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Discrimen » Giustizia di transizione e diritto penale

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Academic year: 2022

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Collana diretta da

E. Dolcini - G. Fiandaca - E. Musco - T. Padovani - F. Palazzo - F. Sgubbi

67

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sue prevedibili prospettive di sviluppo? Ipertrofia e diritto penale minimo, affermazione simbolica di valori ed efficienza utilitaristica, garantismo individuale e funzionalizzazione politico-criminale nella lotta alle forme di criminalità sistemica, personalismo ed esigenze collettive, sono soltanto alcune delle grandi alternative che l’attuale diritto penale della transizione si trova, oggi più di ieri, a dover affrontare e bilanciare.

Senza contare il riproporsi delle tematiche fondamentali rela- tive ai presupposti soggettivi della responsabilità penale, di cui appare necessario un ripensamento in una prospettiva integrata tra dogmatica e scienze empirico-sociali.

Gli itinerari della prassi divergono peraltro sempre più da quelli della dogmatica, prospettando un diritto penale “reale” che non è più neppure pallida eco del diritto penale iscritto nei principi e nella legge. Anche su questa frattura occorre interrogarsi, per analizzarne le cause e prospettarne i rimedi.

La collana intende raccogliere studi che, nella consapevo-

lezza di questa necessaria ricerca di nuove identità del diritto

penale, si propongano percorsi realistici di analisi, aperti anche

ad approcci interdisciplinari. In questo unitario intendimento di

fondo, la sezione Monografie accoglie quei contributi che guar-

dano alla trama degli itinerari del diritto penale con un più largo

giro d’orizzonte e dunque – forse – con una maggiore distanza

prospettica verso il passato e verso il futuro, mentre la sezione

Saggi accoglie lavori che si concentrano, con dimensioni neces-

sariamente contenute, su momenti attuali o incroci particolari

degli itinerari penalistici, per cogliere le loro più significative

spezzature, curvature e angolazioni, nelle quali trova espressione

il ricorrente trascorrere del “penale”.

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GIuStIzIA dI tRANSIzIONE E dIRIttO pENALE

G. GIAppICHELLI EdItORE – tORINO

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http://www.giappichelli.it ISBN/EAN 978-88-348-8844-5

I volumi pubblicati nella presente Collana sono stati oggetto di procedura di doppio referaggio cieco (double blind peer review), secondo un procedimento standard concordato dai Direttori della collana con l’Editore, che ne conserva la relativa documentazione.

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A Dina e Franco, in memoriam

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Indice

pag.

Premessa XI

CAPITOLO I

Concetto, storia e modelli di giustizia di transizione

1. Introduzione 1

2. Il “regolamento dei conti” col passato: alle radici della giustizia di

transizione 4 3. Aspetti contemporanei della giustizia di transizione e delimitazione

dell’oggetto di studio 8

4. Presentazione dei modelli di transizione 12

CAPITOLO II Le esperienze europee

1. Un esempio italiano: la persecuzione dei crimini fascisti e l’am-

nistia Togliatti 15

1.1. L’apparato delle disposizioni penali contro il fascismo 15 1.2. I processi ai fascisti e la guerra civile 17

1.3. L’amnistia Togliatti 22

1.4. L’atteggiamento della giurisprudenza davanti all’amnistia 23 1.5. Cenni sul giudizio della storia 28 2. Il vero modello dell’oblio: la transizione post-franchista 34 2.1. La scelta per l’impunità e le sue ragioni 34 2.2. Un tardivo sussulto: la legge della memoria storica 37 3. Il modello pan-penalistico: i processi tedeschi dopo la caduta del

muro di Berlino 39

3.1. La riunificazione tedesca e il ruolo del diritto penale 39 3.2. Gli spari al muro di Berlino e la questione generale del diritto

applicabile 41

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pag.

3.3. L’atteggiamento della giurisprudenza davanti alla possibile ap-

plicazione di cause di non punibilità 44 3.4. Limiti costituzionali all’applicazione del diritto penale? 49 3.5. Il dibattito sull’applicabilità della prescrizione e gli interventi

legislativi 52

3.6. Uno schizzo conclusivo 58

CAPITOLO III Le esperienze extraeuropee

1. Il diritto penale “sullo sfondo”. Qualche breve riflessione sull’espe-

rienza sudafricana 61

1.1. Cenni introduttivi sul modello di transizione sudafricana 61 1.2. La normativa istitutiva della Commissione per la Verità e la

Riconciliazione 64 1.3. L’attività della Commissione 69

1.4. Gli effetti del modello, i perdoni e la rilevanza della minaccia

penale 72 2. Il laboratorio dell’America Latina 75

3. L’esperienza argentina 77

3.1. Inquadramento storico. Gli anni della dittatura (1976-1983) e

gli immediati antecedenti 77

3.2. Le vicende della transizione 83

3.3. La politica della verità 86

3.4. La repressione penale e la retromarcia. Le leggi di punto final e

di obediencia debida 88

3.5. La politica del perdono 95

3.6. I juicios por la verdad 99 3.7. La svolta repressiva del nuovo millennio. La fondamentale sen-

tenza Simón 103

4. L’esperienza uruguayana 110 4.1. Gli antecedenti e gli anni della dittatura (1973-1985) 110

4.2. I provvedimenti di amnistia e il primo referendum popolare 116 4.3. Il periodo dell’impunità e la svolta del nuovo millennio. Il se-

condo referendum popolare e l’intervento della Corte Intera-

mericana 121

5. L’esperienza cilena 123

5.1. Gli antecedenti e gli anni della dittatura (1973-1990) 123 5.2. Il plebiscito costituzionale e il ritorno alla democrazia. La

“dottrina Aylwin” 130

5.3. La svolta della magistratura e il “caso Pinochet” 133

6. L’esperienza brasiliana 138

6.1. Gli anni della dittatura (1964-1985) 138

(10)

pag.

6.2. Il ritorno alla democrazia e gli effetti dell’amnistia del 1979 141 6.3. L’intervento del Tribunale Supremo riguardo alla legge di am-

nistia 144 6.4. Il caso Guerrilha do Araguaia e l’intervento della Corte Intera-

mericana 145

7. L’esperienza peruviana 148

7.1. L’attività repressiva durante la presidenza Fujimori 148 7.2. L’autoamnistia, la reazione, la fondamentale sentenza Barrios

Altos, il processo e la condanna di Fujimori 150

8. L’esperienza colombiana 153

8.1. Non superamento del passato, ma superamento del presente 153 8.2. La Ley de Justicia y Paz del 2005 155 8.3. Quale futuro per il modello colombiano? 158

CAPITOLO IV

Lo sguardo (soggettivo) del penalista

1. Il panpunitivismo dell’attualità 163 2. Quale spazio per un nuovo diritto penale a tutela dei diritti umani? 169 3. Quali amnistie sono accettabili? 171 4. Distinzioni opportune in tema di prescrizione 181 5. Il nodo dei margini di eccezione al principio di irretroattività 189 5.1. L’applicazione retroattiva di fattispecie incriminatrici 189 5.2. L’esclusione retroattiva dell’applicazione di cause di non puni-

bilità 193 6. Il ruolo delle fonti consuetudinarie 195

7. Un bilancio (senza pretesa di concludere) 197

Bibliografia 209

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Premessa

Parto da un’apparente ovvietà: questo è un libro di diritto penale.

