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44 – RICCHEZZA, ACCUMULO O POVERTÀ

(per una ridefinizione del concetto di ricchezza) (ITALIANO) Di Roberto Paolo Imperiali (13 pagine)

1 – Ricchezza o Accumulo

Ho la sensazione che attualmente ci sia la tendenza ad identificare il concetto di ricchezza con il concetto di accumulo per cui penso utile cercare di analizzarne il rispettivo significato

Per cercare di definirne la differenza si può forse partire dalla premessa che un soggetto per la propria sopravvivenza e per la soddisfazione dei propri bisogni deve poter fruire dei beni.

Cioè possiamo dire:

1) che la fruizione di un bene è il momento in cui si realizza la soddisfazione del soggetto,

2) che per poter fruire di un bene il soggetto deve avere la disponibilità del bene, oppure deve poterselo procurare.

Direi che:

– il punto 1) è il momento della soddisfazione e quindi rientra nella sfera della valutazione soggettiva e qualitativa (psicologia) (il bene serve per sé stesso).

– il punto 2) riguarda la sfera della economia e lo studio dei mezzi per passare al punto 1).

I “mezzi” studiati dalla scienza economica sono lo scambio di beni o danaro (il bene serve per qualcos’altro).

Se così è possiamo dire che l’obiettivo dello scambio è quello di poter raggiungere il punto 1).

L’obiettivo n. 1 può essere raggiunto anche con la forza senza passare dallo scambio.

Quindi lo scambio e la forza hanno lo stesso obiettivo.

Nella scala che porta alla soddisfazione di un bisogno abbiamo inserito l’elemento temporale che distingue e separa appunto temporalmente il momento della soddisfazione, dalla fase in cui il soggetto ha i mezzi con i quali, quando vorrà, potrà usufruire di un bene.

Direi che questo ultimo concetto può essere definito come il momento dell’accumulo.

Possiamo cioè precisare che l’accumulo è l’aumento delle possibilità di fruire dei beni che si accresce aumentando i propri diritti su di loro attraverso il danaro e/o la disponibilità della forza.

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Dal momento che l’obiettivo ultimo di un soggetto è la “fruizione e il godimento” dei beni e che la

“possibilità di fruire” (accumulo) è una fase preliminare e preparatoria a tale fruizione, viene da chiedersi qual è la misura di tale fase affinché sia proporzionata all’obiettivo (fruizione) che il soggetto deve raggiungere.

È chiaro cioè, che se tutte le energie (e il relativo giudizio di valore che muove le energie) sono investite nella fase dell’accumulo, non ne restano per la fase della fruizione (il soggetto muore).

Se invece ci si accontenta solo della fruizione, non ci si prepara alle eventualità future che fatalmente verranno (cioè il soggetto corre il rischio di morire in futuro).

La favola della cicala e la formica è istruttiva.

L’equilibrio tra queste due fasi è una valutazione soggettiva che può variare da persona a persona. È il “valore” che il soggetto dà ad ognuno dei due momenti.

La scelta del livello di investimento delle energie da parte del soggetto tra questi due momenti è in funzione:

a) da una parte della importanza per lui della fruizione e piaceri connessi, b) dall’altra della paura che tale fruizione non sia più possibile in futuro.

La scienza economica punta la sua attenzione ed ha come oggetto di studi soltanto l’accumulo e il danaro (come sua quantificazione e mezzo giuridico di appropriazione) eludendo quindi il problema di dare un giudizio di valore alla fase della “fruizione”, che sostiene non rientri nelle sue competenze;

e infatti questo è l’oggetto di altre categorie del pensiero che esprimono il piacere e altri valori ma non un calcolo.

L’inghippo sta quindi nella definizione del concetto di ricchezza che non è solo l’accumulo come premessa della fruizione futura, ma anche il valore della fruizione e del godimento presente.

E qual è il giusto equilibrio tra queste due esigenze?

Se ci affidiamo alle sole valutazioni della scienza economica avremo come conseguenze la perdita del valore presente e oggettivo della “fruizione”, che riguarda la sfera della valutazione soggettiva e psicologica del bene e da cui gli economisti si chiamano fuori.

