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La legge n. 183/2010 : le modifiche al processo del lavoro.

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Academic year: 2022

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ALBERTO MASSAIA

PROCESSO DEL LAVORO

La legge n. 183/2010 : le modifiche al processo del lavoro.

Premessa.

In queste pagine affronterò alcune delle molte materie contenute nella legge n. 183/2010 di riforma – o meglio di controriforma – del processo del lavoro: mi limiterò ad una breve sintesi per quanto riguarda gli aspetti giuridici ed infine cercherò di formulare qualche osservazione di carattere più strettamente politico e sindacale.

L’attuale governo di centro destra insediatosi dopo il successo elettorale della primavera del 2008, aveva già apportato alcune modifiche al processo del lavoro con uno dei primi atti legislativi seguiti all’insediamento del governo. Mi riferisco alla cosiddetta

“manovra di giugno”, o meglio al decreto legge n. 112/2008 seguito dalla legge di conversione n. 133/2008. E’ il caso di ricordare come queste prime modifiche fossero contenute in quello che era un tipico “decreto omnibus” recante le normative più svariate; al riguardo appariva emblematico già il titolo, “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”. Premetto come il titolo della legge appaia significativo per un ragionamento politico, che svolgerò successivamente. Ed è egualmente significativo ricordare come l’attenzione dell’opinione pubblica sia stata catturata dall’azione di propaganda televisiva e giornalistica in materia di pubblico impiego: in particolare un solo articolo, il 71, sulle assenze per malattia è stato strumentalizzato per l’azione di propaganda che si può riassumere nell’immagine dei “dipendenti pubblici fannulloni”.

Un ulteriore intervento in materia di processo del lavoro, assai circoscritto ma comunque insidioso, è stato realizzato con la legge n. 69/2009, altra “legge omnibus” recante il titolo

“disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, nonché in materia di processo civile”. L’art. 45 della legge 69/2009 ha fra l’altro modificato gli art. 91 e 92 del codice di procedura civile, con conseguenze generali ma di fatto mirate a sfavore del lavoratore nel processo del lavoro. Così, il lavoratore che ottiene una sentenza favorevole ma non superiore alla proposta conciliativa – quella in prima udienza del processo del lavoro – che sia stata rifiutata senza giustificazione , sarà condannato al pagamento delle spese processuali. Inoltre, fissa limiti assai più rigidi ai casi di compensazione delle spese fra le parti, compensazione prima diffusa nel processo del lavoro.

L’intervento, come si è detto, è circoscritto, ma la conseguenza è

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quella di rendere più oneroso per il lavoratore l’instaurazione di un processo del lavoro.

Tuttavia, le modifiche più importanti in materia di processo del lavoro sono state portate avanti dal Governo fra l’una e l’altra delle due leggi prima citate, con il disegno di legge n. 1441, presentato alla Camera dei Deputati il 2 luglio 2008. Al pari della legge n. 133/2008, anche questa volta si trattava di una “legge omnibus” , collegato alla legge finanziaria e recante il medesimo titolo - del tutto ripetitivo - della legge 133/2008 “Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica, la perequazione tributaria”.

Il disegno di legge n. 1441 ha avuto un iter estremamente lungo ed anche sui generis, che è terminato solo recentemente. Dapprima, il 5 agosto 2008 è stato stralciato in 3 disegni di legge, n. 1441 bis (che reca il titolo originario), n. 1441 ter (“Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese nonché in materia di energia”) e n. 1441 quater (“Delega al Governo in materia di lavori usuranti e di riorganizzazione di enti, misure contro il lavoro sommerso e norme in tema di lavoro pubblico e controversie di lavoro”).

Il disegno di legge identificato con il n. 1441 quater alla Camera ed il n. 1167 al Senato, dopo un iter parlamentare durato due anni sembrava approdato all’approvazione definitiva il 3 marzo 2010.

Ma a questo punto, come è ben noto, il 31 marzo 2010 è stato rinviato alle Camere per un riesame dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che si è valso della facoltà attribuitagli dall’art. 74 della Costituzione. La richiesta di riesame contiene una critica preliminare nei confronti di una tecnica legislativa che produce testi normativi talmente eterogenei e disorganici da avere riflessi sulla certezza del diritto; ma soprattutto ha appuntato specifiche critiche all’art. 20 relativo alle malattie causate dall’amianto al personale in servizio sul naviglio di Stato – vale a dire le navi da guerra della Marina Italiana – e sull’art. 31 relativo all’arbitrato. Il disegno di legge, dopo il rinvio del Presidente della Repubblica, dopo ulteriori passaggi parlamentari, è stato infine approvato il 19 ottobre 2010 ed è diventato legge dello Stato con il n. 183/2010.

Infine, pochi mesi dopo l'approvazione, la legge n. 183/2010 è stata modificata all'articolo 32 dalla legge n. 10/2011 che ha convertito il decreto legge n. 225/2010, noto con l'appellativo di

“decreto milleproroghe”.

Per facilità espositiva articolerò il mio intervento in 7 tranches: 1) una carrellata sulle principali norme in materia di diritto del lavoro; 2) le clausole generali; 3) le certificazioni e i licenziamenti; 4) la nuova forma di conciliazione e arbitrato davanti alla DPL; 5) l’arbitrato irrituale; 6) le clausole compromissorie; 7) il regime delle decadenze; infine chiuderò con alcune considerazioni di carattere politico e sindacale.

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1) La congerie di norme in tema di diritto del lavoro nella legge n. 183/2010.

Abbiamo evidenziato come la caratteristica più evidente della legge sia l’eterogeneità delle materie trattate, che per di più sono diventate man mano più numerose e disorganiche durante i vari passaggi parlamentari.

Il messaggio dei rinvio del Presidente Giorgio Napoletano ha fatto una sintetica elencazione delle materie raccolte nel provvedimento:

- revisione della normativa in tema di lavori usuranti;

- riorganizzazione degli enti vigilati dal Ministero del Lavoro e dal Ministero della Salute;

- regolamentazione della Commissione per la vigilanza sul doping e la tutela della salute nelle attività sportive;

- misure contro il lavoro sommerso;

- disposizioni riguardanti i medici e i professionisti sanitari extracomunitari;

- permessi per l’assistenza ai portatori di handicap; ispezioni nei luoghi di lavoro;

- indicatori di situazione economica equivalente;

- indennizzi per aziende in crisi;

- numerosi aspetti della disciplina del pubblico impiego (con conferimento di varie deleghe o il rinvio a successive disposizioni legislative);

- un’ampia riforma del codice di procedura civile per quanto attiene alle disposizioni in materia di conciliazione e arbitrato nelle controversie individuali di lavoro.

revisione della normativa in tema di lavori usuranti;

riorganizzazione degli enti vigilati dal Ministero del Lavoro e dal Ministero della Salute; regolamentazione della Commissione per la vigilanza sul doping e la tutela della salute nelle attività sportive; misure contro il lavoro sommerso; disposizioni riguardanti i medici e i professionisti sanitari extracomunitari; permessi per l’assistenza ai portatori di handicap; ispezioni nei luoghi di lavoro; indicatori di situazione economica equivalente; indennizzi per aziende in crisi; numerosi aspetti della disciplina del pubblico impiego (con conferimento di varie deleghe o il rinvio a successive disposizioni legislative); un’ampia riforma del codice di procedura civile per quanto attiene alle disposizioni in materia di conciliazione e arbitrato nelle controversie individuali di lavoro.

Mi limiterò ad una rapida sintesi, una sorta di indice, dei principali interventi in materia di diritto del lavoro contenuti nella legge.