L’ovvietà è apparente perché il tema della giustizia di transizione può innanzi tutto essere affrontato da molti versanti disciplinari – e qui siamo ancora nel campo dell’ovvio – ma anche quando l’approccio è penalistico è assai frequente, come dimostra una copiosa letteratura straniera, che si scrivano lavori di diritto penale internazionale (o internazionale penale, se- condo le preferenze) o lavori in cui comunque si intrecciano le prospettive del diritto penale con quelle del diritto umanitario e del diritto naturale.

In questo naturalmente non c’è niente di male, ed anch’io ho fatto ampio ricorso, doverosamente, al collegamento con altri saperi al fine di compren- dere meglio un fenomeno assai complesso, ma in un’ottica precisa e limitata, ovvero quella di verificare in che misura l’impatto delle forme di giustizia di transizione altera (sul piano dell’essere) e può alterare (sul piano del dover essere) i meccanismi della giustizia penale dello stato di diritto.

Con questo obiettivo, conscio di numerosi condizionamenti esogeni come in primo luogo l’esistenza di obblighi internazionali, ho voluto scandagliare diverse esperienze anche lontane nella distanza e nel tempo che mi sono parse paradigmatiche per saggiare il livello di resistenza ammissibile del modello, certamente imperfetto, che abbiamo ereditato dagli ultimi due secoli di civiltà giuridica.

Non anticipo i risultati; quello che posso già dire è che, cercando di sfuggire ogni apriorismo, ho dovuto fare i conti con equilibri delicatissi- mi, trattandosi di un tema che pone drammaticamente in conflitto diritti che sono tutti fondamentali, sia quello a fare luce sulle gravi violazioni di diritti umani realizzate da regimi illiberali, sia quello ad avere garantito anche in queste circostanze un giusto processo.

Come si vedrà, affaccio un mio punto di vista, ma innanzi tutto cerco di dare al lettore tutti gli elementi perché possa farsene uno suo.

La preliminare actio finium regundorum circa le pretese di questo li- bro ha come immediata conseguenza una necessaria ammissione: pur avendo consultato una grande quantità di materiali, non è stato nemme- no ipotizzabile tener conto di tutta l’immane mole di letteratura che si è formata sul tema soprattutto nel mondo anglofono; ci saranno quindi omesse citazioni, ma ho dovuto seguire un criterio selettivo funzionale all’obiettivo specifico del lavoro.

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Ho svolto gran parte delle ricerche confluite in questo libro durante l’anno sabbatico concessomi dalla mia facoltà, tra l’autunno 2009 e l’au- tunno 2010, ospite di istituzioni che voglio qui ringraziare: il Max-Planck- Institut für ausländisches und internationales Strafrecht di Freiburg in Breisgau, da più di un quarto di secolo mio rifugio di studio e medita- zione, il Departamento de Derecho Publico dell’Università di Castellon, la Facultad de Derecho della Università di Buenos Aires (UBA) e la Facul- tad de Derecho della Università di Valparaiso.

Ho appreso molto attraverso libri, immagini, racconti, conversazioni.

Lo studio classico è stato arricchito da esperienze come la partecipa- zione ad una grande manifestazione delle Madres y Abuelas de la Plaza de Mayo, nell’immensa Avenida 9 de Julio di Buenos Aires, la visita all’im- pressionante Museo de la Memoria y de los Derechos Humanos di Santia- go e l’ascolto di testimonianze dirette di che cosa è stata la guerra civile italiana nella mia Emilia prima e dopo la fine della seconda guerra mon- diale.

Ma soprattutto, in questi anni, hanno attraversato la mia vita persone importanti, con cui spesso si è instaurato un rapporto che va molto al di là del proficuo contatto accademico, e a cui devo molto sia per l’aiuto prestato ai fini di questo studio, sia per come mi hanno arricchito sul piano umano.

Voglio ricordare innanzi tutto i miei amici argentini, con i quali è in corso da molto tempo un dialogo ininterrotto grazie ai miei viaggi a Buenos Aires (che si sono poi trasformati in viaggi in tutto il loro mera- viglioso paese), ai frequenti scambi di opinione e ai viaggi a Trento di al- cuni di loro.

Non ringrazierò mai abbastanza Ezequiel Malarino, per la sua gene- rosità nel dedicarmi il suo tempo, per la sua passione nel trattare questo tema e per gli indimenticabili asados nella sua terrazza del quartiere Pa- lermo, che mi hanno fatto capire l’Argentina più di molti libri.

Poi, è stato utilissimo e piacevolissimo, per me, conversare privata- mente o in seminari presso la UBA con Daniel Pastor, Pablo Parenti e Fernando Córdoba, che mi hanno accolto con una disponibilità ed un’amicizia straordinarie, e non posso dimenticare una unica ma lunga e intensissima chiacchierata con Marcelo Sancinetti, grande dogmatico e persona di profonda cultura e spiccata umanità.

Agli amici uruguayani devo la scoperta di una delle esperienze più in- teressanti, e forse da noi meno conosciute, di tutte l’area sudamericana.

Pablo Galain Palermo, con il suo contagiante entusiasmo, e il grande Gaston Chaves, con la sua bonomia e la sua saggezza, mi hanno guidato nella comprensione di una realtà che racchiude in sé tutta la drammati- cità e la problematicità della giustizia di transizione.

Gli amici cileni non sono stati da meno nel mostrarmi una realtà di non facile decifrazione dall’esterno.

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Con Carlos Cabezas mi è stato utile conversare per capire alcune pe- culiarità del sistema penale cileno, Karinna Fernández Neira è stata pre- ziosissima nell’aggiornarmi continuamente sull’incessante evoluzione giurisprudenziale, mentre il loro Maestro, José Luis Guzmán D’Albora, ha rappresentato e rappresenta tutt’ora, con la sua straordinaria cultura, la sua inestinguibile curiosità intellettuale e i suoi modi da hombre del otro siglo, uno dei più formidabili Gesprächspartner che mi è mai capita- to di avere.

Durante gli anni di questa ricerca, mi è capitato spesso di conversare con studenti e dottorandi dell’ateneo trentino sui temi della giustizia di transizione, che suscitano sempre un grande interesse, e anche da questo dialogo ho tratto frutti; in particolare, sono debitore a Elena Maculan di spunti che mi hanno fatto proficuamente riflettere.

Ma il ringraziamento più grande lo devo certamente a Emanuela Fronza, che mi ha aperto le porte al mondo di questi studi, facendomene capire l’importanza e facendomi appassionare ad essi, che mi ha accom- pagnato nel viaggio intellettuale che ho intrapreso dandomi continui sti- moli con il suo dinamismo di studiosa senza confini, e qualche volta mi ha accompagnato anche, non metaforicamente, nei viaggi intercontinen- tali che ho avuto il piacere di intraprendere; mi auguro che non le venga fatta una colpa del fatto che senza di lei questo libro non ci sarebbe mai stato.

Infine, volevo dedicare il libro alla memoria di mia madre, Dina Galli Fornasari, scomparsa l’anno scorso: delle tante cose che mi mancano di lei, quella che mi manca di più è l’avidità con cui ascoltava i miei raccon- ti al ritorno dei miei tanti viaggi e scrivere questo libro è stata l’occasione per poter essere tante volte vicini.

Ma, poco prima dell’uscita del libro, la scomparsa di Franco, mio pa- dre, mi induce ad una doppia dedica, la stessa che appare nel mio primo libro, pubblicato nel 1990, ma ora in memoriam, con l’amara consapevo- lezza di non avere più scuse per evitare di diventare adulto.

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C

APITOLO

I

Concetto, storia e modelli di giustizia di transizione

SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Il “regolamento dei conti” col passato: alle radici della giustizia di transizione. – 3. Aspetti contemporanei della giustizia di transizione e delimitazione dell’oggetto di studio. – 4. Presentazione dei modelli di transizione.

