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“Danno alla vita di relazione e alla vita sessuale”

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Academic year: 2022

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“Danno alla vita di relazione e alla vita sessuale”

Dr. Enzo Vincenti*

1. - Nell’ambito dell’indagine generale conoscitiva, le esigenze classificatorie evocano, in linea di principio, un presupposto sforzo diretto ad enucleare, individualizzare e, in definitiva, isolare quegli epifenomeni, i quali si ritiene possano assumere autonomo rilievo rispetto alla realtà circostante, che, solo apparentemente, si presenta omogenea od uniforme.

Un modus operandi questo che, quale tipica espressione della metodologia scientifica, trova peculiare emersione anche nel campo dello studio dei rapporti sociali eteroregolati e che, pertanto, è comunemente praticato nella scienza giuridica.

Di qui il dubbio, possibile prima facie, anche in considerazione della voluta specificazione definitoria, che il tema avente come oggetto “il danno alla vita di relazione ed alla sfera sessuale”

possa riproporre quel percorso esegetico volto ad estrapolare categorie concettuali assumenti una propria individualità, quale derivazione da posizioni giuridiche soggettive attive anch’esse dotate di autonomia.

Dubbio che, invero, merita una certa attenzione, tanto da indurre una rimeditazione non tanto sulla validità del faticoso approccio ad un concetto unitario di danno alla salute (risultato, questo, da tenere ben saldo), ma, segnatamente, sui confini entro i quali detto concetto esplica, o meglio, dovrebbe esplicare, la propria efficacia.

A tal fine, risulta opportuno soffermarsi brevemente sulla, sia pur nota, genesi dell'attuale accezione di danno alla salute per verificare, attraverso i postulati che ne cementano la struttura, se effettivamente possa individuarsi, ed eventualmente in che termini, una sfera di autonomia per quelle

“voci” che vanno sotto la comune indicazione di “danno alla vita di relazione” e “danno alla vita sessuale” o se, addirittura, non possa ritenersi, per taluna, attingibile un distinto ambito categoriale.

2. - In estrema sintesi, questi i passaggi fondamentali, ormai noti, che hanno visto sorgere la moderna nozione di danno alla salute.

L’input si ebbe da una “storica” sentenza del tribunale di Genova (Trib. Genova 25.5.1974, in GI, 1975, I, 2, 54; nonché in RCP, 1975, 416, ed in RGCT, 1975, 78), con la quale fu sottoposto a serrata critica il sistema tradizionale di concezione e liquidazione del danno alla salute, osservando che il danno alla salute era un danno:

a) ingiusto, perché confliggente col disposto dell’art. 32 Cost.;

b) risarcibile, in quanto tutti i danni ingiusti erano risarcibili ex art. 2043 c.c.;

c) sottratto alla limitazione di cui all’art. 2059 c.c., in quanto tale limitazione concerneva soltanto i danni morali.

Questo tipo di danno veniva espressamente definito “extrapatrimoniale”, per distinguerlo sia dal danno morale in senso stretto (disciplinato dall’art. 2059 c.c.), sia dal danno patrimoniale. Come quest’ultimo, tuttavia, il danno alla salute trovava fondamento e tutela nel disposto dell’art. 2043 c.c..

Già 23 anni fa, emergevano alcuni fondamentali capisaldi nella concezione e nella liquidazione del danno alla salute, i quali costituiscono ancora il diritto quo utimur, e cioè:

a) la base monetaria per la liquidazione del danno deve essere uguale per tutti;

* Magistrato distaccato presso la Corte Costituzionale, Roma.

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b) il danno risarcibile non è rappresentato da ogni menomazione, ma solo da quella che si ripercuote negativamente sul complessivo benessere fisiopsichico dell’individuo;

c) in presenza di una lesione della salute, mentre è sempre presente il danno biologico, il danno patrimoniale da contrazione o soppressione del reddito è solo eventuale: va dimostrato, e non si sostituisce, ma si cumula al danno biologico.

Seguì, poi, la sentenza n. 184 del 1986 della Corte costituzionale, considerata all’umanità una

“pietra miliare” nella faticosa maieutica della nozione di danno alla salute, in quanto, sostanzialmente confermato l’impianto teorico sviluppato dal tribunale di Genova, venne per la prima volta pienamente ammessa l’autonoma risarcibilità del danno alla salute.

Lo schema di ragionamento utilizzato dal Giudice delle leggi può così sintetizzarsi:

a) l’art. 2059 c.c. concerne solo le mere lesioni dell’affetto;

b) il danno biologico non è una mera lesione dell’affetto: ergo, il danno biologico non rientra nella limitazione risarcitoria di cui all’art. 2059 c.c.;

c) il danno biologico è invece risarcibile in base al combinato disposto degli artt. 32 cost. e 2043 c.c.

Da qui, tralasciando i ben noti passaggi logici della motivazione adottata dalla Corte costituzionale, il seguente sillogismo:

- l’art. 2043 c.c. sanziona, con l’obbligo del risarcimento, la causazione di un danno ingiusto;

- l’art. 2043 c.c. non chiarisce però quando un danno sia “ingiusto”. Il requisito dell’ingiustizia va perciò individuato con riferimento ad altre norme dell’ordinamento;

- l’art. 32 Cost. riconosce, con efficacia anche nei rapporti interprivati, l'unico diritto fondamentale dell’individuo, quello alla salute;

- ergo, è senz’altro ingiusto il danno consistente nella lesione del fondamentale diritto alla salute.

Da tale impostazione derivava che, secondo la Consulta, il danno biologico, quale danno-evento, esiste solo che sia provata una menomazione biopsichica; il risarcimento è in denaro, risarcimento che prescinde del tutto da qualsiasi contrazione del reddito del danneggiato, contrazione che, ove esistente, deve essere risarcita a parte ed in aggiunta al danno biologico.

Con la successiva sentenza n. 372 del 1994, la Corte costituzionale è tornata su alcuni snodi essenziali della pronuncia del 1986, ribaltandone l’impianto teorico sul quale veniva a fondarsi e, segnatamente, toccando il principio per cui la lesione della salute, da sola, costituisce un’ipotesi di danno risarcibile, essendo sufficiente la prova dell’esistenza della lesione per avere diritto al risarcimento.

Con la sentenza del 1994, invece, la prospettiva - salvis sententiae verbis - muta completamente, distinguendosi tra “esistenza del danno” ed “entità del danno”. L’esistenza della lesione è prova da sola dell’esistenza del danno, e solo in questo senso il danno biologico può ritenersi “presunto”: nel senso che, provata l’esistenza della lesione, è automaticamente provata anche l’esistenza del danno.

Tuttavia provata l’esistenza della lesione in corpore, non sorge per ciò solo il diritto al risarcimento: è necessaria la prova ulteriore dell’entità del danno: la prova, cioè, che a causa della lesione ed in conseguenza di essa il soggetto danneggiato ha subìto la “diminuzione o privazione di un valore personale non patrimoniale”.