L’art. 1 attribuisce al Governo una delega per attribuire il diritto al pensionamento anticipato ai soggetti che svolgono lavori usuranti.

L’art. 7 modifica il decreto legislativo n. 66/2003 sull’orario di lavoro, alleggerendo le sanzioni amministrative previste per le violazioni compiute dal datore di lavoro in materia di orario di lavoro, riposo giornaliero e riposo settimanale. Modifica altresì il decreto legislativo n. 271/1999, facilitando gli accordi

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sindacali in deroga alle norme di legge sull’orario di lavoro per i marittimi.

L’art. 16 interviene sul lavoro a tempo parziale nel pubblico impiego, prevedendo una sorta di retroattività di fatto alle norme della legge 133/2008 che avevano reso più difficoltoso il passaggio dal tempo pieno al tempo parziale. In particolare, la norma consente alle Pubbliche Amministrazioni di sottoporre a nuova valutazione i passaggi da tempo pieno a tempo parziale già concessi prima dell’entrata in vigore della citata legge n. 133/2008.

L’art. 23 attribuisce al Governo una delega per il riordino della complessiva materia dei congedi, aspettative e permessi, qualunque sia la loro denominazione e finalità, fruiti dai lavoratori del settore sia pubblico che privato.

L’art. 24 modifica la materia dei permessi per l’assistenza ai portatori di handicap in situazione di gravità già previsti dalla legge n. 104/1992 e dal testo unico n. 151/2001. In particolare vengono aggiunte limitazioni ai permessi per l’assistenza del coniuge, parenti, affini: il lavoratore potrà fruire dei 3 giorni permesso mensili solo se i genitori o il coniuge del soggetto con handicap siano deceduti o mancanti o invalidi o ultrasessantacinquenni. Inoltre, pone la limitazione espressa dell’attribuzione dei permessi ad un solo lavoratore dei permessi per l’assistenza ad una sola persona. Infine, il diritto attribuito al lavoratore ad avvicinarsi al proprio domicilio è stato sostituito dal diritto all’avvicinamento al domicilio dell’assistito.

L’art. 25 ha esteso al lavoro privato l’obbligo di trasmissione telematica all’INPS dei certificati medici di malattia, già previsto per i dipendenti pubblici dal decreto legislativo n. 165/2001 art.

55 septies.

L’art. 48 ha introdotto una serie di modifiche al decreto legislativo n. 276/2003, modificando alcuni degli articoli relativi alle agenzie per il lavoro ed alla borsa continua nazionale del lavoro. Ha inoltre modificato l’art. 61 dello stesso decreto legislativo, prevedendo che la normativa sul lavoro a progetto non sia applicabile ai servizi di cura e assistenza alla persona di durata non superiore a 240 ore nell’arco dell’anno.

L’art. 50 ha introdotto una norma “sartoriale”, “tagliata su misura” a favore di una società di call center del gruppo TELECOM, che contava circa 100 dipendenti e 4000 collaboratori a progetto.

Questi ultimi avevano in gran numero impugnato davanti al giudice il contratto di collaborazione che mascherava un contratto d lavoro dipendente; le cause sono state in gran parte vinte dai lavoratori ed ora sono pendenti in Corte di Cassazione; l’azienda aveva offerto nel frattempo la conversione dei contratti da collaborazione a lavoro dipendente, ma con decurtazione degli arretrati. L’art. 50 della legge n. 183/2010 ha ora previsto il caso specifico, stabilendo un indennizzo a forfait compreso fra 2,5 e 6 mensilità.

Da questa semplice elencazione, appare evidente la vastità e la disorganicità degli argomenti di diritto del lavoro affrontati dalla legge, per di più utilizzando una tecnica di modifica della legislazione esistente.

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2) Le clausole generali – art. 30 comma 1 della legge n. 183/2010.

Passiamo ora ad uno degli argomenti di rilievo della legge, iniziando dalle cosiddette clausole generali.

La rubrica dell’art. 30 della legge appare un po’ enigmatica , recita infatti “clausole generali e certificazione del contratto di lavoro”.

Iniziamo dalle clausole generali, disciplinate dal comma 1 con una tecnica normativa alquanto tortuosa, per rimandi ad altre disposizioni di legge. Riporto per esteso il comma 1:

“In tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie di cui all’art. 409 codice procedura civile ed all’art. 63 comma 1 del decreto legislativo n. 165/2001, contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente.”

In primo luogo, la norma identifica le materie alle quali può essere applicata. Il comma non fa un’elencazione, ma rimanda alle materie di cui all’art. 409 codice di procedura civile ed all’art.

63 del D.Lgs 165/2001 (norme generali sull’ordinamento del lavoro nelle Amministrazioni Pubbliche). La materia al quale la legge n.

183/2010 fa riferimento, per effetto di questo intricato rimando, è quindi la generalità del contenzioso lavoristico. Come logica conseguenza, norma in tema di clausole generali è applicabile rappresentano una platea amplissima di soggetti: sono infatti coinvolti i lavoratori dipendenti sia pubblici che privati ed i cosiddetti lavoratori parasubordinati (vale a dire i soggetti che prestano attività di agenzia, di rappresentanza commerciale, di collaborazione coordinata e continuativa).

In secondo luogo, il comma fa riferimento, nell’ambito del contenzioso lavoristico sopra citato, alle disposizioni di legge che contengano clausole generali. Di per sé tale precisazione non significa molto, in quanto usualmente una legge contiene sempre clausole generali ed astratte. Ma tale rimando alle clausole generali è accompagnato da un breve elenco che “riempie” tale concetto aperto e che comprende: l’instaurazione del rapporto di lavoro; l’esercizio dei poteri datoriali; il trasferimento d’azienda; il recesso. Il comma prevede chiaramente che l’elenco sia soltanto esemplificativo e quindi potrà estendersi, tuttavia è sufficiente per delineare un campo di applicazione estremamente ampio.

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Infatti, nel settore del lavoro pubblico e privato, dipendente e parasubordinato, il campo di applicazione della nuova norma coinvolge tutte le principali materie oggetto di contenzioso del lavoro. Così, a titolo esemplificato, vi rientrano le norme che disciplinano l’instaurazione e conseguentemente la qualificazione delle varie tipologie di rapporti di lavoro – compresa la vasta casistica di rapporti di lavoro atipico di cui alla legge n.30/2003 e relativo d.lgs. n.276/2003 e di lavoro a tempo determinato di cui al d.lgs. 368/2001 – il trasferimento d’azienda di cui all’art. 2112 codice civile, le sanzioni disciplinari di cui alla legge n.300/1970, i licenziamenti individuali e collettivi di cui alle leggi n.604/1966, 300/1970, 223/1991.

In tutti questi settori, la norma limita la valutazione del giudice al solo accertamento di legittimità, escludendo l’accertamento di merito riguardo alle valutazioni tecniche organizzative e produttive, che la legge attribuisce esclusivamente alla parte padronale. E’ curioso notare come l’inciso circa le valutazioni tecniche, organizzative, produttive sia una sorta di citazione del d.lgs. n.368/2001, in particolare della norma che identifica i casi in cui è possibile apporre un termine al contratto di lavoro. Non è certo una coincidenza, il legislatore ha voluto utilizzare una formulazione già nota e assolutamente generica.

Da un lato strettamente giuridico la nuova norma prevista dalla legge n. 183/2010 non appare così innovativa. Così, per fare l’esempio proprio del lavoro a tempo determinato, la magistratura è intervenuta più volte stabilendo che l’onere della prova delle ragioni che giustificano l’apposizione del termine al rapporto di lavoro spetta al datore di lavoro e stabilendo altresì che tali ragioni devono essere oggettive e verificabili 1. Tutto questo senza sindacare di per sé il merito di tali ragioni.

