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II. BIOGRAFIA DI UN INCONTRO

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Academic year: 2021

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II. BIOGRAFIA DI UN INCONTRO

II.1. DA PIANORO A PALERMO

Nel mese di Marzo del 2004, dal 15 al 26, Mimmo Cuticchio è ospite negli studi di Radio3-suite, a Roma, con il cunto L’arrivo di Angelica a Parigi. È la prima volta che il cunto è portato alla radio. La novità riguarda il contesto della performance (il mezzo radiofonico), e la tipologia del pubblico. Nel primo caso si tratta più di una novità antica, poiché le strategie performative del cunto presuppongono un tipo di fruizione analogo a quello radiofonico. Il corpo vocale del cuntista trasporta l’uditore in un mondo di immagini costruito da voce e particolari ritmi metrici.

Tra narratore e pubblico non vi è scenografia, né oggetti; ciò che li lega è la forza iconica del cuntista le cui immagini sono visualizzate, attraverso l’ascolto, dagli uditori.

Il cuntista è fisicamente presente sulla scena ma la sua vera presenza è altrove, non è il suo corpo a essere visto, ma la sua parola.

Nell’intervista a Radio3-suite Cuticchio dice:

«Per la prima volta, nella mia vita ho voluto mettere insieme le tecniche del cunto e dei pupi in una trasmissione radiofonica, perché già questo lo faccio in teatro. Con i miei spettacoli, che sono le riduzioni delle opere liriche, già utilizzo il cunto, i pupi e i cantanti lirici in scena. Qui per la prima volta utilizzo cunto e tecnica di puparo in un’unica rappresentazione».

L’incontro con la radio non è casuale. L’interesse di alcuni addetti ai lavori all’arte del cunto ha permesso la realizzazione di un progetto, vivo nella mente di Mimmo forse già dal momento stesso in cui si appropria delle tecniche e dell’immaginario del cunto, patrimonio ereditato dal maestro Peppino Celano, a cui dedica lo spettacolo-conferenza La spada di Celano, riproposto proprio negli studi di Radio3-suite, come serata conclusiva delle otto puntate radiofoniche. Lo spettacolo-conferenza è un viaggio nel mondo del cunto, attraverso il racconto autobiografico dell’incontro con il maestro Celano, il quale, al termine dell’apprendistato durato tre anni, dona una delle sue

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spade, oggetto-simbolo delle sue sedute, all’allievo pronto ad ereditare il nuovo mestiere. Da questo episodio, in sé non esaustivo ma profondo e significativo, Mimmo comincia un processo di contaminazione fra il linguaggio dell’opera dei pupi e quello del cunto. Le due eredità non sono patrimoni paralleli ma linguaggi, compresenti nel suo bagaglio personale, in continuo travaso. Il primo livello di sperimentazione da lui perseguita, forse risiede proprio nell’innovazione dei personali contenuti stratificati. Gli spettacoli, che per drammaturgia e scenicità si differenziano da quelli tradizionali, rappresentano in modo originale questa contaminazione di stili e poetiche. La realizzazione del cunto alla radio costituisce un ulteriore esempio di sperimentazione: le tipologie vocali dei personaggi dell’opra dei pupi adattate alle strategie performative del cunto.

Così, Mimmo, spiega il rapporto-differenza fra le due arti:

«Il puparo è un narratore che utilizza le marionette come attori, come personaggi. Il cuntista è un puparo senza pupi che utilizza la voce, l’immaginario della voce per stimolare l’immaginario di chi ascolta».

Con il mezzo radiofonico cambia anche il rapporto spaziale fra pubblico e cuntista:

«Il mio maestro aveva perso la piazza, a Palermo, perché avevano costruito il Palazzo di Giustizia, hanno buttato giù un pezzo di quartiere per costruire questa grande opera pubblica, così il mio maestro diventò itinerante e sopravvisse così. Lui perse la sua pedana, il suo spazio, io, invece, ne ho guadagnato uno, adesso, dentro la radio. Entrare dentro la radio, la mia nuova pedana, significa entrare dentro le case, portare una pedana dentro le case».

Rispetto alla tradizione, c’è in questa esperienza radiofonica uno slittamento espressivo interno ai due linguaggi e una concreta sprovincializzazione del rapporto fra teatrante di tradizione e pubblico di riferimento.

Negli stessi giorni in cui va in onda la trasmissione radiofonica, Mimmo decide di fare una prova generale dello spettacolo dal titolo provvisorio Alla ricerca della città di Troia ancora in ideazione ed elaborazione. Sceglie, come luogo della rappresentazione, una sala-ballo gestita in collaborazione dal Comune di Pianoro, in provincia di Bologna, e dall’Associazione Ca’ Rossa di

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Bologna. Quest’ultima conduce e accoglie un teatro di ricerca sull’oralità ed è per questo che invita Cuticchio nella propria stagione teatrale. Non avendo ancora conosciuto Mimmo di persona e incuriosita dall’evento, scarsamente pubblicizzato e da me scoperto in modo del tutto casuale, il diciannove marzo vado a Pianoro, per assistere alla prima di questo spettacolo.

Arrivata sul posto, mi rendo conto che io e l’amico che mi ha accompagnato, siamo gli unici spettatori venuti da fuori, il resto del pubblico è costituto da famiglie e assidui del luogo.

Per l’eccezionalità della nostra presenza, veniamo accolti con molto calore, tanto che riceviamo, quasi subito, l’invito a cena con l’artista, dopo lo spettacolo.

Il luogo è una sala molto grande e luminosa, sedie e fiori riempiono lo spazio.

La sala non ha l’aspetto di un centro teatrale sperimentale, non ha insomma quelle caratteristiche che di solito vengono associate ai luoghi alternativi, in particolare una dimensione raccolta ed un’illuminazione meno abbagliante.

Ma l’attesa rispettosa e curiosa del pubblico rende l’evento interessante e particolare.

A questo si aggiunga la personale sensazione di tabula rasa, del non so cosa aspettarmi proprio perché la semplicità del luogo e l’atmosfera di mistero, evocata dalla sola presenza del puparo Mimmo Cuticchio, fa sì che pregiudizi artistici e sicurezze da spettatore svaniscano.

La consuetudine teatrale presuppone che uno spettacolo cominci e finisca con il buio, il mistero del nulla iniziale è affidato all’impatto visivo negato, perché sulla scena non c’è ancora nulla, e l’occhio dello spettatore scruta per vedere corpi e personaggi che da un momento all’altro si riveleranno. Il gioco si arricchisce quando in questi pochi secondi iniziali di assenza, (ma è già spettacolo), si intuiscono suoni, voci o magari un insistente silenzio: nella provvisoria mancanza degli elementi gli spettatori tentano di ricostruire un mondo che andrà a mostrarsi.

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Ma la mia meraviglia è stata l’assenza dell’effetto sorpresa: niente buio ma luci soffuse, e un uomo normale che camminando, semplicemente, entra in scena. «Ognuno» e «Nessuno»1 è entrato in scena, nessuno effetto spettacolare ha anticipato l’evento ma solo un corpo il cui mistero è la sua stessa identità: è un attore? È un tecnico? È il regista?. Accanto a lui un ragazzo (il figlio), al pianoforte, che aspetta un suo cenno per dare avvio all’accompagnamento musicale.

In sordina questo uomo si rivela essere il narratore e la guida del nostro viaggio per immagini. Racconta la storia dell’archeologo Schliemann, da quando bambino ascoltava dal padre la storia della città di Troia fino al momento in cui, adulto, si trova tra quelle antiche mura.

Il narratore alterna dialetto e italiano, immedesimazione e distanziamento, interno ed esterno, diacronia e sincronia. I passaggi dalla terza persona alla prima sono naturali e determinanti per la scansione della storia che va consumandosi via via che il narratore-Schliemann ricostruisce la vicenda storica della città. Mentre ci si addentra nel luogo storico prendono vita gli eroi; è sufficiente che il narratore incontri, nel suo sogno, un qualsiasi oggetto (maschera o arma) per evocare dialoghi e sentimenti.

Non c’è una vera e propria trama ma un concerto di voci che riporta il pubblico nello spazio di un sentire, quello di Schliemann, narrato da Cuticchio.