E’ evidente che tale sentenza pone in crisi la nozione del danno biologico come danno-evento;

infatti anche ammettendo che il danno-biologico sia un danno-evento, la sua risarcibilità non scaturirebbe ipso facto dalla dimostrata esistenza di lesioni alla persona, ma sorgerebbe soltanto dall'ulteriore prova che le lesioni hanno causato la riduzione di un “valore personale dell’individuo”, cioè dalla prova di un danno-conseguenza.

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3. - Così ricostruita la vicenda giurisprudenziale del danno alla salute, è necessario, ora, un cenno alla nozione di salute, quale può evincersi dalle fonti, nazionali e sovranazionali, che si sono interessate alla materia.

Tra quest’ultime fonti sovranazionali è dato rinvenire una pletora di pertinenti dati normativi, i quali possono così riassumersi:

1) art. 25 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata e proclamata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10.12.1948;

2) art. 12 del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, adottato ed aperto alla firma a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo dall’Italia con la l.

25.10.1977, n. 881;

3) art. 24 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva dall’Italia con la l. 27.5.1991 n. 176;

4) art. 1 dello statuto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, sottoscritto a New York il 22.7.1946, recepito nel nostro ordinamento col d. l.vo C.p.S. 4.3.1947 n. 1068.

Indicativamente, per quanto concerne le fonti nazionali di rango costituzionale e di legge ordinaria, si rileva, innanzitutto, l’art. 32 Cost. e lo stesso art. 2 Cost.. Va inoltre ricordato che i contenuti definitori del menzionato art. 32 sono stati ripresi dalla legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (legge 23 dicembre 1978 n. 833; in particolare, art. 1).

Quindi, la nozione di salute desumibile dalle fonti citate, e che la dottrina costituzionalista utilizza per giungere ad una considerazione del relativo diritto come “diritto sociale”, risulta propensiva a mettere in luce, secondo una evidente prospettiva funzionale, più che l’aspetto dell’“integrità psicofisica”, quello di “capacità vitale” e, quindi, dell’attitudine alla socialità.

4. - La giurisprudenza, a sua volta, ha raggiunto ormai una appagante uniformità in ordine alla definizione di “danno alla salute”, definizione che, in modo sintetico, sottende tutti gli snodi ed i passaggi teorici sinora esaminati.

In particolare, la Suprema Corte ha affermato che:

“per danno biologico deve intendersi la menomazione dell'integrità psico-fisica in sé considerata, in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua concreta dimensione, che non si esaurisce nella sola attitudine di produrre ricchezza, ma si ricollega alla somma delle funzioni naturali afferenti al soggetto nell’ambiente in cui la vita si esplica, e si estende quindi a tutti gli effetti negativi incidenti sul bene primario della salute, quale diritto inviolabile alla pienezza della vita ed all’esplicazione della propria personalità morale, intellettuale, culturale” (Cass. 9.12.1994 n. 10539, MFI 1994. Nello stesso senso si vedano anche Cass. 10.3.1992 n. 2840, FI, 1993, I, 1960, e Cass. 9.5.1991, n. 5161, MFI, 1991).

In ogni caso, tutte le definizioni adottate dai giudici di legittimità, ed anche di merito, presentano evidenti tratti comuni: in tutte si fa riferimento all'indipendenza reciproca che esiste tra danno biologico e danno patrimoniale; in tutte si sottolinea la necessità di valutare il danno biologico tenendo conto delle sue ripercussioni in ogni aspetto della vita dell’individuo; in quasi tutte si accenna alla necessità di misurare il danno biologico attraverso il quantum di esistenzialità perduta, cioè attraverso la somma di funzioni vitali che, in conseguenza del danno, sono restate irrimediabilmente precluse al soggetto danneggiato.

5. – E’ possibile, a questo punto, delineare più nettamente i caratteri che segnano la nozione ed il concetto stesso di “danno alla salute”, ovvero di “danno biologico”, secondo la sinonimia lessicale comune nel linguaggio degli operatori giuridici, anche se, è bene ribadire che trattasi, in ogni caso, di

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confusione terminologica, seppure tollerabile, ove si tenga ben presente la diversità di ambiti delle rispettive nozioni:

a) quella “naturalistica” che sottende al “danno biologico”, come fatto oggettivamente descrivibile e percepibile, che designa la lesione oggettiva della sanità mentale o corporea;

b) quella “giuridica” che concerne il “danno alla salute” che implica, quindi, un giudizio valutativo rispetto ad una situazione giuridica soggettiva attiva, costituzionalmente garantita.

5.1. - La natura funzionale.

Il danno alla salute ha di necessità natura funzionale: esso va cioè identificato non con riferimento

"all’in sé” della lesione, ma con riferimento al numero di attività e di potenzialità, che il danneggiato ha perduto a causa dell’evento dannoso.

Perché infatti un soggetto possa affermare di aver subìto danni permanenti da una lesione, è necessario che, dopo il sinistro ed una guarigione avvenuta, abbia perduto delle parti anatomiche;

ovvero delle funzioni vitali.

Ovviamente, perdite anatomiche (immediatamente percepibili) e perdite funzionali (dove può sorgere qualche problema di accertamento e di valutazione) possono talora, e di norma, coesistere: la perdita di un arto inferiore, ad esempio, comporta di necessità la perdita della funzione deambulatoria.

Sotto il profilo strutturale, la lesione della salute non dovrebbe dar luogo a valutazioni di sorta, posto che tale lesione, nella sua struttura, è una disfunzione anatomo-patologica rispetto alla stato anteriore, nella sua struttura non può che essere descritta.

È invece soltanto sotto il profilo funzionale che la valutazione in concreto della disfunzione anatomo-patologica può dar luogo ad una valutazione di compromissione della qualità della vita dell’individuo.

Si consideri che a danni astrattamente rilevanti possono conseguire perdite funzionali minime, ed inversamente che a lievi danni possono conseguire devastanti perdite funzionali.

Pertanto:

a) la “salute” di cui all’art. 32 cost. non è uno status, ma un’attitudine, una potenzialità, una capacità;

b) sotto il profilo strutturale la lesione della salute si può descrivere ma non valutare;

c) per valutare una lesione della salute occorre far riferimento concreto al soggetto che l’ha subìta;

d) la lesione della salute si valuta con riferimento alle funzioni che il soggetto colpito perde in conseguenza della lesione subita: si valuta, cioè, sotto il profilo funzionale.

Dunque intanto può ritenersi esistente una lesione della salute risarcibile, in quanto esiste una compromissione della capacità esistenziale dell’individuo. E così come una lesione modesta, sotto il profilo strutturale, può dar luogo a valutazioni rilevanti sotto il profilo funzionale e viceversa, così ad una lieve compromissione della salute può conseguire una grave perdita della capacità esistenziale, e viceversa.