Principi simili si riscontrano in tema di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo ai sensi della legge n. 604/1966.

Emblematica è il riguardo la recente sentenza n. 21759/2008 della Corte di Cassazione, che ha così identificato gli oneri probatori in capo al datore di lavoro: questi deve provare che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore licenziato; e deve altresì provare di avere prospettato al lavoratore medesimo, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un suo impiego in mansioni inferiori compatibili con l'assetto organizzativo aziendale. Ed a questo proposito, la sentenza stabilisce che l’assetto organizzativo aziendale è stabilito dall'imprenditore in modo insindacabile 2.

1 Fra le altre, vedi le seguenti sentenze: Tribunale di Milano, 15 ottobre 2003; Tribunale di Milano, 13 novembre 2003; Tribunale di Firenze, 5 febbraio 2004; Tribunale di Milano, 21 aprile 2004; Tribunale di Milano, 14 ottobre 2004; Corte d’Appello di Bari, 20 luglio 2005; Tribunale di Milano, 16 ottobre 2006; Tribunale di Genova 14 novembre 2006; Tribunale di Napoli, 16 marzo 2007; Tribunale di Asti 17 luglio 2007; Corte d’Appello di Potenza, 30 gennaio 2008; Corte d’Appello di Bari, 18 settembre 2008.

2 Vedi altresì le seguenti sentenze dello Corte di Cassazione sez.

Lavoro: n. 12270/2003, n. 28/2004, n. 12514/2004, n. 16163/2004, n.

21121/2004, n. 12769/2005, n. 14815/2005, n. 21282/2006, n. 27101/2006, n.

6229/2007, n. 17887/2007, n. 24132/2007, n. 4068/2008, n. 25043/2008, n.

25045/2008.

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E passando ai licenziamenti collettivi ai sensi della legge n.

223/1991 , la sentenza n. 10590/2005 della Corte di Cassazione ha stabilito che in caso di licenziamento collettivo per riduzione del personale riferito in modo esclusivo ad un'unità produttiva o ad uno specifico settore dell'azienda, la comparazione dei lavoratori al fine di individuare quelli da avviare alla mobilità può avvenire secondo una scelta dell'imprenditore ispirata al criterio legale delle esigenze tecnico - produttive, obiettivamente giustificate dalle esigenze organizzative che hanno dato luogo alla riduzione di personale 3.

Si può riassumere l’attuale linea giurisprudenziale nel senso che il giudice non verifica i presupposti ed i criteri dell’organizzazione aziendale che di volta in volta giustificano l’apposizione di un termine al contratto di lavoro, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, i licenziamenti collettivi, ma il giudice verifica l’effettività e la non pretestuosità di tali criteri imprenditoriali.

La norma non sembra introdurre innovazioni così eclatanti rispetto alla giurisprudenza consolidata. Tuttavia, se la valenza giuridica della norma non è forse così penetrante, lo è invece il significato politico, che è chiarissimo.

L’art. 30 comma 1 si presenta infatti come una norma d’indirizzo politico finalizzata a condizionare e modificare l’orientamento della giurisprudenza del lavoro; tale norma detta un principio di non intromissione della magistratura nei confronti delle scelte imprenditoriali e di subalternità delle ragioni dei lavoratori a confronto con le ragioni degli imprenditori.

Probabilmente un magistrato serio e consapevole della propria autonomia non si farà influenzare da una norma del genere.

Tuttavia, nei confronti di magistrati più attenti al potere politico, tale norma potrà valere come stimolo o come suggerimento verso scelte di non esporsi, di non assumersi rischi, in una parola potrà fornire un alibi per il conformismo. Ed il risultato di questo

“suggerimento politico” sarà quello di rendere meno efficace l’intervento del giudice del lavoro, limitarne l’azione.

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3) Le certificazioni del rapporto di lavoro e i licenziamenti – art. 30 commi 2 e 3 legge n. 183/2010.

Il 2° comma dell’art. 30 della legge riguarda invece l’altro termine della rubrica, vale a dire le certificazioni dei contratti di lavoro già previsti dal decreto legislativo n. 276/2003 (artt. 75 – 84) e rimaste sostanzialmente lettera morta 4. Il 3° comma è

3 Vedi altresì le seguenti sentenze dello Corte di Cassazione sez.

Lavoro: n. 13182/2003, n. 15377/2004, n. 7752/2006, n. 13783/2006, n.

14612/2006, n. 16000/2006, n. 21300/2006, n. 23275/2007, n. 26376/2008.

4 Per completezza, si precisa che ai sensi dell’art. 76 del d.lgs.

276/2003 e successive modifiche, le commissioni di certificazioni possono essere costituite presso: gli enti bilaterali; le Direzioni Provinciali del

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strettamente legato al 2°, pur affrontando in modo specifico il tema dei licenziamenti in correlazione per l’appunto con le certificazioni.

Lo strumento della certificazione dei rapporti di lavoro, così come disciplinato dagli artt. 75 e 80 del d.lgs. n. 276/2003, era limitato ad un accertamento della congruenza del rapporto di lavoro - così come previsto dal contratto siglato fra le parti - e lo schema contrattuale stabilito dalla legge. L’intenzione della legge del 2003 – almeno l’intenzione dichiarata - era quella di ridurre il contenzioso. L’interesse a certificare i contratti era ovviamente per la parte padronale, che avrebbe potuto ottenere la validazione di un rapporto di lavoro autonomo sotto il quale era camuffato un lavoro dipendente: e questo era probabilmente lo scopo reale ed inconfessabile del legislatore. In realtà, lo stesso art. 80 del d.lgs. n. 276/2003 prevedeva la possibilità di ricorso al giudice per far valere l’erronea qualificazione del rapporto contrattuale oppure la difformità fra qualificazione contrattuale e attività lavorativa realmente svolta. Il possibile intervento giudiziario ha di fatto reso la certificazione poco interessante per i datori di lavoro.

Ora la legge n. 183/2010 amplia le possibilità della certificazione. Prevede infatti che nell’ambito del contratto di lavoro certificato possano rientrare altresì clausole compromissorie (art. 31 comma 10) e clausole di licenziamento per giusta causa e giustificato motivo (art. 30 comma 3).

Ai sensi dell’art. 30 comma 2, in caso di contenzioso riguardo a contratti di lavoro certificati ai sensi del d.lgs. n. 276/2003, nell’accezione ampia stabilita dalla legge 183/2010, il giudice non può discostarsi dalle valutazioni espresse dalla parti in sede di certificazione. Restano salvi i casi di erronea qualificazione del contratto, vizi del consenso, difformità fra contratto di lavoro certificato e reale attività lavorativa, come già previsto dalla normativa del 2003.

Lo scopo dichiarato del legislatore è sempre quello di ridurre il contenzioso. In realtà l’intento politico è identico a quello già descritto per il 1° comma: rendere meno efficace l’intervento del giudice del lavoro, limitarne l’azione. Un secondo intento politico è quello di accrescere il peso negozale dei contratti di lavoro individuali – seppure certificati – rispetto ai contratti collettivi, con tutte le conseguenze derivanti dalla debolezza della posizione negoziale del singolo lavoratore nei confronti del datore di lavoro, massimamente in sede di costituzione del rapporto di lavoro. Un’impostazione negoziale di genere può essere equilibrata per poche posizioni lavorative dirigenziali, ma è pesantemente sbilanciata per la generalità dei lavoratori.

