Discorso di Benevenuto di mons. Giuseppe Costanzo
al cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia
Siracusa, 13 Dicembre 2006 Solennità di Santa Lucia Eminenza,
a nome delle Autorità civili e militari qui convenute, del Capitolo Metropolitano, della Deputazione della Cappella di Santa Lucia, del Clero, del Seminario e del popolo siracusano desidero rivolgerLe il mio deferente saluto e il mio grato benvenuto.
La visita del Patriarca di Venezia a Siracusa è un evento storico, di cui siamo consapevoli e partecipi. È una visita da tutti noi sentitamente attesa e oggi fervidamente vissuta. Vostra Eminenza viene in questa nostra terra visitata da San Paolo e irrorata dal sangue della martire Santa Lucia: viene per venerare con noi la nostra Santa Patrona e per incoraggiare il nostro cammino di fede. Le siamo profondamente grati per la Sua presenza e per la Sua parola. Ci sentiamo altamente onorati e gratificati.
Nella Sua sapienza pastorale Vostra Eminenza ha dato un impulso forte al dialogo fecondo tra Venezia e Siracusa, additando in Santa Lucia un vincolo sacro che ci unisce nella fede comune.
La Sua sensibilità ecclesiale nell’interpretare i sentimenti del popolo siracusano, la Sua generosa disponibilità a venire tra la nostra gente, il dono della Sua parola che ci orienta nei sentieri della salvezza, colmano il nostro cuore di riconoscenza e di gioia. La accogliamo con esultanza. La ascoltiamo con viva attenzione. Le esprimiamo la nostra riconoscenza.
Omelia di S.E.R. Angelo Card. Scola, Patriarca di Venezia
Basilica Cattedrale di Siracusa, Solennità di Santa Lucia
1. «Ho donato tutte le mie sostanze, e poiché non ho più nulla da offrire, offro in sacrificio me stessa» (Atti del martirio di S. Lucia, Codice greco Papadopulo).
Lucia documenta nella sua persona e nella sua giovane esistenza il fascino del supremo dono di sé, il fascino inesauribile dell’amore.
L’amore, per sua natura, non calcola. Tende al dono totale di sé. La sua “misura” è senza misura, perché viene da Dio e porta impresso il marchio dell’infinito, tende alla totalità, al per sempre.
2. Noi però, pur desiderandolo con ogni fibra del nostro cuore, riconosciamo di non esserne capaci. Per restituirci questa “capacità”
originaria è venuto il Figlio di Dio. «Il Verbo si è fatto carne»: è la straordinaria notizia del Natale cui ci stiamo preparando. Per questo la solennità di oggi offre la testimonianza di Lucia che ha fatto propria l’affermazione di Paolo: «Questa vita che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2, 20, Seconda Lettura).
3. Ma la mentalità mondana (anche quella che è in noi) spesso irride alla nostra fede e tende a ridurla nella sfera dell’irrazionale, del magico. Come già fece con Santa Lucia, ma ella rispose con forza alla menzogna di Pascasio che la accusava di stregoneria: «Queste non sono arti magiche: è la potenza di Dio» (Atti del martirio di Santa Lucia, Codice greco Papadopulo).
4. Si capisce allora la straordinaria devozione dei Siracusani per Santa Lucia. È parte della storia di Siracusa, è impensabile senza la Santa.
DNA del suo popolo, ne determina la fede e la vita ecclesiale. Lo documenta la forte tradizione di pietà popolare (il pellegrinaggio).
Essa ha la sua sorgente ed il suo culmine in Cristo. A Lui dobbiamo tendere con Maria (Madonna delle Lacrime) modello di comunità cristiana matura, come ha richiamato anche di recente il Vostro Arcivescovo nella sua Lettera pastorale su San Paolo, il quale ha visitato questa vostra città (At 28,12). Ancora, Santa Lucia orienta ed
ispira la vita culturale e con il suo martirio muove tutta la società civile siracusana a costruire una vita buona (matrimonio/famiglia).
Santa Lucia lega inoltre da secoli in un rapporto ormai indissolubile Siracusa a Venezia.
5. Nel dialogo incalzante e drammatico con Pascasio, il prefetto di Siracusa e suo carnefice, Lucia è vittoriosa. Tiene perfettamente testa all’uomo che le sta davanti, come tante altre donne forti fin
dall’Antico Testamento. Mostra l’alta dignità della donna, che la Chiesa ha individuato (Giovanni Paolo II) nel “genio femminile”. È decisivo che le donne oggi vivano fino in fondo questo loro genio a tutti i livelli. Da loro dipende in larghissima misura il bene-essere della Chiesa e della società.
6. In questa prospettiva la vita eterna non è più relegata ad un futuro astratto; ma affermare che: «Io lo vedrò, io stesso, e i miei occhi lo contempleranno non da straniero» (Gb 19, 27a, Prima Lettura) cambia la vita su questa terra. I nostri occhi vedranno Dio perché hanno già cominciato a vederlo. Nel paradosso ben sintetizzato dal Vangelo di oggi: «Beati gli afflitti, perché saranno consolati … Beati i perseguitati per causa della giustizia perché di essi è il regno dei cieli». Il futuro si radica e già germoglia nel presente.
7. Lucia, donatrice di luce (certamente il Manzoni lo aveva ben presente scegliendo questo nome per la protagonista dei suoi
“Promessi Sposi”), che ce lo testimonia, ci aiuti a viverlo: «O Dio … concedi a noi che oggi gioiamo per la passione della beata vergine Lucia, di gustare nello splendore della tua luce il frutto dolcissimo di questo mistero che ci conforta nell’attesa della tua venuta» (Orazione dopo la Comunione).
