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1. LIVORNO ED IL SUO CENTRO STORICO

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Academic year: 2021

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1. LIVORNO ED IL SUO CENTRO STORICO

Un breve excursus sulla storia di Livorno, a partire dalle origini fino ai giorni nostri, permette di capire quali meccanismi abbiano regolato il suo sviluppo urbanistico ed, in particolare, per quali motivi il centro storico, originariamente fulcro della città, con il passare del tempo abbia progressivamente perso di importanza. Questi brevi cenni sono necessari per inquadrare il contesto in cui si inserisce l’intervento, oggetto di questa Tesi di Laurea, ed per capire quali siano gli aspetti da valorizzare per restituire al centro storico un potere attrattivo concorrenziale con altre zone della città. Attualmente, infatti, l’Amministrazione Comunale è impegnata in interventi che riqualifichino le zone centrali, tra cui anche il restauro del Mercato Centrale e la riorganizzazione delle attività commerciali in esso contenute ed ad esso circostanti.

1.1. LE ORIGINI

Prima dell’XI – XII secolo Livorno non esiste come centro abitato perché il terreno paludoso è inospitale ed inadatto all’inurbamento; probabilmente è una propaggine del Porto Pisano e non ha neanche una propria cinta muraria.

I primi documenti risalgono al 1103 quando Matilde, contessa di Canossa, dona all’opera di S. Maria di Pisa il castrum liburni, curtem et omnia similiter ei pertinentia intendendo con castrum un fortilizio cinto da mura e da torri e con curtem un possesso fondiario con casa dominicale ed altre casupole in modo da formare quasi un villaggio. Di questo complesso oggi rimane soltanto il Mastio di Matilde, situato all’interno della Fortezza Vecchia, perché le numerose

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scorrerie, avvenute nel XII – XIV secolo, hanno modificato l’aspetto di questa parte della città senza lasciarne traccia.

Nel 1337, in seguito alla sconfitta dei pisani alla Meloria (1268) ed alla distruzione del territorio pisano per mano dei genovesi iniziano i lavori, affidati dal Comune di Pisa a Puccio di Landuccio ed a Francesco Giordani, della rocca di Livorno, detta Quadratura dei Pisani, che ha principalmente lo scopo militare di difesa al Porto Pisano.

Nel 1392 nasce la prima cinta muraria della quale oggi non resta più traccia a causa della distruzione avvenuta nel XVI secolo.

Nei primi anni del Quattrocento Livorno è contesa tra fiorentini e genovesi e, ad opera di questi ultimi, nel 1412 inizia l’escavazione di un canale che dalla Quadratura dei Pisani arriva alla Porta a Terra, nei pressi della quale si trova una darsena, chiamata il Porticciolo. Nel 1421 Firenze conquista Livorno e concede agli abitanti privilegi di natura economica, franchigie ed immunità, allo scopo di accrescere la popolazione.

Nel XV – XVI secolo, sotto il potere mediceo si ha un lento, ma progressivo, sviluppo della città e del suo porto che si concretizza, nel 1518, con la costruzione della Fortezza Vecchia, su progetto di Sangallo il Vecchio, all’interno della quale vengono incorporati il Mastio di Matilde e la Quadratura dei Pisani e, nel 1573, con la realizzazione del Canale dei Navicelli che ha lo scopo di unire Pisa al porto di Livorno.

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Da questo momento la politica medicea rivolge particolare attenzione alla città di Livorno con lo scopo di realizzare una struttura portuale efficiente e di valore internazionale, affiancata da un tessuto urbano capace di accogliere ed attirare i mercanti di passaggio.

1.2. IL PROGETTO DELLA CITTA’ NUOVA

Nel 1576 Francesco I de’Medici ritiene opportuno dotare di un tessuto urbano il porto di Livorno, notevolmente sviluppatosi sotto il governo del padre Cosimo I ed affida questo compito a Bernardo Buontalenti, architetto fiorentino allievo dell’Ammannati. Questo ampliamento ha lo scopo di fornire le attrezzature, gli edifici e le fortificazioni necessari a soddisfare le esigenze delle attività commerciali che si sviluppano con il porto e, al tempo stesso, attirare nuovi traffici.

Il progetto buontalentiano prevede una città inscritta in un esagono regolare, in cui quattro vertici coincidono con i baluardi, uno con la Fortezza Vecchia ed il sesto cade in mare. Per ovviare a questo problema la forma urbis è resa pentagonale e simmetrica rispetto all’asse verticale che, partendo dal baluardo dell’Ascensione a sud-est, termina in quello di Santa Barbara a nord-ovest sul lato orizzontale del pentagono, passando per il centro della città.

I tre rimanenti baluardi, vertici del pentagono, sono quelli di San Francesco a nord, di Santa Giulia ad est e di Sant’Andrea a sud-ovest. I lati del pentagono sono costituiti da cortine fortificate che uniscono gli imponenti bastioni e tutto il complesso è circondato da un fossato, tipico delle fortificazioni dell’epoca.

Il tessuto urbano interno al pentagono è organizzato secondo lotti di dimensione variabile ma, per permettere una migliore disposizione degli edifici, tutti di forma regolare: rettangolari al centro, trapezoidali o triangolari al confine con le fortificazioni. Il tracciato viario, quindi, si dipana secondo un sistema ortogonale rispetto ai due assi principali, il cardo ed il decumano, il

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secondo dei quali, via Giulia, diventata poi via Ferdinanda ed attualmente via Grande, collega l’ingresso al porto con la porta principale della città. Il vecchio nucleo, vicino alla Fortezza Vecchia, è escluso dalla nuova organizzazione urbana ed intorno ad esso vengono lasciati spazi vuoti di isolamento.

Il progetto, così per come è stato presentato, non viene realizzato fedelmente: una vasta zona adiacente al baluardo nord è eliminata per l’edificazione della Fortezza Nuova, al centro della città è realizzata una grande piazza porticata con il duomo ed il sistema di fortificazione viene dotato di rivellini. Tali differenze possono essere imputate al fatto che probabilmente il progetto del Buontalenti ha uno scopo più dimostrativo che non esecutivo e che, come spesso avviene, le previsioni su carta trovano difficile applicazione nella realtà.

Qualche studioso ritiene che il progetto della nuova città si inserisca all’interno del dibattito rinascimentale sulla città ideale; infatti la forma pentagonale deriva dallo schema teorico adottato dal Filerete per Sforzinda, che ha otto punte sulle quali sono collocati i bastioni della città, e la maglia viaria ortogonale presenta la stessa regolarizzazione proposta per Sabbioneta e per la città pentagonale di Pietro Cattaneo, a loro volta ispirati al cardo ed al decumano romani e, ancora prima, alla città ippodamea.

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1.3. IL GRANDUCATO MEDICEO

La costruzione della “città nuova”, onorata con una solenne cerimonia descritta dal Guarnieri, inizia ufficialmente con la posa della prima pietra il 28 marzo del 1577, anche se già nell’anno precedente molti terreni erano stati espropriati. A causa della crisi economica dello stato toscano, inizialmente i lavori procedono con lentezza e sembrano prevalere le esigenze militari piuttosto che quelle urbane e portuali.

Con l’aumento della popolazione e l’incremento delle attività commerciali la necessità di realizzare la città diventa urgente e, sotto il governo di Ferdinando I, si decide di riprendere i lavori. Gli obiettivi dell’intervento sono il completamento delle opere di fortificazione, il potenziamento delle strutture portuali e la realizzazione del tessuto urbano legato alla vita civile e commerciale.

Per quanto riguarda il sistema difensivo, è sufficiente segnalare la realizzazione della fortezza Nuova nel 1590, ad opera di Don Giovanni de’Medici, terminata quattro anni dopo, e lo scavo dei fossi intorno alle fortificazioni a partire dal 1601.

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Gli interventi successivi, che durarono per tutto il Seicento, sono rivolti principalmente ad “ammodernare” il sistema militare ed a presentare un’immagine più sicura del porto. Anche i fossi, che nascono come protezione alle fortificazioni, con il passare del tempo perdono questa funzione e, una volta ampliati e ristrutturati, diventano canali per i traffici commerciali mettendo in collegamento i magazzini, aperti in prossimità degli scali, con le navi in porto.

Relativamente alle strutture portuali si possono menzionare lo scavo della darsena nel 1590, i lavori per i “Moli del Fanale”, rimasti incompiuti però alla morte di Ferdinando I (1609) ed un nuovo impulso di sviluppo sotto Cosimo II che, nel 1611, amplia e razionalizza le attrezzature portuali, fonda il Molo Nuovo ed ingrandisce il canale di collegamento tra il porto ed il lazzaretto. I decenni successivi vedono il consolidarsi del molo e la ristrutturazione delle fortificazioni che determinano un ampliamento delle capacità ricettive del porto ed un miglioramento delle condizioni di sicurezza.