Gli effetti pratici possono essere di notevole gravità ed emergono in particolare in materia di licenziamenti. Così, ad esempio, qualora un contratto individuale certificato contenga clausole sui licenziamenti che deroghino in peius rispetto al

Lavoro e le Province; le università pubbliche e private; il Ministero del Lavoro; i consigli provinciali dei consulenti del lavoro.

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contratto collettivo, il giudice sarà vincolato da tali deroghe.

Sempre nel caso di un contratto individuale certificato che contenga clausole sui licenziamenti, non sarà più possibile – o almeno sarà più difficile - un intervento del giudice che , in via equitativa e di bilanciamento degli interessi, eccepisca la sproporzione fra l’addebito mosso ad un lavoratore e la sanzione del licenziamento e di conseguenza sostituisca il licenziamento con un’altra sanzione disciplinare più lieve.

Le intenzioni del legislatore emergono in modo anche più netto nel comma 3 dell’art. 30, che tratta in modo specifico i licenziamenti.

Anche in questo caso il legislatore impone una regola limitativa al giudice del lavoro nel caso di valutazione delle motivazioni dei licenziamenti per giusta causa e giustificato motivo. La formula utilizzata è “il giudice tiene conto”; è una formulazione forse meno imperativa di altre del tipo “il giudice deve tenere conto”, ma gli effetti non sono molto diversi. La legge n. 183/2010 fornisce un elenco preciso degli elementi di cui il giudice tiene conto o deve tenere conto nel suo giudizio: le tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro – sia nazionali che aziendali – stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi e presenti altresì nei contratti individuali certificati ex artt. 75 e seguenti del d.lgs. n. 276/2003.

Vale una pena aprire una breve parentesi sulla formulazione che era stata adottata ancora nel testo di legge approvato dal Senato il 3 marzo 2010. Esso prevedeva fra gli elementi di cui il giudice doveva tenere conto in sede di valutazione di un licenziamento un ulteriore voce: le regole del vivere civile e dell’interesse dell’organizzazione. Il richiamo alle regole del vivere civile in un testo di legge lasciava alquanto perplessi su quale significato potesse avere. Non a caso, in sede di dibattito alla Camera, è stato oggetto delle pesanti critiche persino dell’Onorevole Michele Vietti, già Sottosegretario della Giustizia e poi Sottosegretario dell’Economia e delle Finanze nel 2° e nel 3° governo Berlusconi.

Il richiamo all’interesse dell’organizzazione suonava esso pure un po’ vago, ma era facile intuire come il legislatore facesse riferimento all’organizzazione aziendale, che diventava quindi un parametro di cui il giudice doveva tenere conto nella valutazione di un licenziamento, senza che fosse bilanciata da alcun richiamo ad un qualche interesse del lavoratore. Alla fine, il testo approvato dalla Camera il 29 aprile 2010 e quello infine approvato il 19 ottobre 2010 è stato depurato da entrambi i riferimenti.

Infine, come si è già detto, un contratto individuale certificato potrà contenere disposizioni sui licenziamenti in peius rispetto al contratto collettivo e sarà vincolante per il giudice.

Risalendo la cascata delle fonti contrattuali, egualmente vincolante per il giudice sarà un contratto collettivo sbilanciato e vessatorio a danno dei lavoratori, anche in deroga a norme di legge.

Al riguardo, vale la pena di riportare l’intervento – di grande chiarezza – dell’Onorevole Cinzia Capano del Partito Democratico effettuato in occasione del dibattito alla Camera del Deputati: “Con questa norma non stiamo intaccando l'articolo 18 dello Statuto dei

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lavoratori, stiamo facendo molto di più e molto peggio: stiamo eliminando la disciplina limitativa dei licenziamenti, e stiamo eliminando il controllo del giudice su quella disciplina: è molto di più. Se questa maggioranza vuole eliminare quella disciplina, abbia il coraggio di sfidare quei tre milioni di lavoratori che nella scorsa legislatura con questa maggioranza glielo hanno impedito, ma non utilizzi procedure striscianti come questa, perché non ci potete prendere in giro: eliminare il controllo del giudice sul merito dei licenziamenti equivale a rendere l'articolo 18 e tutta la disciplina limitativa totalmente innocua. Questo non ve lo potremo consentire, perché questo intervento non è un intervento per rendere più forte il diritto dei lavoratori, ma è per renderli esposti ai ricatti soprattutto in quelle zone, come il Mezzogiorno, dove questo ricatto, pur sussistendo la tutela reale, esiste già.”

Infine, il 3° comma dell’art. 30 si conclude con un’integrazione della legge n. 604/1966 in materia di tutela obbligatoria per il caso di licenziamenti individuali illegittimi.

Nei testi iniziali appariva incerto se la modifica valesse anche per il caso di tutela reale ai sensi dell’art. 18 della legge n.

300/1970, ma il testo definitivo ha fugato questo dubbio. Nei soli casi di “monetizzazione” del licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo nelle piccole imprese, restano validi i parametri d’indennizzo fissati nel 1966 e legati all’anzianità del dipendente illegittimamente licenziato. Tuttavia, in aggiunta a questi, il giudice tiene egualmente conto degli elementi e parametri fissati nei contratti (nazionali, aziendali, individuali), delle dimensioni e condizioni dell’azienda, della situazione del mercato del lavoro locale, dell’anzianità e condizioni del lavoratore, del comportamento della parti anche prima del licenziamento. In pratica la discrezionalità del giudice nel fissare l’indennizzo da una parte viene limitata – con il vincolo di attenersi ai contratti di lavoro che possono derogare in peius alla legge – e da un’altra parte viene ampliata prevedendo nuovi riferimenti.

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4) Modifiche alla conciliazione presso la Direzione Provinciale del Lavoro - altre forme di conciliazione e arbitrato ai sensi della contrattazione collettiva – art. 31 commi da 1 a 7 legge n.

183/2010.

Il tentativo di conciliazione presso la Direzione Provinciale del Lavoro, prima della “controriforma” della legge n. 183/2010, era disciplinato dall’art. 410 del codice di procedura civile nella formulazione da ultimo prevista dal decreto legislativo n. 80/1998.

Così, fra il 1998 ed il 2010, era prevista come tentativo da esperire obbligatoriamente prima di adire il giudice per qualunque controversia riguardante il lavoro dipendente privato ed era strutturata senza particolari formalismi.

La legge n. 183/2010 prevede ora all’art. 31 commi 1-7 un’ulteriore riscrittura degli artt. 410, 411, 412 CPC.

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In primo luogo, ai sensi dell’art.31 comma 1 – che ha introdotto il nuovo art. 410 CPC - la conciliazione diventa ora facoltativa, con un completo revirement rispetto a quanto stabilito nel 1998. La conciliazione resta obbligatoria (art.31 comma 2) solo per i casi d’impugnazione di contratto di lavoro certificato ai sensi del d.lgs. n. 276/2003 art. 80; la conciliazione è prevista di fronte alla stessa autorità che ha certificato il contratto, con un palese conflitto d’interessi. In secondo luogo, l’iter diventa nettamente più formale e complesso, sul modello delle conciliazioni esistenti nel pubblico impiego, accogliendo alcune forme che almeno in parte richiamano l’iter processuale.

Così, il lavoratore, eventualmente assistito da un sindacato, nella richiesta di conciliazione deve esporre, fra l'altro:

1) nome e cognome (o ragione sociale) e residenza (o sede) dell'istante e del convenuto;

2) il luogo dove è sorto il rapporto di lavoro ovvero dove si trova l'azienda o sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale prestava la sua opera al momento della fine del rapporto;

3) l'elezione di domicilio;

4) l'esposizione dei fatti e delle ragioni posti a fondamento della pretesa.