Al termine dello spettacolo ci ritroviamo con il piccolo gruppo, attori e responsabili, in un ristorante del luogo. Vengo presentata a Cuticchio ma non parliamo subito, decido di ascoltare i suoi racconti e ricordi. Prima di andare via e rimettermi in viaggio per Pisa, timidamente esprimo il mio desiderio di dialogare con lui, magari in un’altra sede, al fine di raccogliere elementi per la mia tesi. Mi invita a Roma, negli studi di Radio-3 Suite, per la serata conclusiva del ciclo radiofonico L’arrivo di Angelica a Parigi, e con senso pratico mi fa subito presente che avendo già scritto e raccontato, in libri e interviste, la sua storia e la sua tradizione non ha intenzione di ripetere gli stessi argomenti e se questo è il mio interesse è sufficiente documentarmi in tal senso.

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Gli espongo la mia intenzione: raccontare una storia artistica e di tradizione dal punto di vista non di ciò che è stato ma di ciò che è adesso e sarà; in termini non di sopravvivenza ma di innovazione. Ciò lo interessa e capisco che la sua principale preoccupazione è riuscire a focalizzare la curiosità e l’interesse di studiosi e pubblico, sul nuovo e non più sull’antico, o meglio sul nuovo che sta nell’antico.

Nel periodo, che intercorre tra il primo incontro e la serata a Roma, rifletto sulle problematiche che vorrei discutere con lui. I miei primi pensieri vertono sull’identità del teatrante di tradizione, sull’essere maestro in un contesto diverso da quello di origine (diverso il pubblico, diverse le modalità di trasmissione di un sapere stratificato, ecc.), sul rapporto tra il teatrante e la propria tradizione di appartenenza (superamento o dialogo con essa?), sulla natura stessa della tradizione, di ogni tradizione (è un processo o un prodotto?) ed infine sulla necessità o meno di ricreare un contesto di fruizione del proprio patrimonio teatrale.

Il processo di elaborazione teorica mi risulta difficile, avverto che domande, commenti, pensieri avranno corpo e senso solo con un confronto, in un movimento dialogante.

La sera dello spettacolo-conferenza, tra saluti di amatori, colloqui con amici studiosi e teatranti non ho modo di esporre le mie domande ma, premiata forse per la paziente attesa, tradotta come sincero interesse, vengo invitata da Cuticchio a partecipare, come auditrice, al laboratorio per attori e pupari, all’interno del festival La Macchina dei sogni, e ad un festival popolare a Dubrovnik. Mi propone di seguirlo con la sua compagnia d’arte di base (figli, scenografa e tecnico del suono), dicendomi che sarebbe importante prima di tutto vederlo nella sua veste tradizionale di puparo: conoscere il punto di partenza per poi proseguire, con più coscienza, il discorso sulla sua arte sperimentale.

Infatti in questa occasione Cuticchio è chiamato a rappresentare il repertorio antico, cioè quello tramandato da suo padre e dai precedenti pupari. L’aspetto interessante di questa esperienza è un ulteriore spostamento contestuale (oltre al già citato evento radiofonico): una rappresentazione tradizionale in un luogo estraneo.

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Ciò significa, per me, la possibilità di vivere direttamente uno degli effetti del mutamento più evidenti della tradizione dell’opera dei pupi: la perdita del contesto di appartenenza.

In vista delle due situazioni che andrò a vivere, la personale fase preparatoria è caratterizzata dall’elaborazione di nuove tematiche, in particolare: il senso di un festival popolare; la veste del puparo come cicerone e guida nello scenario delle diverse tradizioni popolari, il ruolo del pubblico (facendo una distinzione tra quello tradizionale e quello contemporaneo), e il processo di trasmissione di un sapere stratificato ai propri figli in un contesto che non è più quello della bottega.

In seguito, avendo modo di partecipare al Convegno sulla narrazione orale (che marca il momento conclusivo del festival La Macchina dei sogni), mi rendo conto che esiste un altro livello di riflessione ed è quello del rapporto, più difficile da districare, con le istituzioni e, paradossalmente, con gli stessi studiosi che si occupano di teatro e tradizione.

Verso la metà di luglio mi trovo a Polizzi Generosa, in provincia di Palermo, arrivo con un po’ di ritardo, ma immediatamente sono proiettata in un’atmosfera concentrata e tesa: un maestro e un gruppo di attori che si raccontano. Anche questa volta il silenzio e l’attesa diventano i miei strumenti e la mia forza. Per l’occasione non sono molto tecnologizzata: solo un quaderno e un piccolo registratore. Mi affido alla mia volontà di ascolto e all’illusione che la traduzione scritta, in vivo, di ciò che sta succedendo possa essere una metodologia. In questo quadro di apparente ingenuità non dimentico però la mia esperienza di spettatrice e ciò mi condiziona, quasi fin dalle prime battute, lo sguardo verso gli attori partecipanti al laboratorio.

Parallelamente al laboratorio assisto agli spettacoli e alle narrazioni che si svolgono per le strade di Polizzi Generosa. Il piccolo paese è un brulicare di gente che continuamente si sposta, tra stradine e piazzette, per inseguire gli appuntamenti teatrali che sembrano rivitalizzare la socialità di un luogo isolato e silenzioso. Non ci sono molti turisti, sono le persone del luogo a costituire il pubblico più folto.

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Io sono ospite nei locali di una scuola elementare, trasformata per l’occasione in ostello, assieme agli artisti ospiti, alcuni stanziali (i collaboratori di Cuticchio), e alcuni di passaggio.

Ho modo così di familiarizzare con questi artisti, portatori di personali storie e aspettative, che hanno incontrato, nel loro percorso, l’arte di Cuticchio.

Nelle chiacchierate notturne raccolgo impressioni e opinioni sull’attività di Cuticchio; il sentimento generale è l’ammirazione, quasi riverenza, verso un uomo che oltre ad essere un maestro è anche un fine teatrante, vulcanico e carismatico, capace di riunire personalità e tradizioni diverse. Percepisco che la mia presenza nel gruppo, nel ruolo di osservatrice, suscita curiosità e uno strano desiderio di raccontarsi. Molti di loro vedono la mia persona, non istituzionale, come una possibilità di testimonianza di ciò che succede a Polizzi; ma anche di un mondo marginale e a rischio di espressione: la narrazione orale.

Continua il silenzio tra me e Cuticchio, e molti degli amici mi esortano ad aprirmi, mi ricordano la naturalezza e la schiettezza di Mimmo. L’interessamento del gruppo mi stimola molto, ma allo stesso tempo ritengo che per salvaguardare uno sguardo libero e pronto a cogliere tutti i particolari della situazione, non bisogna forzare i tempi. Questi sono giorni intensi, durante i quali tutto quello che accade dice molto sull’attività e presenza di Cuticchio nel territorio, e prima di cercare un contatto diretto con lui ho bisogno di documentarmi sul contesto, raccogliere impressioni, conoscere le realtà teatrali parallele a quella di Cuticchio presenti al festival, focalizzarmi sul pubblico.

Il corpus degli elementi, che costituisce l’evento che sto vivendo, risulta ancora più interessante alla luce del fatto che l’attività di Cuticchio, fino adesso, è stata maggiormente riconosciuta all’estero che non nella sua terra d’origine.

Nel frattempo mi preparo per il primo dialogo con lui.

Varie sono le considerazioni e le note che trascrivo sul mio quaderno, venendo a comporre più che un’immagine chiara dell’oggetto di studio, quella, invece, della mia presenza a Polizzi, che attende istruzioni e svelamenti.

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È lo stesso comportamento di Cuticchio a suggerirmi discrezione e resistenza: poche parole, brevi istruzioni riguardo al laboratorio, richieste di collaborazione pratica (portare materiale e oggetti vari di scena e non), occasionali battute dialettali. Il suo approccio non è strategico né diffidente, ma semplicemente appartenente ad una consuetudine comunicativa tradizionale tra maestro e allievo, privata, però, dell’esclusività e dell’andamento tortuoso che caratterizzava gli ammaestramenti di una volta.

Adesso ciò che conta, per Cuticchio, è comunicare la sua arte non soltanto ai figli o ad allievi prescelti, per il mantenimento nel tempo di una tecnica e di un repertorio, ma anche ai vari studiosi, critici, intellettuali, al fine di mutare una visione statica della sua tradizione.

