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Il danno alla vita sessuale, tra diritto alla salute e diritti alla personalità.

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Il danno alla vita sessuale, tra diritto alla salute e diritti alla personalità.

Dr. Marco Rossetti*

1. Premessa.

L’attività sessuale, inteso tale sintagma nel suo senso ampliare, viene in rilievo per lo studioso del diritto civile sotto due aspetti: in chiave pretensiva, essa si sostanzia nel diritto alla libertà sessuale, ovvero nella facoltà di determinare l’an, il quomodo ed il quando della propria attività (o della propria inattività) sessuale.

In chiave oppositiva, invece, l’attività sessuale viene in rilievo quale pretesa al godimento della funzione sessuale nella sua pienezza, e quindi a che tutti i consociati si astengano da azioni invasivamente limitative della suddetta funzione.

In chiave pretensiva, la libertà sessuale costituisce un aspetto o un frammento della più ampia categoria dei diritti della persona. In chiave oppositiva, il diritto alla pienezza della vita sessuale è un aspetto o un frammento del più generale precetto del neminem laedere.

Alla luce dei suddetti princìpi, in questo scritto si proverà ad esaminare se ed in che modo:

(a) la lesione della libertà sessuale o della vita sessuale costituisca “danno” risarcibile;

(b) in particolare, se esse costituiscano danno biologico;

(c) se sia ipotizzabile un danno alla vita sessuale che prescinda da lesioni organiche o psichiche.

2. La nozione di “salute”.

Il concetto di “salute” compare in molti testi normativi, sia di rango sovranazionale, sia di rango costituzionale, sia di rango ordinario.

A) Fonti sovranazionali.

In primo luogo, la nozione di salute compare nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata e proclamata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10.12.1948.

L’art. 25 della dichiarazione stabilisce infatti che:

“Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere propri e della sua famiglia, con particolare riguardo all'alimentazione, al vestiario, all'abitazione, alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà.

La maternità e l'infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza. Tutti i bambini, nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere della stessa protezione sociale” (Art. 25 Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo).

È tuttavia assai dubbio se questa norma possa vincolare il legislatore ed il giudice italiani;

infatti, mentre alcuni giudici hanno mostrato di ritenere che la norma interna in contrasto con la Dichiarazione sia, per ciò, solo in contrasto con l’art. 10 Cost., e quindi costituzionalmente illegittima (si vedano, indicativamente, C. conti, sez. giur. reg. Puglia, 13-11-1995, in RCC 1996,

* Magistrato, Assistente di studio presso la Corte Costituzionale, Roma.

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215; Cass., 15-02-89, n. 908, in Ipr, 1989, 927; Pret. Roma, 30-10-1987, in FI, 1988, I, 2780), la Corte costituzionale ha al contrario affermato che:

“a norma dell'art. 10 Cost. «l'ordinamento italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute» e tra queste non rientrano le statuizioni contenute nelle risoluzioni dell'Onu in materia di dichiarazione di principio alle quali, secondo la prassi internazionale, è negato carattere cogente.

Esse, infatti, non costituiscono fonti di diritto, pur potendo aver influenza nella formazione di consuetudini e di accordi conformi al loro contenuto” (Corte cost. 19.1.89 n. 18, in FI 1989, I;

305).

Anche la dottrina, in assoluta maggioranza, è orientata nel senso della non vincolatività dell’art. 25 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (Luciani, Salute I) Diritto alla salute, in Enc. Giur. Treccani, XXVII, 1991, 1), e ciò in quanto si ritiene che le norme pattizie internazionali hanno il rango e il trattamento propri della fonte che le immette nel nostro ordinamento (Lucidi, in AA.VV., I diritti umani a quarant'anni dalla dichiarazione universale, Cedam, Padova, 1990, 2).

Tuttavia deve aggiungersi che, anche se la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo non è mai stata approvata sotto forma di trattato internazionale, essa costituisce comunque una autorevolissima proclamazione di principi generali di diritto, ritenuti normalmente vincolanti da tutte le nazioni civili.

Oltre che nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il concetto di salute compare anche in altri accordi internazionali, e segnatamente:

(a) nel Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, adottato ed aperto alla firma a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo dall’Italia con la l. 25.10.1977, n. 881, il quale stabilisce che:

“Gli Stati parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo a godere delle migliori condizioni di salute fisica e mentale che sia in grado di conseguire.

Le misure che gli Stati parti del presente Patto dovranno prendere per assicurare la piena attuazione di tale diritto comprenderanno quelle necessarie ai seguenti fini:

a) la diminuzione del numero dei nati-morti e della mortalità infantile, nonché il sano sviluppo dei fanciulli;

b) il miglioramento di tutti gli aspetti dell’igiene ambientale e industriale;

c) la profilassi, la cura e il controllo delle malattie epidemiche, endemiche, professionali e d'altro genere;

d) la creazione di condizioni che assicurino a tutti i servizi medici e all’assistenza medica in caso di malattia” (Patto internazionale sui diritti economici, sociali e politici, art. 12).