Sostenendo che non è ricchezza quello che non è monetizzabile, sostituiscono la nozione di accumulo alla nozione di fruizione, e chiamano ricchezza l’accumulo, sottraendo quindi al concetto di ricchezza una parte del suo valore.

Ma così facendo avremo una progressiva monetizzazione della realtà ed una perdita della qualità.

Si può obiettare che il valore economico rispecchia il valore qualitativo di un bene e certamente è così; ma tanto più noi privilegiamo la sua utilità futura e quindi il suo valore di scambio, tanto meno

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ci soffermiamo sul suo valore presente qualitativo. Per cui preferiamo avere il denaro che le cose, e cose utili invece di cose “belle”, e queste perdono sempre di più la loro importanza per noi. Sono soggette ad un processo di eliminazione.

La visione economica sottrae al mondo, alla realtà, agli oggetti e alle persone tutti i valori che non sono oggetto o mezzi di accumulo, limitandosi a vedere e computare solo il lato monetizzabile e utile.

Cioè tende a dare un valore economico e utilitaristico a tutti i rapporti tra i soggetti e gli oggetti e tra i soggetti tra di loro, portando ad un inaridimento emotivo.

Così facendo l’economia esclude un po’ alla volta ogni rapporto di tipo fruitivo, sostituendolo con un rapporto di tipo accumulativo (spirito ed etica del capitalismo).

Tutto quello a cui l’economia non riesce a dare un valore economico verrà eliminato e sostituito con quello che ha un valore economico.

Tutti i concetti, che fino ad oggi erano chiamati etica, giustizia, solidarietà, estetica, affettività, benessere, salute dei cittadini, etc…, non avranno più ragione d’essere perché questi valori non nascono da un calcolo e non hanno un valore economico.

Attualmente infatti con le regole economiche che il mondo si è posto tramite la WTO questi valori sono considerati un ostacolo alla creazione della ricchezza, confondendo appunto ricchezza con accumulo, e quindi non devono essere tenuti in considerazione negli accordi commerciali.

Mentre invece, se si volesse realmente aumentare la ricchezza, andrebbe fatto esattamente il contrario, cercando di impedire o modificare tutti quegli accordi commerciali che in qualche modo portano al rischio di ridurre tali valori.

Con le regole attuali gli oggetti prodotti e il vivente che sarà lasciato sopravvivere avranno possibilità di esistere solo se utili.

La utilità, espressa monetariamente, sarà il nuovo credo. La scienza economica, mossa sempre più velocemente a causa della concorrenza e grazie alla tecnologia, dall’interesse per il futuro e dall’interesse verso l’accumulo, porterà, con la perdita del valore della fruizione, alla vera povertà di massa, almeno in termini qualitativi.

È come se ad un certo punto la gente (parte della gente) con il portafoglio pieno di denaro andasse a fare la spesa al mercato e si accorgesse che sulle bancarelle si vendono solo oggetti senza valore.

Questo è già sotto gli occhi di tutti, il mondo ha meno specie di beni fruibili: i prodotti si rassomigliano tutti, la loro diversità è sempre più ridotta, la qualità è ridotta.

L’omologazione dei prodotti è il risultato e l’obiettivo dell’economia, perché soltanto i beni a cui viene dato un prezzo che li omologa possono essere quantificati e inseriti in un calcolo.

Per l’economia l’ideale sarebbe che ci fosse un prodotto solo.

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Quelli che, nelle loro scelte, si affidano solo alla scienza economica sono persone che escludono il senso della fruizione e del godimento cioè la componente più importante della ricchezza, a cui deve giustamente mirare l’accumulo, ma come mezzo non come fine.

Queste persone sono carenti del senso della fruizione così come chi è in miseria è carente di accumulo.

E così come chi è in miseria deve essere aiutato dagli economisti, chi ha perso il senso della fruizione deve essere aiutato dagli psicologi.

La scienza economica oggi parte dall’ipotesi che non deve dare giudizi di valore.

Sostiene cioè che essa studia i meccanismi che massimizzano la ricchezza (l’accumulo) senza dare giudizi.

Questo però non è vero perché l’economia parte da un giudizio di valore ben preciso: che l’accumulo è un valore.