La richiesta deve essere spedita con raccomandata r.r. alla Direzione Provinciale del Lavoro ed alla parte padronale.

Quest’ultima ha tempo per attivarsi 20 giorni dal ricevimento della raccomandata; se rimane inerte, l’iter si chiude ed il lavoratore può adire il giudice; se invece accetta, entro il termine di 20 giorni di cui si è detto, deve depositare una memoria contenente le difese ed eccezioni in fatto e in diritto e le eventuali domande riconvenzionali. Entro 10 giorni dal deposito di tutto il materiale, deve essere fissata la data per la conciliazione ed entro ulteriori 30 giorni si deve riunire l’apposita commissione presso la DPL e si deve svolgere il tentativo di conciliazione.

Ai sensi dell’art.31 comma 3 – che ha introdotto il nuovo art.

411 CPC - se il tentativo di conciliazione riesce, anche limitatamente ad una parte della controversia, la commissione ne redige un verbale e la parte interessata può chiedere al giudice di renderlo esecutivo con decreto.

Sempre ai sensi del nuovo art. 411 CPC, se le parti non riescono ad accordarsi, spetta alla commissione formulare una proposta bonaria di definizione della controversia. La proposta può essere accettata o meno dalla parti, tuttavia in caso di rifiuto, la commissione riporterà sul verbale la proposta e le valutazioni espresse dalle parti. La legge (comma 4, modifiche all’art. 420 CPC) prevede infine che il giudice tenga conto in sede processuale del rifiuto della proposta transattivi senza adeguata motivazione.

E’ possibile che il tentativo di conciliazione presso la DPL si sviluppi in un arbitrato: è quanto prevede l’art. 31 comma 5 che ha introdotto il nuovo art. 412 CPC. La commissione non si limita più a ratificare o fosse anche a proporre una soluzione transattiva condivisa dalle parti, con reciproche concessioni e rinunce; la commissione può invece andare oltre e giungere ad un lodo arbitrale, che ovviamente prescinde dall’accordo fra le parti. In qualunque

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momento dell’iter di conciliazione le parti possono indicare alla commissione una soluzione anche parziale della controversia e – se possibile – il credito spettante al lavoratore. Dopo di che, le parti affidano alla commissione di risolvere la controversia in via arbitrale, precisando se intendono valersi di un arbitrato secondo diritto oppure secondo equità. Il testo approvato dal Senato il 3 marzo 2010 e rinviato alla Camere dal Presidente della Repubblica, precisava che il giudizio secondo equità doveva avvenire nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento; il testo definitivo approvato il 19 ottobre 2010 ha aggiunto che deve avvenire altresì nel rispetto dei principi regolatori della materia anche derivanti da obblighi comunitari 5. Il lodo arbitrale emesso dalla commissione produce gli effetti di cui agli artt. 1372 e 2113 codice civile – ha quindi forza di legge fra le parti - e può essere impugnato nei soli casi di cui all’art. 808ter codice di procedura civile, anche in deroga all’art. 829 codice di procedura civile 6. Il testo definitivo dell’art. 30 comma 5 ha precisato che la competenza sulle controversie aventi ad oggetto la validità del lodo arbitrale irrituale è attribuito al giudice del lavoro.

L’art. 30 comma 6 fa salva la previsione dell’art. 412 ter codice procedura civile – per quanto modificato – laddove prevede la possibilità di ulteriori forme di conciliazione e arbitrato previste dai contratti collettivi firmati dai sindacati maggiormente rappresentative. A titolo di esempio, rientra in questa previsione la conciliazione e arbitrato in sede sindacale prevista dall’art. 9 del CCNL del credito approvato nel 2007. In estrema sintesi, si tratta di una conciliazione svolta presso una commissione paritetica costituita dall’ABI e dalle Organizzazioni Sindacali, alternativa a quella presso la Direzione Provinciale del Lavoro; l’arbitrato è invece svolto da un collegio di tre membri – uno di parte sindacale, uno designato dall’ABI, uno scelto di comune accordo – che dopo l’espletamento del tentativo di conciliazione, decide la controversie con un procedimento arbitrale irritale che si chiude con un lodo.

Bisogna ammettere che l’istituto della conciliazione presso la Direzione Provinciale del Lavoro così come era disciplinata sino ad oggi non ha avuto un particolare successo. Infatti, salvo i casi in cui le parti avevano preventivamente raggiunto almeno un accordo di massima, i caso più comuni erano quelli in cui la parte padronale neppure si presentava oppure anche in presenza di entrambe le parti non si giungeva ad alcun accordo. La nuova disciplina di legge è incentrata su una conciliazione che è facoltativa ma che una volta

5 Tale previsione fu introdotta nel testo approvato dalla Camera il 29 aprile 2010 e mantenuta nei passaggi parlamentari successivi.

6 L’art. 808 ter 2° comma CPC così recita:

Il lodo contrattuale è annullabile dal giudice competente secondo le disposizioni del I libro:

1) se la convenzione dell’arbitrato è invalida, o gli arbitri hanno pronunciato su conclusioni che esorbitano dai suoi limiti e la relativa eccezione è stata sollevata nel procedimento arbitrale;

2) se gli arbitri non sono stati nominati con le forme e nei modi stabiliti dalla convenzione arbitrale;

3) se il lodo non poteva essere pronunciato da chi non poteva essere nominato arbitro a norma dell’art. 812;

4) se gli arbitri non si sono attenuti alle regole imposte dalle parti come condizioni di validità del lodo;

5) se non è stato osservato nel procedimento arbitrale il principio del contraddittorio.

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avviata può condurre ad una proposta conciliativa formulata

“d’ufficio” dalla commissione, proposta che le parti possono rifiutare ma che diventa poi un elemento di valutazione in sede di causa; la stessa conciliazione può svilupparsi in un arbitrato.

Tale nuova disciplina appare contraddittoria e non si coglie quali vantaggi possa offrire al lavoratore rispetto all’immediato avvio di un ricorso presso il Giudice del Lavoro. Non si può escludere che , essendo basata sulla volontarietà, alla fine abbia scarsa diffusione e scarso effetto pratico.

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5) Collegio di conciliazione e arbitrato irrituale – art. 31 commi 8 e 9 legge n. 183/2010.

L’art. 31 comma 8 contiene una nuova formulazione dell’art. 412 quater codice di procedura civile. La nuova norma delinea un collegio arbitrale composto da docenti universitari di materie giuridiche e avvocati.

Si tratta di una conciliazione che prende avvio per una libera scelta del lavoratore, al pari di quella davanti alla DPL. La procedura si apre con il ricorso del lavoratore, notificato alla controparte; tale ricorso deve contenere le ragioni in fatto e in diritto, i mezzi di prova, l’indicazione del valore della controversia, l’indicazione circa l’intenzione di procedere ad un arbitrato secondo le norme di legge o secondo equità 7, la designazione dell’arbitro di parte.

La controparte, se accetta l’arbitrato, nomina il proprio arbitro entro 30 giorni dalla presentazione del ricorso; i due arbitri designano quindi il presidente del collegio arbitrale e indicano la sede del collegio stesso; in mancanza di accordo, la scelta del presidente del collegio arbitrale è demandata al presidente del Tribunale, nel cui circondario ha sede l’arbitrato.

