disorientare l’interlocutore impegnato a comprendere il significato

delle singole frasi e il senso del discorso generale. La relazione a specchio jinn-

bambino sembra trasferirsi dall’universo corporeo a quello del linguaggio, dove

una forza deformante agisce sulla struttura sintattica delle frasi, complicando

notevolmente il lavoro di traduzione. Si capisce da questa interazione che

l’entità culturale evocata dal bambino non si limita soltanto ad abitare gli

enunciati come pura unità di contenuto, ma si costituisce nella lingua come

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istanza di enunciazione parallela, con cui dunque potrebbe diventare necessario aprire una trattativa a parte

1

.

La difficoltà di accedere ai significati celati evocata dal caso descritto richiama il secondo snodo fondamentale del nostro ragionamento: la centralità del lavoro di gruppo, inteso come strumento metodologicamente fondamentale in vista del tentativo di realizzare modalità di presa in carico adeguata in un contesto relazionale transculturale.

A proposito delle ricerche inerenti i sistemi culturali, nell’introduzione a La fine del mondo Clara Gallini affermava che per Ernesto De Martino “l’importante non era la titolatura di una disciplina, ma la definizione di una problematica”

(De Martino, 1977). L’apertura interdisciplinare rappresentava per l’etnologo un’opzione metodologica conseguente alla individuazione di un ‘problema unificante’. L’interazione tra sistema utente e sistema istituzionale è il nostro

‘problema unificante’. E’ attorno a questo oggetto che si costruisce e si rinnova nell’interazione clinica il lavoro di gruppo, nella convinzione che un fenomeno doppiamente complesso come il disagio psichico di persone migranti possa essere esplorato in modo più efficace da una pluralità di vertici osservativi.

Un sistema di esplorazione culturale e linguistica, come quello di cui parliamo, ha bisogno per funzionare di continue messe a punto che riguardano molteplici aspetti: le regole d’interazione col paziente (codici d’ospitalità, di presentazione, posizioni nello spazio degli operatori, contatto visivo tra clinico e interprete nella formulazione di domande rivolte al paziente, ecc.); le modalità di traduzione/mediazione (in prima o terza persona, alleanza esibita o sottintesa del clinico con l’interprete, strategie per consentire all’interprete di conquistarsi autorità e autonomia di parola, ecc.); la scelta di una linea d’investigazione specifica a fronte di determinati item culturali che emergono man mano nel corso delle sedute; l’acquisizione di risorse conoscitive esterne all’assetto clinico predefinito.

Le riunioni che si svolgono prima e dopo la consultazione sono un momento fondamentale di questa messa a punto per una pluralità di motivi. Il primo è che esse permettono ai membri del gruppo di negoziare e progettare nelle sue diverse dimensioni operatorie e metodologiche l’azione clinica. In secondo luogo esse promuovono e accelerano il trasferimento di competenze da una parte all’altra del sistema: i mediatori acquisiscono progressivamente la conoscenza delle regole del lavoro clinico e viceversa. Infine esse permettono al dispositivo nel suo complesso di auto-istruirsi: maggiore sarà il numero di connessioni e informazioni scambiate all’interno del gruppo, migliore sarà la sua sensibilità esplorativa che si accoppierà a una sua più avanzata competenza clinica rispetto alla varietà e all’incremento dei fenomeni problematici (sintomi, segni, sindromi

1

Dobbiamo la descrizione di questo caso a Filippo Casadei e Salvatore Inglese, autori

della riflessione teorica e metodologica sulle interazioni cliniche svoltesi nel biennio

2004-2005 nell’ambito del progetto di ricerca finanziato dalla Provincia di Prato e

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e disturbi psicopatologici influenzati dai contesti culturali di provenienza e di adozione in ogni momento della loro presentazione: patogenesi, patoplastica, terapeutica ed esito).

Quello che si compie all’interno del DSM pratese è dunque, da ogni punto di vista, un lavoro collettivo. L’asse portante di questo lavoro è il ruolo correttivo e formativo del gruppo nel suo insieme. Nelle riunioni collettive si discutono gli orientamenti metodologici e gli eventi rilevanti accaduti nel corso delle interazioni cliniche e delle interviste. I membri del gruppo di lavoro e di ricerca (clinici, mediatori, esperti nei diversi ambiti disciplinari – antropologia, sociologia, semiologiae) formano in questo modo una comunità di pratiche che funziona in modo multiprofessionale, multidisciplinare e multietnico. Questa comunità offre l’opportunità, a chi ne fa parte, di provare a convertire la conoscenza tacita, non esplicitata in forme rigidamente definite (come si conduce un colloquio, come si pongono le domande, come si condividono le esperienze di gruppo), in conoscenza codificata, fino al punto di far diventare quest’ultima patrimonio stabile del gruppo e punto di partenza per accrescere il saper fare di ognuno dei suoi componenti.

Conclusioni

Nel testo abbiamo cercato di evidenziare il percorso compiuto e la direzione nella quale ci stiamo muovendo. L’apertura non meramente declamatoria all’alterità culturale rappresentata dalla presa in carico di pazienti migranti con problemi di salute mentale e la conseguente riflessione sull’accessibilità dei servizi sono collocate sullo sfondo di un ragionamento complessivo che individua nella salute mentale di comunità e nel lavoro di gruppo i due presupposti generali di questa esperienza.

Il senso ultimo del nostro lavoro, che scaturisce dal tentativo di negoziazione/comprensione con visioni altre della malattia e della vita, è di favorire la scoperta e l’incontro tra mondi che si presentano inizialmente come chiusi o, semplicemente, come sottosistemi culturali non interagenti. Si tratta di allargare la possibilità di comprensione e di scoprire nuovi domini consensuali.

Ciò che non può avvenire, evidentemente, senza adeguare gli strumenti

conoscitivi e le prassi operative.

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Bibliografia

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