Se la scienza economica considerasse che l’accumulo non fosse un valore, la scienza economica non esisterebbe.

Ma l’economia deve dare un limite all’oggetto di cui tratta, deve definire il valore del suo valore perché altrimenti o studia cose senza valore e quindi è una scienza inutile oppure espande il valore delle cose che studia oltre il suo limite e quindi è erronea.

Nel momento in cui la scienza economica dà delle indicazioni su come massimizzare l’accumulo, non può contemporaneamente indicare l’accumulo come finalità da perseguire, non è suo compito.

Oggi infatti la scienza economica pretende di far politica, pretende di indicare alla gente quello che la gente deve fare per ottimizzare il suo modo di vivere.

L’economia non può dare questa indicazione, non ne ha i mezzi tecnici.

È evidente che è la gente che dà questo ruolo alla scienza economica perché non sa più distinguere tra ricchezza e accumulo, ma è anche vero che agli economisti non pare vero assumersi il ruolo di chi deve indicare la via della felicità all’umanità.

Se la scienza economica vuole fare politica deve invece cercare di porsi un altro obiettivo. Non più quello di massimizzare l’accumulo a scapito degli altri valori ma quello di calcolare i limiti entro i quali l’accumulo deve restare per non sopraffare altri valori.

Quindi all’interno di una valutazione dell’accumulo confrontato con gli altri valori in un quadro complessivo dell’individuo e della società che punti al suo vero benessere.

Tornando al concetto di fruizione è evidente che più si investono le proprie energie nel momento fruitivo, meno si investono nel momento dell’accumulo che equivale anche a produzione. L’esistenza di un bene e quindi la sua produzione è infatti la premessa per il suo godimento, ma la fruizione di un

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bene è possibile solo nel momento in cui il soggetto si concentra su quel bene e nel momento in cui sente il valore di quel bene e non di un altro da acquisire in futuro. Quindi il concetto di fruizione include il concetto di limite, di autolimitazione, per consentire appunto la soddisfazione, riducendo la necessità di cercare o produrre sempre nuove cose.

Spostando la nostra attenzione sulla fase della fruizione ridurremmo anche i problemi che derivano dalla competitività che si scatena all’interno della specie umana per l’accaparramento dei beni e della loro produzione.

L’accumulo invece può crescere all’infinito. Nel concetto di accumulo è implicito il concetto di espansione.

Il concetto di sviluppo inteso come incremento delle possibilità di avere, di fare, o di produrre, è antagonista rispetto alla possibilità di fruire.

Lo sviluppo inteso in questo senso (e che sarebbe meglio chiamare appunto espansione) oltre un certo limite è una perdita di ricchezza.

Ora c’è da chiedersi qual è il limite dell’espansione per il soggetto?

Certamente il limite è il risultato della ottimizzazione della combinazione dei due momenti: della fruizione e dell’accumulo.

Cioè quando questi due valori uniti danno il massimo di soddisfazione.

Abbiamo infatti visto che la fruizione senza l’accumulo ha in sé il rischio di non consentire la vita del soggetto in futuro e l’accumulo senza la fruizione non consente al soggetto di vivere nel momento presente.

A questo punto possiamo definire “Ricchezza” la componente equilibrata di fruizione e accumulo.

Infatti poiché entrambi i termini hanno un valore soggettivo, cioè fanno riferimento alla possibilità che il soggetto ne senta soddisfazione (godimento del presente e tranquillità per il futuro) e poiché abbiamo visto che ogni investimento di energia del soggetto su uno dei due momenti va a scapito dell’apprezzamento del valore dell’altro, il massimo di ricchezza viene da un loro equilibrio.

L’aumento dell’uno o dell’altro oltre ad un certo limite porta povertà.

Il problema della valutazione di una situazione soggettiva è evidentemente complesso, ma forse comincia ad affacciarsi all’opinione pubblica con la presentazione di indici nuovi quali gli indicatori del benessere.

Uno degli indicatori di benessere è evidentemente che la gente abbia la possibilità di dire quello che sente.