Mi rendo conto che il mio personale processo di conoscenza, si configura anche come occasionale partecipazione ad un progetto in fieri del teatrante, quello di ricreare un quadro di riferimento per la sua arte: un nuovo contesto di identificazione. Il mio sguardo, secondo Cuticchio, può contribuire a testimoniare un fenomeno, in atto, di innovazione e di superamento di etichette cronologiche, attraverso una documentazione attiva e partecipante. Lo svelamento che attendevo, incontrando Mimmo, non è la spiegazione di segreti antichi che tutt’ora attraggono teatranti e pubblico: non c’è nulla da rivelare, ma tutto ancora da raccontare. Cuticchio, volontariamente, socializza le personali modalità con cui connette le proprie trasformazioni artistiche al presente (dallo squartamento scenografico delle quinte del teatrino dei pupi, ai dibattiti sul senso della narrazione oggi).

In questo caso la ricerca di visibilità non corrisponde al mero tentativo di ottenere il consenso e la solidarietà del pubblico, l’obiettivo, piuttosto, è manifestare un volto nuovo, e sempre in mutamento, della sua arte.

Le considerazioni che possono derivare dal mio privato evento etnografico appartengono ad una più ampia riflessione su una forma teatrale di tradizione, le cui caratteristiche di marginalità, simili a molte altre realtà artistiche, diventano, nell’attività di Cuticchio, terreno di sperimentazione.

Il principio di autonomia, a cui sembra rispondere l’attività di ricerca di Cuticchio, rispetto alla sua tradizione, riguarda anche me come osservatrice e “compagna di viaggio”: i miei coefficienti

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culturali, indipendenti dalla storia di Cuticchio, possono interagire con un più generale tentativo di mutare la percezione e la fruizione di espressioni artistiche (teatrali e non) che vivono o l’isolamento elitario o l’emarginazione istituzionale.

Il festival di Polizzi è un esempio di questo tentativo: un luogo di fruizione, rispettoso e ordinato, di diversi linguaggi, di tradizione e non.

C’è un rigore, alla base, che accompagna l’esperienza, lo stesso che condiziona produttivamente la sua pratica: il rispetto verso una storia stratificata che lo ha portato a combattere pregiudizi e comodità culturali al fine di renderla attuale.

Non c’è spazio per uno sguardo nostalgico, la vitalità del fenomeno Cuticchio mi spinge ad essere vigile e critica.

La mattina del 28 luglio ci incontriamo nella Chiesa di San Francesco, dove si svolgerà nei giorni successivi, il convegno I sentieri della narrazione. C’è gente che va e viene, collaboratori, operai, visitatori; noi siamo seduti vicino all’altare, Mimmo mi accoglie con un sorriso. Ricordo la sensazione agli esami dell’università, in particolare il momento in cui, una volta seduta, l’agitazione e il timore dell’autorità si trasformavano in desiderio di dire. Comincio a raccontargli il perché mi sono interessata al suo teatro orale, al suo incontro con la scrittura drammaturgica, del mio ruolo di spettatrice e dei miei quesiti su una ipotetica crisi creativa della società, o meglio della cultura. L’iniziale approccio confusionario non sembra innervosire Mimmo, anzi mi tranquillizza sulla possibilità di rivederci e chiarire i vari argomenti con gradualità.

Rimando al dialogo con Cuticchio trascritto in appendice per la specificazione degli argomenti affrontati quella mattina.

L’esperienza di Polizzi Generosa si conclude con la partecipazione al Convegno, i cui temi risultano una valida cornice problematica al fenomeno Cuticchio e non solo: le caratteristiche del narratore, le

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modalità di sopravvivenza delle tradizioni, il ruolo degli antropologi nella mediazione dei patrimoni immateriali e nella corretta informazione dei relativi codici, il sempre presente cruccio della trasmissione del proprio sapere (ambiguità fra imitazione/riproduzione di un mestiere e rielaborazione personale di un sapere teatrale), la contaminazione fra tradizioni (per esempio Opera dei pupi e Maggi), la responsabilità o meno delle amministrazioni locali nella cattiva gestione e scarsa sensibilità verso i propri patrimoni culturali. 2

Circa dieci giorni dopo mi ritrovo a Dubrovnik, in Croazia. Arrivo la mattina del 10 Agosto. Appena il tempo di cercarmi una pensione e raggiungo il luogo dove è allestito, dalla sera precedente, il teatrino dei pupi dei Cuticchio. Lo spazio scenico è collocato all’interno della corte di un ristorante che si affaccia su un porticciolo della città. Non c’è niente che possa richiamare l’atmosfera di Polizzi Generosa: solo turisti e bancarelle. Mi risulta difficile trovare qualche elemento che possa avvicinarmi alla gente del posto, a situazioni o luoghi caratteristici: tutto è una cartolina.

Mi chiedo quale possa essere il canale di comunicazione tra l’arte di Mimmo e questo luogo di passaggio.

Quando raggiungo il posto, trovo Marcello (il tecnico del suono), Tania (la scenografa e prima aiutante di Mimmo) e i figli (Sara e Giacomo) che stanno ordinando i pupi, aggiustando quelli mal messi, e preparando le pedane; Mimmo è in albergo.

Tutte le sere lo spettacolo ha inizio con un’introduzione in croato che riassume la storia e gli elementi sostanziali del teatro proposto.

Un primo ponte di comunicazione viene costruito semplicemente attraverso una breve sintesi che dà gli elementi principali della storia: non è necessario capire tutte le parole.

La prova che l’immaginazione può colmare i vuoti, ciò che non si possiede immediatamente, che non è familiare, è l’entusiasmo e la concentrazione dei pochi bambini, stranieri, presenti agli

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spettacoli. Il cambio dei fondali, le battaglie fra paladini e saraceni, le scene d’amore e quelle di magia (ottenute con semplici artifici) sono sufficienti a conquistare la solidarietà e la simpatia del pubblico.

Di fronte alla complessità della contemporanea pratica di Mimmo, penso, però, non possa bastare la partecipazione affettuosa del pubblico e la meraviglia di fronte ad un prodotto antico, per quanto questo garantisca alla sua arte la possibilità di continuare un mestiere e trasmetterlo ai propri figli; e quale miglior bottega se non lo spettacolo stesso?.

(Il teatrino è ancora il luogo privilegiato della trasmissione immediata di un mestiere e lo spazio per un allenamento costante delle tecniche di manovra e di voci).

Di fatto il teatrino dei pupi trascina e incanta ancora, ma il livello di reciprocità a cui ho assistito a Dubrovnik, non risponde ad un sistema vivo fatto di dialogo e di controllo tra teatrante e pubblico, così come si qualificava in passato.

Il senso di solidarietà, oggi, sembra nascere da una logica di consumo superficiale legata alla circostanza dello spettacolo, vissuto come evento assoluto, sciolto dalla sua storia, da quella ciclicità che accompagnava la vita immaginativa della gente dei quartieri.

Nella proposta scenica e di repertorio il teatrino di Cuticchio rimane fedele a se stesso, è però necessario, come già era successo ai tempi di suo padre, facilitare la comprensione e la fruizione attraverso sintesi e riduzioni, circoscrivendo la narrazione delle storie dei paladini a cicli più brevi. È interessante notare che Cuticchio ha già rielaborato, masticato, questo processo di adattamento, non è più fonte di crisi o di disorientamento; è consapevole che parte della sua arte è destinata a una certa marginalità cronologica; sarebbe più rischioso tentare di far rinascere ciò che storicamente non è più possibile: presupposti di appartenenza e di riconoscimento che ai tempi del padre si erano già dissolti.

La pratica teatrale di Cuticchio ha un andamento laboratoriale, caratterizzato da scommesse tecniche: fino a dove può arrivare la macchina scenica del teatrino?

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È proprio il terreno della tecnica, la manovra dei pupi, le differenziazioni vocali dei vari personaggi, le possibilità drammaturgiche (di montaggio e smontaggio di storie) a costituire il laboratorio per le successive sperimentazioni. L’adattamento non è più un compromesso ma un modo di elasticizzare e valorizzare le diverse potenzialità espressive di un teatro.

La mia presenza a Dubrovnik non ha avuto connotati di ricerca né rigorosi né sistematici.

Anzi è stata l’opportunità di osservare, da vicino, le reazioni di un pubblico non palermitano, ascoltare i figli del puparo, scoprire, o meglio intuire, una macchina scenica strutturata, scambiare libere opinioni con Mimmo.