Merita maggior accuratezza lo studio dello sviluppo del tessuto urbano che risulta fondamentale per capire la situazione attuale del centro della città.

Il borgo originario si trova di fronte alla Fortezza Vecchia, nei pressi della Porta Colonnella ed è costituito principalmente dagli alloggi dei soldati del presidio e della manodopera che lavora nelle attività portuali ed in quella costruttiva. Gli edifici non accolgono soltanto alloggi, ma anche osterie e luoghi di ritrovo, mentre i magazzini delle merci sorgono lungo il porto e lungo i canali. Con la proclamazione della nuova città si hanno molti cambiamenti rivolti ad occupare gli isolati regolari scanditi dalla maglia viaria ortogonale. Lungo la via Ferdinanda, attuale via Grande, si realizzano le principali abitazioni perché i lotti risultano più ampi, mentre le case che sorgono sulle altre strade vengono progettate in serie di numero variabile su lotti più piccoli. Tutte comunque si sviluppano su due livelli: al piano terra vi è l’ingresso all’appartamento, l’accesso al giardino sul retro ed una bottega od un magazzino, al piano superiore la cucina e le camere.

La costruzione di case in serie provoca un’uniformità d’impianto nelle facciate, caratterizzate da forme e strutture molto povere, come pareti

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intonacate con aperture riquadrate in pietra serena. Inoltre si ha anche un’uniformità d’uso in cui ogni abitazione prevede la compresenza della funzione residenziale e di quella commerciale. La città appare, dunque, un intreccio di abitazioni, magazzini e negozi non differenziati tra loro né per dimensioni, né per materiali, più simile ad un centro orientale, grazie anche alle continue attività di scambio, che non ad un quartiere europeo pianificato.

Il riempimento della città, almeno in questa prima fase, avviene per aggregazione spontanea di gruppi appartenenti alla stessa nazione o religione. E’ il caso dei greci che si stabiliscono nella strada contigua alle logge della Porta Colonnella in direzione del bastione di Duca Cosimo. Un altro esempio è la comunità ebraica, presente in città grazie al favore di Ferdinando I che vedeva nei loro legami economici con il Levante e con l’Africa del Nord, un sicuro sviluppo dei traffici e riteneva fosse utile la loro antica esperienza nelle pratiche commerciali e nella conoscenza tecnica della fabbricazione del sapone. Questo gruppo religioso si stabilisce in un’area ben precisa, identificabile con la “strada degli ebrei”, cioè la strada parallela a via San Francesco tra il duomo ed il bastione di Santa Barbara. Nel 1604 in questa zona viene spostata la sinagoga in un sito prescelto dal Cogorano e dal Pieroni.

Lo stabilirsi a Livorno di nuovi gruppi finanziari più ricchi e disponibili ad investire nell’attività edilizia provoca lo sviluppo di una seconda fase di realizzazione della città e la nascita di una nuova tipologia residenziale per blocchi. Questa nuova abitazione prevede una forte riduzione dello spazio libero che viene sfruttato per realizzare magazzini al piano delle cantine e servizi all’interno. Questo è ottenuto raddoppiando il fronte stradale ed aprendo una strada che dimezza la profondità dell’isolato.

I maggiori finanziatori dell’attività edilizia sono i Cavalieri di Santo Stefano ed i Ceppi di Prato che nei primi decenni del Seicento costruiscono nell’area compresa tra il duomo ed il bastione sud-est, parallelamente alla via Ferdinanda, e nei quartieri dietro a via della Madonna, tra la Fortezza Nuova e la Porta a Pisa.

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Con l’affermarsi di classi mercantili più ricche, in confronto a quelle artigianali e portuali, si viene a creare la necessità di distinguere con chiarezza le zone residenziali e di rappresentanza, da quelle commerciali e di servizio. Così nascono abitazioni più prestigiose con facciate affrescate in via Ferdinanda e nella piazza d’Arme, al pari di quelle realizzate lungo le grandi direttrici di Genova e Palermo, mentre nelle strade secondarie si adotta la tipologia per blocchi con facciate poco decorate e più modeste.

Nonostante l’uniformità dell’aspetto esterno, fino a questo momento l’interno degli edifici viene gestito a seconda delle necessità del proprietario, mescolando l’abitazione con il magazzino o la bottega, ma con l’aumento della popolazione e l’incremento degli scambi commerciali, la funzione residenziale e quella di deposito devono essere separate. Pertanto i magazzini vanno ad occupare una parte sempre più estesa della città, cercando un diretto accesso all’acqua. Si creano così due livelli di circolazione: le strade ed i canali sui quali si aprono spazi profondi quanto l’isolato per il deposito. Da questi spesso partono delle scale che conducono alle abitazioni sovrastanti.

Inoltre, nel 1629, si approva il progetto di Giovan Battista Santi che prevede la realizzazione di un’isola percorsa da canali per ampliare la città e fornire al porto i servizi e le attrezzature mancanti. L’area di intervento si trova a ponente della città, vicina alla striscia trapezoidale che si affaccia sul Canale dei Navicelli. Il nuovo quartiere deve chiamarsi inizialmente “Isola Ferdinanda”, ma l’incredibile somiglianza con la città lagunare fa cadere la proposta celebrativa per adottare la denominazione di “Venezia Nuova”. I lavori procedono con estrema lentezza fino alla fine del secolo, a causa della scarsità dei finanziamenti, delle difficoltà che i tecnici trovano nel costruire sull’acqua e della morte del Santi, affetto dalla peste del 1630.

Nel 1695 si ha l’abbattimento delle mura della Fortezza Nuova, riducendola così ad un solo bastione per creare nuovi spazi per l’edilizia. Le unità abitative di questa zona non si alzano oltre i due piani: il piano terreno è adibito a magazzino od a bottega, il primo e quello a tetto ad appartamenti di quattro o cinque stanze. I lotti, soprattutto abitati da ebrei, si affacciano

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direttamente sui canali e tendono a dare molto più spazio ai magazzini, fondi e cantine; soltanto in parte si realizzano piani adibiti a residenza sopra alle originali abitazioni.

In questo contesto si inserisce il progetto del Dal Borro del 1695 che prevede la realizzazione di una nuova area che ha come asse principale via del Corso, cioè il proseguimento di via della Madonna fino al rivellino. Su questa strada e sull’attuale via Borra nascono i primi palazzi residenziali di Livorno, di grandi dimensioni e con soluzioni architettoniche mai realizzate in precedenza in città. Ne è un esempio il palazzo di Anton Paolo e Angelo Franceschi caratterizzato da un ampio cortile loggiato con gallerie aperte, da un salone di rappresentanza nella parte centrale del primo piano e da due torrette erette sul tetto per la vista al mare. La tipologia del palazzo residenziale dimostra la presenza di un atteggiamento che attribuisce un maggior valore all’agio ed alla comodità, sintomo di un nuovo costume di vita più ricercato e raffinato. La cura delle facciate degli edifici dimostra, inoltre, il piacere dei mercanti nel manifestare apertamente la propria solidità economica ed il loro prestigio sociale.

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I primi anni del Settecento vedono un consistente impegno sul versante dell’edilizia ecclesiastica: vengono, infatti, promosse alcune iniziative di gruppi religiosi diversi tra cui i Gesuiti, i Domenicani, i Trinitari, la Nazione Francese e quella Armena. Talvolta però questi interventi non vanno a buon fine perché l’autorità granducale esercita nelle zone ancora libere un controllo sempre più rigido, imponendo condizioni troppo gravose per la costruzione di nuovi impianti.

Nel quadro di Livorno sotto il Granducato mediceo non si possono non citare le vicende relative alla realizzazione del duomo, della piazza d’Arme e di altre strutture adibite alla collettività.

Il progetto originario della chiesa, che è situata su un lato della piazza centrale della città, risale allo stesso Buontalenti che, adiacente ad essa, prevede anche la realizzazione di un convento. I lavori del cantiere sono affidati a Don Giovanni de’Medici che, pur mantenendo i caratteri generali del progetto buontalentiano, come il portico che si sviluppa sulla facciata e sulle pareti laterali, abbandona l’idea del convento per rendere più ampia l’aula ed il coro della chiesa. Di questo edificio oggi non rimane più niente perché, distrutto dai bombardamenti, è stato completamente ricostruito nel secondo dopoguerra.