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È chiaro che tali indici avranno sempre un valore approssimativo ma si avvicineranno al nodo del problema certamente più di quello che può fare un indice esclusivamente monetario.

Il problema certamente rimarrà, perché ogni volta che usiamo un indice, usiamo una quantificazione e quindi ricadremo, anche se in forma tendenzialmente minore, nel problema della economicità e dell’accumulo.

In verità quello che ognuno dovrebbe fare è ridurre dentro di sé la dimensione di “Homo oeconomicus” per privilegiare altri valori, non economici, cioè i valori che sente, non quelli che calcola. Soltanto così troverebbe il modo per risolvere i problemi economici.

Quanto detto fino ad ora mira soprattutto ad evidenziare la perdita qualitativa dei beni e la perdita dei valori umani il che equivale alla perdita di una delle due componenti della ricchezza.

Tuttavia il tipo di scienza economica che oggi impera sostiene che i meccanismi che riesce a mettere a punto forniscono certamente una massa quantitativa di beni che consentono un benessere che toccherà tutti.

Premesso che anche se così fosse, per quanto detto prima, sarebbe un benessere qualitativamente al livello più basso possibile, mi sembra comunque poco probabile tale ridistribuzione.

Infatti l’economia e la forza hanno lo stesso obiettivo, che è quello di accrescere l’accumulo.

L’economia attraverso il diritto e la forza direttamente.

E poiché i beni nel mondo sono una quantità finita, (anche se tale quantità fosse crescente a detta degli economisti liberisti), quando questi beni si spostano nella direzione dei più forti, perché detentori dei mezzi di produzione (capitale e tecnologia) meno ne restano per i più deboli.

Ed un controsenso sarebbe lasciarne una parte ai più deboli, perché andrebbe contro il principio economico della massimizzazione dell’accumulo, che il più forte saprà realizzare meglio del più debole.

Quindi poco realistico è pensare il contrario. La cosiddetta ricaduta della ricchezza (dal più ricco al più povero) può forse essere il frutto della carità, ma quella cristiana fino ad oggi benché molto reclamizzata, non ha portato a grandi risultati (Nota 1).

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Nota 1

È proprio il principio della carità che avallando il principio della ricaduta della ricchezza avalla eticamente il principio capitalista.

L’etica del cristianesimo è una premessa per l’etica del capitalismo.

È l’etica del riconoscimento del valore della carità che per esistere deve avere un ricco e un povero.

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Se avessimo tutti le stesse cose la carità non avrebbe modo di esprimersi e Dio non avrebbe più modo di premiare i buoni e punire i cattivi.

L’etica così intesa è un etica utilitaristica, che avrà una ricompensa o in termini di riconoscimento reale (premio nell’altra vita) o di giudizio morale (la persona buona).

In verità se si potesse sostituire un’etica del premio e della riconoscenza con un’etica della qualità si sentirebbe che l’atto oggi definito “buono” potrebbe essere definito “bello”. Cioè l’atto “morale”

sarebbe per il soggetto un momento “fruitivo”, avrebbe un valore in sé e non un valore “economico”.

Il soggetto nella nostra civiltà/cultura non è abituato a vivere senza il senso del riconoscimento che viene dagli altri, dal di fuori.

Non ha il coraggio o la forza, per accettare il valore del proprio giudizio ma tende a delegare il giudizio agli altri.

In verità questo probabilmente è sempre esistito e ancora di più da quando esistono le religioni con una struttura gerarchica, che sono appunto l’espressione di questa delega.

Oggi la delega morale nei termini sopra esposti è stata trasferita dalla religione alla economia cioè la funzione religiosa è rappresentata dalla società che coltiva il valore della ricchezza (accumulo) e premia con un giudizio morale chi la detiene.

Cioè premiando l’accumulo si premia l’impoverimento. Così come è sempre stato fatto dalle religioni negando il valore della fruizione o addirittura condannandolo, in vista di un premio futuro.

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Il principio economico, il principio dell’Homo oeconomicus se esteso senza tenere conto dei valori non monetari e/o ideali, porta quindi a due risultati principali:

la perdita qualitativa dei beni per tutti e la perdita anche quantitativa per i più deboli.