Durante i quattro giorno trascorsi a Dubrovnik non ho condotto interviste, né proposto quesiti, in quanto il mio principale coinvolgimento si è espresso aiutando, materialmente, il gruppo, sistemando pupi per categorie, prima e dopo gli spettacoli, fotografare le fasi di manutenzione di oggetti e costumi. Al di là delle ufficialità l’avvicinamento alla famiglia e ai più stretti collaboratori mi ha permesso di normalizzare la figura di Cuticchio, inquadrare parte di ciò che lo circonda, di ciò che, attualmente, nutre il suo lavoro.

Scopro che la difficoltà di una ricerca antropologica, in questo caso, non è relativa alla ricognizione di codici e significati di un mestiere antico, dimensione conoscitiva che avrebbe accentuato il senso di estraneità e distanza sacrale dal puparo e cuntista, ma l’acquisizione di strumenti di osservazione capaci di seguire, (o inseguire?), le azioni di un teatrante in continua metamorfosi.

Le sue azioni sono visibili, alla portata di tutti, è lui stesso a raccontarci le avventure dei suoi viaggi nel mondo del teatro, ed qui che risiede l’uomo Cuticchio, nulla di mitico o segreto, ciò che lo rende difficilmente catalogabile è, invece, la continua ricerca di soluzioni artistiche e poetiche non definitive.

Questi sono i contenuti con cui ci siamo lasciati a Dubrovnik e per i quali ci siamo dati appuntamento a Palermo, nel suo teatrino-laboratorio, in Via Bara all’Olivella, per la fine di agosto.

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Il 28 agosto arrivo a Palermo, ma non raggiungo subito il teatrino, l’appuntamento è in Piazza Marina, per il festival Kalsart, nel quartiere della Kalsa. Mimmo, invitato fuori programma al festival, presenta lo spettacolo Don Giovanni e i pupi. Avendo già seguito la compagnia in Croazia, qui mi muovo con maggiore disinvoltura fra collaboratori e i vari preparativi, e aspetto la fine della prova generale per salutare Mimmo.

Nel frattempo faccio alcune foto, osservo i vari spostamenti e la singolare forma di prova perseguita dal gruppo, diretto costantemente da Mimmo. Anche in questa occasione prima è il contesto a prendere il sopravvento: pubblico, discorsi casuali, luogo fisico. Alla fine della serata, raggiungo Mimmo nella stanza che funge da camerino, e per la prima volta, senza preamboli, mi chiede cosa penso dello spettacolo; ci ritroviamo a commentare insieme alcuni aspetti della rappresentazione in funzione di quello che nei giorni successivi ci ritroveremo a discutere.

Nei quattro giorni trascorsi a Palermo ho vissuto due dimensioni di ricerca: una interna ed una esterna al teatrino-laboratorio.

Tutti i pomeriggi mi incontravo con Mimmo, due allieve della scuola (che in quei giorni mi ospitavano) ed un suo amico narratore, irakeno, con cui stava preparando un cunto sulla guerra. Ci riunivamo nel laboratorio, dove sono raccolti e appesi i diversi pupi, sia tradizionali che moderni, oltre a vari oggetti di scena, pubblicazioni e libri dell’Associazione Cuticchio, sistemati, questi ultimi, nello spazio destinato all’ingresso del pubblico. Il teatrino vero e proprio è collocato dall’altra parte della stradina, e la casa privata della famiglia si trova sopra il laboratorio, la cui finestra si affaccia direttamente sull’ingresso del teatrino di fronte. In un piccolo stanzino, una sorta di magazzino, laterale all’ingresso principale, Mimmo ha fatto sistemare un televisore ed un videoregistratore.

Insieme abbiamo visto, in video, alcuni dei lavori nuovi, quelli che per elaborazione e realizzazione si discostano dal repertorio tradizionale e che rappresentano parte dell’excursus sperimentale di Mimmo. Al termine di ogni visione Mimmo mi chiedeva cosa ne pensassi, cosa notavo di particolare nelle diverse rappresentazioni dal punto di vista scenografico, drammaturgico, e di

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repertorio. Per me è stato un interessante esercizio di osservazione e concentrazione, soprattutto se si considera il tipo di visione, non diretta.

L’analisi dei suoi lavori, (supervisionata da Mimmo), non riguarda la definizione delle sue produzioni (come forse sarebbe più semplice fare su rappresentazioni teatrali che hanno un rapporto lineare con il testo scritto), costituisce, invece, lo spunto per chiarire un più generale modo di lavorare del teatrante. Alle mie considerazioni Mimmo rispondeva con lunghi chiarimenti sulle soluzioni sceniche da lui perseguite, con racconti sulla genesi stessa di alcuni spettacoli, parallelamente all’esplicazione di motivazioni private che lo hanno spinto a fare una cosa anziché un’altra. La libertà artistica, visionaria, di Mimmo non è slegata ed irrazionale; il substrato di appartenenza ad un valore e ad un codice ben preciso garantiscono la coerenza di un percorso. Non è mancata, come già a Polizzi, la volontà di socializzare le personali intenzioni teatrali; non a caso ha voluto che fossero presenti, alle nostre conversazioni, due dei suoi allievi. Il carattere laboratoriale si manifesta anche in questi incontri informali, amichevoli, aperti allo scambio

Tali confronti si rivelano utili al fine di calibrare un movimento sempre in bilico, ed in fieri, di una ricerca che tende ad un equilibrio, ma mai ad una stasi.

Dal materiale che fonda l’esperienza nel piccolo laboratorio di Via Bara all’Olivella, ciò che è emerso è l’indefinitezza del suo teatro, la difficoltà a inquadrarlo in un resoconto, o in un racconto. Il senso di questo incontro risiede nell’aver condiviso l’idea che categorie e classificazioni servono a poco se non si ha presente ciò che ancora può avvenire.

In quei giorni ho chiarito ulteriormente la mia funzione, seppur occasionale, nel dialogo con Mimmo. La visione e l’analisi dei suoi lavori ha attestato un primo livello di reciprocità: il teatrante informa lo studioso su codici e contenuti, lo rende partecipe di un processo, affinché esso comunichi a sua volta, correttamente, la sua storia.

Fino ad un certo momento il rapporto fra me e il teatrante è stato unilaterale, a mio vantaggio: ascoltare, guardare, annotare, registrare. In seguito una nuova problematica ha toccato la mia

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esperienza, o meglio una nuova responsabilità: in che modo posso invertire i ruoli, diventare io l’informatrice?

La risposta mi è stata data dallo stesso Mimmo, in modo indiretto.

Ho parlato di una dimensione esterna. Durante i colloqui con Mimmo sono emersi altri spunti di ricerca e di approfondimento relativi alla sua arte, che lui stesso mi ha suggerito in quanto costituiscono sue personali curiosità; egli afferma che sulla tradizione dell’opra dei pupi ci sono ancora molte cose da scoprire e trasmettere: qual è l’origine (figurativa e immaginativa) dei fondali dell’opra dei pupi? È possibile ricostruirne la storia dell’illuminotecnica? Si può realmente parlare di stanzialità dei pupari? E così via. Tali nodi antropologici nascono in Mimmo nel rispetto di una tradizione considerata “Arte”, la cui storia ha senso raccontare se la si considera un processo, caratterizzata essa stessa da innovazioni, rotture, regressioni, rinunce, avanguardie.

Per chiarire, approfondire o districare questi o altri nodi conoscitivi, Mimmo ha bisogno di chi ha gli strumenti specifici per condurre ricerche, analisi e documentazioni; di chi può condurre un lavoro culturale che, in un secondo momento, si incontrerà con la sua attività prettamente teatrale. Secondo Cuticchio, l’attenzione e l’interesse verso questo teatro non sempre ha rispecchiato uno sguardo onesto. Certamente il contributo di studiosi, critici teatrali e antropologi è stato fondamentale nella diffusione e conoscenza di un’arte antica (sia essa opera dei pupi che cunto); contributo che ha permesso a lui stesso di trovare un spazio di espressione.