Anche la piazza d’Arme è stata distrutta dalla guerra e, quindi, per la ricostruzione si ricorre all’analisi iconografica. Nella pianta di Livorno, affrescata da Bernardo Poccetti nella Sala di Bona di Palazzo Pitti a Firenze, si nota una piazza quadrata porticata su tre lati e con il duomo sul quarto; al centro una strada percorre l’asse della città dal porto alla Porta a Pisa. La piazza ha un aspetto semplice e sobrio, grazie all’ordine toscano delle colonne del porticato, che ben si addice alla sua funzione di piazzaforte marittima. E’ però anche luogo d’incontro ed uno spazio urbano collettivo destinato alle attività di piccolo commercio per la presenza di botteghe, messo a disposizione per il mercato che, dal 1607, si tiene ogni lunedì sotto le logge.

Alla fine del Seicento il Porticciolo che si trova sul lato settentrionale della piazza perde la sua funzione e, a causa degli elevati costi di manutenzione, viene interrato; nasce così il problema della destinazione del nuovo lotto che

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avrebbe notevolmente mutato l’assetto della piazza. Dopo varie proposte, nel 1704, ha successo il progetto di Giovan Battista Foggini che prevede la realizzazione dei “Tre Palazzi”. Questo edificio presenta ornamenti sia in facciata che all’interno ed è costituito da cinque appartamenti: tre rivolti sulla piazza e due sul retro affacciati sul fosso. Le residenze risultano di un certo prestigio per la presenza di cortili, porticati, ballatoi a loggia e di una zona centrale utilizzata come salone di rappresentanza; al piano terreno l’ambiente è lasciato a disposizione di magazzini e stanze per l’attività commerciale.

La piazza appare ormai completata ed assume un particolare decoro architettonico; inoltre, negli anni, è diventata anche il centro amministrativo della città perché qui sorgono le sedi più importanti come il Palazzo Granducale, il Palazzo del Governatore, la Dogana e la casa acquistata dalla comunità per gli uffici.

Lo sviluppo di Livorno consiste anche nella costruzione di strutture che migliorano le condizioni generali dei cittadini; tra queste il Lazzaretto di San Rocco, realizzato a sud della città sotto il governo di Ferdinando I, quando quello originario, che si trova nei pressi della Torre del Fanale, non è più sufficiente ad accogliere le merci ed i viaggiatori, sospetti portatori di malattie.

Deve, inoltre, essere ricordato il Bagno delle Galere o dei Forzati, realizzato su progetto di Alessandro Pieroni, che si trova nello spazio compreso tra la città vecchia e quella nuova, nei pressi del bastione Duca Cosimo e della

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darsena. Questo impianto accoglie gli schiavi, molto numerosi in città, che sono impiegati come rematori nelle galere o come manodopera per i lavori più faticosi. Essi godono di una certa libertà, possono girare liberamente in città, affittare botteghe ed esercitare piccoli commerci. Adiacente al Bagno, verso il porto, sorge anche la Biscotteria: una fabbrica che produce il biscotto per gli equipaggi delle navi ed il pane par la comunità.

Con lo sviluppo delle attività commerciali si sente la necessità di costruire magazzini per il deposito delle merci. Inizialmente tale esigenza viene soddisfatta dai locali dei privati, ma nel 1698 nasce la prima impresa voluta dal Granduca. Il progetto di Matteo Prini prevede un grande impianto costituito da 208 cisterne poste nella piattaforma tra le due darsene del porto, accanto al magazzino del sale, sul lato opposto all’Arsenale delle Galere.

Nel 1699 vengono iniziano i lavori per la Nuova Pescheria perché i locali situati nella piazzetta del Villano non sono più sufficienti. L’edificio viene collocato nel quartiere della Venezia Nuova ed è caratterizzato da grandi pilastri che sorreggono una copertura a volta e da un intero piano destinato a magazzini.

Nel 1701 si realizza su progetto di Giuliano Ciaccheri il Palazzo dei Monti Pii in via Borra: questo edificio, oltre ad accogliere gli uffici dei funzionari, gli archivi, le stanze per il deposito dei beni preziosi e dei pegni, ha appartamenti prestigiosi ai piani più alti e magazzini sotterranei che si affacciano direttamente sul fosso.

Nel campo sanitario e sociale, infine, spicca l’originario ospedale di Sant’Antonio, adiacente all’omonima chiesa, che non essendo più sufficiente, nel 1685, viene affiancato da quello di Santa Barbara riservato alle donne. Nel 1682 il Granduca Cosimo III affronta anche il problema dei poveri e dei mendicanti che, fino a questo momento, avevano trovato aiuto soltanto nelle numerose confraternite e decide la costruzione del ricovero delle Case Pie su un’isola di proprietà del Ceppi di Prato lungo il Canale dei Navicelli.

Per quanto riguarda le zone esterne alla cinta fortificata, a nord ed a nord-ovest si estendono le paludi, ostacolo all’inurbamento per la diffusione di

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febbri malariche, mentre a levante ed a sud si sviluppa la campagna semidesertica, possesso del Granducato. Solo tra la città ed il Santuario di Montenero, fondato nel XIV secolo sui colli che chiudono a sud la piana di Livorno, al di là della fascia a ridosso dei bastioni, sottoposta alla servitù non aedificandi per ragioni militari, si realizzano le prime ville signorili destinate alla villeggiatura dei magnati della città. Infine sulla fascia costiera che si sviluppa a sud si trovano tre piccoli villaggi: il borgo di San Jacopo, realizzato intorno all’antica chiesa, il convento dei Cappuccini ed il forte di Antignano.

1.4. IL PERIODO LORENESE

Alla metà del Settecento Livorno si presenta come una città-fortezza, chiusa entro la cinta muraria pentagonale fortificata da cinque bastioni, in cui gli spazi interni sono completamente saturati e spesso si ricorre alla sopraelevazione degli edifici esistenti.

L’aumento demografico ed il continuo incremento delle attività commerciali sono dovuti principalmente al fatto che, alla metà del Seicento, il porto di Livorno è stato dichiarato “franco”. Questo significa che, ai fini del dazio d’importazione, è considerato come territorio non nazionale e si può accogliere merci straniere, destinate alla riesportazione o al consumo in città, senza pagamento d’imposta. La vita economica si basa, quindi, su attività di deposito, smistamento, reimballagio e spedizione di merci quali grani, salumi e pesce salato, e all’ombra delle franchigie, nascono le prime industrie armatoriali, di confezioni di abiti di foggia orientale e legate alla pesca del corallo.

Questa condizione cela però un pericolo che, nel corso del tempo, diventa realtà perché la ricchezza e lo sviluppo economico della città sono estremamente legati alle nazioni che hanno interessi economici sul porto e, quindi, sono molto sensibili alle vicende politiche internazionali. A questo proposito si riscontra un aumento dei traffici nei periodi di guerra, quando cioè

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la condizione di “porto franco” rende propizio nascondere la vera proprietà delle merci sotto i nomi dei grandi mercanti livornesi, mentre si ha un calo dell’attività commerciale nei periodi di pace.

Per fronteggiare questi disagi si sente la necessità di intensificare il legame tra Livorno ed il Granducato ed è per questo motivo che gran parte della politica lorenese è rivolta alla riorganizzazione del servizio postale ed alla sistemazione delle comunicazioni stradali fra la Toscana e le regioni oltre l’Appennino.

Le vicende che riguardano più da vicino la città nel primo periodo lorenese sono la bonifica delle paludi a nord-ovest, ad opera del governatore Carlo Ginori per risolvere il problema della malaria, e l’ampliamento della città con la costruzione di un quartiere presso il borgo di San Jacopo, già fornito di un’antica chiesa, di un piccolo approdo naturale e collocato vicino al lazzaretto.

Un progetto alternativo a quello per San Jacopo, che è volto a risolvere il sovraffollamento entro le mura della città, viene proposto dal Conte di Richecourt il quale vuole edificare nella zona a nord della città, tra il Canale dei Navicelli, il Calambrone ed il mare, un totale di 1200 abitazioni ed un ampio porto; questo intervento che occupava una superficie maggiore della città pentagonale viene scartato proprio a causa della sua vastità.

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Il progetto per San Jacopo, firmato da Romualdo Cilli, prevede un quartiere di forma quadrangolare con un’ampia piazza interna e due piazze minori; un canale che congiunge il mare al canale del lazzaretto divide l’area in due parti perfettamente simmetriche e dà accesso al porto. Le abitazioni avrebbero accolto i pescatori ed i marinai mentre numerosi magazzini avrebbero soddisfatto le carenze della città. La realizzazione del progetto è modesta ed oggi si nota soltanto qualche piccola traccia di esso in corrispondenza del progettato canale, attualmente zona di via Malta, in cui il quartiere assume un certo ordine e un certo respiro.