(b) nella Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva dall’Italia con la l. 27.5.1991 n. 176, la quale stabilisce che:

“Gli Stati parti riconoscono il diritto del minore di godere del miglior stato di salute possibile e di beneficiare di servizi medici e di riabilitazione. Essi si sforzano di garantire che nessun

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minore sia privato del diritto di avere accesso a tali servizi” (Convenzione sui diritti del fanciullo, art. 24).

Tuttavia la definizione del concetto di salute più rilevante per il giurista, tra le varie contenute nelle fonti sovranazionali, è senz’altro quella contenuta nell’art. 1 dello statuto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, sottoscritto a New York il 22.7.1946, recepito nel nostro ordinamento col d. l.vo C.p.S. 4.3.1947 n. 1068.

Si legge in tale norma che:

“la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non consiste soltanto nella assenza di malattie e di infermità. Il possesso del migliore stato di salute che è capace di conseguire costituisce uno dei diritti fondamentali di ogni essere umano” (Statuto OMS, art. 1).

E’ stato inoltre osservato che la definizione di “salute” contenuta nello statuto dell’OMS ha subìto una considerevole ed importantissima evoluzione nell’ambito delle stesse attività dell’OMS:

“ col tempo al concetto di protezione viene sostituito quello di promozione delle condizioni di salute, di tutti i popoli del mondo, in conformità alla tendenza che si afferma in tutti i campi dell’azione sociale internazionale (...).

L’estensione orizzontale del concetto di sanità e la sua connessione con concetto di sviluppo sono state enunciate con la risoluzione WHA30.43, quando l’assemblea ha deciso che il principale obiettivo sociale dei governi e dell’OMS avrebbe dovuto essere quello di far accedere tutti gli abitanti del mondo a un livello di sanità tale da consentire loro di condurre una vita socialmente ed economicamente produttiva” (Casadio 1990, 4).

Si noti come, secondo la statuto dell’OMS e l’interpretazione evolutiva che l’Assemblea dell’OMS ne ha dato, “salute” ed “integrità fisica” sono concetti diversi: la seconda è una nozione meramente descrittiva, in quanto la presenza o l’assenza di malattie richiedono accertamenti, e non valutazioni. La “salute”, invece, secondo l’OMS, è una nozione squisitamente valutativa, in quanto richiede di comparare l’individuo con la società nella quale vive: non altrimenti va interpretato il riferimento al “benessere sociale” dell’individuo stesso.

Assai importante è anche la citata risoluzione WHA30.43, nella quale si fa riferimento chiaramente alla “produttività” dell’esistenza intesa non solo sotto il profilo economico, ma anche sotto quello sociale. La lesione della salute, secondo la nozione adottata da questa risoluzione, ben potrebbe essere definita come quel danno che ha per effetto di costringere il danneggiato a condurre una vita socialmente improduttiva, ovvero meno produttiva rispetto a quella condotta prima del sinistro.

Anche la nostra migliore dottrina, del resto, aveva tratto spunto proprio dall’art. 1 dello statuto dell’OMS per definire il danno biologico, affermando che:

“se i primi commentatori della costituzione continuavano a definire la salute “quale stato anatomico-fisiologico, corrispondente in atto ed in potenza a un essere naturalmente normale”, oggi nessuno più dubita che la tutela della salute non può essere intesa in senso esclusivamente biologico ma considerata come bene strumentale necessario alla protezione e allo sviluppo della personalità dell’individuo, cui fa riferimento l’art. 2 Cost. Una nozione così ampia della salute, del resto, è pienamente conforme agli indirizzi internazionali: basti pensare che fin dal, nel

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preambolo alla costituzione della organizzazione mondiale della sanità, non si esita a dichiarare solennemente che “la santé est un état de complet bien-être phisique, mental et social, et ne consiste pas seulement en une absence de maladie ou d’infirmité” (Busnelli, Danno biologico e danno alla salute, in Bargagna M. e Busnelli F. D. (a cura di), La valutazione del danno alla salute, Cedam, Padova, 1988, 7. Per il riferimento alla vecchia concezione della salute quale stato anatomo-fisiologico si veda Busnelli, op. ult. cit., 7, nota 13).

Per completezza, è tuttavia doveroso segnalare che, mentre dottrina e giurisprudenza hanno prestato grande attenzione all’art. 1 dello statuto dell’OMS, proprio il nostro legislatore - se pure in un atto programmatico - sembra averne voluto sminuire l’interesse: infatti nella premessa al d.p.r. 1.3.1994 (recante “Approvazione del Piano sanitario nazionale per il triennio 1994-1996”), si legge che:

“Il P.S.N. per il triennio 1994-96 non si pone quindi nell'ottica di costruire per le persone uno stato di salute come definito dall'O.M.S. (condizioni di benessere fisico, psicologico, relazionale), che appartiene più all'area della felicità umana che non a quella della salute (...)”