Una volta costituito il collegio arbitrale, nei successivi 30 giorni, la parte convenuta – il datore di lavoro – può presentare una memoria difensiva, recante le eccezioni in fatto e in diritto, le eventuali domande in via riconvenzionale, i mezzi di prova.

Entro i 10 giorni successivi, il lavoratore può presentare una memoria di replica e nel termine i ulteriori 10 giorni il datore di lavoro può presentare a sua volta una memoria di controreplica.

Il collegio arbitrale fissa l’udienza, entro il termine di 30 giorni dalla scadenza per il deposito della controreplica. In sede di prima udienza, il collegio attua un tentativo di conciliazione ,

7 Come già evidenziato per l’arbitrato davanti alla DPL (commi 5 e 6) , anche il per l’arbitrato di cui al comma 7, il testo approvato dal Senato il 3 marzo 2010 e rinviato alla Camere dal Presidente della Repubblica, precisava che il giudizio secondo equità doveva avvenire nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento; il testo definitivo – a partire da quello approvato dalla Camera il 29 aprile 2010 e mantenuto nei passaggi successivi - ha aggiunto che deve avvenire altresì nel rispetto dei principi regolatori della materia anche derivanti da obblighi comunitari.

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che se riesce viene formalizzata con un verbale di conciliazione, analogo a quello che chiude la conciliazione davanti alla DPL.

Se il tentativo di conciliazione non riesce, il collegio arbitrale procede con l’interrogatorio delle parti, l’assunzione delle prove, la discussione orale. Infine, entro 20 giorni dalla discussione, decide il caso con un lodo arbitrale.

Il lodo emesso dal collegio arbitrale, al pari di quello emesso dalla DPL e di cui si è già detto, produce gli effetti di cui agli artt. 1372 e 2113 codice civile e può essere impugnato nei soli casi di cui all’art. 808ter codice di procedura civile, anche in deroga all’art. 829 codice di procedura civile. Anche per questa fattispecie di arbitrato, il testo definitivamente approvato dalle Camere, ha precisato che le controversie aventi ad oggetto il lodo arbitrale irritale spetta al giudice del lavoro.

Come è ben noto, l’arbitrato è una forma di giurisdizione privata alternativa alla giurisdizione dei magistrati ordinari:

trattandosi di una forma di giustizia privata, è appena il caso di osservare come l’arbitrato comporti un costo, pari ad una percentuale del valore controversia, corrispondente al 2% per il presidente e all’1% per gli arbitri, liquidati secondo le norme di cui all’art. 91 e 92 codice di procedura civile, norme già richiamate all’inizio della trattazione in relazione alle modifiche alla disciplina delle spese legali. E’appena i caso di osservare come i compensi attribuiti agli arbitri possano essere eccessivamente onerosi per il lavoratore ed al tempo stesso possano apparire esigui per gli arbitri, che ricordiamo devono essere scelti fra avvocati e docenti universitari.

Infine, l’art. 31 comma 9 si pone come una norma di chiusura, estendendo anche al settore del pubblico impiego le forme di conciliazione e arbitrato previsti dai commi precedenti che hanno modificato gli articoli 410, 412, 412 ter, 412 quater codice di procedura civile.

Ufficialmente, secondo quanto dichiarato dal legislatore, la spinta a favore dell’arbitrato sarebbe finalizzata sempre a ridurre il numero dei processi. Tuttavia, si tratta di una forma di giustizia “alternativa” più costosa e meno garantista rispetto alla giurisdizione ordinaria. Non a caso, la forma più rilevante di arbitrato prevista nell’ambito del diritto del lavoro, vale a dire l’arbitrato per dirimere le controversie relative a sanzioni disciplinari – arbitrato introdotto dalla legge n. 300/1970, art.7 – è rimasto pressoché inutilizzato.

Come è già si è detto per la conciliazione ed arbitrato davanti alla DPL, anche questa forma di arbitrato potrebbe avere alla fine scarso rilievo pratico.

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6) Clausole compromissorie – art. 31 commi 10 e 11 legge n.

183/2010.

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L’art. 31 comma 10 contiene alcune delle norme più discutibili ed insidiose introdotte dalla legge n. 183/2010, vale a dire le norme sulle clausole compromissorie, norme sulle quali si sono appuntate non a caso le critiche del Presidente della Repubblica, che ha sottolineato in particolare lo sbilanciamento di forza fra le due parti contrattuali, sbilanciamento tutto a favore della parte padronale.

Per quanto ovvio, è bene precisare come le varie forme di conciliazione ed arbitrato previste dall’art. 31 e di cui abbiamo detto – arbitrato avanti la DPL, nelle sedi previsti dai contratti collettivi, avanti il collegio arbitrale – sono attivabili su iniziativa del lavoratore quando in un momento qualunque del rapporto di lavoro insorge una controversia. E soprattutto, è opportuno ripetere come tali forme di arbitrato siano tutte riconducibili ad una libera scelta del lavoratore.

La clausola compromissoria di cui al comma 10, in estrema sintesi, è una pattuizione con cui il lavoratore ed il datore di lavoro stabiliscono, una volta per tutte all’inizio del rapporto di lavoro o in un certo momento del rapporto di lavoro, di affidare ad un arbitro la soluzione delle possibili controversie che potrebbero insorgere in futuro. Nel primo caso la scelta di ricorrere all’arbitrato è quindi una scelta del lavoratore ed avviene in un momento qualunque del rapporto di lavoro, mentre nel secondo caso la scelta dell’arbitrato viene formalmente concordata fra le parti ma di fatto è imposta dal datore di lavoro.

Nel testo approvato al Senato il 3 marzo 2010 e rinviato alle Camere dal Presidente della Repubblica non c’era alcuna limitazione al momento di stipula della clausola compromissoria e quindi poteva avvenire anche al momento dell’instaurazione del rapporto di lavoro, nel momento quindi in cui il lavoratore è contrattualmente più debole. Il testo definitivo della legge 8, ha precisato che la clausola compromissoria può essere siglata solo dopo la scadenza del periodo di prova: tale modifica doveva rappresentare un accoglimento delle critiche del Presidente della Repubblica, ma appare una tutela veramente minima, che sposta poco o nulla la situazione.

Ai sensi dell’art. 31 comma 11, le clausole compromissorie possono essere stipulate solo in presenza di accordi interconfederali o di contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati più rappresentativi sul piano nazionale. Il testo approvato dal Senato il 3 marzo 2010 prevedeva che qualora le parti non si attivassero, dopo 12 mesi poteva intervenire il Ministero del Lavoro, che con proprio decreto avrebbe provveduto a disciplinare in dettaglio la materia, surrogandosi così ad accordi e contratti collettivi. Il testo definitivo ha invece stabilito che in assenza di accordi interconfederali, decorsi 12 dall’entrata in vigore della legge, il Ministero provvederà a convocare le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro per stabilire un accordo. Se entro 6 mesi dalla convocazione le parti non giungono ad un accordo, il Ministero emanerà un decreto attuativo, con cui individua in via

8 Tale precisazione fu introdotta nel testo approvato dalla Camera il 29 aprile 2010 e mantenuta nei passaggi parlamentari successivi.

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sperimentale e tenuto conto delle risultanze del confronto fra le parti.

Le materie che possono essere sottoposte all’arbitrato ai sensi della clausola compromissoria sono quelle di cui all’art. 409 codice di procedura civile e riguardano quindi la generalità del contenzioso in tema di lavoro dipendente privato. Il testo definitivo – nel punto specifico oggetto di modifiche dopo il rinvio alle Camere - ha aggiunto che la clausola compromissoria non può tuttavia riguardare le controversie relative alla risoluzione del contratto di lavoro. Si tratta di un’integrazione che si allinea all’accordo firmato da CISL e UIL dopo la prima approvazione della legge il 3 marzo 2010 e che recepisce le indicazioni del Presidente della Repubblica. La procedura per l’arbitrato è quella prevista dagli artt. 412 e 412 quater codice procedura civile, di cui si è già detto.