Il problema dell’insufficienza di alloggi non viene risolto con l’ampliamento di San Jacopo e, intorno agli anni ’70 del Settecento, il Granduca prende due provvedimenti: il primo è relativo alla possibilità di sopraelevare gli edifici presenti all’interno della città pentagonale, il secondo, che avrà ripercussioni per tutto l’Ottocento, prevede l’abolizione di ogni proibizione di edificare tra la città e la via delle Spianate, attuale corso Mazzini, che si sviluppa parallelamente alla cinta fortificata a levante e dista circa 450 m dai bastioni. Questa decisione è tipica della politica leopoldina, secondo la quale le ragioni dello sviluppo civile annullano quelle militari e difensive. Resta comunque il divieto di edificare lungo la strada che va ai Cavalleggeri, cioè quella che, parallela al mare, conduce a sud e che diventerà successivamente la passeggiata lungomare.

Dopo l’abolizione dei vincoli militari, la costruzione fuori dei bastioni ha notevole sviluppo ma si concentra quasi esclusivamente intorno alle due porte della città: quella a sud che porta al convento dei Cappuccini e quella ad est verso Pisa. Le espansioni si delineano come propaggini a irradiazione stellare lungo le strade che dalle porte di diramano radialmente in varie direzioni e gli aggregati risultano disordinati e destinati ad un degrado abbastanza veloce.

Fra gli interventi pubblici del primo periodo lorenese, anche questi realizzati all’esterno della cinta muraria, merita citare la costruzione del cimitero dei cattolici, nel 1775, nell’area in cui attualmente sorge il Seminario. Va ricordata anche la realizzazione di un nuovo lazzaretto, nel 1780, posto più a

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sud di quello di San Rocco e la costruzione di due chiese: una sulla via che porta a Pisa, l’altra nel piccolo borgo agricolo di Salviano.

Con il passare del tempo vengono concessi i primi permessi di costruire anche sugli spalti, cioè non soltanto dentro la fascia di servitù militare, ma addirittura sulle fortificazioni. La maggior parte di questi interventi sono voluti da cittadini privati che, di volta in volta, ottenuta l’autorizzazione, costruiscono in modo disomogeneo perché privi di un progetto organico per l’area. Tra questi ricordiamo i Pons, padre e figlio, e il loro socio Silvestro Chetti con la costruzione di un complesso di mulini ad acqua.

Un altro intervento privato che avrà notevoli effetti sulla vita, sulla fisionomia e sulla struttura della città è quello di Paolo Baretti che, nel 1780, ottiene l’autorizzazione per realizzare presso il Forte dei Cavalleggeri, attuale Terrazza Mascagni, il primo “bagno d’acqua salsa”. La presenza dei “bagni” come impianti fissi lungo la riva del mare si deve a motivi igienici e di prestigio sociale e, da questo momento in poi, avrà fiorente sviluppo su tutto il lungomare della città.

Alla metà del Settecento, grazie ad un’importante modifica del sistema di tassazione degli immobili, voluta dal Granduca per intensificare l’attività edilizia nelle campagne, molte ville vengono realizzate a sud ed a sud-est della città, nei poderi della piana e sul colle di Montenero. Ne è un esempio la villa suburbana di Valsovano che ospitò Shelley nel suo soggiorno livornese.

Il governo lorenese viene interrotto dalla rivoluzione francese e dall’impero napoleonico ed in questo periodo di dominazione straniera, nonostante il ritmo di accrescimento della popolazione sia molto veloce, quello della città risulta modesto per dimensioni e ancora di più per gli effetti sulla morfologia urbana. La vendita degli spalti delle fortificazioni non ha successo perché gli obblighi imposti sono molto pesanti rispetto alle abitudini dell’epoca: i proprietari infatti devono costruire, a proprie spese, le fognature ed i marciapiedi negli isolati che acquistano e mantenere un determinato e rigoroso ordine nelle facciate.

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Nel 1802 termina l’ingrandimento della città sull’area del rivellino di San Marco. Questa zona è collocata all’interno ed a nord della cinta fortificata e gode, quindi, dei vantaggi di extraterritorialità propizi alle attività commerciali, mantenuti sotto i francesi. Il piano del nuovo quartiere, redatto dal tenente Giorgio Mori, ingegnere delle R.R. Fabbriche, prevede una strada principale, in asse al rivellino, con alcune traverse ed una strada di contorno che, prolungando via della Madonna, divide l’area in due parti disuguali. Il nuovo quartiere risulta perfettamente accordato come trama urbana e come edilizia ai vicini isolati della Venezia Nuova ed è il primo felice intervento di inserimento di un quartiere ottocentesco nel sistema della città sei-settecentesca. In questa area trovano collocazione molti magazzini, un teatro, considerato tra i più belli d’Italia, un bagno pubblico di acqua salsa in via dei Bagnetti ed un ponte che collega il quartiere con la campagna.

Altri aspetti positivi del dominio francese, ma non direttamente collegati all’espansione della città, sono la riorganizzazione, secondo il modello francese, dei servizi delle poste e dei corrieri e la progettazione, ed in parte la costruzione, di un’organica rete stradale che connette Livorno al resto d’Italia, necessaria alla città che lentamente sta perdendo il suo predominio sul mare.

Con la caduta dell’Impero napoleonico tornano in Toscana i Lorena con il granducato di Ferdinando III. Negli anni che vanno dal 1828 al 1835 non si notano grandi novità in campo edilizio se non le ripercussioni che ha avuto l’espansione del rivellino di San Marco. In particolare si ricorda la costruzione del ponte sul fosso che chiude a nord la città, la sistemazione della strada che dal ponte si dirige verso la campagna e che costeggia lo specchio d’acqua intorno alla Fortezza Nuova fino alla via Pisana e la sistemazione degli scali che circondano la darsena della Fortezza Nuova. Il progetto di Pasquale Poccianti ha notevoli conseguenze sulla morfologia della città, soprattutto per la nuova strada, attuale via Solferino, che collega la porta a Pisa con quella di San Marco, spostata verso l’esterno nell’intervento di ampliamento, perché diventerà una delle direttrici di espansione dell’Ottocento e del Novecento.

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Alla fine del 1828 il governo toscano ordina la vendita della larga fascia a sud delle fortificazioni, fra la piazza San Benedetto, attuale piazza XX Settembre, ed il sobborgo dei Cappuccini: questa zona era rimasta estranea alla precedente espansione perché malamente accessibile e distante dalle porte della città. Il progetto di Cambray-Digny, direttore delle R.R. Fabbriche, consiste nella realizzazione di una strada di forma spezzata che, sopprimendo la strada degli spalti esterna alle fortificazioni, collega i nuovi quartieri con il centro cittadino. Partendo dalla porta a Pisa, la nuova strada si innesta con il cardo buontalentiano e prosegue fino a ricongiungersi con via delle Spianate. L’area viene, inoltre, divisa in isolati ben definiti e non più affidati all’arbitrio dei privati, delineati da una regolare maglia stradale, da una piazza principale e da due piazze minori. Il piano comporta un’importante rettifica al fosso eliminando il baluardo a sud ed interviene in modo simmetrico rispetto all’asse nord-sud della città, ad eccezione della zona del cimitero inglese che impedisce di condurre, nella parte rivolta al mare, la simmetrica a via Goldoni.

Questo nuovo ampliamento e la nascita di numerose industrie all’esterno della cinta fortificata, nei sobborghi preesistenti e nell’area a nord-est della città, creano una situazione anomala: gli abitanti, pur essendo strettamente legati alla città pentagonale, non possono godere del favorevole regime delle

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dogane e così, nel 1834, si decide di circondare Livorno con una più ampia cinta doganale.

Il progetto generale è di Alessandro Manetti, il più illustre ingegnere toscano del tempo, e prevede di dare alla città una forma semicircolare che contenga al suo interno le principali ville ed i più grossi sobborghi, ad eccezione del troppo lontano San Jacopo e del borgo agricolo di Salviano.

L’inevitabile conseguenza di questa decisione è la demolizione dei bastioni e la realizzazione su queste aree di nuovi quartieri: la sutura tra la parte ottocentesca e quella precedente, grazie al modulo adottato per le strade e gli isolati, è quasi inavvertibile tanto che la Livorno antica sembra quella entro i fossi ma in realtà gli isolati che vi si affacciano sono ottocenteschi. Nascono anche nuove parrocchie tra cui Santa Maria del Soccorso nella zona centrale, Sant’Andrea e San Giuseppe nella zona a nord della città e San Pietro e Paolo più vicina al mare, che vanno ad affiancare le già esistenti parrocchie di San Benedetto e di Santa Trinità.