(d.p.r. 1.3.1994, premessa).

Il legislatore, nel redigere il piano sanitario nazionale dello scorso triennio, sembra dunque avere posto in non cale oltre quindici anni di evoluzione dottrinaria e giurisprudenziale sulla nozione di “salute” intesa in senso dinamico. Ma non sembra che, allo stato, la proposizione incidentale contenuta nella premessa del d.p.r. 1.3.1994 possa ritenersi in qualche modo riduttiva della solenne affermazione contenuta nell’art. 1 dello statuto dell’OMS.

B) Fonti costituzionali ed ordinarie.

A livello costituzionale, la salute dell’individuo viene presa in considerazione negli artt. 2 e 32 cost.. La definizione di cui all’art. 32 cost. (secondo cui la salute è non solo diritto dell’individuo, ma anche interesse della collettività) è sostanzialmente ripetuta dall’art. 1 l.

23.12.1978 n. 833, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, e compare quasi immutata anche in alcuni statuti regionali: ad esempio nell’art. 7 St. reg. Campania (l. 22 maggio 1971, n. 348) e nell’art. 7 St. Marche (l. 22 maggio 1971, n. 345).

La Costituzione, al contrario dello statuto dell’OMS, non dà la definizione del concetto di salute. Tuttavia la prevalente dottrina costituzionalista concepisce la salute sia come un “diritto sociale”, sia come un “diritto soggettivo” dotato di efficacia e rilevanza immediata nei rapporti interprivati. Questo diritto, sempre secondo la prevalente dottrina costituzionalista, non si esaurisce nel diritto all’integrità psicofisica, ma si articola in molteplici aspetti: nel diritto all’ambiente salubre; nel diritto ad essere curato o a non essere curato; nel divieto di trattamenti sanitari obbligatori (Luciani, op. cit., 5-12; Petti, Il risarcimento del danno biologico, Utet, Torino 1997, 3-8).

Collazionando dunque fonti sovranazionali e fonti nazionali, la nozione di “salute” che si impone all’attenzione del giurista non è tanto quella di “integrità psicofisica”, quanto piuttosto quella di “attitudine alla produttività sociale”. Una nozione funzionale, dunque, e non solo strutturale, la quale per più aspetti richiama il concetto geriniano di “capacità”, il quale influenzò grandemente le prime pronunce di merito che ammisero la risarcibilità in sé della lesione alla salute.

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2. Il danno alla vita sessuale.

Il lemma “salute”, sub specie iuris, deve essere dunque inteso in senso ampio. Di conseguenza, anche alla nozione di “lesione della salute” va attribuito un vasto significato. Infatti qualsiasi funzione vitale, sia essa fonte o meno di reddito per il danneggiato, se soppressa o ridotta in conseguenza di lesioni personali, genera un danno risarcibile quale danno biologico.

Non può esservi dubbio che le funzioni sessuali rappresentano una componente essenziale nella vita di ogni individuo: la loro soppressione o riduzione, pertanto, costituisce indefettibilmente un danno biologico.

Ne consegue che nella vasta nozione di lesione della salute debbono rientrare anche il danno alla sfera sessuale, del quale il giudice deve tenere conto non con una liquidazione separata, ma nel procedere alla aestimatio del danno biologico.

Questi concetti sono unanimemente ricevuti sia dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 14- 10-1993, n. 10153, AGCSS 1994, 17; Cass. 30-03-1992, n. 3867, FI 1993, I, 1959; Cass., 27-06- 1990, n. 6536, AGCSS 1990, 848; Cass., 16-05-1990, n. 4243, MFI 1990), sia dalla giurisprudenza di merito (Trib. Ravenna, 13-03-1990, RGCT 1991, 853; Trib. Sassari, 19-05- 1990, RGSarda 1990, 717; Trib. Milano, 25-01-1990, AGCSS 1990, 398; Trib. Napoli, 24-10- 1987, AGCSS 1988, 456; Trib. Spoleto, 10-08-1987, GC 1988, I, 2992; Trib. Roma, 09-03-1987, RGCT 1987, 670).

Va comunque precisato che per “danno alla sfera sessuale” deve intendersi:

“la perdita o la diminuzione della funzione, o meglio del complesso di funzioni degli organi sessuali, nella loro componente esocrina od endocrina od in ambedue, ed una o più delle loro finalità e cioè: a) dello sviluppo psico-fisico dell’individuo e, raggiuntasi la maturità sessuale, del mantenimento di esso; b) della riproduzione; c) del soddisfacimento della libido” (Badalassi, Lineamenti evolutivi del concetto di danno alla salute, in Bargagna M. e Busnelli F. D. (a cura di: La valutazione del danno alla salute, Cedam, Padova, 1988, 30).