Non vi è, quindi, corrispondenza biunivoca tra lesione della salute e perdita di capacità esistenziale, cioè tra lesione della salute e danno.

5.2. - La necessaria sussistenza della lesione “in corpore”.

Molti, purtroppo, possono essere gli eventi suscettibili per gettare l’uomo in uno stato di prostrazione, impedendogli ogni progettualità e capacità esistenziale: insuccessi scolastici o lavorativi, perdite patrimoniali, delusioni amorose.

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Tuttavia la perdita della capacità esistenziale risarcibile a titolo di danno biologico, è soltanto quella causata da una lesione in senso ampio: cioè una disfunzione anatomopatologica di origine traumatica, che interessi tanto il corpo, quanto la psiche dell’individuo.

In altri termini, presupposto per l’esistenza stessa, e quindi per la risarcibilità del danno biologico, è l’accertata esistenza di una patologia, permanente o transeunte, della quale soffra od abbia sofferto il corpo o la psiche.

Il danno biologico è dunque soltanto quello corpore corpori illatum, naturalmente comprendendo nel concetto di corpus anche la salute mentale.

La necessità che, per procedere al risarcimento del danno biologico, il danneggiato abbia subìto una effettiva lesione del corpo o della mente è stata, del resto, più volte ribadita dalla stessa Suprema Corte.

In un caso in cui l’attore lamentava la lesione della propria salute a causa delle immissioni sonore fastidiose provenienti da un fondo vicino, il giudice di merito aveva rigettato la domanda risarcitoria a causa della indimostrata esistenza d’una lesione fisica o psichica. La sentenza era stata impugnata con ricorso per cassazione, adducendosi che il giudice di merito, una volta accertato che le immissioni sonore superavano la soglia di tollerabilità, avrebbe dovuto presumere l’esistenza della lesione e quindi del danno biologico.

La Corte in quel caso rigettò il ricorso, osservando che:

“Le argomentazioni svolte dai ricorrenti ... si nutrono dall’erronea convinzione che la giurisprudenza abbia costruito tale categoria di danno (biologico) sull’equazione: fattore potenzialmente idoneo a ledere la salute = danno alla salute (danno biologico). In realtà la giurisprudenza, e la stessa Corte costituzionale nella nota sent. n. 184-1986 (...) per nulla hanno intaccato il principio generale per cui l’esistenza di danno risarcibile non può non coincidere con l’esistenza della lesione (del diritto) della salute, così come accade per la lesione di ogni altro diritto (...). Se non c’è lesione della salute non c’è danno (biologico) risarcibile; se c’è lesione della salute il danno (biologico) si presume: l’offeso non ha l’onere di provare in concreto la menomazione della sua integrità psico-fisica, cioè un effettivo impedimento alle “manifestazioni o attività extralavorative non retributive, ordinarie, che, accanto alle attività lavorative retribuite, esprimono, realizzandole, la salute in senso fisico-psichico” (Cass. 6.5.88 n. 3367, in MFI, 1988; esattamente nello stesso senso si vedano anche Cass. 13.8.91 n. 8835, 740, e Cass. 18.4.1996 n. 3686, RGL, 1996, II, 33).

5.3. - La natura a-reddituale.

Si è visto come il danno alla salute sia sempre sussistente, solo se sia accertata una concreta riduzione delle funzioni vitali del danneggiato, cioè una perdita del suo “valore umano” (in questi termini si esprime costantemente la Suprema Corte), a prescindere ed al di fuori di ogni e qualsivoglia compromissione del reddito o perdita patrimoniale del danneggiato, che comunque, ove esistenti e dimostrate, dovranno ugualmente essere risarcite, ma in ogni caso senza che sussista alcuna interferenza tra risarcimento del danno patrimoniale e risarcimento del danno alla salute, il quale andrà liquidato anche quando riguardi chi non abbia ancora, o abbia perduta, o non abbia mai avuto, attitudine a svolgere attività produttiva di reddito (Cass. 21.3.86 n. 2012, in Riv. infortuni, 1986, II, 186).

Il risarcimento del danno biologico, in altri termini, spetta a tutti, percettori o produttori di reddito o meno (Cass. 18-04-1996, n. 3686, RGL 1996, II, 33).

Questo iato assoluto tra danno patrimoniale e danno biologico fa sì che quest’ultimo si configuri come “danno areddituale”, cioè un danno che prescinde del tutto da ogni considerazione sul reddito del danneggiato.

5.4. - La natura omnicomprensiva.

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Il danno alla salute è un danno omnicomprensivo: un danno, cioè, nella cui liquidazione occorre tenere conto di tutti gli aspetti della vita concreta dell’individuo che vengono alterati o soppressi in conseguenza alle lesioni causate dall’altrui illecito (Cass. 14.3.95, n. 2932, MFI 1995; Cass. 18.4.96 n. 3686, RGL 1996, II, 33; Cass. 19.4.96, n. 3727, MFI 1996; Cass., 11.6.97, n. 5251, MFI 1997).

Questo concetto è largamente recepito dalla giurisprudenza di merito, nella quale è molto frequente l’affermazione secondo cui:

“la compromissione della capacità di relazionarsi agli altri, dell’integrità fisiognomica, della capacità di procreare, costituiscono altrettanti aspetti del cosiddetto danno biologico, inteso quale violazione del diritto alla salute ex art. 32 Cost. e quindi modificazione peggiorativa dello “stato”

somato-psichico ed esistenziale del soggetto antecedente il sinistro, comprensivo di tutte le funzioni vitali: culturali, sessuali ricreative, estetiche, volte all’esplicazione della personalità umana negli ambienti sociali in cui l’individuo opera, indipendentemente da un effettivo pregiudizio alla capacità di guadagno” (Trib. Roma 18.3.1997, Bernardini c. Sai, inedita nella parte qui riprodotta; edita, con riferimento ad altra parte della motivazione, in RGCT 1997, 860).

La proclamata risarcibilità del danno alla salute come danno omnicomprensivo ha reso del tutto inutili le varie categorie di danni create dalla giurisprudenza, allorché la lesione della salute veniva risarcita solo attraverso la fictio juris della lesione del reddito (ipotizzandosi cioè che ad ogni limitazione percentuale della validità corrispondesse una uguale contrazione del reddito), e delle quali si è detto in precedenza.

Oggi pertanto costituirebbe una vera e propria duplicazione considerare e liquidare in via autonoma il “danno alla vita di relazione”, il “danno estetico”, il “danno alla vita sessuale”, e via dicendo (cfr. anche Cass. 27.6.90 n. 6536, AC 1990, 848).

6. – Quanto da ultimo illustrato circa la natura “omnicomprensiva” del danno alla salute, sembrerebbe poter dirimere ogni discussione sulla problematica, inizialmente accennata, assunta ad oggetto delle presenti riflessioni.