Discorso dal balcone di Piazza Duomo
Siracusa 13 dicembre 2006
È il momento, tanto atteso e gioioso, di manifestare pubblicamente, per le strade e le piazze della città, il nostro amore a Lucia e la nostra fiducia nel suo patrocinio. Rinnoviamo la nostra gratitudine al Patriarca di Venezia, il Card. Angelo Scola, che ci onora con la sua presenza. La nostra devozione a Lucia si esprime nel seguire il suo esempio di coerenza e di fedeltà. Della sua vita Lucia ha fatto dono a Cristo, non l’ha rigettata. L’ha offerta, non l’ha rifiutata. Non se l’è tolta, ma gliel’hanno tolta in odio alla fede. Oggi, con un eufemismo, per porre fine ad un’esistenza che non sarebbe degna di essere vissuta, si dice di voler togliere la vita per compassione. Come cristiani non possiamo non domandarci: È pietà uccidere? È davvero atto di compassione? Più radicalmente: È lecito dare la morte ad un malato inguaribile? Chi vorrebbe la legalizzazione dell’eutanasia dice che il nulla è preferibile ad una vita che non è degna di essere vissuta. Ma domandiamoci: chi può stabilire quando una vita non è più degna di essere vissuta? Chi può decidere se una vita ha valore o è inutile? Ed è proprio vero che dopo la morte c’è il nulla? Noi cristiani non professiamo nel Credo la risurrezione della carne e la vita eterna? Non dimentichiamo, amici, che una legge ha sempre valore pedagogico: lascerebbe intendere che uccidere chi è inguaribile
è atto d’amore. Il che è falso, anzi assurdo. Dobbiamo fare attenzione a non investire di pietà ciò che, in verità, è egoismo o scorciatoia per ridurre la spesa pubblica, o rifiuto dell’impegno umano e clinico a fianco del malato, o una fuga di fronte alla paura della morte, che fa tanto più paura quanto meno è illuminata dalla luce della fede. Paura, inoltre, e rifiuto del dolore, della sofferenza, della disabilità. Si sta sviluppando un’idea di “qualità della vita” misurata su standard di salute, di efficienza, di forma fisica: una vita senza questo tipo di
“qualità” non sarebbe degna di essere vissuta e può essere
“oggetto” di libera scelta. Di conseguenza alcuni potrebbero avere più potere di altri sulla vita altrui, dicendo quando e come spegnerla. Conseguenze devastanti, come vedete. Mi permettano i medici di ricordare loro che l’eutanasia non è assolutamente un atto medico, perché il medico è per la vita e non per la morte.
Mi permettano i politici di ricordare loro che va salvaguardato anzitutto il diritto alla salute e ad un’equa ridistribuzione delle risorse sanitarie anche per i malati terminali e per le loro
famiglie. Mi permettano gli operatori della comunicazione sociale di sottolineare che va evitata la strumentalizzazione dei casi dolorosi e l’eccessiva insistenza sul lato emotivo, perché questo distorce i parametri di giudizio., a scapito dell’oggettività. Mi consentano tutti coloro che si dicono credenti e devoti di S. Lucia di ricordare che “non uccidere” è
uno dei dieci comandamenti e che perciò la vita umana è sacra ed intangibile, un bene di cui nessuno può disporre. Si ha la facoltà, ma non il diritto di uccidersi. Né si può delegare ad
altri la facoltà di uccidere. Cari fratelli e sorelle, lasciate che, come vostro vescovo, vi dica: abbiamo il dovere di stringerci attorno a chi vuol morire e di dirgli: fratello, anche sulla carrozzina, persino riverso nel letto, tu sei degno di vivere; sei utile, sei un uomo. La vita non è mai inutile. Io non ti uccido, lotterò anzi perché tu viva. Senza torture, senza accanimenti. Ma darti la morte, no. Sarebbe il contrario della vera pietà. Pietà non è tenerezza sentimentale. Pietà è amore alla vita, non è il permesso di uccidere. Pietà è fasciare di amore il sofferente; è riscaldargli il cuore con una presenza che gli faccia sentire affetto e solidarietà; è aiutarlo a comprendere la dignità della vita, il valore della sofferenza, il senso della morte. Pietà è annunciare al morente la croce di Cristo ed aiutarlo ad incontrare il Crocifisso Salvatore. Questo è il senso della “Casa della carità” che stiamo approntando per accogliervi dieci malati terminali di AIDS, perché non muoiano soli, dimenticati e rifiutati da tutti. L’affetto aiuta a vivere e la grazia di Dio fa miracoli. Nessuno che si sente amato chiede di morire. Può chiedere che gli sia alleviato il dolore, ed è dovere della società assicurare una adeguata terapia del dolore e una congrua attenzione alla famiglia del malato. Convinciamoci che molti
drammi accadono perché si è lasciati soli. E nella solitudine si tocca l’inferno. La domanda che sale prepotente – a volte anche male espressa – da ogni uomo è una domanda d’amore e d’aiuto.
Raccogliere e comprendere questa domanda – e riempirla di preghiera e di affettuoso sostegno – è alimentare la voglia di vivere. C’è da ricuperare, anche a livello politico, la capacità di amare; perché il rischio che stiamo correndo è quello di scivolare lentamente, senza accorgercene, verso una società che, non sapendo amare e lasciando gli uomini soli, diventa di fatto una società crudele.
La Madonna, che in questa città ha pianto, asciughi le lacrime dei malati più gravi e delle famiglie più provate. S. Lucia ottenga a tutti, e in particolare ai legislatori, la luce per un retto giudizio, la lealtà per una corretta impostazione dei problemi e la tenerezza di un amore che infonde fiducia e restituisce ai sofferenti la voglia di vivere.
† Giuseppe Costanzo