Con questo, il discorso sul danno alla vita sessuale potrebbe dirsi chiuso prima ancora di essere aperto: si tratterebbe, in sostanza, di un “normale” danno biologico, distinguibile soltanto in virtù degli organi e delle funzioni attinte dall’evento dannoso.

In realtà, così non è, ed il danno alla vita sessuale conserva tuttora molteplici aspetti dubbiosi e non del tutto esplorati. Deve ricordarsi, a questo riguardo, che la lesione della salute può essere riguardata sotto un duplice aspetto: quello statico (strutturale o della lesione in senso stretto), e quello dinamico ( funzionale o dell’handicap).

Sotto l’aspetto statico, il danno biologico consiste nella menomazione dell’integrità psicofisica della persona. In questo stadio dell’analisi, il danno alla persona è ancora un fenomeno da descrivere e non da valutare. Così, ad esempio, una perdita anatomica può essere senz’altro descritta dal punto di vista medico-legale, ma il risarcimento di essa non può fondarsi soltanto su tale descrizione: un risarcimento equo ed adeguato deve tenere conto delle conseguenze che la perdita ha riverberato sulla vita dell’individuo leso. L’analisi delle conseguenze integra lo studio del danno nel suo aspetto funzionale, cioè nelle concrete privazioni cui va incontro il leso. Così, per rimanere nell’esempio descrittto in precedenza, la perdita anatomica costituisce la menomazione statica; la perdita della possibilità di camminare, di correre, di fare la doccia, costituisce invece l’handicap, o perdita funzionale, sulla quale deve essere commisurato il risarcimento.

Questa distinzione, già adombrata da autorevole dottrina, è stata fatta propria dalla corte costituzionale, la quale ha affermato che:

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là dove qualifica come «presunto» [il danno alla salute], identificandolo col fatto (illecito) lesivo della salute, [la sentenza n. 184/86] intende dire che la prova della lesione è, in re ipsa, prova dell'esistenza del danno (atteso che da una seria lesione dell'integrità fisio-psichica difficilmente si può guarire in modo perfetto), non già che questa prova sia sufficiente ai fini del risarcimento. E' sempre necessaria la prova ulteriore dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art.

1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale), alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato

(Corte cost. 27.10.1994 n. 372, in GC, 1994, I, 3029).

Normalmente, lesione strutturale e danno funzionale vanno di pari passo: è infatti difficile ipotizzare una compromissione dell’integrità psicofisica non accompagnata da una perdita funzionale, salvo che nelle ipotesi scolastiche del minuscolo esito cicatriziale in zone del corpo non esposte alla vista. Di solito, ma non sempre, anzi proprio con riferimento alla lesione della vita sessuale, sorgono i maggiori problemi in tema di individuazione e liquidazione del danno, a causa della dissociazione tra componente organica dell’attività sessuale e componente psichica o relazionale.

Si è già detto, infatti, che si ha “danno biologico” in senso proprio, quando è dato rinvenire:

a) una lesione dell’integrità psicofisica dell’individuo;

b) una disfunzione anatomo-patologica causata dalla lesione;

c) la perdita di una funzionalità dell’esistenza, causata dalla disfunzione sub (b). Orbene, la realtà giudiziaria quotidiana mostra casi di individui che subiscono una lesione della vita sessuale senza subìre lesioni dell’integrità psicofisica (è l’ipotesi del coniuge di persona che, in conseguenza dell’altrui illecito, perde la capacità sessuale o la libido); nonché, all’inverso, individui che subiscono lesioni degli organi sessuali senza subire lesioni nella vita sessuale (si pensi alla lesione degli organi sessuali subìta da un c.d. “diverso”).

Per cercare di dare ordine concettuale almeno alla casistica, se non proprio alla materia, è opportuno ricordare: (a) da un lato, che vita sessuale e funzionalità degli organi sessuali spesso, ma non sempre, sono nozioni necessariamente congiunte; (b) dall’altro, che una completa e matura vita sessuale richiede e presuppone la relazione con un altro soggetto, e può essere lesa sia da una disfunzione propria, sia da una disfunzione del partner.

Distinguendo queste ipotesi, avremo dunque:

(a) una disfunzione anatomo-patologica degli organi sessuali, accompagnata da una lesione od interruzione della vita sessuale;

(b) una disfunzione anatomo-patologica degli organi sessuali, non accompagnata da una lesione od interruzione della vita sessuale;

(c) una lesione od interruzione della vita sessuale, non accompagnata da una disfunzione anatomo-patologica degli organi sessuali (danno alla vita sessuale del partner).

Per chiarezza espositiva, è opportuno esaminare partitamente queste tre ipotesi.

3.1. Disfunzione anatomo-patologica degli organi sessuali, accompagnata da una lesione od interruzione della vita sessuale.