Però se si tiene conto che, a parte il danaro, per definizione non esiste un bene senza qualità, si può facilmente intuire che la perdita della qualità è equivalente alla perdita di una certa quantità di beni o di una parte di ciascun bene.

Cioè quando avremo perso tutte le qualità non avremo più nulla di cui fruire e non potremo più vivere.

Non ci rimarrà che il denaro.

2 – Concorrenza e Privatizzazioni

È chiaro che la preoccupazione del futuro deriva oltre che da eventi naturali anche dalla concorrenza degli altri.

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Cioè il rischio che gli altri possano appropriarsi di beni che sono per noi necessari ci spinge ad accrescere l’accumulo e i relativi mezzi per potercelo procurare e poterlo spendere nel momento del bisogno, spostando le nostre energie dal momento fruitivo al momento accumulativo e produttivo.

Cioè i beni vengono prodotti oltre che per il valore fruitivo, anche per il valore di accumulo.

Cioè per un valore che sarebbe minore se la concorrenza non esistesse e che sarebbe solo in funzione della preoccupazione degli eventi naturali.

Senza la concorrenza noi produrremmo di più per la fruizione, mentre con la concorrenza noi dobbiamo produrre per la fruizione e per l’accumulo.

Essa ci spinge quindi ad un investimento di energie che in sua assenza non sarebbe necessario.

Quindi la concorrenza, tanto più essa è libera ed estesa, tanto più rappresenta un costo, uno svantaggio, che potremmo evitare se esistesse un patto sociale o dei valori comuni.

Escludendo deliberatamente questo patto sociale con l’affermazione del valore della libera concorrenza si va verso una riduzione di ricchezza, non verso un suo aumento.

I beni “pubblici” rappresentano un momento sociale dove su quei beni non si applica la concorrenza, quindi, prescindendo dal problema della “gestione” di tali beni, questi rappresentano un momento di ricchezza per la collettività proprio perché per la loro fruizione non è necessario investire energie accumulatrici.

Le privatizzazioni dei beni pubblici rappresentano perciò uno spreco di energie e quindi un impoverimento della collettività (Nota 2).

———————- Nota 2

In verità il liberismo imperante (teorizzato ovviamente dai più forti) non tende alla libera concorrenza, ma tende ai monopoli.

Una libera concorrenza senza limiti, consente appunto la vincita del più forte, che in economia significa concentrazione di imprese per ottenere il monopolio.

Cioè in una società democratica, incapace di porre regole all’economia nell’interesse del bene pubblico, si va verso una dittatura economica.

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In un momento come quello attuale, dove le strutture sociali e la loro leadership non danno la sicurezza delle regole, tutti naturalmente puntano all’accumulo come garanzia per il futuro.

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La trasformazione della cosa pubblica in cosa privata è una perdita della visione qualitativa del bene e della sua funzione e la sua trasformazione in una visione quantitativa, ed il più forte cerca di acquisirla.

Dove non c’è una leadership capace di far rispettare le regole e di garantire i valori, il problema della gestione si risolve soltanto trasformando il leader in manager e i suoi dipendenti in semplici salariati ed il passo successivo è il manager che diventa speculatore (v. i capitani delle ns. aziende quotate in borsa o il caso Enron in USA) e il salariato appena possibile diventa disoccupato.

E questi sono i meccanismi insegnati in tutte le più prestigiose università di Economia del mondo dove evidentemente non hanno capito il significato di Ricchezza.

Anche in campo politico vediamo la trasformazione del leader in manager che invece di trascinare la gente per il valore di una sua idea preferisce gestire il suo “accumulo” elettorale in funzione delle idee della gente, contabilizzando e quantificando in continuazione il suo indice di popolarità che magari cerca di migliorare con notizie e informazioni atte al suo “accumulo”.

Non è detto che chi obbedisce trova necessariamente più ricchezza in un aumento di stipendio che nella soddisfazione di lavorare per un capo che sa infondere l’entusiasmo per obiettivi che abbiano un valore non esclusivamente di accumulo (Nota 3).

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Nota 3

La corruzione è il caso inverso, ma esprime lo stesso concetto. Cioè i soggetti non sentono il senso comune dell’obiettivo e considerano il bene pubblico come un bene privato.