Egli ha raggiunto, negli anni, una notevole familiarità con il mondo della ricerca, ed è per questo che gli risulta naturale chiedere, proporre confronti e nuovi nuclei di ricerca. Pur non essendo una ricercatrice navigata, Mimmo mi ha voluto ugualmente affidare temi e problematiche, suggerendomi che sarebbe interessante allargare lo sguardo. Nelle mattine libere ho seguito le sue indicazioni e ho fatto alcune brevi escursioni per la città di Palermo: una visita al Museo Pitrè, dove era esposta una mostra di Santi e Madonne su vetro, i cui volti ricordavano molto quelli dei pupi; una visita al Palazzo Steri della famiglia Paladino, nel quartiere dell’Arenella, all’interno del quale si trova un antico affresco di storie dei Paladini di Francia (una delle possibili fonti che, secondo

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Mimmo, può aver contribuito alla formazione dell’immaginario dei primi pupari); la visita al Museo Internazionale delle Marionette, in fase di trasloco, ed infine la visita alla casa di Pina Patti Cuticchio (la madre di Mimmo), dove sono tutt’ora conservati pupi centenari che appartenevano al teatrino del padre Giacomo.

Come di fronte ad un albero non è possibile seguire, con lo sguardo, tutti i rami e le foglie che si riproducono dal ceppo centrale, così di fronte alle ricche sollecitazioni di Mimmo mi rendo conto di non poter descrivere e spiegare, in modo conclusivo, questo quadro.

Nei mesi successivi ci sono state poche opportunità di incontro con Mimmo a causa della distanza geografica e dei personali impegni lavorativi; ricordo in particolare i tre giorni trascorsi a Roma in occasione dell’apertura della scuola per pupari, progetto nato in collaborazione con Guido Di Palma, durante i quali i nostri colloqui si sono maggiormente specificati sulla natura della regia e dell’autorialità teatrale dei pupari.

Nel lungo periodo di silenzio fra me e Cuticchio, molte sono state le manifestazioni e le rappresentazioni che la Compagnia Cuticchio ha prodotto (spettacoli, festival, partecipazioni esterne, programmi radiofonici), il cui aggiornamento richiederebbe un lavoro quasi quotidiano di ricognizione. La mia ricerca è circoscritta al tempo e allo spazio di uno sguardo e di un dialogo che, se pur frammentato, ha fatto sì che si instaurasse un ponte di comunicazione sempre aperto a eventuali confronti o racconti.

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II. 2. L’INCONTRO ETNOGRAFICO

L’incontro con Mimmo Cuticchio a Pianoro, in provincia di Bologna, è avvenuto perché, casualmente, ho scoperto su internet, lo speciale evento organizzato dall’Associazione Ca Rossa. Se non ci fosse stata questa occasione probabilmente la mia esperienza avrebbe avuto inizio con una telefonata o con la visita al suo laboratorio, a Palermo, per il primo contatto, ma non è qui mia intenzione immaginare o discutere quale sarebbe stata la forma dell’incontro se avessi agito diversamente.

In ogni caso penso non ci sia stata una vera casualità, quanto piuttosto un graduale avvicinamento all’oggetto da me studiato. Conoscevo il teatro di Cuticchio, in particolare l’arte del cunto, fin da ragazza; l’interesse è cresciuto non attraverso la visione diretta di suoi spettacoli, ma tramite la lettura di articoli e recensioni ed in particolare grazie alla passione di un mio amico attore per il cunto. In seguito si sono succedute letture più specifiche sul teatro e la narrazione, venendosi così a configurare un quadro interessante ed affascinante. Prima di avere le qualità di un incontro etnografico, cadenzato da momenti di osservazione e di dialogo con il teatrante, il mio bagaglio di contenuti era costituito da riferimenti letterari sulla tradizione a cui appartiene Mimmo.

In effetti tutto ciò che è stato scritto su di lui e sulla sua arte rappresenta esaurientemente la biografia di un individuo, in grado di restituirne un’immagine completa e profonda.

Difficilmente avrei potuto aggiungere qualcosa; difficilmente avrei potuto dettagliare ulteriormente il suo passato e l’attività svolta negli anni.

Di fronte alla fitta narrazione sulla vita e l’arte di Cuticchio, che ha fornito un’ampia cornice di riferimenti, ho avvertito comunque il disagio della definitezza testuale: contenuti e problematiche sembravano esaurirsi nelle analisi e nei resoconti di altri. Mi sono chiesta se tale produzione testuale, libresca, bastasse a costituire l’armamentario sufficiente ad affrontare dialetticamente Mimmo. Ciò mi ha portato ad affrontare, analiticamente, il rapporto tra elaborazione teorica ed

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esperienza etnografica a partire da una riflessione sul concetto di cultura e sulla tensione esistente fra antropologia ed etnografia.

Ripercorrere la storia del pensiero antropologico, dal suo esordio sistematico ai giorni nostri, costituirebbe un impegno di ricognizione concettuale di un certo rilievo. Ciò che ritengo funzionale, al fine di inquadrare la mia esperienza etnografica, è focalizzare un aspetto dell’evoluzione teorica, in ambito antropologico: l’idea che le realtà studiate, le dimensioni “altre”, siano da considerare testi da comprendere e interpretare piuttosto che contesti da descrivere.

Il presupposto di questo mutamento epistemologico, nella storia dell’antropologia, è l’affermarsi di una nuova consapevolezza: l’opera di traduzione e rappresentazione delle realtà osservate, le culture in senso pluralistico, è un procedimento ermeneutico complesso e problematico.

«[…] il concetto positivistico di cultura è tutt’altro che pluralistico. Non esistono le «culture» al plurale; esiste una sola cultura umana in senso proprio, che si dispiega tuttavia secondo diversi gradi di imperfezione in luoghi e in epoche diverse»3.

Nel «periodo formativo»4 dello sviluppo dell’antropologia le modalità e gli scopi della ricognizione delle diverse manifestazioni culturali dipendevano da pre-concetti sulla natura umana: classificabile in categorie di comportamento a partire dal quale il lavoro dello studioso procedeva nella descrizione delle realtà studiate. La definizione delle diverse realtà, basata sulla concezione di un'unica identità culturale, avveniva prima dell’esperienza in campo.

I resoconti etnografici dovevano, in un certo senso giustificare e avvalorare quello che il pensiero scientista e positivista aveva prodotto: categorie concettuali quali prevedibilità, verificabilità e controllo dei dati esperiti.

3

Cfr. F.DEI, Altre culture, altre menti, in Natura Mente Cultura. Pensiero, realtà, storia, scienze naturali, a cura di S. ADAMI, M.MARCUCCI e S.RICCI, Grosseto 1996, pp. 98.

4

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Borofsky specifica due tipi di positivismo: uno (inizi del XIX secolo) in cui venivano applicati i metodi scientifici a questioni filosofiche, ed un altro (anni Venti e Trenta dello stesso secolo) in cui è considerata scienza la descrizione dell’esperienza.

Nel corso dell’evoluzione del pensiero antropologico, durante il quale si afferma il metodo etnografico dell’osservazione partecipante, come prerequisito fondamentale della ricerca antropologica5, si sono manifestate, parallelamente al vacillamento di statuti e presupposti filosofici occidentali6, ambiguità e incertezze relative proprio alla presunta efficacia epistemologica ed etnografica fin qui perseguita.

Con l’influsso del pensiero filosofico (rappresentato da Heidegger, Wittgenstein, Gadamer, Ricoeur, Foucault, Habermas, Barthes), secondo Geertz è difficile «il ritorno ad una concezione tecnologica delle scienze sociali»7 in quanto si fanno preponderanti tendenze contestualistiche, antiformalistiche e relativistiche.

L’anima unificante della razionalità antropologica si confronta con l’anima sperimentale, tendente alla frammentazione e al relativismo dei dati empirici, della ricerca sul campo. La complessa fenomenologia delle realtà osservate si fa evidente8.

In particolare assume un diverso significato e una nuova funzione epistemologica il ruolo dell’osservatore, il quale non è più visto come detentore di verità dimostrabili, o più precisamente come l’unico autore indiscusso delle interpretazioni dei “fatti osservati”. Il quadro complessivo delle scienze sociali si modifica conseguentemente alla complicazione della nozione di cultura e al «crollo del consenso degli antropologi»9su questo concetto.

5

Cfr. BOROFSKY, Op. cit.