E’ questa l’ipotesi, per così dire, ordinaria. Ricorre allorché la disfunzione anatomo- patologica degli organi sessuali attinga un individuo pubere e sessualmente attivo.

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Per quanto attiene la liquidazione di questo tipo di danno, va innanzi tutto ricordato che nella liquidazione di ogni danno alla salute la aestimatio del danno deve fondarsi su un parametro standard, uguale per tutti, ed un adeguato coefficiente (od altro criterio) di personalizzazione.

Pertanto, in casi come quelli di cui si discute, dovrà essere tenuta in massimo conto la condizione soggettiva del leso, ed in particolar modo l’età (essendo evidente che il soggetto giovane subisce un danno maggiore del soggetto anziano), e la pregressa vita sessuale e familiare (essendo evidente che un soggetto coniugato con prole subisce un danno minore rispetto al celibe, non foss’altro perché quest’ultimo vede seriamente compromessa la possibilità di costituire un nucleo familiare).

3.2. Disfunzione anatomo-patologica degli organi sessuali, non accompagnata da una lesione od interruzione della vita sessuale.

Perché possa darsi la lesione di un bene, la quale sia configurabile come “danno” ex art. 2043 c.c., è necessario che il bene leso sia posseduto dalla vittima dell’atto illecito. Dunque, perché possa ipotizzarsi una lesione della “vita sessuale”, è necessario che la vittima abbia una vita sessuale.

Può tuttavia accadere che la vittima della lesione fisiopsichica non abbia una vita sessuale in senso proprio, perché troppo giovane; o perché troppo anziano; o perché già affetto da impotentia coeundi o generandi; o perché dotato di una sessualità “deviata”, non toccata dalla disfunzione fisica; od anche per una scelta di vita (si pensi all’ipotesi del religioso che abbia fatto voto di castità).

Si potrebbe ritenere che, in questi casi, non vi sia danno risarcibile, perché non vi è perdita funzionale: si ricordino però al riguardo, le parole della Corte di cassazione:

“(…) per il [danno biologico] non vale la regola che, verificatosi l' evento, vi sia senz'altro un danno da risarcire.

Il risarcimento del danno vi sarà se vi sarà perdita di quelle utilità che fanno capo all' individuo nel modo preesistente al fatto dannoso e che debbono essere compensate con utilità economiche equivalenti.

In caso contrario il cosiddetto danno biologico non può essere configurato (...)”

(Cass. 29.5.1996 n. 4991, FI, 1996, I, 3107).

Questa conclusione però appare, nel caso di specie, eccessiva, e non può essere condivisa.

La lesione anatomo-patologica comportante la perdita di una normale attività sessuale, nel bambino, costituisce lesione di un bene futuro: analogamente a quanto accade, ad esempio, nel caso di lesione della capacità (futura) di produrre reddito, nel minore ancora non in età da lavoro.

In questi casi, pertanto, la lesione (certa) di un bene futuro non esclude la risarcibilità del danno.

Discorso analogo va fatto per l’anziano. Anche in questo caso, infatti, deve ritenersi che l’attività sessuale, pur scemata, non sia del tutto perduta. Pertanto dell’avanzata età del leso dovrà certamente tenersi conto nella personalizzazione del risarcimento, ma essa non varrà ad escluderlo del tutto.

Ancora, il risarcimento del danno per lesione della vita sessuale non può essere escluso per il fatto che il leso abbia deciso di rinunciare ad ogni attività sessuale (come nell’esempio del religioso), ovvero abbia una vita sessuale “anomala”, sulla quale non incide direttamente la lesione fisica subìta. Costituisce danno alla vita sessuale, infatti, anche la lesione della capacità, ovvero della potenzialità sessuale. Così come la lesione della capacità di produrre reddito (che è danno patrimoniale) va risarcita anche nel pigro o nell’infingardo (Fallani, Accertamento della incapacità lavorativa specifica, in Il danno alla persona: tutela civilistica e previdenziale a confronto, Atti del convegno tenuto a Firenze, 17-19 ottobre 1996, Scuola di Sanità Militare,

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Firenze, 1998, 116; Rossetti, Conseguenze del danno alla salute sull’attività di lavoro, in Ass, 1998, I, 309), allo stesso modo la lesione della vita sessuale va risarcita anche nella persona che, per sua scelta, abbia fatto voto di castità.

Il problema sussiste, invece, per l’individuo affetto da impotentia coeundi. Una lesione fisica agli organi sessuali, in questo individuo, pur producendo una lesione anatomo-patologica, non produrrà alcuna disfunzione esistenziale, così come non peggiora la qualità della vita una ecchimosi ad un arto paralizzato. In quest’ultimo caso, pertanto, appare difficilmente sostenibile l’esistenza d’una perdita della qualità della vita e, di conseguenza, d’un danno risarcibile.

3.3. Lesione od interruzione della vita sessuale, non accompagnata da una disfunzione anatomo-patologica degli organi sessuali (danno alla vita sessuale del partner).