In una società come quella attuale, dove i rapporti per definizione tendono ad essere sempre più di carattere privatistico, la corruzione sta perdendo le ragioni per essere un reato.

Oggi, infatti, la corruzione viene ancora considerata come un reato perché si ritiene ancora che colui il quale dovrebbe rappresentare l’interesse pubblico non dovrebbe anteporvi il proprio interesse personale.

Ma la perdita del senso dell’interesse pubblico è perfettamente in linea con i principi delle privatizzazioni e del liberismo e con un sentimento diffuso che è diventata la norma, dove ognuno si rende conto che “l’interesse pubblico” tende a scomparire sostituito dal rapporto privato.

In un liberismo assoluto non può esistere una norma etica perché “etico” vuol dire “comune” e non privato.

Esempi intermedi di perdita del senso dell’interesse pubblico (di corruzione) come il finanziamento privato delle campagne elettorali o il conflitto d’interesse sono già ben consolidati.

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Si potrebbe procedere su questa linea anche sostenendo che il contratto di diritto privato non dovrebbe più avere ragione di esistere perché appoggia la sua validità sul concetto di un “Diritto” che “tutti”

avevano deciso di accettare, cioè un concetto “Pubblico”.

Ma che oggi, in quanto pubblico, non ha più valore, sostituito invece dal principio dei rapporti di forza, che è un principio “privato”.

Forse la teoria non si è ancora allineata a questi concetti ma certamente ci si è allineata la pratica.

Ora la pratica può cercare o di annullare e prevaricare il valore del “Diritto” oppure dimostrare di aver seguito le regole del diritto.

Attualmente direi che ancora a volte si cerca di dimostrare la legalità di quello che viene fatto o deciso (magari tenendolo segreto o mentendo) ma se noi lasciamo che il rapporto privatistico sostituisca il concetto di rapporto pubblico, non ce ne sarà più bisogno, cioè per fare o non fare una cosa non ci sarà bisogno di dimostrarne la legalità. Si dovrà solo valutare la possibilità di reazione dell’altro.

Si sarà quindi tornati in quella situazione di Homo Homini Lupus (dove la concorrenza è massima) dalla quale l’umanità ha sempre cercato di tirarsi fuori dandosi delle leggi perché ne avvertiva la non economicità.

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Anche nelle aziende si verifica questo. Si verifica in tutte le società umane. Dove la gente sente che l’obiettivo ha un valore in sé, è “bello”, essa è disposta a sacrificarsi anche per una ricompensa inferiore. Cioè riconosce che esiste una ricchezza che va al di là dei beni e dell’accumulo.

Se il programma/l’obiettivo del gruppo non ha questo senso di valore, i membri del gruppo chiederanno più denaro (accumulo) per svolgere il loro lavoro o cercheranno un altro lavoro che consenta loro di ottenerne di più.

Quando i rapporti all’interno di una società puntano a produrre soprattutto accumulo, questa società non produrrà valori, non produrrà cultura.

Sarà una società “povera” e sarà una società di individui isolati.

La tendenza a passare dalla qualità alla quantità, cioè ad andare sempre più verso l’accumulo, è lo stesso meccanismo che porta da una società basata sui rapporti umani affettivi a quella basata sull’isolamento e sui rapporti umani funzionali.

L’isolamento affettivo, infatti, è la premessa per la massima funzionalità dell’individuo perché questi possa decidere ed esprimere quello che secondo lui è meglio per lui e per lui solo, e dove gli altri vengono usati per il raggiungimento dei propri scopi.

In tale situazione, qualunque quota di accumulo avrà raggiunto, egli si troverà a vivere in Povertà.

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3 – Giudizi di Valore e ricchezza emotiva

La critica dei comportamenti altrui sulla base di principi morali di solito non è utile, crea soltanto una contrapposizione di giudizi di valore che in quanto tali non possono essere mediati, porta ad uno scontro.

Sarebbe più utile convincere chi ha già accumulato beni oltre il livello del suo soddisfacimento e quindi a scapito di altri, che egli sta aumentando la sua povertà e la sua infelicità.