Non ci sarebbe spazio, dunque, per alcuna autonomia categoriale per il danno alla vita di relazione ed alla sfera sessuale, nei quali si verrebbe a compendiare solamente una esigenza di puro carattere definitorio, volta ad individuare le componenti o voci di un concetto unitario, la cui natura funzionale (sopra illustrata) ne rende utile l’enucleazione ai soli fini di una liquidazione aderente all’entità del pregiudizio subìto.

Ebbene, una siffatta conclusione sarebbe certamente appagante se l’analisi in materia si arrestasse ad una stringente considerazione dello specifico ambito in cui si muove il fenomeno in esame; ma, invero, dovendosi necessariamente tener conto della variegata realtà giurisprudenziale e dello stesso dibattito dottrinale, non sembra potersi confidare in un approdo così sicuro.

7. – Meno irto di difficoltà si presenta il percorso che tocca direttamente la problematica del danno alla vita di relazione, anche se la forza di talune risalenti e stratificatesi affermazioni riesce, di volta in volta, a segnare vie traverse, nelle quali è agevole, purtroppo, perdere l’orientamento.

Del resto, la categoria concettuale del danno alla vita di relazione ha costituito forse il tentativo giurisprudenziale più originale, tra quelli concepiti per ovviare alle incongruenze della teoria della risarcibilità della lesione della salute solo in caso di riduzione della capacità di lavoro, la quale ha tenuto il campo sino agli anni ‘70.

La formula, risalente addirittura agli anni ‘30 (Trib. Milano 24.2.31, RCP 1932, 172; Trib. Torino 11.12.34, in RFI, 1935, 472), ebbe largo successo, e con l’espressione “danno alla vita di relazione”, d’allora in poi, si cominciò a designare quel particolare tipo di danno che, causato da una lesione della salute, comportava per il danneggiato l’impossibilità di continuare a svolgere le attività extralavorative e ricreative cui era solito attendere prima del sinistro.

Quella di “danno alla vita di relazione” rimase tuttavia sempre una nozione dai confini e dalla natura incerti e nebulosi: talora inquadrato come danno patrimoniale (consistente nella perdita

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presunta di reddito futuro, in conseguenza dei ridotti contatti sociali e delle minori conoscenze).

Naturalmente, anche in questo caso ci si trova dinanzi ad un'autentica fictio juris, in quanto ben difficilmente può sostenersi che la preclusa possibilità di fare sport, andare a caccia, o partecipare a feste mondane possa ridurre i redditi o le rendite future del danneggiato.

In sintesi, il grande equivoco in cui si avvitava la giurisprudenza, prima di giungere alla moderna nozione di danno alla salute (secondo il percorso innanzi illustrato), era quello di sforzarsi di rinvenire ad ogni costo riflessi patrimoniali di un tipo di danno che, sovente, non ne aveva affatto.

In tal senso, rilevano ancora precedenti per i quali il danno alla vita di relazione, sebbene esso venga riconosciuto nell’impossibilità o difficoltà, derivante da menomazioni fisiche, di reinserirsi nei rapporti sociali ovvero di mantenerli ad un normale livello, integra una particolare ipotesi di danno patrimoniale, che viene a distinguersi, sia dal danno biologico, sia dall’invalidità permanente, tanto da richiedere, ai fini dell’accertamento della sua sussistenza, una valutazione “caso per caso, in concreto, potendo tale danno coincidere o meno col danno biologico a seconda dei casi e più specificamente dall’ampiezza e dalla qualità del danno” (si veda Cass. n. 2840 del 1992).

Affermazione, questa, che, si noti, nasce in un contesto temporale in cui l’elaborazione concettuale sul danno biologico poteva già reputarsi fornita di una certa solidità, e che, in ogni caso, costringe la stessa corte di legittimità ad esplicite ed imbarazzanti correzioni (si veda Cass. n. 3654 del 1996, in Giust. civ., 1996, I, p. 2949 e ss., di seguito riportata).

Una tale confusione di piani ed ambiti effettuali appare, invero, in via di totale superamento e lo sforzo chiarificatore si fa sempre più evidente, proprio al fine di fugare possibili ulteriori equivoci.

Quindi, è possibile oggi individuare nella configurazione del danno alla vita di relazione contorni netti ed intelligibili e ciò proprio tramite un'approfondita analisi del contenuto del danno biologico.

Contenuto che si vuole (Cass. n. 3654 del 1996, cit.) sotto il profilo:

1) “quantitativo”, più o meno ampio, secondo l'entità dell'evento lesivo dell'integrità fisica:

minimo evidentemente, in caso di modesta lesione, e, al contrario, massimo in casi di particolare gravità;

2) “qualitativo” diversificato, in rapporto alla zona del corpo interessata (danno agli organi della deambulazione, auditivi, visivi, all’apparato della riproduzione ... ) ed ancora;

3) circoscritto alla sfera del soggetto offeso, ovvero esteso alle relazioni di costui con terzi; e cioè, solo personale od anche interpersonale, laddove, nel secondo caso, la lesione della integrità fisica viene ad incidere direttamente nell’ambito dei rapporti sociali (sessuali, ricreativi, etc.) del soggetto.

Dunque, è proprio sotto quest’ultimo profilo che si giustifica la qualificazione di danno alla vita di relazione, come pregiudizio che tocca l’homo socialis, tipica connotazione che, di per sé, esprime ogni persona umana (in ambiti più o meno concretamente estesi), a prescindere da ogni vantaggio patrimoniale che dalla stessa “socialità” può trarsi.

Peraltro, può anche darsi che la stessa lesione dell’integrità psico-fisico venga ad integrare, contestualmente, un danno alla vita di relazione ed un danno patrimoniale, che attinga la propria fonte da quella sfera di socialità dell’individuo che, come accennato, sia foriera di guadagno (è il caso, di scuola, dell’attrice che, in un incidente, abbia riportato una deturpazione al volto che le impedisca, o le renda più difficoltosa, la continuazione della sua attività professionale): ma è evidente che, nel secondo caso, trattasi di un danno ben diverso, del tipico danno-conseguenza, che non può (né deve) essere confuso con quello biologico, di cui il danno alla vita di relazione è una componente certamente essenziale e pervasiva.

8. – Si è accennato a come all’ambito dei rapporti sociali appartenga anche, e necessariamente, il profilo della vita sessuale dell’individuo e si è visto che il danno biologico cosiddetto

“interpersonale”, e cioè il danno alla vita di relazione, comprenda anche detta particolare sfera.

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Ciò non significa, però, che la definizione di “danno alla sfera sessuale” si risolva automaticamente in una partizione dell’ampio contenuto della nozione di danno biologico e, semmai, in un particolare aspetto della componente che va sotto il nome di “danno alla vita di relazione”.