1. Introduzione

Il tema della giustizia di transizione è oggetto di attenzione e di ap- profondimento assolutamente trasversale.

Da diversi angoli visuali, esso può interessare lo storico, il politologo, il filosofo e, naturalmente, il giurista.

Tra i giuristi, vi hanno tradizionalmente trovato spunti rilevanti so- prattutto i cultori del diritto internazionale e del diritto costituzionale, i primi con l’attenzione rivolta alla riaffermazione dei valori legati alla tu- tela dei diritti umani e i secondi con l’obiettivo di cogliere i nessi essen- ziali relativi alle modifiche istituzionali.

Da ultimo, tuttavia, anche il penalista vi trova in misura sempre cre- scente materiale per i suoi studi e per le sue riflessioni1.

Da quando non si vuole più, almeno a livello programmatico, che la giustizia di transizione sia semplicemente una giustizia dei vincitori sui vinti; da quando, in conseguenza di ciò, si è avuta l’istituzione prima di tribunali ad hoc e poi della Corte penale internazionale con l’obiettivo di

“giuridicizzare” la punizione dei gravi crimini contro l’umanità; da quando anche i tribunali nazionali in diversi paesi, spesso dialogando con le corti sovranazionali, si cimentano nell’istruire processi contro dit- tatori o funzionari di dittature del passato, il diritto penale ha assunto un

1A livello solo esemplificativo, si possono citare per ora K. AMBOS, El marco ju- rídico de la justicia de transición, in K. AMBOS-E. MALARINO-G. ELSNER, Justicia de transición. Informes de América Latina, Alemania, Italia y España, Konrad-Adenauer- Stiftung e. V., Berlin-Montevideo, 2009, 23 ss.; R. BARTOLI, La «giustizia di transizio- ne»: amnistia, giurisdizione, riconciliazione, in F. PALAZZO-R. BARTOLI, La mediazione penale nel diritto italiano e internazionale, University Press, Firenze, 2011, 57 ss.

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ruolo sempre più significativo, che per di più ha indotto e induce sotter- ranee modifiche capaci di mettere in discussione alcuni istituti e principi che nell’orizzonte del penalista (specie continentale e di formazione il- luministica) si suppone debbano svolgere il ruolo di vere e proprie stelle polari.

Fatta questa premessa, lo scopo di questo studio vuol essere un esame, svolto alla luce di esperienze giurisprudenziali degli ultimi decenni, della situazione di stress a cui viene sottoposto il diritto penale laddove se ne fa lo strumento per un obiettivo in sé difficilmente criticabile, come quel- lo di “regolare i conti” con un passato di violenze, soprusi e in generale gravi violazioni di diritti fondamentali.

Dunque, non si potranno ignorare i profili storici, politici, filosofici, giuridici in senso ampio (ovvero extrapenali) delle vicende alle quali si farà riferimento, ma il nucleo dell’indagine sarà giuspenalistico in senso stretto, avendo ad oggetto la crisi – nel puro senso etimologico del termi- ne – che attraversa il tessuto complessivo del diritto penale moderno quando diviene mezzo di superamento del passato.

Bisognerà verificare quali sono costi e benefici (beninteso, in senso metaforico: manca del tutto l’intenzione di utilizzare modelli di analisi economica del diritto2) dello slancio verso una “post-modernità” che può risultare allo stesso tempo eccitante ed inquietante: eccitante perché sembra consentire un’adeguata persecuzione “giuridica” di soggetti che si ritiene essere meritevoli di un castigo esemplare, inquietante perché si tende a questo obiettivo allentando in modo considerevole vincoli libe- ralgarantistici che sono patrimonio comune della civiltà giuridica con- temporanea.

In questa tendenziale post-modernità (verso la quale per la verità con- vergono anche altri aspetti del diritto penale degli ultimi anni3), troviamo poi, decisamente controcorrente rispetto alle affermazioni ideologiche della seconda metà del Novecento per un diritto penale, se non “minimo”, quanto meno selettivo, limitato, frammentario, extrema ratio, insomma, l’anelito verso una trama fortemente espansiva del diritto penale, che si fa in alcuni settori prima ratio se non addirittura unica ratio, circondato da una sorprendente fiducia nelle sue capacità prestazionali, così spesso

2Senza peraltro nutrire pregiudizio alcuno verso la proponibilità di una analisi economica (anche) del diritto penale, già studiata in termini storico-evolutivi da Fran- cesca PESCE, Alle radici di un difficile binomio: analisi economica e diritto penale, in Ind.

pen., 2011, 29 ss. e in termini propositivi da C.E. PALIERO, L’economia della pena (un work in progress), in E. DOLCINI-C.E. PALIERO, Studi in onore di Giorgio Marinucci, I, Teoria del diritto penale, criminologia e politica criminale, Giuffrè, Milano, 2006, 539 ss.

3Basti pensare allo sviluppo del “diritto penale comunitario” o all’intricata matas- sa del diritto penale dell’immigrazione, settori nei quali sembra sempre di più che le alternative alla minaccia penale (giuridiche ed extragiuridiche) non meritino di essere prese in considerazione.

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invece considerate assai modeste alla luce delle più comuni verifiche em- piriche.

Nel corso dell’analisi, si tangeranno le tematiche del diritto penale in- ternazionale, ma questo lavoro non vuole occuparsi specificamente di di- ritto penale internazionale, bensì di come la giurisprudenza di alcuni paesi, facendo uso di una intersezione argomentativa di diritto interno e principi di diritto (penale) internazionale, conduca alla edificazione di un sistema penale “integrato” per la tutela dei diritti umani, della cui le- gittimità ed opportunità si dovrà fare questione.

Ma l’interesse per queste vicende, si badi bene, non è solo quello, pur certamente esistente, legato ai profili della comparazione in senso stretto, su cui si potrebbe anche obiettare trattarsi di un interesse abbastanza

“accademico”, dato che le realtà esaminate sono geograficamente molto lontane e non tra quelle che sono solite condizionare la nostra esperienza.

Al contrario, l’impressione di “esotismo” che si potrebbe avere a pri- ma vista cade immediatamente, a mio avviso, non appena ci si avvede della “importabilità”, mutatis mutandis, delle basi di ragionamento uti- lizzate.

La tesi che si vuole discutere, in sostanza, è se la deviazione dai prin- cipi ordinari del diritto penale per far fronte ad una necessità eccezionale possa incidere sul sistema tramutandosi in regola ogni volta che si reputi esistente, a torto o a ragione, uno stato di eccezionalità meritevole di es- sere contrastato con un diritto penale “eccezionale”.

E questa riflessione, secondo me, porta al fondo dei problemi, perché tocca o riguarda direttamente almeno le questioni dello scopo del diritto penale, del ruolo suo e delle sue alternative nel perseguimento di obietti- vi politico-criminali, del sistema delle fonti, delle garanzie dell’imputato (riproponendo il quesito corderiano se sia più importante la caccia o la preda4) e finanche della ripartizione della sovranità, dato che è in gioco anche il rapporto tra corti penali nazionali e corti penali “regionali”

(quali la nostra Corte Europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo e so- prattutto la Corte Interamericana per i diritti umani di San José de Costa Rica), la cui giurisprudenza tende sempre più a diventare fonte di norme interne agli stati5.

Naturalmente sarà impossibile in questa sede trattare approfondita- mente di tutti questi aspetti; considererò già un buon risultato dare con-

4Si veda F. CORDERO, Ideologie del processo penale, Giuffrè, Milano, 1966, 220.