Ne è logico invidiarlo, è come invidiare un poveraccio.

Le disuguaglianze oltre certi limiti non sono ingiuste, sono stupide.

Comunque, sul piano pratico, se si vuole modificare la situazione delle disuguaglianze nel mondo, non è certo criminalizzando i “ricchi” che si può ottenere qualcosa. Fino ad oggi non è successo.

Bisogna spiegare loro che oltre ad essere “poveri” sono anche nevrotici.

Una persona infatti che continua ad accumulare oltre ogni ragionevole necessità e al di là del piacere, ha qualcosa nel suo cervello che la costringe a soddisfarsi di un piacere solo: l’accumulo.

Spesso si ribatte a ciò dicendo che “avere” è un piacere. Sapere di avere e sapere che con il lavoro questo “avere” aumenta dà gusto. È vero, è un piacere, è una soddisfazione, ma è un piacere ripetitivo.

È come se una persona a cui piace un certo cibo continuasse a mangiare solo quello per tutta la vita.

Forse se tutti fossimo convinti di questo concetto potremmo sperare in una pace sociale. E forse potremmo sperare in una nuova etica della Ricchezza contrapposta all’Etica dell’Utile.

Ricchezza che in quanto opposta all’Utile potremmo meglio chiamare “Ricchezza emotiva”.

Questa può essere considerata come composta da tutte le categorie concettuali al di fuori della categoria dell’Utile. All’interno di questo concetto di Ricchezza noi possiamo avere vari livelli, dal più bello al meno bello o al brutto, ma il contrario della Ricchezza emotiva non è il brutto, ma l’Utile.

E vivere questa Ricchezza vuol dire vivere qualunque momento emotivo che non faccia riferimento all’Utile.

Nel momento in cui facciamo una valutazione di Utilità non è possibile contemporaneamente fare una valutazione di Bellezza e viceversa.

Una cosa o un evento non può essere sentito nello stesso momento bello ed utile. Da un punto di vista esistenziale la vera opposizione è la scelta tra queste due categorie. Una riguarda l’emozione l’altra il calcolo.

Per usare un linguaggio elementare possiamo dire che una riguarda “il cuore” l’altra “la mente”.

Tornando alla critica di chi ha troppo, criminalizzarlo e quindi criminalizzare chi sottrae risorse agli altri, non serve, perché di solito chi sta bene pensa anche di stare nel giusto. Cioè quando un soggetto

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ha il benessere pensa di avere anche la verità. Questo è abbastanza evidente se si considera che le ragioni per cambiare status vengono dall’insoddisfazione. Sia la ricerca che il dubbio vengono dall’insoddisfazione o dal dubbio che si potrebbe stare meglio.

È quindi su questo piano che bisogna muovere la critica agli accaparratori delle risorse. Il loro modo di pensare, i loro simboli sono errati, li fanno stare male anche se non se ne accorgono, potrebbero stare molto meglio in un’altra situazione. Il vero status symbol non è più l’Accumulo ma la Bellezza delle emozioni, perché questa, e non l’Accumulo, è la vera ricchezza.

Non è l’investimento delle proprie energie in un ulteriore accumulo ma è l’investimento delle proprie energie in qualunque momento emotivamente bello.

Questo status symbol potrebbe essere espresso e mostrato sempre e ovunque come si fa oggi per quanto riguarda l’accumulo, sapere di averlo dovrebbe dare una soddisfazione continua, dovrebbe dare al soggetto la stessa soddisfazione che oggi gli dà il sapere di aver aumentato il suo conto in banca. Dovrebbe fargli capire che tutte le volte che esibisce il suo accumulo, in verità esibisce la sua povertà.

A questo punto il confronto tra chi ha e chi ha meno non avrebbe più bisogno di esistere, o comunque potrebbe essere molto ridimensionato, la competitività riguarderebbe solo la sfera dei beni essenziali per vivere. Non quelli necessari per gli status symbol.

Nel momento in cui i valori sono quelli emotivi e non quelli dell’accumulo, il concetto di “confronto”

viene a cadere perché i valori emotivi sono dei valori che trovano la loro validità all’interno del soggetto, nel loro momento fruitivo e qualitativo, nel momento in cui si sente che sono belli, non nel loro momento comparativo e quantitativo.