Nel 1846 Mario Chietti, ingegnere di circondario, viene incaricato dal Granduca di redigere un piano per regolarizzare l’ampliamento della città, ma l’intervento di altri tre grandi ingegneri del tempo quali Pasquale Poccianti, Guglielmo Luigi Cambray-Digny e Luigi Bettarini, provoca il fallimento del progetto. Il Cambray-Digny, come abbiamo già spiegato, è autore del progetto di ampliamento della città a sud e della realizzazione della piazza di San Pietro e Paolo, mentre il Bettarini lavora per le successive integrazioni all’ampliamento e soprattutto elabora i progetti per le due piazze, nodi fondamentali per legare il vecchio tessuto urbano al nuovo, quali la piazza “del Voltone”, attuale piazza della Repubblica, e la piazza del Cassone, oggi Cavour.

Il Poccianti, già intervenuto nella sistemazione del quartiere di via Solferino e nella costruzione della chiesa di San Benedetto agli inizi dell’Ottocento, è l’autore del “Ponte Nuovo” che collega il centro e la piazza dei Quattro Mori con il quartiere dei Cappuccini e la passeggiata lungomare, e del grandioso capolavoro del nuovo acquedotto, affiancato dall’ampio viale alberato. Nell’idea del Poccianti questo viale, attuale viale Carducci, che collega

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la stazione ferroviaria, realizzata nel 1910, al Cisternone, deve diventare la più importante passeggiata di Livorno.

In realtà lo splendore del viale viene oscurato dalla passeggiata parallela al mare, lungo la malandata strada dei Cavalleggeri, che da sempre è la preferita dai cittadini livornesi e sulla quale nascono i bagni a mare come i bagni Palmeri, i bagni Squarci ed i notissimi Pancaldi che accolgono nel periodo estivo personaggi illustri.

Gli anni che vanno dal 1849 all’Unità d’Italia vedono il consolidarsi dei progressi precedenti piuttosto che sostanziali avanzamenti. I lavori principali sono infatti rivolti alla prosecuzione del cardo buontalentiano, nuova direttrice di espansione ed alla sistemazione delle passeggiate, in particolare di quella litoranea. La riorganizzazione del borgo di Ardenza, che in questo periodo gode di un certo splendore come centro di villeggiatura, impone l’estensione e l’ampliamento del lungomare verso sud, realizzato proprio in questi anni per proseguire successivamente fino ad Antignano.

1.5. DALL’UNITA’ D’ITALIA ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE

Immediatamente dopo l’Unità d’Italia esplode a Livorno, come in altre città marittime quali Ancona e Messina, una crisi latente da decenni: la costituzione di un mercato nazionale provoca la caduta di alcuni privilegi ed il generalizzarsi del sistema ferroviario e della comunicazione mediante il telegrafo debellano il commercio di deposito. Inoltre l’abolizione del “porto franco”, decisa nel 1865 da Quintino Sella e attuata agli inizi del 1868, colpisce in particolare le piccole industrie che lavorano le materie prime, importate senza pagamento di dazio, e che riesportano poi i prodotti finiti. Tali attività sono gestite principalmente da greci, dalmati e levantini israeliti che, al cambiamento della situazione, si affrettano ad abbandonare la città.

Altri fattori che aggravano la crisi sono la concorrenza delle più forti industrie piemontesi ed il trasferimento, nel 1869, dell’arsenale militare da

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Genova a La Spezia. Livorno era stata l’unica base navale del Granducato e possibile punto di appoggio della politica asburgica nel mar Tirreno e nel Mediterraneo; la Livorno italiana è, invece, del tutto inadeguata come porto militare sia per la posizione geografica che per la topografia della costa e l’Italia unita sceglie come base navale tirrenica la profonda rada di La Spezia, più vicina all’alta Italia e facilmente collegabile alla Pianura padana.

Per superare la crisi vengono previsti in città alcuni interventi che hanno un’importanza fondamentale nella ripresa industriale. Tra i più importanti si trovano l’affitto trentennale dell’ex cantiere militare granducale agli Orlando, imprenditori attivi e capaci, forniti dei necessari appoggi per ottenere dal governo commesse militari, lo stabilimento della “Società Metallurgica Italiana” per la lavorazione del rame ed alcune iniziative nel ramo della produzione elettrica.

Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento si eseguono anche notevoli miglioramenti al porto che, fino a questo momento, è rimasto in sostanza quello mediceo. Nel 1878 si realizza il “punto franco” sul terreno sottratto allo specchio d’acqua del porto mediante la colmata: con questa costruzione e con l’allargamento della diga a nord-ovest fino a farne una banchina, si ottiene la nuova darsena, oggi bacino Firenze. Inoltre, in base al piano di riorganizzazione dei porti italiani, nel 1910 si ha un ulteriore ampliamento del porto che consiste nella realizzazione di due nuove dighe, Marzocco e Meloria, a nord del porto vecchio, nella formazione del bacino di Santo Stefano e nella previsione di nuove banchine con maggiori fondali.

Per quanto riguarda l’ampliamento della città, nei primi anni dell’Unità, non si notano grandi cambiamenti rispetto al periodo granducale: si completa l’espansione del tessuto urbano a sud ideata dal Chietti, si pone l’attenzione sulla passeggiata lungomare e sull’asse nord-sud della città e, nel 1887, si amplia la cinta doganale. Poche sono le idee che si distaccano dalla politica lorenese e comunque rimangono tutte su carta.

A partire dal 1886, grazie all’opera del nuovo sindaco Nicola Costella, incarnazione livornese della politica del Crispi, si decide di dotare la città delle

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attrezzature e dei servizi fino ad allora mancanti: si pone mano alla realizzazione dei macelli, del mercato e di alcune scuole. Gli edifici più significativi quali il Mercato Centrale che si affaccia sul fosso Reale, le scuole Benci sul lato opposto dello stesso e le scuole Micheli sul piazzale della porta San Marco, sono tutti progettati dall’ingegnere comunale Angiolo Badaloni che, mantenendo la perfetta corrispondenza tra interno ed esterno, utilizza il motivo ricorrente, costruttivo e decorativo al tempo stesso, di grandi finestre ad arco per alleggerire le cortine murarie. Egli è autore anche dell’Accademia Navale, dove però gli intenti celebrativi, le preoccupazioni architettoniche e le reminiscenze di altre accademie navali, complicano la semplicità dell’impianto.

Grandi cambiamenti si hanno con la costruzione della nuova stazione ferroviaria, inaugurata nel 1911, che favorisce il formarsi di un nuovo quartiere, detto infatti Stazione, all’interno del quale nascono le prime case popolari. Il problema delle case popolari si è presentato, se pure sotto un’angolazione diversa, fin dai tempi del granducato lorenese, ma diventa veramente reale nel periodo unitario. Nel 1864 il Guerrazzi con i suoi compagni della “Società Democratica Unitaria” solleva la questione per la prima volta e l’argomento viene ripetutamente affrontato, senza però arrivare a soluzioni decisive, anche nel 1870, nel 1884 e nel 1886. Si hanno soltanto le prime iniziative di costruire alloggi operai, in genere di livello bassissimo e commiste con gli stabilimenti, da parte di qualche industria di recente impianto.

La questione della casa operaia è strettamente collegata anche alla necessità di un risanamento dei vecchi quartieri che, all’epoca, ha come unica soluzione lo sventramento degli edifici. La demolizione degli isolati più degradati, dando la possibilità di migliorare le condizioni igieniche e di realizzare strade più ampie e fognature, pone infatti il problema di trovare un’altra collocazione per alloggiare i cittadini coinvolti dall’intervento.

Il progetto delle prime abitazioni popolari è di Angiolo Badaloni ed è inserito in un ampio piano relativo all’area, libera da vincoli, in cui si prevede la costruzione della stazione ferroviaria; il tessuto urbano è organizzato su una maglia stradale ortogonale che si sviluppa ai lati del viale degli Acquedotti, asse

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di collegamento tra la stazione ed il centro. Il livello edilizio degli alloggi è per l’epoca più che decoroso: le palazzine si sviluppano su due piani ed accolgono da due a quattro appartamenti organizzati intorno ad un corridoio centrale; le facciate hanno modeste decorazioni, i gabinetti sono a chiusura idraulica e le scale ed i cortili sono dotati di illuminazione elettrica. Il quartiere è collegato al centro con un’apposita linea tranviaria ed è fornito di uno spaccio cooperativo e di un laboratorio; si decide invece di rimandare la realizzazione della scuola e di altri servizi come, del resto, avviene in molti altri quartieri popolari italiani.