L’argomento delle clausole compromissorie è altresì strettamente correlato a quello delle certificazioni. Infatti, l’art. 31 comma 12 prevede che la clausola compromissoria sia certificata dagli organi di certificazione di cui all’art. 76 del decreto legislativo n. 276/2003 9. Inoltre, prevede che gli stessi organi di certificazione possano istituire camere arbitrali per la definizione del contenzioso in materia di lavoro dipendente sia pubblico che privato. L’art. 31 comma 13 prevede infine che presso gli stessi organi possa anche avvenire il tentativo di conciliazione di cui all’art. 410 CPC.

A questo punto è di tutta evidenza il conflitto d’interesse e la scarsa trasparenza di un sistema in cui è possibile che il medesimo organismo prima certifichi la volontà delle parti di devolvere all’arbitro le future ed eventuali controversie e successivamente decida le controversie medesime in qualità di arbitro.

Tutto il sistema delle clausole compromissorie appare insidioso, più insidioso delle altre forme di arbitrato. Infatti, la volontarietà e consensualità fra le parti nella scelta di sottoscrivere una clausola compromissoria è solo apparente. E’ vero che tale clausola è formalmente pattuita d’intesa fra le parti, ma è evidente che il potere contrattuale delle due parti contrattuali è quasi sempre sbilanciata a favore della parte padronale; tale posizione di forza è tanto più preponderante nei casi di lavoratori precari – vale a dire la larga maggioranza dei giovani – e nelle situazioni di disoccupazione diffusa come quella attuale.

Il Professor Massimo Roccella ha così sintetizzato la nuova disciplina dell'arbitrato e della clausola compromissoria certificata: (si tratta di) “una legge che – novità assoluta per il nostro ordinamento giuridico – consentendo di inserire una clausola compromissoria nel contratto di lavoro sin dal momento dell’assunzione, di fatto rende l’arbitrato obbligatorio ed impedirà

9 Il testo del 29 aprile 2010 ha aggiunto che davanti alle commissioni di certificazione il lavoratore ed il datore di lavoro possono farsi assistere da un legale oppure da un rappresentante sindacale o da un rappresentante di organizzazione professionale. SI tratta di una forma di tutela e di assistenza che potremmo definire tecnica, che tuttavia non può realmente compensare la sproporzione di forza contrattuale fra le parti.

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di far valere i propri diritti in sede giudiziaria ai nuovi assunti, costretti a rivolgersi ad un collegio arbitrale (un giudice privato) legittimato, oltre tutto, a risolvere ogni tipo di controversia senza tenere conto delle norme inderogabili di legge e di contratto collettivo che i giudici dello Stato invece non possono non applicare.” 10

Sulla stessa linea, il Professor Piergiovanni Alleva, ha osservato come di fronte all’insuccesso della certificazione contrattuale prevista dalla legge Biagi del 2003 e rimasta sotto la spada di Damocle del sindacato del giudice, il legislatore con il nuovo sistema, abbia aggirato l'ostacolo: “siccome queste

“simulazioni blindate” (i contratti di lavoro certificati) non reggono davanti al giudice, il governo ha pensato di eliminare anche il giudice mettendo al suo posto un cosiddetto arbitro. In questo modo queste simulazioni non potranno più essere smentite.” 11

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7) Decadenze – art. 32 legge n. 183/2010.

L’art. 32 della legge n. 183/2010 riprende una norma ben nota e consolidata, vale a dire il termine di 60 giorni per impugnare il licenziamento con qualunque atto anche stragiudiziale purché in forma scritta, termine previsto dalla legge n. 604/1966 art.6.

Tuttavia questo è solo il punto di partenza. Infatti, nelle previsioni iniziali della legge del 1966, dopo aver impugnato il licenziamento - anche con una semplice lettera spedita per raccomandata – il lavoratore poteva far valere i propri diritti in giudizio, nei termini previsti dalle norme ordinarie sulla prescrizione e decadenza.

L’art. 32 della legge n. 183/2010, invece, prevede un ulteriore termine di 270 giorni 12 – dopo quello di 60 - per impugnare il licenziamento 13 in tribunale oppure in sede di conciliazione e arbitrato. E’ da precisare come esista una qualche incertezza interpretativa sul fatto che il termine di 270 giorni si sommi a quello di 60 (per un totale di 330 giorni) oppure se il temrine di 270 giorni sia comprensivo anche di quello di 60. Qualora il lavoratore scelga la strada della conciliazione o dell’arbitrato e questi non vadano a buon fine – per rifiuto del datore di lavoro o per mancato accordo – è previsto un ulteriore termine di 60 giorni decorrente dal rifiuto o dal mancato accordo, per presentare ricorso in tribunale. E’ appena il caso di osservare come, per effetto del meccanismo che regola la procedura dell’arbitrato, la data del rifiuto da parte del datore di lavoro può essere incerta e non

10 ROCCELLA Massimo, Diritto del lavoro: così si torna agli anni Settanta, in

“Il Fatto Quotidiano”, 4 marzo 2010.

11 Alleva Piergiovanni, Pronto il referendum, questa legge è incostituzionale, in “Liberazione”, 4 marzo 2010

12 Il termine è stato elevato a 270 giorni nel testo approvato dal Senato il 29 settembre 2010; prima era infatti di 180 giorni.

13 Il testo approvato alla Camera il 29 aprile 2010 ha precisato che il licenziamento deve essere in forma scritta, riprendendo la previsione della legge del 1966.

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tempestivamente conosciuta dal lavoratore, con l’ovvio rischio di scadenza del termine.

E’ di tutta evidenza la scelta politica di inserire dei termini particolarmente stringenti, che rappresentano una deroga nettamente sfavorevole per il lavoratore rispetto alla legislazione in materia di contenzioso civile. La maggioranza di centro destra ha indicato la ratio di tale scelta nell’esigenza di evitare i casi passati (del tutto marginali) in cui il lavoratore ha lucrato le somme maturate fra il licenziamento illegittimo e l’avvio della causa di lavoro;

peraltro tale distorsione poteva essere facilmente rimediata prevedendo un tetto a tali indennizzi. Tale modifica appare paradossale: il lavoratore, che è il contraente debole, non solo non ha alcun trattamento di favore per riequilibrare il potere contrattuale delle parti, ma è sottoposto a norme peggiorative rispetto a quelle previste dalla legislazione ordinaria.

Inoltre, la norma sulle decadenze di cui alla legge 604/1966 come sopra modificata, ha un’applicazione amplissima, più vasta del campo dei licenziamenti e della cessazione del rapporto di lavoro.

Infatti, la legge prevede che sia applicata non solo a tutti i casi d’invalidità e inefficacia del licenziamento – quindi i casi in cui manca la giusta causa o il giustificato motivo – ma anche ai casi di licenziamenti derivanti dalla qualificazione del rapporto di lavoro o dall’apposizione di un termine. Inoltre, la normativa si applica ai casi di recesso nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa; ai trasferimenti del lavoratore ai sensi dell’art.

2103 codice civile; alla cessione dei contratti di lavoro per effetto di trasferimento di azienda o ramo d’azienda ai sensi dell’art. 2112 codice civile; all’accertamento di un rapporto di lavoro in capo ad un diverso datore rispetto a quello che risulta titolare del contratto di lavoro (compresi i casi di somministrazione di lavoro ai sensi del decreto legislativo n.