5Per un primo approccio a queste tematiche, già G. FORNASARI-E. FRONZA, Le an- tinomie tra diritto penale interno e diritto penale internazionale nella tutela dei diritti umani. Alcune osservazioni dal punto di vista del penalista italiano, in G. FORNASARI-E.

FRONZA, Percorsi giurisprudenziali in tema di gravi violazioni dei diritti umani. Materia- li dal laboratorio dell’America latina, Dipartimento di Scienze Giuridiche, Trento, 2011, 1 ss.

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to della problematicità della questione e definire i termini del bilancia- mento di valori che essa necessariamente impone.

2. Il “regolamento dei conti” col passato: alle radici della giustizia di transizione

La questione del “regolamento dei conti” col passato è vecchia di mil- lenni.

Chi l’ha trattata sul piano dei profili storici ne individua i primi ante- cedenti documentati in vicende ateniesi risalenti al 411 e al 403 a.C.6.

In entrambi i casi in seguito a rovesci militari, gli oligarchi si sostitui- rono alla democrazia per un breve periodo di tempo, cui fece seguito un ritorno non incruento alla democrazia.

Nel primo caso, nel quale gli oligarchi organizzarono un colpo di sta- to con cui costrinsero l’assemblea a cedere loro il potere, agevolati anche dalla perdita di prestigio che questa aveva subito a seguito di una disa- strosa spedizione di conquista in Sicilia7, essi rimasero al governo della città per soli quattro mesi, essendo fallita l’alleanza con i persiani sulla quale avevano fatto affidamento.

Il successivo procedimento di restaurazione della democrazia si svol- se in due fasi, nella prima delle quali, durata otto mesi e caratterizzata come “democrazia incompleta”, dato che il diritto di voto venne attribui- to ai soli cittadini che erano in grado di fornirsi di armatura completa, si diede inizio a quella che è stata definita come “un’azione giudiziaria sen- za freni contro gli oligarchi estremisti”8: tre furono processati e due giu- stiziati per tradimento, mentre altri evitarono il processo avendo scelto l’esilio.

Durante la seconda fase, di piena reintegrazione del sistema demo- cratico, l’ambito di azione delle misure ritorsive contro gli oligarchi ed i loro alleati fu esteso ulteriormente9, per esempio privando i soldati che si erano schierati con l’oligarchia dei diritti politici e, in un caso, pro- cessando di nuovo un oligarca che era già stato condannato durante la prima fase e condannandolo per un’imputazione più grave della precedente.

6Si veda J. ELSTER, Chiudere i conti. La giustizia nelle transizioni politiche, Il Muli- no, Bologna, 2008, 19 ss.

7Cfr. M.H. HANSEN, La democrazia ateniese nel IV secolo a.C., Led, Milano, 2003, 69 (ed. orig.: The Athenian Democracy in the Age of Demosthenes, Blackwell, Oxford, 1991).

8Così M. OSTWALD, From popular Sovereignty to the Sovereignty of Law, The Uni- versity of California Press, Berkeley-Los Angeles, 1986, 401.

9Cfr. ancora M. OSTWALD, op. cit., 420.

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Ai nostri occhi contemporanei, risulta di estremo interesse notare come, partendo dalla ricostruzione storica di Ostwald, Jon Elster, lo stu- dioso norvegese che più di ogni altro ha cercato di dare profondità dia- cronica alle indagini sul superamento del passato, giunga ad affermare, sulla base di tre diversi indicatori, che non si trattò di una semplice “giu- stizia dei vincitori”.

In primo luogo, gli oligarchi caduti in disgrazia furono perseguiti e non perseguitati, non essendovi notizia di linciaggi o di atti terroristici, ma solo di procedimenti giudiziari corretti.

In secondo luogo, diversi cittadini che avevano fatto parte del Consi- glio dei Quattrocento, che costituiva il centro del potere dell’oligarchia, furono processati ed assolti.

In terzo luogo, ciò che forse appare più rilevante, la restaurata demo- crazia non cadde nella tentazione di fare ricorso a norme retroattive: in- fatti, non esistendo al momento del colpo di stato leggi contro i tentativi di sovvertire la democrazia (che invece furono introdotte pro futuro una volta che questa fu ristabilita), agli oligarchi chiamati in giudizio fu ri- volta la (sola) accusa di tradimento10.

Ancora una devastante sconfitta militare, subita nella battaglia di Egospotami nel 405 per mano degli spartani11 e che segnò la fine dell’im- pero ateniese, fu all’origine della seconda oligarchia, imposta da Sparta nel 404 facendo uso di una certa moderazione, in quanto si lasciò andare al potere una oligarchia ateniese relativamente autonoma piuttosto che imporre un governo “fantoccio” direttamente controllato dai vincitori12.

Significativamente, tuttavia, il regime instaurato fu definito come il

“regime dei trenta tiranni” e fu un autentico regime di terrore.

Rifugiatisi al Pireo, i profughi ateniesi avversi all’oligarchia raduna- rono un esercito democratico di esuli, che in battaglia riuscì a provocare la morte di due importanti oligarchi.

A seguito di questo evento, nel 403 l’oligarchia cadde di nuovo e le parti, Sparta vigilante, addivennero ad un trattato di riconciliazione in- centrato su di una amnistia generale, dalla quale tuttavia furono esclusi, sul piano soggettivo, gli stessi trenta tiranni ed alcuni altri soggetti che

10Si veda J. ELSTER, op. cit., 26.

11Anche perché, come ricorda Senofonte nelle Elleniche (I, 7, 35), gli ateniesi ave- vano preferito affidarsi a generali che erano stati scelti in base al criterio della fedeltà alla democrazia piuttosto che a quello delle competenze professionali.

12Per gli amanti dei corsi e ricorsi storici, è di un certo interesse soffermarsi sulle congetture svolte da D. KAGAN, The Fall of the Athenian Empire, Cornell University Press, Ithaca N.Y., 1987, 410 ss., intorno alla circostanza che gli spartani abbiano preferito, volendo comparare quella situazione con il dominio delle truppe naziste in vari territori europei durante la seconda guerra mondiale, una soluzione sul “modello Vichy” adotta- to in Francia piuttosto che una sul “modello Quisling”, adottato in Norvegia.

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erano stati loro vicini nella gestione del potere, e sul piano oggettivo, gli omicidi commessi con la propria mano13.

Ma proprio il fatto di circoscrivere il campo delle possibili azioni giu- diziarie a questa particolare condotta contribuiva a rendere molto limita- ta la portata dell’eccezione all’amnistia, poiché di norma l’eliminazione delle vittime dell’oligarchia non era avvenuta tramite la loro diretta ucci- sione, ma per mezzo di false denunce operate da delatori, che portavano alla condanna da parte del consiglio oligarchico ed alla conseguente co- strizione a bere la cicuta14.

È poi da segnalare che i democratici accettarono che a far parte delle giurie chiamate a giudicare nei non molti processi comunque avviati fos- sero in prevalenza persone in qualche modo legate all’oligarchia; inoltre, fu in ogni caso impedito che ne facessero parte esponenti della classe proprietaria più povera; venne infine previsto che chi avesse presentato una denuncia rivelatasi indimostrata avrebbe dovuto pagare una consi- stente ammenda.