Il rapporto con gli altri impostato in termini qualitativi, nella sfera del bello con tutte le categorie concettuali associate (umanità, solidarietà, amicizia, estetica, rispetto etc….), permetterebbe di vivere con maggiore godimento.

Evidentemente la soddisfazione che viene da uno status symbol rientra ancora nella soddisfazione di una esibizione. Cioè è l’alternativa più evoluta allo status symbol dell’accumulo (ma con tutti i maggiori vantaggi).

Poiché la vera soddisfazione viene dal momento fruitivo e si tenderà a godere prescindendo dal desiderio di esibirlo, perché quello che veramente conta per sé è la propria soddisfazione e il proprio piacere, ben oltre il piacere che viene dal riconoscimento degli altri.

Se un soggetto gode di uno spettacolo naturale, o di un’opera d’arte, o di una sensazione fisica, gode prima di tutto per sé, non necessariamente per dirlo a qualcun altro

Andando oltre in questa analisi si può anche considerare da cosa vengono le soddisfazioni che, evidentemente, sono insieme ai piaceri, una delle componenti della ricchezza (direi la maggiore).

Queste non sono il semplice “risultato” non sono “le cose che si hanno” ma sono “il processo delle nostre azioni che portano ad un certo risultato”.

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Sono cioè il raggiungimento dell’obbiettivo attraverso l’investimento di tutte le proprie energie:

mentali, affettive e fisiche.

Tanto più si investono queste energie (tutte e non solo alcune) tanto più il risultato dà soddisfazione.

E questo è un fatto che ognuno può capire da solo, che può sentire da solo nella sua esperienza quotidiana. Siccome però, a quello che uno capisce da solo, di solito non viene data molta importanza, possiamo tener conto che esperimenti “scientifici” confermano quanto sopra (v. “La selezione psicologica umana” di Massimini, Inghilleri, Delle Fave – Ed. Cooperativa Libraria IULM, Milano, 1996).

Se questa è la situazione, è evidente che il lavoro manuale e lo sforzo fisico come componente della soddisfazione è anche una componente della ricchezza.

Il disprezzo o la commiserazione per chi svolge il lavoro manuale non sono giustificati in sé e per sé.

Il disprezzo o la commiserazione per il lavoro manuale sono giustificati per chi nel lavoro è costretto ad investire solo l’energia muscolare, per uno schiavo se vogliamo. Che però è l’estremo opposto ma analogo di chi dedica tutte le proprie energie a produrre accumulo. Questi probabilmente vivrà in un ambiente meno degradato, ma la sua insoddisfazione, derivante dalla sensazione di non essersi realizzato, sarà probabilmente la stessa.

L’ansia dell’epoca moderna ed in particolare della società occidentale di allontanarsi sempre di più dalle attività che coinvolgono il lavoro manuale, è un mezzo di impoverimento.

Evidentemente il lavoro manuale è sentito come uno status symbol negativo. Il simbolo di chi nelle precedenti società squilibrate, veniva sfruttato da coloro i quali stupidamente preferivano vivere di solo potere.

Con la tecnologia evidentemente ci si affranca dal lavoro manuale, essa acquisisce quindi uno status symbol positivo, ma non giustificato da un reale aumento di Ricchezza.

La tecnologia anzi, eliminando nella sua fase di utilizzo i componenti della soddisfazione (energie affettive, energie mentali e energie muscolari), porta ad un impoverimento della fruizione e quindi della componente più importante della Ricchezza.

Essa, inoltre, riduce le nostre capacità funzionali che evidentemente, se non usate, tendono ad atrofizzarsi. Si riduce quindi la possibilità di continuare ad usare tali capacità nel futuro. Per cui la prospettiva del futuro, come possibilità di fruizione e di ricchezza, in verità tende a diminuire man mano che la tecnologia ci sottrae le nostre funzioni.

Possiamo dire che sia l’Accumulo che la Tecnologia oltre certi limiti sono l’espressione di uno stesso fenomeno nevrotico che spinge il soggetto ad un comportamento contrario alla vera Ricchezza.

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