6

Cfr. DEI, Altre culture, altre menti, cit., p.109: «Premessa di questa nuova tappa del dibattito è il tema filosofico della “crisi della ragione”[…]. Diciamo che nel corso del Novecento, sotto la spinta convergente di diverse tradizioni di pensiero, si incrina progressivamente la fiducia nel modello di razionalità forte basato sull’epistemologia delle scienze naturali, che aveva dominato la filosofia almeno a partire da Cartesio e fino al positivismo e all’empirismo logico».

7

Cfr. C.GEERTZ, Antropologia interpretativa, Bologna 1998.

8

Cfr. Fabio Dei: «La ragione pura […] sembra doversi frantumare in una pluralità irriducibile di “concrete” epistemologie locali», Op. cit.

9

Cfr. BOROFSKY, Op. cit.: «[…]come oggi il concetto di cultura, e forse anche i metodi tradizionali della disciplina nel fare etnografia, siano meno in grado di fungere da paradigmi unificanti al riparo dei quali gli antropologi possono

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Lo spostamento critico del pensiero antropologico connesso alla messa in discussione dell’autorialità dell’osservatore e dei suoi strumenti conoscitivi, mette in gioco due fondamentali aspetti della ricerca sul campo: le strategie rappresentative e narrative dell’altro e il processo di contestualizzazione che coinvolgerebbe entrambi i protagonisti dell’incontro etnografico (osservato ed osservatore).10

Un importante contributo a questo dibattito è fornito dall’analisi della scuola antropologica di stampo interpretativista ed euristico secondo cui la vita umana è «simbolicamente costruita» ed in particolare l’attività etnografica riflette istanze soggettive dell’osservatore. 11,

La ricchezza del concetto di cultura risiede nella sua natura di fenomeno, in quanto espressione di significati, simboli e azioni sociali stratificati e negoziati, che non possono essere codificati una volta per sempre. Delimitare i codici culturali in un tempo e in un luogo, rischia di sminuire la potenzialità creativa dell’attività umana. La contestualizzazione dei fenomeni osservati sembra quindi non poter riflettere più un epistemologia positivista, basata su paradigmi formulativi e descrittivi, ma un procedimento ermeneutico12.

Secondo Turner l’insieme dei simboli di una società sono «sistemi dinamici socio-culturali», che nel tempo si modificano, ritornano, spariscono, si rinnovano, e rispetto ai quali lo studio del ricercatore dovrebbe tendere ad afferrarne il movimento, dovrebbe «giocare con le loro possibilità di forma e significato»13.

L’indirizzo di ricerca interpretativista, secondo cui, appunto, le culture sono composte da simboli e significati, elabora un’interessante analogia concettuale: le diverse realtà studiate sono testi da leggere e tradurre e la cultura, in senso più ampio, è l’insieme di questi testi14.

Metodologicamente ciò comporta la delineazione di nuove modalità conoscitive e nuove qualità strumentali dell’osservatore: partecipazione, immedesimazione, comprensione, interpretazione,

10

Cfr.J.CLIFFORD, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, Torino 1999

11

Cfr. GEERTZ in Op.cit

12

Cfr. BOROFSKY, Op.cit., «Le culture non sono più considerate unità omogenee e stabili, tendenti all’equilibrio e a mantenere la stessa forma nel tempo, di conseguenza rischiano di perdere credibilità i resoconti etnografici».

13

Cfr. TURNER in Dal rito al teatro, Bologna 1986

14

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rappresentazione evocativa che convalidano, quindi, un’attività di ricerca che tocca la persona dello studioso.

«La vita è traduzione e noi siamo persi in essa»15

L’analogia testuale, applicata all’azione sociale e al comportamento umano, centra l’attenzione sul «come avviene la trascrizione dell’azione», sul come un incontro, un discorso, possa trasformarsi in testo.16

La letteratura della storia dell’antropologia marca la pubblicazione del Diario di Malinowski come l’evento che ha messo in crisi il modo di lavorare degli antropologi, perseguito fino a quel momento, evidenziandone, in particolare, l’artificiosità linguistica e stilistica nei resoconti etnografici.

«La fusione delle categorie della letterarietà e della scientificità nell’uso linguistico ha sollevato questioni che nutrono l’anima scettica della filosofia occidentale, in particolare riguardo ai limiti della rappresentazione e alla natura referenziale del linguaggio. Quattro sviluppi a questa critica; la prima riguarda la messa in discussione radicale della nozione stessa di rappresentazione. La quarta possibilità riguarda la sperimentazione […] particolare riferimento all’etnografia […] cuore dell’antropologia socioculturale contemporanea. Una volta scoperte le convenzioni e la natura retorica del discorso realista ci si apre a nuove domande, discorsi e forme[…]».17

Si parla di «limiti della rappresentazione» e di «natura referenziale del linguaggio», e se a ciò si aggiunge l’idea che il pluralismo simbolico delle culture si esprime attraverso un pluralismo di linguaggi, il dubbio epistemologico risulta più profondo: si può continuare a raccontare e far comprendere altre culture? Come può un linguaggio parlare ad un altro?.18

Geertz parlando della situazione della modernità etnografica profila un quadro di frammentarietà discorsive, di «sensibilità conflittuali», di «inquietanti asimmetrie», un disorientamento comunicativo ed espressivo che riguarda non soltanto le società a confronto, nella contemporanea

15

Cfr. GEERTZ, Op. Cit.

16

Cfr. CLIFFORD, Op. cit.

17

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situazione di globalizzazione, ma attraversa la stessa identità dell’antropologia, o delle antropologie.19

L’acquisizione concettuale secondo cui il soggetto osservato ha diritto di parola, possiede una personale interpretazione del proprio mondo, che non è un semplice dato da osservare ma un soggetto che può contribuire, attivamente, alla formulazione del racconto etnografico e antropologico, ha fatto sì che si smascherasse la soggettività del ricercatore. Come a dire che nel momento in cui ci si è accorti che l’altro ha corpo, pensiero e voce, di riflesso si scopre la propria definitezza: l’altro è lo specchio di noi stessi.

Il mondo, «la forma reale di vita» dell’osservato lotta o si confronta con il sistema di significati dell’osservatore.20 Alla luce di queste considerazioni concetti come neutralità e distanza razionale (ed emotiva) non sono più plausibili. L’indirizzo interpretativista mette in evidenza la consapevolezza e l’intenzionalità dei soggetti coinvolti che, nel momento in cui si incontrano in un dato luogo e spazio, costruiscono insieme il confronto etnografico: ciò che rimane dell’esperienza, nel testo etnografico, è il detto, l’incontro stesso. 21

A questo proposito è importante ciò che viene formulato nell’ambito dell’antropologia dialogica (il cui principale esponente è D.Tedlock) secondo cui si può accedere al mondo dell’intersoggettività tramite il dialogo; tale prospettiva presuppone il ruolo attivo dell’altro.

L’antropologia interpretativa svela, dunque, il processo creativo della scrittura, la «finzione ma non la falsità» dell’incontro testuale fra esperienza ed elaborazione razionale, fino a definire il lavoro dell’etnografo un’«impresa teatrale», una «drammaturgia» di voci evocate. 22

19

Cfr. F.REMOTTI, in Prima lezione di antropologia, Roma-Bari 2000

20

DEI, in Op. cit.

21

Cfr. GEERTZ, in Interpretazione di culture, Bologna 1998, p.59: «Ecco quindi le tre caratteristiche della descrizione etnografica: è interpretativa; quello che interpreta è il flusso del discorso sociale; e l’interpretazione ad essa inerente consiste nel tentativo di preservare il «detto» di questo discorso dalle possibilità che esso svanisca e di fissarlo in termini che ne consentono una lettura»

22

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Due autori, Griaule e Leiris, estremizzano, in un certo senso, due aspetti (scrittura e soggettività) di questo nuovo approccio epistemologico: l’uno nella particolare scelta dello stile linguistico, l’altro componendo un’etnografia personale.

Griaule, nella sua esperienza presso il popolo Dogon, va oltre il ruolo di documentatore ed osservatore, egli diviene «esegeta» ed «interprete» della cultura Dogon assumendo, provvisoriamente e consapevolmente, la veste di iniziato: il saggio Ogotemmêli sceglie di mettere al corrente lo studioso sulla dottrina e il sistema di conoscenze Dogon. 23 Questo tipo di esperienza non è una semplice osservazione partecipante ma comporta una precisa assunzione di responsabilità: lo studioso si fa “portavoce” di una cultura diversa. Situazione antropologica, questa, su cui tornerò in seguito.