A tal fine sono necessarie alcune, doverose, puntualizzazioni, anche se, come vedremo, la materia è forse quella che pone maggiori interrogativi e che, nella sua malleabilità, può condurre a risultati non sempre coerenti e condivisibili.

Muoviamo con ordine.

9. – Sotto il profilo oggettivo, si evidenzia, anzitutto, la lesione che comporta la perdita o la diminuzione della attività degli organi sessuali, anche in una sola delle loro funzioni, che consistono:

a) nello sviluppo psicofisico dell’individuo a raggiungere la maturità sessuale ed il suo mantenimento;

b) nella riproduzione;

c) nel soddisfacimento della libido.

Peraltro, nella considerazione del mantenimento della piena funzionalità sessuale, l’incidenza ad essa pregiudizievole può anche ipotizzarsi derivante da lesioni anatomo-patologiche concernenti apparati od organi diversi da quelli summenzionati, così come quelle sul sistema neuropsichico, da cui dipende un equilibrato sviluppo dell’individuo in tutti i suoi aspetti.

Sotto un altro punto di vista, di carattere eminentemente valutativo, può rilevarsi, in primo luogo, che il sesso, caratterizzando la sfera emozionale e psichica dell’individuo, divenga componente essenziale della sua personalità; cosicché, nel momento in cui il sesso trascende i confini della fisicità del soggetto, venga a tradursi col termine di sessualità, al quale corrisponde un concetto che esprime la dinamicità propria della tensione psichico emozionale della persona e gli interessi ad essa collegati (cfr. Fortino, in Enc. dir., vol. XLII, Milano, 1990, p. 420 e ss.).

Pertanto, il sesso, incidendo sulla personalità individuale e diventando di quest’ultima corredo essenziale, comporta, di conseguenza, che la garanzia e la difesa dei valori insiti nella persona umana debbano necessariamente comprendere la garanzia e la difesa delle componenti sessuali della personalità; in tal senso, trattandosi di un diritto che si pone a garanzia di un valore collegato alla personalità umana, acquista il crisma di inviolabilità (così Fortino, op. cit., p. 422) ed attinge, quindi, ad un livello di tutela “costituzionale”.

E’ questo, d’altronde, il percorso indicato e seguito, più di recente, dallo stesso Giudice delle leggi, il quale, in riferimento alla libertà sessuale, ha avuto modo di affermare (in una sentenza sulla violenza carnale in occasione di fatti bellici: cfr. Corte Cost. n. 561 del 1987) che: “essendo la sessualità uno dei modi essenziali di espressione della persona umana, il diritto di disporne liberamente è un diritto soggettivo assoluto che va ricompreso nell’ambito dell’art. 2 della Costituzione”.

Comune impostazione si riconosce nel dibattito dottrinale, nel quale le uniche divergenze sono da apprezzarsi in funzione della individuazione del referente costituzionale che deve assumersi come fonte del diritto in questione, ponendo taluni in risalto la valenza dell’art. 2 Cost. (Barbera, Branca, Amato), altri quella dell’art. 32 Cost. (Busnelli, Breccia), altri ancora l’accento sull’art. 13 Cost.

(Baldassarre).

10. - Orbene, appare evidente che, a fronte di una lesione dell’integrità fisio-psichica dell’individuo che si traduce nella menomazione della funzionalità sessuale, la risarcibilità del correlato danno biologico, anche nella sua componente “interpersonale”, è principio del tutto scontato alla luce delle complessive argomentazioni già sviluppate; risarcibilità, pertanto, legittimata in base al combinato disposto di cui agli artt. 32 Cost. e 2043 cod. civ..

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Ma non è questo il campo in cui il danno alla vita sessuale induce a particolari riflessioni, anche se nella piana costruzione giuridica appena effettuata vi è un elemento, forse a torto sottovalutato, al quale si deve prestare specifica attenzione e che, come vedremo, risulterà utile nel prosieguo: la fonte materiale della risarcibilità del descritto danno biologico è, in ogni caso, una lesione dell’integrità fisio-psichica e cioè una lesione in corpore.

11. - Il vero caso problematico è quello del danno alla vita sessuale cosiddetto riflesso, ovvero patito dalla “vittima secondaria” dell’illecito; quello che, negli ordinamenti di common law, è detto loss of consortium.

E’ assai noto il caso considerato, per la prima volta, dalla Cassazione (Cass., 11 novembre 1986, n. 6007, in Giust. civ., 1987, I, 572) in cui una giovane donna, coniugata, aveva subìto la necrosi della vescica, per l'introduzione di un liquido di contrasto: di qui, l’asportazione dell'utero e l’applicazione di vescica artificiale.

Nei confronti del medico responsabile erano state, pertanto, richieste due distinte azioni di risarcimento danni: quella di natura contrattuale intentata dalla donna sulla quale si era intervenuti chirurgicamente; l’altra, di natura “aquiliana” da parte del marito della vittima, che aveva visto definitivamente interrompersi il menage coniugale.

In particolare, la cassazione riconosce la fondatezza della domanda avanzata in proprio dal marito, al quale, sebbene non leso direttamente dal primo danno evento (riguardante la moglie), viene accordata la tutela risarcitoria in ragione della ritenuta plurioffensività dell'evento stesso, quale estensivo di effetti sul terzo.

Vanno rammentati taluni fondamentali passaggi logico-giuridici che la corte di legittimità ha avuto modo di evidenziare in quell’occasione:

a) innanzitutto, il raccordo tra l'art. 2043 cod. civ. e l'art. 29 della Costituzione, che riconosce la famiglia come “società naturale” fondata sul matrimonio, onde l’incidenza del cosiddetto danno sessuale sulla regolare e armoniosa vita coniugale;

b) inoltre, l’aggancio del medesimo art. 2043 cod. civ. con l'art. 8, 1° comma della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, nella parte in cui afferma “il diritto di ognuno al rispetto della propria vita privata e familiare ”; Convenzione ritenuta diritto interno, fonte diretta, di rango superiore (poiché attiene a un diritto inviolabile);

c) infine, l’ulteriore raccordo tra l’art. 2043 cod. civ. e gli artt. 1 e 2 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, oggetto di un’esegesi “capovolta” e cioè tale da estrapolare dalla disciplina sullo scioglimento del matrimonio ciò che costituisce il fondamento stesso dell’istituto, da ravvisarsi nella comunione materiale e spirituale dei coniugi: comunione materiale che, trovando specificazione nei diritti-doveri reciproci di cui all’art. 143 cod. civ., comprende, avuto riguardo al diritto-dovere di coabitazione, la reciproca attività sessuale, che ciascuno dei coniugi può esercitare e deve consentire all’altro coniuge di esercitare.