Come era naturale che fosse, ciò condusse a conseguenze sanzionato- rie assai modeste, che riguardarono quasi esclusivamente confische di beni mobili (che in larga parte erano stati a loro volta illegalmente confi- scati dagli oligarchi)15, e ciò è parso ai commentatori più attenti il segna- le inequivocabile dell’intento dei democratici di chiudere un periodo tan- to traumatico facendo prevalere le esigenze di pacificazione sociale ri- spetto a quelle di una rigorosa giustizia retributiva16.

Tale moderazione risulta ancor più rimarchevole se si pensa che nei racconti di Tucidide sono ampiamente riportati casi di atrocità perpetra- te durante la guerra civile che si concluse con il trattato di riconciliazio- ne; certamente, da un lato, la rinuncia alla vendetta fu motivata dalla previsione di effetti negativi che avrebbero potuto derivarne, ma occorre ricordare anche che furono avviate, poco dopo la restaurazione della de- mocrazia, riforme costituzionali volte ad eliminare le cause del malcon-

13Per un approfondimento sui termini di questa amnistia – e sulle ragioni del suo successo – si può vedere il contributo di M. SORDI, La fortuna dell’amnistia del 403/2 a.C., in Marta SORDI (a cura di), Amnistia, perdono e vendetta nel mondo antico, Uni- versità Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 1997, 79 ss. Le menzionate esclusioni dalla sfera di applicazione vengono sottolineate nell’opera di G. DELLA MORTE, Le amnistie nel diritto internazionale, Cedam, Padova, 2011, 15 s., come segnale del fatto che già nell’antichità l’istituto dell’amnistia, anche quando ha una connotazione tendenzial- mente generale, conosce di solito un regime di eccezione.

14Cfr. T. LÖNING, The Reconciliation Agreement of 403/402 B.C. in Athens, Steiner, Stuttgart, 1987, 83.

15Ancora T. LÖNING, op. cit., 51 s.

16Cfr. J. ELSTER, op. cit., 31 ss., nonché J.M. MOORE, Aristotle and Xenophon on Democracy and Oligarchy, The University of California Press, Berkeley-Los Angeles, 1975, 272.

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tento che era stato all’origine delle reazioni oligarchiche17.

In definitiva, questo excursus nell’antichità ci propone, in tempi forse non sospettabili, modelli di transizione abbastanza sorprendenti ed anti- cipatori rispetto alla modernità; forse avremmo piuttosto istintivamente pensato a regolamenti di conti ben più brutali, che del resto poi divenne- ro invece la norma, dopo queste vicende, per parecchi secoli18, mentre appaiono prevalenti nella transizione il diritto e la politica: laddove si fanno i processi, dopo la prima oligarchia, si resiste alla tentazione di applicare disposizioni retroattive; laddove si punta ad evitarli o a farne un’eccezione, dopo la seconda oligarchia, si adottano misure volte alla pacificazione sociale e riforme tendenti a superare il passato rimuovendo la cause dei conflitti.

Non per questo, tuttavia, secondo una diffusa opinione, può parlarsi, in riferimento soprattutto alla seconda transizione, di un passaggio lega- to all’oblio: è vero infatti che l’amnistia rappresentò il nucleo del trattato di riconciliazione, ma è anche vero che garantiva solo l’immunità dalle azioni legali e non l’esclusione di qualsiasi conseguenza negativa di com- portamenti tenuti a vantaggio dell’oligarchia: per esempio, oltre a conse- guirne pregiudizi economici, furono istituite forti limitazioni alla possi- bilità di rivestire in seguito cariche pubbliche19.

17Queste riforme, volte in sostanza a sostituire al governo del popolo quello della legge (in quanto l’attività legislativa fu sottratta all’assemblea ed affidata ad un gruppo ristretto di nomothétai delegati dall’assemblea stessa e si stabilì che una legge non scritta non potesse essere in alcun caso applicata dai magistrati: sul significato di queste riforme, specie in relazione alla transizione politica in corso, si può vedere D.

MACDOWELL, Law-making at Athens in the fourth Century B.C., in Journal of Hellenic Studies, 95, 1975, 74), sono in alcuni casi sorprendenti per la loro insospettabile ade- renza all’attualità, come quando sanciscono che nessun decreto della bulè o del popo- lo può prevalere su una legge o quando prevedono che non è lecito ratificare una leg- ge ad hominem se la stessa non è applicabile a tutti gli ateniesi, a meno che la deci- sione non sia stata presa a scrutinio segreto da seimila cittadini.

18Nel suo libro, Jon Elster ritiene che dopo le vicende ateniesi del quinto secolo avanti Cristo si apra una lunga parentesi e che si possa di nuovo parlare di giustizia di transizione secondo modelli riferibili al diritto solo nel diciassettesimo secolo, per la precisione con la restaurazione della monarchia inglese nel 1660, allorché il nuovo re Carlo II, con il consenso della Camera dei Lord e della Camera dei Comuni, si accon- tentò di proporre la condanna a morte per alcuni soltanto dei regicidi, pene corporali e la perdita di diritti diversi dalla vita per alcuni altri, confische patrimoniali e inter- dizioni a rivestire pubbliche cariche per altre persone estranee al regicidio.

19Ancora nelle Elleniche (III, 1, 4), Senofonte ricorda come sia possibile punire i vecchi nemici con metodi poco ortodossi: così, quando Tribone chiese ad Atene di in- viare truppe in Persia, “gli furono accordati gli uomini che avevano militato nella ca- valleria dei trenta. Si approfittò infatti di questa circostanza per disfarsi di uomini il cui allontanamento o una eventuale morte non sarebbero stati che positivi per la de- mocrazia”.

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Insomma, già nell’antica Grecia, appare chiaro che nel quadro delle opzioni possibili per il superamento del passato il ricorso ad una cieca vendetta, anche quando motivata dalla commissione di fatti gravissimi, può conoscere delle alternative, rese consigliabili da una forma di reali- smo politico con modulazioni adeguate alle situazioni che di volta in vol- ta si presentano20.

Su queste basi di ragionamento, il discorso può riportarsi all’attualità21.

3. Aspetti contemporanei della giustizia di transizione e delimita- zione dell’oggetto di studio

Nel XX secolo il tema della giustizia di transizione è stato presente fin dall’inizio, con diverse sfaccettature.

Le vicende che si potrebbero analizzare sono talmente tante che non sarebbe possibile, dati i limiti del lavoro, nemmeno dedicare un breve cenno a ciascuna di esse, sicché è necessario operare una selezione fun- zionale all’obiettivo di osservare il ruolo e le eventuali metamorfosi del diritto penale come strumento del superamento del passato.

Ulteriore filtro selettivo, come anticipato nell’introduzione, è l’inte- resse precipuo per le vicende dei sistemi penali nazionali, pur con la pie- na consapevolezza della sempre più radicata intersezione tra questi ed i sistemi penali sovranazionali e la giurisprudenza delle corti chiamate ad attuarli.

20In questo senso, anche P.D. EIROA, Políticas del castigo y Derecho internacional.

Para una concepción minimalista de la justicia penal, Ad-Hoc, Buenos Aires, 2009, 240 s. ed ancora Marta SORDI, La fortuna dell’amnistia del 403/2 a.C., cit., 79-80, la quale aggiunge che l’esempio ateniese, almeno da Cicerone in poi, fu imitato anche nel mondo romano, pur se non tanto con l’obiettivo della riconciliazione fra i cittadini, quanto piuttosto con quello della cancellazione della memoria.

21A mo’ di ponte tra l’antichità e i tempi recenti, ricordo solo che la vicenda della restaurazione inglese, richiamata nella nota 18, non è isolata ma si accompagna all’inizio della diffusa prassi inaugurata dai Trattati di Westfalia del 1648 (si veda l’art.