276/2003, art. 27).

E’ da precisare come la legge abbia previsto una disciplina transitoria solo per le impugnazioni dei contratti a tempo determinato 14; un’analoga disciplina transitoria non è stata invece prevista per le impugnazioni di contratti a progetto, trasferimenti, eccetera.

Nella formulazione iniziale, le norme sulla decadenza si applicavano anche ai licenziamenti già avvenuti e non ancora impugnati; i termini di decadenza iniziavano a decorrere dall'entrata in vigore della legge. Tuttavia, la legge n. 10/2011 (art.2 comma 54) che ha convertito con modifiche il decreto legge n.

225/2010 “milleproroghe” ha stabilito che il termine di 60 giorni per l'impugnazione del licenziamento, acquista efficacia a decorrere dal 31 dicembre 2011.

A prescindere da tale proroga, la norma così come è impostata colpisce soprattutto i lavoratori atipici, ad esempio in relazione

14 Il disegno di legge prevede che in caso di contratto a tempo determinato di cui al decreto legislativo n. 368/2001, i termini d’impugnazione decorrano: A) dalla scadenza del termine apposto al contratto se questo è ancora in corso di esecuzione al momento dell’entrata in vigore della legge.; B) dalla data di entrata in vigore della legge, se il contratto è già concluso al momento dell’entrata in vigore della legge.

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alle mancate conferme di lavoratori con contratto di apprendistato o d’inserimento e soprattutto in relazione al contenzioso sui contratti a progetto e sui contratti a tempo determinato; in questo caso l’insidiosità della norma è di tutta evidenza se si considera che il lavoratore sarà estremamente restio ad adire immediatamente il giudice per far valere i propri diritti a fronte di un generico impegno – ovviamente verbale - di rinnovo del contratto di lavoro a termine; ma così facendo facilmente il lavoratore lascerà scadere i termini trovandosi privo di qualunque tutela giudiziaria.

Infine, l’art. 32 comma 5 della legge effettua un repechage con qualche modifica di una norma introdotta dalla legge n. 133/2008 e subito dichiarata incostituzionale dalla sentenza n. 214/2009 15. Si tratta della previsione di una indennità omnicomprensiva pari ad un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità quale risarcimento per il lavoratore in caso di conversione di un contratto a tempo determinato. E’ da ricordare come siano usciti alcuni articoli su

“Il Sole 24 Ore” nei quali si sosteneva che tale indennità sia sostitutiva del reintegro. Tuttavia, dai lavori parlamentari risulta che l’intenzione del legislatore fosse quella di prevedere un’indennità forfetaria che si aggiunge al reintegro; è da notare come la forfetizzazione sia a danno del lavoratore qualora il periodo di disoccupazione successivo alla scadenza del contratto a tempo determinato sia stato superiore ai 12 mesi.

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8) Alcune considerazioni politiche e sindacali.

A questo punto si può fare un brevissimo bilancio delle norme che c’interessano contenute negli art. 30, 31 e 32 della legge.

Troviamo alcune norme “manifesto”, di modesto contenuto giuridico e di mero indirizzo politico, come la norma sull’interpretazione delle clausole generali. Troviamo alcune norme giuridicamente compiute e complesse, ma che avranno probabilmente modesto impatto sulla realtà del diritto del lavoro, come le norme sulle diverse forme volontarie di arbitrato. Troviamo infine alcune norme che appaiono realmente insidiose, soprattutto nei confronti delle categorie più deboli dei lavoratori: si tratta delle norme sui contratti certificati e sui licenziamenti, sulle clausole compromissorie – che di fatto introducono una forma di arbitrato obbligatorio – sui termini d’impugnazione dei licenziamenti.

Cercherò infine di formulare qualche osservazione in termini politici e sindacali.

Una prima osservazione è di politica legislativa. L’intenzione dichiarata del legislatore, l’intenzione alla base di questa ennesima “controriforma” è essenzialmente quella di alleggerire il carico dei processi del lavoro spostando una parte del contenzioso dai tribunali a forme di giustizia “privata” come l’arbitrato. Non

15 SI trattava i una norma “tagliata su misura” per risolvere la situazione in cui si trovavano le Poste Italiane in merito ai dipendenti a tempo determinato.

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a caso le nuove norme che abbiamo descritto sono in gran parte norme che riguardano il diritto processuale del lavoro e non il diritto sostanziale del lavoro. Peraltro, si deve osservare come il diritto sostanziale del lavoro sia ormai di fatto circoscritto se non addirittura spaccato in due tronconi, per effetto delle leggi del 2001 e del 2003 che hanno introdotto forme di lavoro precario con diritti del tutto aleatori che hanno ormai diffusione amplissima fra i giovani.

Tuttavia, è evidente come il fine ultimo di tali norme processuali sia quello di svuotare di significato il diritto sostanziale. Se osserviamo gli effetti delle norme della legge n.

183/2010, constatiamo come si possano così riassumere:

1) spostamento di almeno una parte del contenzioso dai tribunali statali ai collegi arbitrali, che danno minori garanzie di indipendenza e professionalità;

2) limitazione del sindacato di merito del giudice del lavoro, in modo da rendere comunque meno efficace la tutela del lavoratore che riesca a portare una causa in tribunale e non davanti agli arbitri;

3) previsioni di termini di decadenza strettissimi tali da rendere assai difficoltosa l’impugnazione di licenziamenti, trasferimenti, qualificazione del rapporto di lavoro.

Riguardo al decalage fra intenzioni ufficiali e intenti reali, i giudici di Magistratura Democratica (gruppo lavoro, Comunicato 3.3.2010) hanno dichiarato che nessuna delle disposizioni della legge appare dettata dalla finalità di garantire migliori e più efficaci tutele ai diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, mentre è evidente il tentativo di comprimere lo spazio di esercizio della giurisdizione e di dirottare la tutela di quei diritti verso forme di giustizia privata, a pagamento; la possibilità di introdurre nel contratto individuale di lavoro clausole compromissorie per devolvere le controversie ad arbitri “ignora non solo il disequilibrio quanto a potere e mezzi economici, tra datore di lavoro e lavoratore ma anche la condizione di particolare debolezza di quest’ultimo all'atto dell'assunzione”.

Il risultato è che le norme di diritto sostanziale rimangono – esemplare è l’art. 18 dello statuto dei lavoratori, che resta intatto – ma la possibilità di far valere quei diritti davanti ad un giudice diventa sempre più difficile. E tale difficoltà è tanto più evidente quanto più è debole il lavoratore: come si è già detto, un lavoratore a tempo determinato o un lavoratore a progetto, insomma i precari, si troveranno in una situazione di fatto tale per cui avranno ben poche possibilità di far valere i propri diritti. Il messaggio con cui il Presidente della Repubblica aveva rinviato la legge alle Camere sottolineava esplicitamente il rischio di un reale svuotamento del diritto del lavoro, anche nelle norme che sino ad oggi sono state inderogabili o disponibili solo in sede di contrattazione collettiva.

Tutto ciò mette in chiara evidenza la natura politicamente reazionaria e classista, a tutto favore della parte padronale, di tale legge. Ed è marcatamente reazionaria e classista perché è tanto più pesante ed insidiosa quanto più è debole il lavoratore.

E’ una banalità, ma deve essere chiaro: non si deve fare della retorica sulla dittatura, sul fascismo o altro: deve essere chiaro come un progetto reazionario e classista rimanga tale anche se è

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