La sentenza n. 6607 del 1986 è successiva a quella della Corte Costituzionale n. 184 del 1986, e di quest’ultima pronuncia viene mutuata esplicitamente la metodologia, ritenendosi che il danno patito dal marito nella propria sfera sessuale sia risarcibile, sub specie di danno “non patrimoniale”

anche se tutelabile in base all’art. 2043 cod. civ., in quanto lesivo del diritto al coniugio materiale e sessuale, diritto di natura personale ed inviolabile, che trova, come tale, diretta protezione costituzionale.

Nondimeno, in siffatta ricostruzione della fattispecie del danno alla vita sessuale, patito dalla vittima secondaria dell’illecito, è assente il diretto ed immediato riferimento anche all'art. 32 della Costituzione ed alla tutela della salute sotto il profilo del risarcimento del danno biologico; nella sentenza si afferma soltanto che il diritto di tutelarsi (e cioè quello di ciascun coniuge nei rapporti

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sessuali con l’altro coniuge), “in quanto diritto della persona, in un aspetto del suo essere e svolgersi nella famiglia, va equiparato al diritto alla salute, quale diritto all’integrità fisio-psichica”.

L’equiparazione indicata dalla cassazione sembrava, invero, porsi come argumentum a fortiori nell’ambito della complessiva analisi metodologica seguita in base agli insegnamenti della sentenza n.

184 del 1986 della Corte costituzionale.

Da subito, però, parte autorevole della dottrina (cfr. Alpa, Lesione del ius in corpus e danno biologico del <<creditore>>, in G. civ., 1987, I, p. 573 e ss.) sostiene, invece, che la sentenza,

“operando un compromesso tra le varie tesi, ritiene che il rapporto sessuale attenga alla vita di relazione, la vita di relazione rientri nel concetto di salute, e che pertanto il danno alla vita di relazione (di natura morale) possa essere liquidato come sub specie di danno biologico”.

Si apre così, in materia, il fronte di una “implicita” considerazione e rilevanza dell’art. 32 Cost. e con esso, conseguenzialmente, del concetto di danno biologico.

12. - Il tema generale della risarcibilità del “danno riflesso”, nel quale si muove la fattispecie particolare in esame, è stato ripreso dalla cassazione (Cass. n. 60 del 1991) in un caso in cui veniva dall’istante invocato il ristoro delle perdite patrimoniali da anticipato pensionamento, ricollegate all’asserito scopo di potersi più liberamente dedicare all’assistenza della moglie, vittima di sinistro stradale.

In tale occasione, la corte ebbe a ritenere ormai acquisito, sia dalla coscienza sociale, che dalla esperienza giurisprudenziale, “il dato della ammissibilità, sulla base del disposto dell’art. 1223 richiamato dall'art. 2056 cod. civ., del risarcimento della lesione dei cosiddetti "diritti riflessi" (o di rimbalzo, secondo l'incisivo appellativo usato dalla dottrina francese) di cui siano portatori soggetti diversi dalla vittima iniziale del fatto ingiusto altrui”.

In tale ambito si è, poi, ritenuto di distinguere e risolvere separatamente due problemi di fondo:

1) quello “della individuazione della (possibile) pluralità di posizioni giuridiche ingiustamente lese, l'una in riflesso della vulnerazione dell’altra, passibili in astratto di richiesta di tutela aquiliana per la allegata propagazione intersoggettiva delle conseguenze negative di uno stesso fatto genetico illecito”;

2) quello ulteriore “della individuazione selettiva in concreto, seguendo le varie serie causali, di quelle sole conseguenze che, con adeguata certezza, possano essere saldate a detta fonte di danno, in considerazione di una sua peculiare e naturale efficienza lesiva al di là della persona della vittima iniziale, nonché in considerazione delle circostanze e caratteristiche tutte del caso singolo, le quali conclamino l’esistenza di un collegamento cogente e non diaframmato tra fatto ingiusto e pregiudizio del terzo”. Quindi, si è giunti alla conclusione per cui “il requisito della

"conseguenzialità immediata e diretta" indicato nell'art. 1223 cod. civ. quale limite alla risarcibilità del danno”, si attiene non al problema della distinzione soggettiva tra vittima iniziale ed altri portatori di diritti lesi di riflesso, bensì a quello ulteriore della qualificazione oggettiva del nesso di causalità; “nesso che deve presentarsi tale da stringere con un vincolo di stretta lineare derivazione l'evento lesivo lamentato con il fatto doloso o colposo ascritto ad altri”.

13. - Acquisiti siffatti postulati, la stessa cassazione è ritornata, con la sentenza n. 4671 del 1996, sul pregiudizio derivante dall’impossibilità di ristabilire i rapporti sessuali con il coniuge, quale ritenuta violazione di un “diritto primario”.

Ivi si è ritenuto che il danno alla sfera sessuale patito dal marito, per la lesione dell’integrità fisica subita dalla moglie, “sia riconducibile non alla previsione dell’art. 2059, bensì a quella dell’art. 2043 c.c.” e ciò sul rilievo (già evidenziato dalla citata Cass. 6607-86) “per cui tale ultima norma, ponendo il principio della risarcibilità del danno ingiusto, senza altra qualificazione, e quindi senza alcun riferimento alla natura patrimoniale del danno, stabilisce in via immediata la risarcibilità del complessivo “valore” della persona, nella sua proiezione non solo economica e oggettiva, ma anche

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soggettiva, e quindi della lesione di diritti primari, in quanto inerenti alla persona umana. Diritti nei quali va, pertanto, ricompreso quello di ciascun coniuge ai rapporti sessuali con l’altro, il cui contenuto attinge ad un aspetto dello svolgimento della persona nell'ambito della famiglia, intesa come aggregazione naturale fondata sul matrimonio, nell’ambito della quale si ha il riconoscimento costituzionale di una serie di diritti inviolabili.

Anche in questo caso il giudice di legittimità non opera una diretta ed esplicita qualificazione della fattispecie sottoposta alla sua cognizione in termini di danno biologico, ma sembra, più che nella sentenza del 1986, mutuare dai contenuti, quantomeno definitori, del medesimo.

Il richiamo al danno biologico diventa, invece, esplicito da parte di Cass. n. 8305 del 1996, per la quale tale danno va inteso come comprensivo del pregiudizio alla sfera sessuale e alla vita di relazione; nondimeno, appare interessante in siffatto contesto l’ulteriore riferimento al precedente di Cass. n. 6607 del 1986, che sembra assumere il rilievo di interpretazione autentica della pronuncia suddetta.

Con la sentenza n. 8305 del 1996, si afferma, pertanto, che un danno del genere suindicato è solo apparentemente mediato, in quanto l'evento lesivo tocca immediatamente la famiglia intesa come formazione sociale interrelata, ove i singoli componenti realizzano la propria personalità e i cui diritti inviolabili sono costituzionalmente garantiti. Tra questi il diritto del coniuge a regolari rapporti coniugali (ivi compresi quelli sessuali) nell’ambito dei reciproci doveri di assistenza materiale e morale, che trova riscontro nell'art. 143 c.c.; diritto al quale è accordata ampia tutela costituzionale dall’art. 29 Cost.