2 del trattato di Osnabrück) di inserire clausole amnistianti nei trattati di pace, co- mune ancora all’esperienza della prima parte del XX secolo e riguardante anche il no- stro paese, in riferimento al trattato di Addis Abeba del 26 ottobre 1896 con cui si concluse dopo la sconfitta di Adua la guerra italo-abissina. Cfr. sul punto G. DELLA MORTE, Le amnistie nel diritto internazionale, cit., 16 ss., il quale dopo una puntuale elencazione segnala come a tal punto queste clausole erano divenute usuali che se- condo una cospicua dottrina esse dovevano ritenersi implicitamente presenti nei trat- tati anche qualora non espressamente previste: in questo senso, per esempio, L. OP- PENHEIM, International Law. A Treatise, vol. II, War and Neutrality, 1912, qui citato dall’ottava edizione curata da Lauterpacht, Longman, London, 1967, 334 ss.

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Questo doppio limite porterà a non considerare (o quanto meno a non considerare da vicino) da un lato la giustizia post-bellica del periodo suc- cessivo alla prima ed alla seconda guerra mondiale, ancora sostanzial- mente qualificabile come “giustizia dei vincitori”, dall’altro l’attività dei tribunali ad hoc (per il Ruanda, per l’ex-Jugoslavia e gli altri successiva- mente fondati) e della Corte penale internazionale, che sono chiamati ad applicare direttamente il diritto penale internazionale a tutela dei diritti umani, non necessariamente in un contesto di transizione.

Sul punto, solo qualche cenno di spiegazione.

Riguardo alla giustizia post-bellica, a cominciare dal tentativo di in- criminare il Kaiser Wilhelm II von Hohenzollern dopo la fine della prima guerra mondiale, frustrato dal rifiuto dell’Olanda, dove si era rifugiato, di estradarlo22, e continuando con l’attivazione dei tribunali di Norimberga e Tokyo, qui il paradigma di riferimento non è quello penalistico23: non è indipendente il giudice24, non si punta ad applicare fattispecie incrimina- trici codificate, non sono pienamente realizzate le garanzie processuali dell’imputato, la selezione degli stessi imputati è unilaterale e parziale25

22Di questa vicenda ebbe ad occuparsi anche Vittorio Emanuele ORLANDO, Il Pro- cesso del Kaiser, in V.E. ORLANDO, Scritti vari di Diritto pubblico e Scienza politica, Giuffrè, Milano, 1940, 95 ss.

23Al punto che in un suo ben noto articolo di quegli anni Hans Kelsen – il quale pure in linea di principio durante la guerra non era stato sfavorevole all’istituzione di un Tribunale internazionale a conclusione del conflitto (H. KELSEN, Peace through law, The University of North Carolina Press, Chapel Hill, 1944, 88 ss.) – aveva affer- mato lapidariamente che il processo e la sentenza di Norimberga non potevano avere il valore di un precedente giudiziario, avendo come unica base legale, anche sul piano del diritto internazionale, l’accordo di Londra dell’agosto del 1945, un patto tra le po- tenze vincitrici con il quale esse si impegnavano a sanzionare i crimini che attribuiva- no agli sconfitti (H. KELSEN, Will the Judgement in the Nuremberg Trial constitute a Precedent in International Law?, in The International Law Quarterly, 1947, 2, 115 ss.).

24La debolezza delle argomentazioni che hanno giustificato l’attribuzione da parte delle potenze vincitrici di poteri giurisdizionali al Tribunale di Norimberga è stata sottolineata, come noto, da più parti; rimando, per tutte, ad una fonte “classica”:

Hannah ARENDT, La banalità del male, Feltrinelli, Milano, 1964, 293 (ed. orig.: Eich- mann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, Viking Press, New York, 1963);

nella letteratura italiana recente, si può vedere D. ZOLO, La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad, Laterza, Roma-Bari, 2006, 142 ss.

25Naturalmente queste osservazioni concernono il coté giuridico, che è quello che qui interessa; poi si può legittimamente ritenere che il processo di Norimberga, nono- stante i suoi limiti giuridici, sia stato invece fondamentale per la costruzione etica e civica della memoria individuale e collettiva degli europei, a causa di tutto ciò che ha fatto emergere: così A. FILIPPI, Damnatio memoriae y humanitas del Derecho, in P.D.

EIROA-J.M. OTERO, Memoria y Derecho penal, Fabián J. Di Plácido Editor, Buenos Ai- res, 2007, 63, sulla scia di L. ROZITCHNER, Contra las máquinas del olvido (1999), ora in ID., El terror y la gracia, Grupo Editorial, Buenos Aires, 2003, 55 s.

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(non si è nemmeno posta la questione di prendere in considerazione co- me violazioni di diritti umani per esempio il bombardamento di Dresda a guerra praticamente finita e lo sganciamento delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki26, per non dire del fatto che al momento di fissare i capi di imputazione del processo di Tokyo il governo degli Stati Uniti si adoperò perché venisse omessa dall’indictment ogni indicazione all’uso da parte dell’esercito giapponese di armi batteriologiche e chimiche per porsi al riparo dall’argomento del tu quoque27); più interessanti ai fini del lavoro – ed infatti uno spazio verrà loro riservato – sono alcune esperien- ze nazionali di giustizia di transizione post-bellica, come quella italiana contenuta nel lasso di tempo che va dall’emanazione delle leggi per la punizione dei crimini fascisti all’amnistia voluta dal ministro Togliatti.

Riguardo invece alle corti internazionali, la loro attività ha già, certa- mente, un taglio “giuridico” e non meramente politico28, ma essa non par- te dalla posizione del problema della scelta tra l’uso del diritto penale e l’uso di alternative funzionali a diverse modalità (conciliative oppure giu- ridiche, ma non penali, oppure ancora modulate sull’uso contemporaneo di strumenti differenti) di superamento del passato, che è invece la que- stione centrale di cui ci si vuole occupare, bensì è senz’altro rivolta a meri fini di repressione29, con un forte sottofondo etico-simbolico30, pur se resta

26Anche se non giungo all’estremo di insinuare che i due processi siano stati in- tenzionalmente utilizzati dai vincitori non allo scopo di fare giustizia, ma a fini pro- pagandistici e per nascondere i misfatti da loro stessi commessi; chi lo scrive, però, è Bert Röling, olandese, niente meno che uno dei membri del Tribunale di Tokyo (B.

RÖLING, The Nuremberg and the Tokyo Trials in Retrospect, in C. BASSIOUNI-U.P.

NANDA, A Treatise on International Criminal Law, C.C. Thomas, Springfield, 1973, passim).

27Lo ricorda P.P. PORTINARO, I conti con il passato. Vendetta, amnistia, giustizia, Feltrinelli, Milano, 2011, 89.

28Pur se il fondamento degli statuti del Tribunale per l’ex-Jugoslavia e di quello per il Ruanda resta il diritto consuetudinario internazionale, come ricorda tra gli altri G. WERLE, Diritto dei crimini internazionali, Bononia University Press, Bologna, 2009, 20 (ed. orig.: Völkerstrafrecht, 2^ Aufl., Mohr Siebeck, Tübingen, 2007).

29Ne è ampia dimostrazione, con riferimento allo statuto del Tribunale per la ex- Jugoslavia, il fatto che con la risoluzione n. 827 del 25 maggio 1993 il Consiglio di si- curezza dell’ONU decise di “creare un Tribunale internazionale allo scopo esclusivo di perseguire le persone che, fra il 1 gennaio 1991 e un termine che verrà stabilito dal CdS dopo la restaurazione della pace, sono responsabili per gravi violazioni del diritto internazionale umanitario”.