Un’ipotesi particolare di danno alla vita sessuale, in senso ampio, è quella in cui, a causa delle lesioni personali subìte dal proprio partner in conseguenza dell’atto illecito del terzo, il coniuge (ma anche il convivente more uxorio) veda soppresso il proprio diritto ai rapporti sessuali.

È stato affermato, anche da qualche giudice di merito, che questo tipo di danno costituisca un danno biologico. Questa affermazione, tuttavia, non può essere condivisa.

Senza dubbio è vero che la perdita della possibilità di avere rapporti sessuali col proprio coniuge, a causa delle lesioni subìte da quest’ultimo, costituisca un danno ingiusto in senso tecnico. Tuttavia, come si è visto in precedenza, perché sussista un danno biologico risarcibile non è sufficiente dimostrare una modificazione peggiorativa della qualità della vita. È necessario che questa modificazione peggiorativa sia conseguenza di una lesione corpori illata, cioè di una lesione che abbia causato una malattia in senso medico legale o del corpo, o della mente.

Nel caso in cui un individuo perda la possibilità di avere rapporti sessuali col coniuge a causa non di una lesione propria, ma di una lesione subìta dal coniuge, questo individuo non ha subìto alcuna patologica lesione psichica o fisica. Può darsi, ovviamente, che la mutata condizione di vita generi una forma di ansia da stress, od un’altra malattia psichica, ma in questo caso il danno risarcibile quale danno biologico sarà il danno psichico, non certo il danno alla vita sessuale.

Come già detto, è sicuramente vero che il danno subìto dal coniuge, per procurata impossibilità di avere rapporti sessuali col partner a causa delle lesioni subìte da quest’ultimo, vada risarcito, ma può invece dubitarsi che vada risarcito a titolo di danno biologico.

Questa, del resto, fu la soluzione adottata dalla Corte di cassazione nel primo caso in cui fu chiamata a decidere sulla risarcibilità di questo tipo di danno (Cass. 6607/86): il risarcimento venne ammesso per la lesione di un diritto personalissimo, cioè lo ius in corpus nascente dal matrimonio, ma nella motivazione non si parlava di risarcimento del danno biologico.

È estremamente interessante analizzare questa motivazione, sia per la correttezza della soluzione adottata, sia per la perfetta coerenza logica dell’argomentare.

Nella motivazione della sentenza n. 6607/86, in primo luogo, la Corte si preoccupò di qualificare il diritto ai rapporti sessuali col coniuge, qualificandolo come diritto fondamentale della persona ex art. 2 cost.:

“La famiglia è riconosciuta, dal 1° comma dell'art. 29 Cost., come «società naturale fondata sul matrimonio» (...) E quale «società naturale», come definita dalla citata norma costituzionale, è una «formazione sociale», nella quale, a norma dell'art. 2 Cost., si esplica (...) la personalità di ciascuno dei coniugi, estrinsecandosi in «diritti inviolabili», costituzionalmente riconosciuti e garantiti non soltanto nei rapporti fra i coniugi, ma anche di fronte ai terzi (...) tenuti a rispettare la «formazione sociale» familiare e a non pregiudicare, con i loro atti lesivi, i «diritti inviolabili» di ciascuno dei coniugi che la strutturano.

Essenza del matrimonio è la «comunione materiale e spirituale tra i coniugi» (...).

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La «comunione materiale» tra i coniugi comprende in sé la reciproca attività sessuale che ciascuno dei coniugi può esercitare e deve consentire all'altro coniuge di esercitare (...).

È, questo, un diritto (oltre che un dovere) reciproco: il diritto di un coniuge ai rapporti sessuali coesiste ed è strettamente e necessariamente collegato con l'uguale diritto dell'altro coniuge. I due diritti reciproci, dell'uno e dell'altro coniuge, coesistono parallelamente, condizionati l'uno all'altro. Se sopravviene in un coniuge l'impossibilità di rapporti sessuali, si fa venir meno il relativo suo diritto, viene a cessare, per impossibilità di esercizio, il reciproco diritto, di uguale contenuto, dell'altro coniuge.

Ed allora (...) il fatto del terzo che lede, sopprimendolo, il diritto di uno dei coniugi, cagionando a questi l'impossibilità del rapporto sessuale, è anche lesivo, contemporaneamente e direttamente, dell'uguale reciproco diritto dell'altro coniuge, necessariamente sopprimendolo”

(Cass. 11.11.1986 n. 6607, FI 1987, I, 833).

Chiarito dunque come lo ius in corpus costituisce un diritto costituzionalmente protetto, la Corte è passata ad esaminare

“se la lesione di quel diritto (...) comporti un danno risarcibile e come vada qualificato tale danno (...).