Quindi, è corretto ritenere l'esistenza della legittimazione del coniuge ad agire per il danno subìto in conseguenza delle gravissime lesioni patite dal congiunto.

Aggiunge, poi, la cassazione che: “cosa diversa dalla legittimazione attiva, che è titolarità astratta del diritto fatto valere ..., è la concreta sussistenza del diritto stesso, che dovrà essere provata, con onere a carico della parte attrice, ricorrendo eventualmente anche al notorio e alle presunzioni, ..., vuoi sotto il profilo dell'esistenza di un danno biologico inteso come comprensivo del pregiudizio alla sfera sessuale (cfr. Cass. n. 6607-86) e alla vita di relazione, vuoi sotto il profilo di un danno strettamente patrimoniale, evitando nel contempo di pervenire a duplicazioni risarcitorie in relazione al danno liquidabile come proprio della vittima dell'evento lesivo”.

Ed ancora, di danno biologico in relazione a conseguenze pregiudizievoli alla sfera sessuale di un individuo, derivate da intervento chirurgico demolitore subìto dal rispettivo coniuge, si discute in Cass. n. 1421 del 1998, sebbene, poi, la stessa Corte si limiti a statuire l’esistenza di un giudicato interno della sentenza di primo grado non appellata in parte qua, tanto da non consentire l’esame del ricorso in sede di legittimità.

In ogni caso, siffatta pronuncia va apprezzata per l’effettiva pertinenza, nell’intenzione del giudicante, della qualificazione in termini di danno biologico del pregiudizio alla sfera sessuale patito dalla vittima secondaria dell’illecito.

In tal senso depone, infatti, l’inclusione nella nozione di danno biologico, questa volta sub specie di danno alla vita di relazione, dei riflessi pregiudizievoli, attuali e futuri, a carico del figlio (ma anche del marito) della stessa vittima primaria dell’illecito, derivanti dall’impossibilità di procreare da parte di quest’ultima, utilizzandosi così un percorso argomentativo, che muovendo dalla generale fattispecie del danno riflesso, giunge ad omologare le varie ipotesi che in esso è possibile ritenere contemplate, tra cui appunto quella del danno alla sfera sessuale.

E’ interessante notare come, anche in questo caso, la cassazione non richiami il referente costituzionale dell’art. 32 Cost., individuandolo invece nella protezione della “famiglia intesa come formazione sociale interrelata, ove i singoli componenti realizzano la propria personalità e i cui diritti sono costituzionalmente garantiti”, essendo quindi chiaro il riferimento agli artt. 29 e 30 Cost..

Ma è ancor più interessante il risultato a cui giunge il giudice di legittimità, escludendo la risarcibilità del pregiudizio arrecato al diritto, come tale prospettato dagli istanti, all’accrescimento del nucleo familiare, affermando che, a tal fine, non è dato rinvenire alcun aggancio normativo (sia di

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fonte legale ordinaria, che costituzionale) idoneo a rendere configurabile una siffatta posizione giuridica attiva.

E l’interesse al quale si accennava deriva proprio dalla circostanza per cui non si è ritenuto sufficiente l’innesto sulla clausola normativa generale dell’art. 2043 c.c. (ovvero sull’art. 2059 c.c., alla stregua dell’insegnamento di Corte cost. n. 372 del 1994) della fonte di rango costituzionale (artt. 29 e 30 Cost.), ricercandosi invece l’ulteriore mediazione di una fattispecie legale che consentisse l’effettiva individuazione dell’asserito diritto (fattispecie rinvenuta nella disciplina sull’interruzione volontaria della gravidanza, ma per inferirne che, in ragione della scelta riservata in via esclusiva alla donna, non poteva essere, appunto, riconosciuto in capo agli stretti familiari un diritto all’accrescimento della famiglia stessa).

Così, a differenza di quanto si è ritenuto dover affermare in ambito di danno biologico alla sfera sessuale dell’individuo non direttamente inciso dall’illecito, in questo caso si è esclusa, in sostanza, la diretta applicabilità (o drittwirkung) della norma costituzionale, quale fonte generatrice essa stessa di diritti enucleabili in via d'interpretazione.

14. - E’ evidente, però, a questo punto una certa contraddittorietà di fondo sulla scelta metodologica, che, sebbene sembra accettata dalla giurisprudenza in via di principio, non trova poi sviluppo assolutamente coerente, forse (e giustamente) emergendo la preoccupazione di una proliferazione incontrollabile di “diritti” e della relativa tutela risarcitoria.

Ma, a ben guardare, una siffatta preoccupazione avrebbe dovuto mettere in guardia la giurisprudenza anche nel caso all’esame in questa sede, suggerendo una maggiore attenzione in punto di qualificazione della fattispecie del danno riflesso alla sfera sessuale.

Non deve, infatti, confondere la suggestione che deriva dai casi pratici analizzati e decisi dai giudici, ove la vicenda di riferimento è, di regola, quella della menomazione dell’integrità fisica della vittima dell’illecito, in virtù della quale il terzo reclama il ristoro del pregiudizio di rimbalzo patito nella propria sfera soggettiva e, segnatamente, in quella sessuale.

Suggestione che può aversi per una sorta di osmosi concettuale ma, in realtà, emozionale tra lesione psico-fisica del danneggiato primario e pregiudizio, quantomeno analogo, della vittima secondaria; suggestione che, invero, appare più forte di quello che si possa reputare, atteso che, seppure è evidente una sorta di prudenza nel richiamo all’art. 32 Cost., preferendosi il referente dell’art. 29 Cost., il concetto di danno alla salute e con esso l'esplicita qualificazione di danno biologico è l’approdo cui, in definitiva, giunge la stessa giurisprudenza.

Ma se così è, superando, allora, i lacci dell’emozionalità e portando alle estreme conseguenze il ragionamento giuridico, di danno biologico, riflesso, alla sfera sessuale dovrebbe parlarsi, ad esempio, anche nel caso di illegittimo trasferimento attuato da parte di un datore di lavoro nei confronti di un proprio dipendente coniugato, sì da rendere - in forza dell’impossibilità, di fatto, del ricomponimento del nucleo familiare - del tutto pregiudicato il menage di coppia.

Anche in questo caso l’illecito sprigiona, per così dire, i suoi effetti di rimbalzo sul terzo, secondo un nesso di causalità apprezzabile in termini di frequenza probabilistica.

Ed ancora, in ipotesi, potrebbe ravvisarsi, in virtù della sussistenza di un nesso eziologico di rilievo analogo a quello appena evidenziato, la responsabilità del datore di lavoro, ai sensi dell’art.