Sempre merito del Badaloni è la collocazione della stazione ferroviaria: è certo il fatto che sia posizionata lungo il viale degli Acquedotti, ma si è indecisi se realizzarla all’estremità di quest’ultimo e, quindi, lontana circa 2 km dal centro o nei pressi della cinta daziaria. L’ingegnere opta ovviamente per la prima delle due soluzioni perché, dimostrando ancora una volta la sua lungimiranza, ritiene che la strada di accesso alla stazione possa diventare un’importante direttrice d’espansione e che l’area, se attraversata dalla linea ferroviaria, perda di appetibilità. Tale decisione è rafforzata anche dalle pressioni della società “Acque della Salute” che, nel 1904, ha inaugurato al termine del rettilineo del viale degli Acquedotti un grande stabilimento di bagni termali che utilizza l’acqua minerale scoperta nelle campagne retrostanti la città.

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Nel primo decennio del Novecento la politica comunale si fa più elaborata e comincia a tener conto non più solo delle opere di prestigio, come era stato il Mercato Centrale alla fine del secolo precedente, ma anche dei servizi sociali che incidono sulla vita di masse più ampie di popolazione. Si sente la necessità di riscattare l’acquedotto industriale, di costruire gli accessi ed il piazzale della nuova stazione, di realizzare edifici scolastici come gli istituti tecnico e nautico e di demolire i quartieri malsani per creare nuove case popolari.

Per realizzare questi interventi per i quali sono necessarie ingenti somme di denaro che il Comune non possiede si pensa di aumentare gli introiti pubblici con un ulteriore ampliamento della cinta daziaria. Le ripercussioni economiche colpiscono quasi tutte le classi sociali: gli operai che vivono fuori città per risparmiare sul dazio, i piccoli bottegai che hanno aperto i loro negozi fuori delle barriere, gli industriali che, con le fabbriche esterne alla cinta, subiscono minori controlli burocratici e gli impresari edili che, approfittando dell’esenzione del dazio sui materiali da costruzione nelle zone esterne, hanno iniziato la costruzione di villini economici vicino alla stazione ed ad Antignano.

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Per rimediare alle numerose voci di malcontento la forma della nuova cinta daziaria è più volte modificata: nel 1913 si libera il sobborgo industriale di Torretta e nel 1922 quello residenziale di Antignano; ma il vero problema che si delinea è legato al sistema delle cinte daziarie. Se queste ultime nel passato erano elementi essenziali per l’identificabilità della città, ora sono divenute un ostacolo all’espansione urbana. Inoltre la chiusura della città ha notevoli influenze sul mercato fondiario che, elevando o deprimendo delle zone piuttosto che altre, ha un carattere di casualità dal punto di vista urbanistico ed è regolato da interessi finanziari.

Gli effetti dell’ampliamento della cinta daziaria sulla morfologia urbana sono comunque molto scarsi sia perché il tracciato è più volte modificato, sia perché è costituita da una semplice rete con sentiero di ronda e per un lungo tratto coincide con la linea ferroviaria Livorno-Roma, sia perché ha vita breve: verrà infatti eliminata nel periodo fascista.

La nuova cinta ha forma allungata verso meridione e permette l’ampliamento delle strade intorno alle quali si sviluppava il precedente confine diventate ormai canali di circolazione della città; la demolizione del muro doganale in direzione nord-sud lascia il posto più che ad una circonvallazione, ad un’ulteriore tangenziale, nuovo asse di espansione tra la ferrovia e il mare.

Gli ultimi anni prima della guerra non portano a novità edilizie di grande rilievo: si lavora al piano regolatore di Torretta, si decide di impiantare l’industria di depositi di materie infiammabili che apre la strada al futuro impianto di raffineria di petroli e si iniziano le demolizioni su via Cairoli che daranno spazio al palazzo delle poste ed a quello della banca. Si prospetta lo spostamento fuori città dell’ospedale, si allestisce a sanatorio villa Corridi, posta in aperta campagna, si istituisce l’ufficio di stato civile all’Ardenza ed un bagno popolare a Torretta; cresce, infine, la differenziazione e l’autonomia funzionale dei sobborghi spesso dotati degli uffici postali, di scuole e di ambulatori.

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1.6. IL PERIODO TRA LE DUE GUERRE

Nell’immediato dopoguerra l’atteggiamento del Comune, guidato dai socialisti, è quello di favorire ed aiutare tutte le iniziative che tendono a sviluppare l’edilizia, per accrescere l’importanza della città e per ridurre il tasso di disoccupazione. In realtà, a causa del forte aggravio fiscale sulle classi più abbienti e delle iniziative poco scrupolose per la passeggiata lungomare, gli interventi realizzati sono pochi e del tutto ininfluenti.

Diversa è, invece, la situazione nel “Ventennio” fascista in cui, oltre ad un importante ampliamento del porto per creare stabilimenti industriali al centro della penisola con lo scopo di ridurre i costi di trasporto, ed alla conseguente installazione di industrie chimiche, metallurgiche, siderurgiche e meccaniche di supporto, prende avvio l’urbanistica di parata alla quale fanno capo il piano studiato nel 1927 e la politica degli sventramenti.

A partire dai 1926 si demolisce nella zona del centro dietro al duomo, allargando via Cairoli e realizzando, secondo il progetto di Gino Cipriani, ingegnere legato alle grandi società immobiliari, alcuni palazzoni in stile eclettico simili a quelli che vanno di moda all’epoca e che si possono ritrovare in molti altri esempi italiani. In questa zona trovano collocazione il palazzo delle poste, la sede del Monte dei Paschi con una galleria pedonale, vecchio sogno nell’anima provinciale della città, ed altre banche tra cui il Banco di Napoli. Nel 1933 si decidono le demolizioni anche in via San Francesco che confluisce in via Cairoli, ma la vera svolta si ha nel 1935 quando, per volontà di Mussolini, si inizia a porre mano ad un clamoroso piano per Livorno. L’idea del duce è quella di valorizzare la città per mettere a tacere la latente opposizione al fascismo che non si era mai spenta del tutto ed il disegno di legge prevede il risanamento di quattro zone dell’antico centro, due presso il duomo e due nell’area dell’antico ospedale, per lasciare spazio al nuovo palazzo del governo, agli uffici finanziari ed ad altre banche quali la Banca d’Italia, la Banca del Lavoro, le Assicurazioni Sociali e la Cassa di Risparmi.

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Alla stesura del piano partecipa Marcello Piacentini con una prima versione del 1938 ed una seconda, molto più ampia, del 1941. Il progetto del 1938 prevede l’apertura di due nuove grandi strade che sventrano il tessuto sei-settecentesco del centro e che, parallelamente alla via Grande, terminano ai fianchi del duomo. Una delle due strade è una sorta di corso con portici, secondo lo schema più volte proposto dal Piacentini, che collega la piazza Grande a quella delle Erbe, così completamente snaturata. Si prevede, inoltre, la “Piazza delle Adunate” con relativo arengario presso la vecchia darsena, l’ampliamento di varie altre strade e lo spostamento del monumento dei Quattro Mori per portarlo in asse con la nuova piazza e con il Palazzo del Governo. Restano praticamente immutati la via Grande, il settore nord-est del centro in corrispondenza di via della Posta e di via delle Galere e gli edifici ottocenteschi posti lungo il fosso a sud del centro.

Il piano del 1941 mantiene gran parte delle indicazioni precedenti, ma consiste anche nella demolizione della via Grande e cancella perfino il

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Cisternone del Poccianti. Inoltre viene deformata la piazza “del Voltone” per rendere i lati lunghi perpendicolari a via Grande e per creare ad essa uno sfondo su cui posizionare un monumento. Anche piazza Grande subisce enormi cambiamenti: il Piacentini recepisce l’idea già proposta in precedenza dal Cipriani di dimezzare la piazza secondo il disegno di una veduta antica di Livorno, in verità piuttosto imprecisa, in cui la piazza ha forma quadrata ed è chiusa da un porticato.

Le intenzioni proposte su carta non sono mai state approvate perché le vicende della guerra interrompono l’iter burocratico necessario alla realizzazione del piano.

Il risanamento del centro e lo sventramento del tessuto urbano, effettivamente in pessime condizioni igieniche, provocano la necessità di trovare una nuova collocazione alle classi operaie che sono state sfrattate per lasciare spazio al nuovo quartiere bancario in via Cairoli. In questo contesto si inserisce l’opera dell’Istituto Case Popolari che, dagli anni ’30 del Novecento, è impegnato in un’ampia attività edilizia.

Nasce in questi anni il quartiere Filzi, detto Shangay, su un terreno lungo la via del Cimitero, tra il sobborgo di Torretta e la via Aurelia. La maglia stradale è a scacchiera con isolati costruiti a filo strada ma chiusi in se stessi su ampi cortili interni; manca inizialmente un nucleo centrale ma viene realizzato successivamente intorno ad una piazza alberata sulla quale si affacciano un commissariato di polizia, la scuola, l’asilo nido, uno stabilimento di bagni a doccia ed i servizi commerciali essenziali.