Ciò che mi interessa sottolineare, adesso, è la scelta testuale dell’autore: la trascrizione completa delle “rivelazioni” di Ogotemmêli in una partitura dialogica priva di didascalie, ciò che viene riportato, insomma, è il “detto” dell’incontro.

Se Griaule sembra accettare, criticamente, la costruzione dell’incontro etnografico scegliendo, così, di mettere sullo stesso piano, testualmente, la sua voce e quella di Ogotemmêli nella speculazione di M.Leiris, invece, la soggettività diventa un ostacolo ad una piena realizzazione della comunicazione etnografica.

L’autore sostiene, infatti, che la scrittura etnografica non è altro che una riscrittura di se stessi, una rielaborazione continua del proprio io etnografico, entità irriducibile che non può, fino in fondo, connettersi con l’io dell’altro. In questo caso al termine dell’incontro ciò che risulta “esotico” non è più l’osservato ma l’io del ricercatore. È uno sguardo autoriflessivo che, pur nella sua estrema problematicità, riflette uno dei nodi della speculazione antropologica e che riguarda, come già precedentemente espresso, la possibilità di raccontare le culture.

Delle varie definizioni del concetto di cultura una, in particolare, si connette significativamente alla concezione di incontro etnografico (e poi testuale) come drammaturgia e dialogo di voci: «la cultura

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è documento agito», la transazione continua, dinamica, di significati, simboli e comportamenti fra gli esseri umani.24

Come è evidente l’incontro etnografico, come fatto culturale, si compone attraverso le stesse dinamiche di negoziazione di significati. La questione è che, una volta acquisita e rielaborata la complessità dell’incontro etnografico, polifonico e suscettibile ai diversi punti di vista impegnati in esso, non si può rinunciare a fornire racconti, storie e scenari.

All’evoluzione speculativa, fin qui presentata, corrisponde, ovviamente, un’evoluzione strumentale delle ricognizioni etnografiche: efficaci tecnologie audio-visive che offrono la possibilità di documentare senza limiti di spazio e di tempo.

Il miglioramento tecnologico comporta, certamente, l’ampliamento dello sguardo e della conoscenza antropologica, fattore fondamentale perché le culture possano raccontarsi reciprocamente. Ma la proliferazione delle possibilità comunicative, almeno sul piano tecnico, può nascondere però un rischio tipico, forse, dell’odierna società globalizzante, in cui «le differenze sono accettate ma non dialettizzate», come scrive Levi-Strauss, e aggiunge:

«Il rischio del nostro tempo è probabilmente quello che potremmo definire la iper-comunicazione, cioè la tendenza a sapere perfettamente, in un dato punto della terra, quel che succede in tutte le altre parti del globo. Perché una cultura sia veramente se stessa e produca qualcosa, essa e i suoi membri devono essere convinti della propria originalità e persino, in certa misura, della propria superiorità rispetto agli altri. Solo in condizioni di ipo-comunicazione una cultura produce qualcosa. Oggi corriamo il rischio di diventare semplici consumatori, in grado di assorbire qualsiasi cosa da qualunque punto della terra, ma ormai privi di ogni originalità». 25

«Un interessante problema analitico dell’odierna antropologia culturale riguarda i modi in cui aprire la conoscenza locale classicamente rappresentata e descritta dagli etnografi ai processi contemporanei di apparente omogeneizzazione globale»26

24

Cfr. GEERTZ in Op. cit.

25

Cfr. C.LÉVI-STRAUSS, Mito e significato. L’antropologia in cinque lezioni, Roma 2000, p. 1.

26

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II.3 RECIPROCITÀ E CONFRONTO CON UN TESTO VIVENTE

L’esperienza da me vissuta è costituita dall’incontro non con una realtà sociale, ma con un individuo.

La particolarità della persona, in quanto individuo appunto, non esclude riflessioni su dinamiche sociali e collettive, né in essa si esaurisce, acriticamente, il mondo della tradizione di riferimento. La specifica vicenda di Cuticchio, che ha origine da un humus stratificato nel tempo, è interessante perché ha assunto connotati e attuato rivolgimenti del tutto personali e originali.

Da questo punto di vista il percorso artistico di Mimmo contiene e attraversa i nodi critici e problematici del pensiero teatrale del Novecento. Questo aspetto sarà ripreso nell’ultima parte del presente lavoro.

Raccogliendo le sollecitazioni della riflessione antropologica contemporanea ritengo di poter considerare Mimmo Cuticchio un vero e proprio testo vivente: un individuo che ha “riletto” la propria tradizione e che attualmente cerca nuovi significati.

La rilettura e la rielaborazione concettuale e pratica, dell’opra dei pupi e dell’arte del cunto avviene su due livelli: uno riguarda le potenzialità interne della sua tradizione, l’altro invece l’apertura al presente e la socializzazione di contenuti e intenzioni artistiche.

L’attività di Cuticchio è un esempio di negoziazione di nuovi discorsi sulla sua arte, sul piano individuale e collettivo; questo vuol dire che il testo da interpretare è il suo complesso bagaglio poetico, alla luce delle strategie da lui perseguite attualmente.

L’aggettivo vivente si riferisce, in particolare, non tanto al fatto che egli è tutt’ora in attività, quanto al senso di vivacità e fermento che le sue modalità di ricerca e di azione mi restituiscono, e di fronte alle quali ho messo in discussione più volte i miei strumenti interpretativi.

Inizialmente pensavo, sulla base della preliminare documentazione svolta sui libri, che la formulazione di quesiti e problematiche “a tavolino” potesse scandire la ricerca e la relativa

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ricognizione di informazioni che, in ultima analisi, avrebbero dato ragione alla mia idea di fondo: Mimmo Cuticchio come esempio di una tradizione che si rinnova.

A questa generale considerazione mancavano alcuni elementi di complessità di cui mi sono resa conto soltanto parlando e confrontandomi con Mimmo, determinando un cambiamento di prospettiva. La capacità di rinnovamento di una tradizione non è estensibile a tutte le realtà tradizionali, alcune delle quali, in effetti, sono destinate a scomparire, o ad essere relegate nell’ambito del revival, ma nel caso del patrimonio dell’opera dei pupi e del cunto esso ritrova un significato teatrale grazie all’azione singola di Cuticchio.

Fin dal primo incontro Mimmo mi ha suggerito di non pensare di poter esaurire il discorso su di lui affidandomi esclusivamente alla realtà letteraria, non perché questa fosse falsa, ma semplicemente per il fatto che la sua attività è in continuo movimento e ciò che è stato ieri non è detto che lo sia domani allo stesso modo, esplicitando, così, la volontà di preservare una libertà di espressione al di là di ogni etichetta.

L’iniziale silenzio che ha caratterizzato la prima fase della mia ricerca, quasi il disagio a esprimere domande e opinioni, è giustificabile per due ragioni: una di carattere emotivo e l’altra di carattere prettamente speculativo. L’aspetto emotivo, come si può immaginare, è stato superato nel corso dell’esperienza attraverso la reciproca conoscenza e frequentazione, se pur circoscritta nel tempo. È più significativa la seconda ragione, quella che riguarda, come ho già detto prima, il mutamento di prospettiva. Nel momento in cui ho cominciato a seguire Mimmo e la sua compagnia ho sentito l’esigenza di recuperare gli elementi che compongono la realtà attuale del teatrante ed in particolare connettermi, letteralmente, con la prassi comunicativa di Mimmo.

A questo proposito è opportuno ricordare la riflessione sull’intersoggettività, come negoziazione e condivisione di contenuti e dal punto di vista, specificatamente etnografico, sulle modalità di costruzione di un ponte di comunicazione fra diversità.

Le identità messe in gioco nell’incontro etnografico portano con sé quadri referenziali che in realtà non possono essere esplicitati nella loro totalità, sia perché mutevoli, sia perché lo scopo di ogni

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incontro non pensa sia il coinvolgimento totale della persona, ma la realizzazione significativa di un confronto. L’investimento dei coefficienti personali, di quelli strettamente necessari al reciproco chiarimento delle intenzioni, porta alla costruzione di nuovi significati.