2087 cod. civ., per il danno alla sfera sessuale di un proprio dipendente, coniugato con altra lavoratrice alle dipendenze del medesimo datore di lavoro, cagionato a seguito della violazione di norme infortunistiche (e, dunque, suscettibile di integrare anche una responsabilità penale) che abbiano provocato a quest’ultima una lesione all’integrità fisica tale da rendere impossibile i rapporti sessuali con il proprio coniuge.

In questo caso, affermandosi la natura di danno biologico del pregiudizio subìto dalla vittima secondaria dell’illecito, la consequenzialità logico-giuridica vorrebbe che l’azione di regresso intentata dall’INAIL (art. 11 del D.P.R. n. 1124 del 1965), nei confronti del datore di lavoro responsabile civilmente per l’infortunio anche del terzo, al fine di ripetere dal medesimo le somme

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pagate all’infortunato a titolo di indennità, restasse in ogni caso paralizzata, alla stregua della nuova formulazione del menzionato art. 11, scaturito dall’intervento demolitorio della Corte costituzionale con la sentenza n. 485 del 1991, in relazione a quelle somme dovute al lavoratore infortunato a titolo di danno biologico non collegato alla perdita o riduzione della capacità lavorativa generica.

E’ chiaro che, se una tale fattispecie risulti realmente ipotizzabile, un ulteriore, e questa volta assai discutibile, ostacolo al pieno recupero dell’Istituto assicuratore troverebbe modo di affermarsi, volgendo in una crisi ancor più grave l’intero impianto sistematico di tale aspetto della materia previdenziale.

15. – Ci dobbiamo, allora, chiedere, a fronte di vicende giustiziabili che presentano aspetti oltremodo incerti, se siffatta complessiva impostazione, che, in definitiva, si compendia nel richiamo, quasi taumaturgico, al danno biologico, quale fattispecie in grado di sollevare l’interprete da ulteriori e faticosi sforzi esegetici, sia, in realtà, corretta.

La risposta, a mio avviso, è negativa.

E’ fuorviante, difatti, puntare ad una valorizzazione (quale quella surrettiziamente apprezzabile nel percorso giurisprudenziale innanzi delineato) di una parte soltanto dei caratteri che costituiscono il substrato della nozione di danno biologico, tralasciando di considerare la complessità del concetto stesso.

In particolare, non può esaurirsi l’analisi del fenomeno in esame attraverso l’assorbente rilievo che, in sostanza, viene attribuito alla nozione di salute ed al profilo funzionale che assume il rispettivo danno, nel senso, in precedenza indicato, di compromissione della qualità di vita dell’individuo e cioè della sua capacità esistenziale.

Tale aspetto concorre nella globale ricostruzione della fattispecie e ne illustra, sicuramente, il dato valoristico, ma non è sufficiente ad integrarla.

A tal riguardo, come già visto, deve necessariamente emergere un ulteriore dato, oggettivo, che seleziona la fattispecie stessa del danno biologico rispetto ad altre, le quali, proprio per l’accennata difficoltà ricostruttiva e classificatoria, diventano di border line.

Questo dato o requisito è quello della lesione in corpore, dove, secondo l’espressione già utilizzata, il danno biologico è soltanto quello corpore corpori illatum, comprendendo nel concetto di corpus anche la salute mentale.

Orbene, nel danno “riflesso” alla sfera sessuale il dato appena menzionato è assente, non potendo ravvisarsi la presupposta esistenza di una patologia a carico del corpo o della mente.

Se così è, la definizione di danno biologico è, nell’ipotesi considerata, frutto di fraintendimento, generato da una confusione di piani, in cui il profilo funzionale del danno, che tocca l’aspetto esistenziale dell’individuo, elide quello coessenziale della necessaria sussistenza di una lesione corporale, oggettivamente apprezzabile.

Escludendosi, dunque, che la fattispecie in esame possa effettivamente ricondursi nell’alveo del danno biologico, ne consegue, altresì, che anche in vicende di confine (come quelle innanzi ipotizzate) potrebbe addivenirsi a soluzioni giudiziarie dotate, quantomeno, di maggiore coerenza sul piano della ricostruzione sistematica, sì da rendere un servizio all’esigenza superiore di certezza del diritto.

16. - Peraltro, la evidenziata contraddittorietà di fondo non è tale da cancellare i risvolti, pur positivi, dello sforzo giurisprudenziale diretto ad un ampliamento di tutela, effettiva, di posizioni giuridiche attive riconoscibili come tali, ma, in ogni caso, essa richiede, affinché possa superarsi, una necessaria attenzione metodologica.

In tal senso, può anche percorrersi la strada della drittwirkung delle norme costituzionali a tutela di diritti inviolabili dell’individuo, sebbene si richieda prudenza nell’enucleare situazioni giuridiche attive che non trovano immediato e diretto o, se vogliamo, testuale, riconoscimento nella stessa Carta costituzionale, né, peraltro, sono sorrette dalla mediazione di fonti legali di rango ordinario.

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Prudenza dettata non da obiettivi diretti a minorare la forza espansiva della categoria dei diritti inviolabili, bensì dalla difficoltà “di identificare il contenuto di ciascuno di tali diritti e distinguerlo rigorosamente dall’altro” (Fortino, op. cit., p. 425); il che, se giustifica un approccio globale alla categoria medesima, non per questo, almeno secondo l’esperienza giurisprudenziale, costituzionale ed ordinaria, viene ad eliminare la pur forte esigenza di ricercare e trovare un referente normativo, anzitutto di rango “superiore”, che ne costituisca fondamento certo.

Quindi, nell’alveo esclusivo della tutela costituzionale della famiglia (art. 29 Cost.) è dato trarre, in uno con la doverosa considerazione del diritto vivente, il fondamento della figura del danno

“riflesso” alla sfera sessuale, dovendosi evitare, però, la sua inclusione nel concetto di danno biologico, ricercandosi altrove uno spunto definitorio, attingibile, ad esempio, nella categoria del

“danno esistenziale”, la quale, sebbene ancora confusa, potrebbe in tal guisa trovare una propria sistemazione.

Invero, un ulteriore e diverso approccio al problema potrebbe, in via di mera ipotesi, aversi attraverso una nuova considerazione dell’ambito di tutela scaturente dall’art. 32 Cost., questa volta proprio mirando a valorizzare, in tutta la sua espansione, il concetto di salute, sino a predicarne la sua consustanzialità con il benessere globale dell’individuo, pregiudicabile, non solo dalle aggressioni alla sua integrità psico-fisica, ma da qualsiasi alterazione di detto status.

E’ chiaro, però, che anche in siffatta diversa ricostruzione, il danno alla sfera sessuale non potrà essere ricompreso in quello di danno biologico, quale categoria concettualmente ormai definita secondo i caratteri e i requisiti innanzi richiamati (e patrimonio del diritto vivente), bensì trovare una collocazione singolare, attraverso una diversa, ma ancora da definirsi, drittwirkung del menzionato art. 32 Cost..

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