Per la soluzione del problema, deve tenersi conto del risultato cui sono pervenute la giurisprudenza della Corte costituzionale e la giurisprudenza di questa Corte di cassazione circa la risarcibilità, e la natura, del cosiddetto «danno biologico», quale evento lesivo, per il fatto doloso o colposo di un terzo, del diritto dell'individuo alla salute, riconosciuto e tutelato dall'art. 32, 1° comma, Cost.: perché al diritto dell'individuo alla salute deve essere equiparato, come si vedrà, quanto al tipo di tutela accordata dall'ordinamento giuridico, il diritto reciproco in esame di ciascun coniuge che sia leso, sopprimendolo, dal fatto colposo o doloso del terzo produttivo nell'altro coniuge dell'impossibilità di avere rapporti sessuali” (Cass. 11.11.1986 n.

6607, FI 1987, I, 833).

Ecco la chiave di volta di tutta la motivazione: la Corte non afferma affatto che la lesione dello ius in corpus costituisce danno biologico. Afferma, invece, che così come la lesione della salute è risarcibile ex artt. 32 cost. e 2043 c.c., allo stesso modo la lesione dello ius in corpus è risarcibile ex art. 2 cost. e 2043 c.c..

“L'elaborazione svolta ha condotto ad un risultato acquisito nella giurisprudenza della Corte costituzionale e nella giurisprudenza di questa Corte di cassazione: tutela del diritto alla salute, costituzionalmente riconosciuto e garantito, quale diritto dell'uomo alla sua integrità fisio- psichica, nell'aspetto della menomazione di tale integrità, risarcibile come danno biologico, nel quale consiste la riparazione della menomazione arrecata a quel diritto, per il solo fatto dell'esistenza della menomazione stessa causata dal comportamento altrui doloso o colposo, indipendentemente dall'esistenza di un danno patrimoniale e/o di un danno morale subiettivo (...). Il diritto alla salute, all'integrità fisio-psichica, è, dunque, diritto della persona, nel suo essere e nella sua estrinsecazione (...).

Anche il diritto reciproco di ciascun coniuge ai rapporti sessuali con l'altro coniuge è (...) diritto inerente alla persona: è un diritto riguardante, ed avente per contenuto, un modo di essere, un aspetto dello svolgimento della persona di ciascun coniuge nell'ambito della famiglia, società naturale fondata sul matrimonio (...). Come tale, in quanto diritto della persona, in un aspetto del suo essere e svolgersi nella famiglia, va equiparato al diritto alla salute, quale diritto della persona all'integrità fisio-psichica. E come tale diritto, ove sia leso dal fatto doloso o colposo di

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un terzo, che, causando all'altro coniuge l'impossibilità dei rapporti sessuali, lo abbia soppresso, è, allo stesso modo, risarcibile: quale danno che non è né patrimoniale né non patrimoniale, bensì menomazione del modo di essere e di svolgimento della persona, in quell'aspetto, di per sé, ed in quel modo riparabile.

Deve essere, quindi, enunciato il seguente principio di diritto: «Il comportamento doloso o colposo del terzo che cagiona ad una persona coniugata l'impossibilità dei rapporti sessuali è immediatamente e direttamente lesivo, sopprimendolo, del diritto dell'altro coniuge a tali rapporti, quale diritto-dovere reciproco, inerente alla persona, strutturante, insieme agli altri diritti-doveri reciproci, il rapporto di coniugio. La soppressione del diritto, menomando la persona del coniuge, nel suo modo di essere e nel suo svolgimento nella famiglia, è di per sé risarcibile, quale modo di riparazione della lesione di quel diritto della persona, qualificabile come danno che non è né patrimoniale (art. 2056 c.c., in relazione all'art. 1223 dello stesso codice) né non patrimoniale (art. 2059 c.c., in relazione all'art. 185 c.p.), comunque rientrante nella previsione dell'art. 2043 c.c.»” (Cass. 11.11.1986 n. 6607, FI 1987, I, 833).

In questa importante sentenza, la quale costituisce la prima sul danno per lesione del “debito coniugale”, la Corte dunque aveva articolato il seguente sillogismo:

a) il danno biologico, lesione del modo di essere della persona, è risarcibile ex art. 2043 c.c.;

b) anche la lesione dello ius in corpus del coniuge costituisce lesione del modo di essere della persona, in quanto il coniuge viene privato di un diritto derivante dal combinato disposto degli artt. 2 e 29 Cost.;

c) ergo, così come la violazione del diritto alla salute è risarcibile ex art. 2043 c.c., in quanto danno ingiusto, analogamente anche la lesione dello ius in corpus deve essere risarcita ex art. 2043 c.c., in quanto anch’essa costituisce un danno ingiusto.