Il mutamento prospettico consiste proprio nel comprendere che solo una documentazione attiva, esperienziale mi avrebbe permesso di avvicinarmi al mondo di Cuticchio, durante la quale il mio impegno epistemologico avrebbe dovuto fare i conti con l’acquisizione e rielaborazione della mia soggettività. Praticando la vicinanza di Cuticchio, nel corso delle tre esperienze, ho realizzato che l’endiade osservatore-osservato è fittizia, in quanto i rispettivi ruoli si sono dimostrati interscambiabili. Durante il processo di familiarizzazione all’osservazione si è aggiunto il movimento dialogante; ascoltare, registrare e annotare ha creato l’esigenza di confrontarsi.

Il passaggio graduale da un atteggiamento di ricettività ad una osservazione attiva e partecipante è avvenuto spontaneamente e ha creato una forma di complicità con il teatrante.

In queste affermazioni non c’è niente di romantico, vorrei semplicemente spiegare che affinché possa costruirsi il presupposto per un dialogo è necessario che ci sia, in prima istanza, un aggancio, un ponte fra le rispettive intenzioni. Lo stesso Cuticchio mi ha sollecitato ad osservare e pensare prima di parlare, rispettando il tempo di cui avrei avuto bisogno, e così allo stesso modo ha apprezzato la mia volontà a stare “dentro la situazione”, e di aver preferito un rapporto diretto, anziché mediato e differito (per telefono o via mail).

Il raggiungimento di questa fase mi ha fatto intuire ciò che nella mente di Cuticchio è già consapevolezza e cioè che l’incontro etnografico, o antropologico in senso più ampio, dovrebbe essere un rapporto di reciprocità.

In un dato momento della mia esperienza, in particolare durante la permanenza a Palermo, ho percepito che la mia funzione non potesse esaurirsi nel ruolo di osservatrice e documentatrice di una realtà, se pur in forma dialettica e attiva. Attraverso la relazione dialogante, instauratasi tra me e Mimmo, ho intuito che il mio studio antropologico non servisse soltanto a riferire uno scenario, all’interno del quale si muove Cuticchio, ma che, in senso prospettico, esso avesse una precisa

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responsabilità, quella della mediazione, quella del farsi portavoce di istanze problematiche, in termini di prassi epistemologica. Le istanze problematiche a cui faccio riferimento riguardano, nello specifico dell’attività di Cuticchio, sì le strategie e le modalità di sperimentazione e cambiamento, ma anche, e più significativamente, le domande che il teatrante formula e rivolge a studiosi e specialisti.

La sua ricerca, proiettata in avanti, non ha voltato le spalle alla tradizione, anche se in passato egli ha vissuto una rottura e un distanziamento, ma continua a valutare la propria arte di appartenenza un terreno da esplorare e da indagare ancora, non per scoprire sopravvivenze o dettagli aneddotici ma per ricostruire un discorso poetico e teatrale. In fondo ogni avanguardia fa i conti con le poetiche precedenti ma qui mi preme sottolineare che, a mio avviso, il presupposto teorico del tentativo di Cuticchio è l’idea che la tecnica oltre ad essere prassi e manualità è anche una precisa poetica, attraverso cui si realizzano simboli e fantasie di una determinata cultura.

«I simboli cambiano, ciò che resta è la tecnica»27

In quest’ottica la prassi teatrale rappresenta un sistema di significati e riferimenti; nel momento in cui questo muta ci si ritrova nella condizione di rielaborare le proprie tecniche comunicative.

Come Cuticchio stesso racconta, in gran parte della storia della tradizione dell’Opera dei pupi si sono verificati mutamenti socio-culturali che hanno spinto autori e teatranti di diverse generazioni a riflettere sulle potenzialità espressive della propria arte.

Se nel passato (riferito alla storia dei pupari e cuntisti), la riflessione e la sperimentazione erano circoscritte ai quartieri di riferimento, senza alcun riconoscimento istituzionale, il quale si limitava ad appiattire in un unico scenario un mondo invece variegato, oggi, nella poetica di Mimmo, sono esplicitate e rivendicate. Ed è qui che entra in gioco il ruolo di mediatore dello studioso a cui Mimmo non chiede che gli venga riconosciuto il valore di sopravvivenza ma rivendica una collaborazione e un contributo alla sua personale ricerca. Come ho già raccontato, nei giorni trascorsi a Palermo ho svolto alcune brevi escursioni (visita al Museo Internazionale delle

27

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marionette e visita al quartiere Arenella di Palermo), ognuna delle quali ha evidenziato due aspetti significativi della mia ricerca: la dimensione museale ed il ruolo di Mimmo come risorsa storico-geografica.

In quei giorni il Museo internazionale era in fase di trasloco, a breve avrebbe trasferito la propria sede altrove, per questo motivo il complesso della collezione era in parte ancora in esposizione ed in parte accatastato nei magazzini. Tramite l’intermediazione di due ragazze, in servizio presso il museo, ho avuto modo di esplorare oltre che le stanze aperte al pubblico anche i magazzini in cui erano raccolti pupi, marionette e burattini antichissimi e di ogni genere, in attesa di essere spostati. Una breve considerazione relativa a questa visione: in effetti ciò che ha prevalso è l’aspetto visivo, estetico, di oggetti che hanno una speciale bellezza in quanto manufatti e opere d’artigianato. Non riesco a spiegarmi piuttosto lo stato di abbandono e di decadenza di un tale patrimonio secolare. In una situazione museale certo non si può pretendere che marionette, pupi e burattini, decontestualizzati, possano rappresentare la loro originaria funzione, quello di raccontare storie e muoversi in uno spazio; ciò che rimane è il fascino estetico della forma, dei particolari realistici degli occhi, dei capelli, dei colori o di altri invenzioni artigianali, tutti particolari che fanno pensare che il processo di manutenzione e mantenimento nel tempo richiede un notevole impegno e attenzione. Non corrisponde a questa fondamentale esigenza di esporre oggetti di alto valore artigianale, oltre che storico-antropologico, un adeguato livello di conservazione.

Questa sensazione si accentua quando, l’ultimo giorno a Palermo, faccio visita a Mimmo nella casa della madre, Pina Patti Cuticchio, e vecchia dimora del padre. Un piccolo appartamento, zeppo di oggetti, di fondali di scena, che componevano il teatrino del padre, e di quadri dipinti dalla madre stessa. Entrare in quella casa mi ha suscitato un rispetto che la visita al museo non mi ha provocato. Alle pareti ho visto appesi decine di pupi, ognuno avvolto nella plastica e in perfetta condizione, e ognuno, sulla scorta dei racconti di Mimmo, protagonista di storie e battaglie. Confrontando le due situazioni mi sono resa conto che è la prassi teatrale e la poetica ad essa collegata a fare sì che la cura di questi oggetti divenga necessaria e costituiva di un mestiere: il rispetto verso un oggetto di

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scena, prima che prodotto estetico, sembra assicurare la memoria di un’arte. Mentre Mimmo mi illustrava le varie fattezze dei pupi mi faceva notare come sarebbe stato interessante condurre una ricerca sulla storia dell’illuminotecnica nella tradizione dell’Opera dei pupi, anche perché lui stesso, nella sua attuale ricerca teatrale rivolge un’attenzione alle possibilità tecniche legate a questo aspetto. Come si può notare ciò che mi ha proposto Mimmo non è la semplice documentazione di ciò che ho visto ma, partendo da questa ricognizione, utilizzare gli strumenti di ricerca in connessione alle sue esigenze di ricerca artistica. La reciprocità, in questo caso, consisterebbe nel travaso, nello scambio delle rispettive competenze e risorse.

Mimmo Cuticchio non è infatti soltanto un fenomeno da studiare, è soprattutto una risorsa da “sfruttare”, la cui profonda conoscenza, storica e geografica di un ambiente (la città) e di una tradizione sono il terreno su cui la ricerca dello studioso può assumere coordinate nuove.

Così, in un certo senso, è accaduto in occasione della visita al Palazzo Steri, indicatomi da Mimmo, il quale, perfettamente informato del contenuto dell’affresco ma impossibilitato a visionarlo e studiarlo personalmente, ha pensato che potesse essere compito mio cominciare a raccogliere degli elementi utili ai fini dell’individuazione di eventuali fonti iconografiche dell’Opera dei pupi.

Non ho avuto modo di approfondire questo aspetto, per mancanza di tempo e perché non immediatamente attinente al mio studio, ma rimane il senso di reciprocità di questo incontro, che anche le parole di Mimmo confermano:

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