Pochi anni dopo cominciano i lavori per la costruzione dell’insediamento che, nell’ottica del regime, doveva rappresentare la maestosa porta d’ingresso alla città dalla strada per Pisa: la Barriera Garibaldi. Il progettista è Gino Venturi, già impegnato nella realizzazione del nuovo ospedale, che cura in dettaglio i singoli edifici e redige un piano per la viabilità del quartiere. Gli edifici principali sorgono intorno alla piazza della Barriera Garibaldi, impreziosita dalla svettante guglia, ed il loro stile razionalista dovrebbe essere mascherato da cornici e decorazioni monumentali, mai realizzate per la mancanza di fondi.

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Nel 1938 il Comune acquista la vasta proprietà dei Fabbricotti, interna alla cinta doganale e costituita da una villa padronale con circa 6 ettari di parco e da 37 ettari di poderi. Qui nasce il quartiere chiamato XXVIII Ottobre dal viale principale che lo attraversa, oggi viale della Libertà. Il piano prevede la costruzione di abitazioni su tutto il terreno, senza nessuna dotazione di servizi, ed un’organizzazione gerarchica della maglia stradale secondo un sistema ortogonale, poi persa nella realizzazione. Gli edifici presentano tipologie edilizie diverse: case su più piani nelle zone limitrofe confinanti con l’Aurelia, palazzine ai lati del parco Fabbricotti e lungo il viale principale, villini nel settore a sud-est e ville con giardini al margine meridionale dell’area. La villa ottocentesca viene adibita a museo dell’arte fascista, ma pochi anni dopo ospiterà le truppe tedesche prima e alleate dopo ed oggi è sede della biblioteca comunale.

Infine, intorno al 1930, nell’area posta tra lo stadio e l’Accademia Navale, sorge un quartiere di villini concepiti in un miscuglio di stili, dotati di logge e torrini, talvolta in stile falso-medievale, talvolta in falso-liberty, che a primo sguardo sembrano realizzati quaranta anni prima di quel che sono. L’autore di questi disegni, quale che sia il progettista firmatario, è Foscolo Cioni, un bravissimo disegnatore privo di ogni titolo di studio del quale si servono i professionisti della città. Le uniche testimonianze di architettura moderna a Livorno sono due ville, costruite da architetti milanesi: la villa Tavani e la villa Dello Strologo.

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Si delinea, quindi, una forma della città non più radiocentrica come quella ottocentesca, ma allungata verso sud, in cui i nuovi quartieri sorgono a ghirlanda o, addirittura, a sviluppo regolare centrifugo. Questa situazione, in cui i settori della città non sono definiti dalla densità insediativa o dalla tipologia edilizia degli edifici, ma dalla condizione sociale degli abitanti, provoca una divisione tra la zona sud per le famiglie altolocate e quella nord per il popolo.

Merito dell’urbanistica di parata fascista è la realizzazione dell’attuale Terrazza Mascagni, sistemata tra il 1925 ed il 1926 su progetto di Enrico Salvais, che è ritenuta la migliore opera costruita in questi anni e che ancora oggi, rimasta ad uso pubblico, è riconosciuta tra gli emblemi della città.

Alla politica fascista va, inoltre, riconosciuto un altro merito: la realizzazione della stadio comunale nel 1933 su progetto di Raffaello Brizzi, allora Preside della Facoltà di Architettura di Firenze, e la dotazione che molte scuole hanno di una palestra o di un campo sportivo. Prima di questo periodo le gare sportive erano considerate uno spettacolo riservato alle occasioni speciali, come il carnevale o la visita dei sovrani, e le pratiche sportive avvenivano nelle piazze, nelle strade e nelle aree comunali inutilizzate: il tiro al piccione sulla Spianata dei Cavalleggeri, il gioco del tamburello in piazza Buontalenti, le corse su pista in piazza Mazzini od il gioco del pallone in un terreno in via della Bassata. Dal periodo fascista in poi, invece, il grande spettacolo sportivo ha un

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posto di primo piano, entra a far parte della vita quotidiana e per la prima volta si riservano aree destinate esclusivamente allo sport.

1.7. IL DOPOGUERRA

La guerra provoca danni gravissimi alla struttura fisica del centro, alla zona industriale ed al porto; dai dati rilevati dall’Ufficio Tecnico Comunale risulta che, relativamente al centro, è illeso soltanto l’8% delle costruzioni, completamente distrutto il 30% ed il rimanente 62% è costituito da edifici danneggiati più o meno gravemente. L’Amministrazione in questo contesto reagisce elaborando il piano di ricostruzione, lavorando per la stesura del Piano Regolatore e realizzando nuovi quartieri che accolgano le numerose famiglie rimaste senza casa.

Il piano di ricostruzione ha lo scopo di riorganizzare il centro della città, non soltanto in quelle parti completamente distrutte dalla guerra, ma anche dove la mancanza di previsioni ha creato situazioni irrisolte; ne è un esempio l’incrocio dell’Attias, punto nodale dell’espansione a sud della città. Il limite è però quello di essersi ispirati ai progetti del Piacentini e, quindi, di prevedere una completa alterazione del centro mediante sventramenti, raddrizzamenti ed ampliamenti.

Da un concorso di idee indetto per la ricostruzione non emerge nessun progetto vincitore ma, proprio attraverso le diverse proposte, si enumera una serie di obiettivi da raggiungere, tra cui la separazione del duomo dal Comune mediante la realizzazione di un edificio a carattere funzionale con portici allineati a quelli della piazza. Il piano redatto da Carlo Roccatelli, incaricato direttamente dal Ministero, risente delle teorie di diradamento edilizio e propone alcuni sventramenti anche nel quartiere della Venezia, dimostrando una scarsa comprensione del carattere di questa parte della città.

Gran parte dell’attività di ricostruzione della città è lasciata all’iniziativa di privati che, assecondati dall’Amministrazione per la paura che perdano interesse

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verso il centro, utilizzano in modo intensivo il suolo. Ne è un esempio quello dell’Immobiliare per l’edificio che ha diviso piazza Grande: il progetto presentato, infatti, prevede una costruzione molto più ampia di quella stabilita dal piano, ma il Comune, nonostante alcune opposizioni, concede ugualmente la realizzazione, modificando il piano stesso, perché vede in questo intervento un buon inizio per la ripresa di vita nel centro della città.

Negli stessi anni si redige anche il Piano Regolatore che non è visto come la traduzione del programma amministrativo del Comune, ma come una delle tante incombenze burocratiche da risolvere accanto alla ricostruzione del centro ed alla realizzazione di alloggi per i “senzatetto”. Per questo è stato più volte modificato, spesso per assumere come stato di fatto le espansioni stellari che si stanno formando, ed arriva alla sua stesura definitiva solo nel 1958.

Grazie ad alcune indagini effettuate in precedenza sul degrado igienico-sanitario dei quartieri ottocenteschi e sulla circolazione stradale, gli obiettivi da raggiungere con il piano sono ben riconoscibili in base alla morfologia ed al funzionamento della città. Tra i più importanti si colloca la previsione di un

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grande asse viario, tangente ad est ed a sud al centro ottocentesco, che collega le maggiori strade della città, dal viale degli Acquedotti al lungomare e, mediante una derivazione radiale, anche alla strada di circonvallazione formata a sud dalla cinta doganale del 1887. Questa nuova strada, fulcro del piano, ha lo scopo di decongestionare il centro, di spostare a sud le attività direzionali, di rivitalizzare i quartieri ottocenteschi e di dare una forma urbana alla vasta fascia di orti che si sviluppa a sud della città, ormai ad essa incorporata.

Un altro obiettivo è quello di interrompere l’espansione a “macchia d’olio” mediante la previsione di notevoli nuclei esterni presso i sobborghi agricoli di Salviano e Colline e nella campagna di Pian di Rota, a 4,6 km dalla città, in cui il Poccianti aveva ubicato il Cisternino. Inoltre si prevede la separazione tra Livorno ed Ardenza attraverso una larga fascia agricola e di attrezzature sportive, in realtà poi molto compromessa dalla presenza del quartiere La Rosa, e la conservazione di aree lasciate a verde intorno all’anello ferroviario.

A differenza di quello che avviene in molti altri Piani Regolatori redatti in questi anni, quello di Livorno, infine, più che prevedere le espansioni del tessuto urbano, che avvengono, quindi, senza nessuna previsione, si concentra sul decentramento nelle periferie di servizi sociali come scuole, centri civici, mercati rionali ed attrezzature sportive, tradizionalmente collocati nel centro.