Il principio affermato da Cass. 6607/86 venne successivamente condiviso da Cass. 4671/96, la quale ha confermato la decisione di merito, che aveva stabilito la risarcibilità del:

“danno scaturente dall' impossibilità di rapporti sessuali, inquadrato nella generale previsione dell'art. 2043 c.c. quale modo di riparazione della lesione del diritto del coniuge a tali rapporti”

(Cass. 21-05-1996, n. 4671, RGCT 1996, 927; si veda pure Cass. 17-09-1996, n. 8305, MFI 1996, la quale - pur non statuendo sull’esistenza del diritto al risarcimento nel caso concreto - ha ritenuto il coniuge legittimato attivamente ad agire nei confronti del terzo per ottenere il risarcimento del danno da lesione dello ius in corpus).

I princìpi elaborati dalla suprema corte, frettolosamente condensati in alcune massime che non rendono giustizia all’iter argomentativo dell’intera sentenza, sono stati talora interpretati nel senso che la perduta possibilità di avere rapporti col proprio partner, a causa delle lesioni subìte da quest’ultimo, costituiscano una ipotesi di danno biologico.

In realtà, come si è appena visto, la Corte ha affermato cosa ben diversa. La perdita del ius in corpus costituisce, sì, danno risarcibile, ma non è un danno biologico: la sua risarcibilità si fonda non sul combinato disposto degli artt. 32 cost. e 2043 c.c., ma sul combinato disposto degli artt.

29 e 2043 c.c.. Ne consegue che tale danno non può essere risarcito con i medesimi criteri adottati per la aestimatio del danno alla salute, e soprattutto non è suscettibile di una valutazione in termini percentuali. Esso, pertanto, dovrà essere risarcito in via eminentemente equitativa.

4. Il danno da procurata incapacità di procreare del coniuge ed il danno da procurato aborto.

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La Corte di legittimità è stata chiamata a decidere della sussistenza o meno di un diritto al risarcimento del danno biologico in capo al marito, in un caso in cui l’atto illecito del terzo aveva causato alla moglie lesioni personali le quali le avevano precluso la capacità di procreare.

Anche in questo caso la Corte, fermo restando la risarcibilità del danno biologico subìto dalla donna, ha escluso l’esistenza d’un danno biologico anche in capo al marito. La Corte tuttavia, per escludere l’esistenza di tale tipo di danno, non si è basata sulla inesistenza d’una lesione in corpore per il marito, ma sulla inesistenza per questo di un diritto in senso tecnico alla procreazione. La corte ha infatti osservato che:

“Nessun diritto al risarcimento del danno, morale o biologico, è configurabile in capo al marito ed al figlio minore di una donna che, a seguito di un intervento di interruzione volontaria di gravidanza, abbia subìto lesioni personali cagionanti la perdita della capacità di procreare.

Non è, difatti, legittimamente predicabile la esistenza, nella specie, di un danno biologico in capo ai predetti soggetti, atteso che la legge (costituzionale e/o ordinaria) riconosce loro, sotto il profilo dell'accrescimento del nucleo familiare, non un diritto soggettivo ma, al più, un interesse di mero fatto (prevedendo l'art. 5 della legge 194/78, sottoposto anche al vaglio positivo della Corte Costituzionale in punto di conformità ai principi della Carta fondamentale, anche in caso di donna legittimamente coniugata, l'audizione del marito come mera eventualità, ed escludendo, comunque, ed in ogni caso, qualsiasi rilevanza della di lui volontà in ordine alla decisione della moglie di interrompere la gravidanza), così che non "ingiusto", per il marito (e, a maggior ragione, per il figlio), si appalesa l'atto illecito "de quo" consumato nei confronti della donna” (Cass. 11.2.1998 n. 1421, inedita).

Del pari, nell’unico precedente sinora edito, è stato escluso che l’interruzione forzosa della gravidanza, causata dall’atto illecito del terzo, possa costituire per la madre un danno biologico.

Il caso, deciso dal Tribunale di Roma, fu quello di una donna che, rimasta coinvolta in un sinistro stradale, in conseguenza dell’urto ricevuto aveva subìto un aborto interno all’undicesima settimana di gravidanza. Il tribunale in quel caso osservò che:

“In assenza di complicazioni o patologie sopravvenute, l’interruzione forzosa della gravidanza non costituisce danno cosiddetto biologico, in quanto non incide in modo permanente sulla validità complessiva della madre.

Essa tuttavia integra gli estremi del reato di cui all’art. 17 l. 22.5.1978 n. 194. Tale fattispecie criminosa non è stata depenalizzata dall’art. 92 l. 24.11.1981 n. 689 (...), con la conseguenza che [l’attrice] ha altresì diritto al risarcimento del danno morale sofferto sia in conseguenza delle lesioni alla propria persona, sia in conseguenza dell’aborto” (Trib. Roma 24.1.1995, RGCT 1995, 543. Per completezza, va detto che nel caso di specie il danno morale per la perdita del feto venne liquidato nella somma di £ 30.000.000, in considerazione della giovane età della madre e del fatto che non era stata compromessa la capacità procreativa di quest’ultima).

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