30Vale più di ogni richiamo di letteratura, a questo riguardo, la citazione delle pa- role con le quali il giudice Almiro Rodriguez, allora presidente della Camera del TPIY, conclude la dichiarazione di condanna per genocidio a carico del generale Krstic: “Nel luglio 1995, generale Krstic, lei ha aderito al male. È per questo che oggi questa Ca- mera la condanna e commina a suo carico la pena di 46 anni di prigione”.

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aperto lo spiraglio dell’art. 53 dello Statuto di Roma31.

L’attenzione verrà dunque ristretta ad una serie circoscritta di espe- rienze, che hanno la caratteristica comune di riguardare, in tempi diversi, paesi che, al termine di periodi dittatoriali nei quali si sono consumate gravi violazioni di diritti umani, si sono trovati di fronte alla scelta circa i mezzi da utilizzare per regolare i conti col passato e, attraverso le opzio- ni via via attuate, ci mostrano i punti di forza e i punti di debolezza delle alternative estreme, nonché il significato politico delle diverse possibili soluzioni di compromesso.

Il passo successivo consisterà in un esame più approfondito dell’op- zione penalistica, tradottasi in atto soprattutto dopo la riunificazione te- desca e, negli ultimi dieci anni, in diversi paesi latinoamericani su fon- damentale impulso della Corte Interamericana per i diritti umani.

Questa analisi, di cui non voglio anticipare qui i risultati, risulta par- ticolarmente interessante, da un lato perché pone in evidenza inediti nessi tra diritto penale interno e diritto penale internazionale, dall’altro perché si trova a dover maneggiare un’idea di diritto penale che si pre- senta almeno in parte come soluzione di continuità rispetto al quadro dei principi di riferimento a cui siamo legati, connotando un possibile mu- tamento di paradigma con il quale è necessario confrontarsi.

Per quella che a me pare una corretta valutazione dei rischi di derive causate da questa carica etico-simbolica, posso rimandare al contributo di Emanuela FRONZA- Juliette TRICOT, Fonction symbolique et droit pénal international: une analyse du di- scours des tribunaux pénaux internationaux, in E. FRONZA-S. MANACORDA, La justice pénale internationale dans les décisions des tribunaux ad hoc. Etudes des Law Clinics en droit pénal international, Dalloz, Paris/Giuffrè, Milano, 2003, 306 ss.

31Al comma 1 lett. c), la norma dispone che il Procuratore può decidere di non iniziare le indagini se vi sono sostanziali ragioni per ritenere che non serviranno all’interesse della giustizia, mentre al comma 2 lett. c) si prevede che, una volta inizia- te, esse possano esssere interrotte per lo stesso motivo: si tratta di vedere se l’interesse della giustizia può ritenersi compromesso allorché le indagini minaccino di ostacolare politiche nazionali di conciliazione.

I punti di vista sull’applicabilità di questa “valvola di apertura” sono peraltro di- scordanti: un punto divista decisamente scettico è quello di D. DUKIC, Transitional Ju- stice and the International Criminal Court – in “the Interest of Justice”?, International Review of the Red Cross, 2007, 691 ss., mentre più possibilisti appaiono R. BARTOLI, La «giustizia di transizione»: amnistia, giurisdizione, riconciliazione, cit., 94, L. COR- NACCHIA, Funzione della pena nello Statuto della Corte penale internazionale, Giuffrè, Milano, 2009, 222 e P. EIROA, Políticas del castigo y Derecho internacional. Para una concepción minimalista de la justicia penal, cit., 385 ss., e soprattutto 392 ss.

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4. Presentazione dei modelli di transizione

Il punto di partenza dell’indagine è la presentazione dei modelli di giustizia di transizione, peraltro con la consapevolezza che difficilmente le transizioni effettivamente realizzatesi si improntano ad un modello

“puro”, ma adottano compromessi e variazioni che si adeguano ad esi- genze socio-politiche concrete, molto spesso con modificazioni diacroni- che “in corso d’opera”, sicché abbiamo paesi, come per esempio l’Argen- tina, che hanno conosciuto in un quarto di secolo praticamente tutti i modelli teoricamente enunciati.

Qualche anno fa, nel presentare un’ampia ricerca svolta nell’ambito del Max-Planck-Institut für ausländisches und internationales Strafrecht di Freiburg, Jörg Arnold, uno studioso che ha trattato molto a fondo la questione del ruolo del diritto penale nei processi di transizione, delinea- va una suddistinzione essenziale tra i modelli di superamento del passato, ovvero il “modello del colpo di spugna” (“Schlußstrichmodell”), il “mo- dello della persecuzione penale” (“Strafverfolgungsmodell”) ed il “model- lo della conciliazione” (“Aussöhnungsmodell”)32.

Naturalmente, lo stesso Arnold, rendendosi conto di una certa rigidità della distinzione e della consistente varietà di “sottomodelli” che ciascuno dei modelli può presentare, aveva cura di specificare per esempio che il modello del colpo di spugna può caratterizzarsi attraverso una forma com- pleta di oblio, ma anche semplicemente attraverso la rinuncia alla (sola) persecuzione penale; che il modello della persecuzione può variare a se- conda di quali siano i suoi fini (retribuzione, scoperta della verità, soddi- sfazione delle vittime) e di quanto si sia disposti a sacrificare il principio di legalità per conseguirli; che il modello della riconciliazione può fondarsi pur sempre sulla minaccia “secondaria” dell’intervento penale, come in Sudafrica, o può del tutto prescinderne, come in Guatemala33.

Ma ancor più meritevole di segnalazione, riguardo alla “mobilità” dei modelli, è la circostanza che lo schema grafico, assolutamente corretto per quel tempo (anno 2000), che riassumeva gli esiti della menzionata ricerca assegnando i vari paesi alle caselle dei tre modelli34, appare oggi in diversi casi superato ed inattuale, per esempio in relazione ad Argen- tina, Cile ed Uruguay, che nel frattempo hanno radicalmente modificato la loro opzione.

Ai nostri fini, interessa fino a un certo punto una rigorosa – ma vera-

32Cfr. J. ARNOLD, Einführungsvortrag: Modelle strafrechtlicher Reaktion auf Sys- temunrecht, in A. ESER-J. ARNOLD (Hrsg.), Strafrecht in Reaktion auf Systemunrecht.

Vergleichende Einblicke in Transitionsprozesse, Band 1, Iuscrim, Freiburg, 2000, 13.

33Ancora J. ARNOLD, op. cit., 14.

34Lo si può consultare alle pagine XXX e XXXI del volume citato alla nota 32.

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mente molto problematica – classificazione dei modelli e dei paesi che li applicano; vorrei cambiare la prospettiva e pormi essenzialmente, da pe- nalista, la questione del ruolo, per qualità e quantità, del diritto penale all’interno delle strategie adottate, senza peraltro dimenticare che anche la rinuncia al diritto penale è a sua volta una strategia, che talvolta, oltre tutto, punta ai medesimi obiettivi con mezzi differenti.

Un riferimento valido per supportare quest’ultima affermazione è quello alla soddisfazione degli interessi delle vittime (o dei loro congiun- ti) dei crimini delle dittature.