Parallelamente alla stesura del P.R.G., il Comune e l’Istituto Case Popolari espropriano ed acquistano, senza alcuna idea delle implicazioni urbanistiche, i terreni che vengono loro offerti o che sembrano particolarmente convenienti dal punto di vista economico. Un contributo notevole a questa fervida attività edilizia è dato anche dal terremoto del 1950 che ha dato il colpo di grazia a molti edifici centrali già duramente colpiti dai bombardamenti.

Il primo quartiere INA -Casa, del 1951, è Sorgenti secondo il piano di Barocci e Rossi de Paoli; la disposizione degli edifici segue una logica diversa da quella dei lotti o dell’isolato quadrangolare, ma obbedisce ad un motivo interno mirato a qualificare gli spazi secondo le loro funzioni in un continuo colloquio tra pubblico e privato. Contemporaneamente nasce anche il quartiere Corea che rispetto al precedente ha un livello edilizio inferiore, tanto che oggi è oggetto,

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insieme a Shangay, di un ampio piano di riqualificazione che comporta spesso la demolizione dei fatiscenti edifici realizzati nel dopoguerra. I servizi essenziali quali scuole e campi sportivi sono realizzati con dieci anni di ritardo e con essi un’ulteriore estensione del quartiere che lo ha saldato a quello attiguo di Sorgenti verso via Provinciale Pisana.

A partire dalla metà degli anni ’50 si realizzano anche i quartieri di Colline, estensione dell’agglomerato preesistente in via di Salviano, e di Coteto, antico villaggio della Cassa di Risparmio. Quest’ultimo è risultato un intervento realizzato in modo organico perché sull’asse stradale del quartiere, oggi via Toscana, sorgono la chiesa, il centro sociale ed i principali servizi commerciali che hanno determinato una certa autonomia dell’area dal centro della città ed un forte sviluppo negli anni successivi che lo ha saldato al quartiere Colline a nord ed a Salviano ad est.

Ultimo insediamento realizzato in questi anni è quello chiamato La Rosa che collega la città al sobborgo di Ardenza e che, come già detto, non è previsto nel Piano Regolatore. Il progetto è di Luigi Moretti e consiste nella realizzazione di una rete viaria che si sviluppa a partire dalla statale Aurelia e nella costruzione di edifici di varie tipologie: in linea, a corte ed a torre. La decisione di impiantare un quartiere su un’arteria stradale tanto importante quanto lo è l’Aurelia, implica una più attenta collocazione dei servizi che non sono più relativi soltanto al quartiere, ma devono essere rivolti alla città. Questo atteggiamento inizialmente è stato tralasciato e solo successivamente si è dotata l’area dei servizi necessari alla sua autonomia funzionale ed al suo potenziale ruolo di diventare un aggregato capace di fornire le stesse opportunità del centro della città con il vantaggio di essere decentrato ma facilmente raggiungibile.

Agli inizi degli anni ’60 la città appare divisa in aree con caratteristiche funzionali molto diverse tra loro: le attività produttive si collocano principalmente a nord dell’abitato con espansioni fino al fosso Reale nei pressi della darsena dei Navicelli e talvolta nella fascia ottocentesca commiste alle abitazioni, mentre le piccole industrie nascenti accerchiano la città, al di là della

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ferrovia, non curanti dei vincoli imposti dal Piano Regolatore. Le attività direzionali si collocano nell’antico centro con importanti espansioni a sud dei fossi, ma la carente struttura stradale della zona determina un generale congestionamento dell’area, aggravato dal fatto che qui vivono ancora moltissime persone.

Il commercio al minuto di generi non alimentari è localizzato esclusivamente nel centro, in via Grande, via Ricasoli e via Magenta, mentre in ogni altra parte della città si ritrovano negozi di generi alimentari necessari a sopperire alle esigenze quotidiane. Inoltre il decentramento dei servizi come scuole, mercati o successivamente supermercati, chiese, ambulatori, cinema e uffici postali attenua l’attrazione per il centro e permette ai quartieri periferici di godere di una certa autonomia.

Il diffondersi della motorizzazione privata cambia nei decenni successivi il precario equilibrio che la città ha trovato nel dopoguerra ponendo nuovi problemi sulla gestione del centro, già di per sé congestionato, la risoluzione dei quali spesso ha adombrato l’importanza di questa zona fino ad abbatterne completamente il potere attrattivo.

1.8. GLI SVILUPPI RECENTI

Gli ultimi decenni del Novecento vedono la politica comunale rivolta a tre problematiche principali: il completamento della fascia urbanizzata a livello funzionale, la necessità di nuove abitazioni per contrastare la forte immigrazione della popolazione verso i più piccoli comuni limitrofi di Collesalvetti e Rosignano e l’individuazione di nuove aree per le attività produttive per sopperire alla crisi delle industrie a partecipazione statale fino ad allora trainanti dell’economia locale.

In questi anni i quartieri periferici si arricchiscono di servizi non più soltanto primari, ma anche di uffici postali, supermercati, impianti sportivi, sportelli bancari, negozi di generi non alimentari, centri estetici ed ogni altra

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attività che renda il quartiere, non più soltanto autosufficiente, ma anche un vero e proprio polo attrattivo sostituibile al centro.

Nel 1978 viene approvata una variante generale alle aree P.E.E.P., soprattutto interessante i quartieri nord di Mastacchi e Shangay ed est di Coteto e Salviano, ed inizia ad attuarsi, accanto ai quartieri popolari, a sud della città, l’aggregato di Banditella che collega Ardenza ad Antignano, provocando un ulteriore allungamento della forma urbis verso meridione lungo la fascia costiera. Questo quartiere, realizzato tra il 1970 ed il 1990, grazie alla sua collocazione vicino al mare ed alla tipologia dei condomini caratterizzati da edifici non troppo alti e da ampi giardini spesso con piscina, accoglie le famiglie appartenenti alle classi sociali altolocate. Anche qui vi sono impianti sportivi, il centro commerciale, la chiesa e la scuola e, rispetto ad altre zone della città, la dotazione di verde pubblico è elevata.

Sempre alla fine degli anni ’70 viene approvato il nuovo P.I.P. del Picchianti con l’individuazione di quasi 60 ettari per attività produttive. L’attuazione di tale piano, che dura fino alla fine del secolo, comporta il trasferimento nella nuova zona industriale di molte attività finora localizzate in centro. Si trasferiscono al Picchianti quasi tutte le concessionarie auto, i rivenditori di materiali edili, di pavimenti e di rivestimenti, i fornitori di accessori e di arredo per il bagno; buona parte delle aziende realizzano accanto ai capannoni i loro uffici allontanandoli così dal centro della città. Al Picchianti viene anche aperta una succursale della segreteria dell’Università di Pisa.

Alla fine del 1980 viene approvato il nuovo P.R.G. di Italo Insolera che si basa sul recupero e sulla qualità, limitando moltissimo la nuova edificazione. Ma poco tempo dopo, alla fine del 1982, viene affiancata la nuova variante P.E.E.P. che individua una grossa lottizzazione a Montenero ed il nuovo quartiere della Leccia.

All’inizio degli anni ’90 viene approvata una nuova variante che prevede un ulteriore quartiere residenziale, chiamato Scopaia, adiacente alla Leccia, a sud-est della città, oltre la linea ferroviaria. L’aspetto di queste zone è caratterizzato da condomini più o meno grandi, dalla maglia stradale

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1. Livorno ed il suo centro storico

rigorosamente ortogonale e da un centro attrattivo che accoglie i servizi di quartiere rivolti non soltanto alle famiglie residenti nell’area, ma anche a tutte quelle persone che, evitando il caos del centro, preferiscono soddisfare le proprie esigenze nella periferia.

Agli inizi del 1990 viene approvata anche una variante al P.R.G. che individua alcune aree, modeste singolarmente, ma consistenti nel complesso, destinate all’edilizia residenziale di un certo pregio nelle zone periferiche a sud della città, nei quartieri di Antignano e Montenero. Soprattutto il colle di Montenero che ospita le classi più abbienti, da essere costituito dalle ville suburbane dei livornesi facoltosi del passato, diviene oggetto di un’intensa attività edilizia di tipo residenziale e costituisce un’ulteriore propaggine di Livorno.

Alla fine del secolo viene approvato il nuovo P.R.G. delle Studio Gregotti con la sua variante anticipatrice del complesso polifunzionale, terziario e commerciale di Porta a Terra. Questo grosso intervento ha aggravato le condizioni attrattive del centro, già ridotte rispetto al passato a causa del decentramento dei servizi, della chiusura al traffico veicolare di molte principali strade tra cui via Ricasoli, via Cairoli e via Magenta, e della forte carenza di parcheggi. L’area di Porta a Terra è collocata sul retro della stazione, nella

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