L’incriminazione e la conseguente condanna, magari a distanza di moltissimi anni dai fatti, degli autori di crimini contro l’umanità ha sicu- ramente una forte valenza di risarcimento simbolico per chi li ha subiti, ma ci si può chiedere se non abbia un valore pure molto alto, o addirittu- ra superiore, allo stesso fine, un forte impegno del nuovo stato di diritto (succeduto a quello dittatoriale) per risarcire materialmente le famiglie, garantendo un reinserimento lavorativo agli esiliati o una pensione ai coniugi o la possibilità di studiare ai figli delle vittime, e/o per appurare fino in fondo la verità sui crimini commessi35 ed assicurare tramite con- ciliazione un solido futuro democratico al paese36.

Scopriremo intrecci molto interessanti tra spirito di vendetta, aneliti di stampo etico e Realpolitik prendendo in esame alcune situazioni na- zionali particolarmente adatte – almeno secondo il mio giudizio – a fun- gere da paradigmi per un’analisi complessiva.

35Insomma, garantire (anche) una tutela non penale della storia, per mutuare le parole usate in un contesto parzialmente diverso da EmanuelaFRONZA, Il negazioni- smo come reato, Giuffrè, Milano, 2012, 169.

36Tornerò a fondo sul punto più avanti, ma anticipo fin d’ora che proprio questa è stata in sostanza l’obiezione sollevata dagli avvocati del Brasile davanti alla Corte In- teramericana per i diritti umani nel procedimento del 2010 (“Guerrilha do Araguaia”) all’esito del quale il Brasile è stato condannato a perseguire penalmente, aggirando una legge di amnistia, i supposti autori di un massacro a danno di un gruppo guerri- gliero.

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C

APITOLO

II Le esperienze europee

SOMMARIO: 1. Un esempio italiano: la persecuzione dei crimini fascisti e l’amnistia Togliatti. – 1.1. L’apparato delle disposizioni penali contro il fascismo. – 1.2. I pro- cessi ai fascisti e la guerra civile. – 1.3. L’amnistia Togliatti. – 1.4. L’atteggiamento della giurisprudenza davanti all’amnistia. – 1.5. Cenni sul giudizio della storia. – 2. Il vero modello dell’oblio: la transizione post-franchista. – 2.1. La scelta per l’im- punità e le sue ragioni. – 2.2. Un tardivo sussulto: la legge della memoria storica. – 3. Il modello pan-penalistico: i processi tedeschi dopo la caduta del muro di Berli- no. – 3.1. La riunificazione tedesca e il ruolo del diritto penale. – 3.2. Gli spari al muro di Berlino e la questione generale del diritto applicabile. – 3.3. L’atteggia- mento della giurisprudenza davanti alla possibile applicazione di cause di non pu- nibilità. – 3.4. Limiti costituzionali all’applicazione del diritto penale? – 3.5. Il di- battito sull’applicabilità della prescrizione e gli interventi legislativi. – 3.6. Uno schizzo conclusivo.

1. Un esempio italiano: la persecuzione dei crimini fascisti e l’amnistia Togliatti

1.1. L’apparato delle disposizioni penali contro il fascismo

Prima dell’esame dei casi più recenti, vale la pena, anche per rimarca- re la non estraneità della giustizia di transizione all’esperienza del nostro paese, riandare ad una pagina della nostra storia che probabilmente non è stata analizzata con la dovuta acribia né dagli storici né dai giuristi, ov- vero quella relativa alla legislazione sulle sanzioni contro il fascismo e contro il collaborazionismo, una serie di disposizioni la cui applicazione era di competenza di organi ad hoc della magistratura e che pongono già, ormai quasi settant’anni or sono, problemi che ancor oggi sono oggetto di discussione in altre realtà geografiche.

Il dato normativo da cui partire è il d.lgs.lgt. 27 luglio 1944, n. 159.

Il suo art. 2, la più evidente norma-manifesto, sanzionava la stessa creazione del fascismo: “I membri del governo fascista e i gerarchi del fascismo, colpevoli di aver annullate le garanzie costituzionali, distrutte le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesse e tradite le

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sorti del Paese condotto alla attuale catastrofe, sono puniti con l’erga- stolo e, nei casi di più grave responsabilità, con la morte1. Essi saranno giudicati da un’Alta corte di giustizia composta di un presidente e di otto membri, nominati dal Consiglio dei Ministri fra alti magistrati, in servi- zio o a riposo, e fra altre personalità di rettitudine intemerata”.

L’art. 3, poi, sanzionava soggetti che si erano trovati in posizioni meno ri- levanti e che avevano realizzato atti di appoggio al fascismo, mentre è di grande rilevanza per queste riflessioni l’art. 5, che prevedeva il controverso delitto di collaborazionismo: “Chiunque, posteriormente all’8 settembre 1943, abbia commesso o commetta delitti contro la fedeltà e la difesa milita- re dello Stato, con qualunque forma di intelligenza o corrispondenza o col- laborazione col tedesco invasore, di aiuto o di assistenza ad esso prestata, è punito a norma delle disposizioni del codice penale militare di guerra”2.

L’art. 6 del decreto, con una disposizione che pure trova riscontro in precetti molto più recenti introdotti in paesi che stanno ora facendo i conti col passato, stabiliva che per i delitti fascisti punibili con pena su- periore a tre anni non poteva essere invocata la prescrizione del reato e

1Sul punto, è da segnalare che nello stesso anno 1944, la pena di morte era stata cancellata dal codice penale, con un ritorno alla situazione del codice Zanardelli.

2Rilevantissima, riguardo all’applicazione dell’art. 5, come giustamente è stato no- tato (da M. DONINI, La gestión penal del paso del Fascismo a la Democracia en Italia.

Apuntes sobre la memoria histórica y la elaboración del pasado «mediante el Derecho penal», in Revista penal, 23, 2009, 20, e nella versione italiana, ID., La gestione penale del passaggio dal fascismo alla democrazia in Italia. Appunti sulla memoria storica e l’elaborazione del passato «mediante il diritto penale», in Materiali per una storia della cultura giuridica, Giugno 2009, 195) è l’innovazione introdotta un anno dopo, con l’art. 1 del d.lgs.lgt. 22 aprile 1945, n. 142, contenente una serie di presunzioni (pensa- te originariamente come) assolute di collaborazionismo a carico di chi avesse ricoper- to determinate cariche o ruoli nella Repubblica sociale italiana: ministri o sottosegre- tari di stato, presidenti o membri del Tribunale speciale per la difesa dello stato o dei tribunali straordinari istituiti, o pubblici ministeri in tali organi, capi di provincia o segretari o commissari federali, direttori di giornali politici, ufficiali superiori con funzioni politico-militari. Tutti collaborazionisti ex lege.

Peraltro, è proprio questa disposizione una di quelle che diedero luogo ad una del- le tante discrasie interpretative che caratterizzarono l’applicazione delle sanzioni con- tro il fascismo, in questo caso addirittura un conflitto interno alla stessa giurispru- denza della Corte di Cassazione: infatti, mentre la sezione speciale di Milano si pro- nunciò per il carattere assoluto della presunzione, dichiarando che “l’accusa nulla de- ve provare” e che “nulla può essere provato in contrario se non col fine di invocare qualche attenuante”, le sentenze romane affermarono che “qualora si provi che l’ufficio fu soltanto conferito, ma che non ne furono esercitate le funzioni, non si po- trà fondatamente sostenere che siasi ricoperta la carica” ed ancora che non c’è reato del funzionario “quando l’attività costante e univoca svolta dimostri, senza possibilità di dubbio, che egli assunse ed esercitò la carica col deliberato proposito di servire, nonostante le contrarie apparenze, la causa della Liberazione” (citazioni tratte dal vo- lume di Zara Olivia ALGARDI, Processi ai fascisti, III ed., Vallecchi, Firenze, 1992, 30).

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