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Belli signum: Mario Martina, Lucano e Servio

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Academic year: 2021

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a questo convegno in memoria di Mario Martina vorrei portare un contributo che è soprattutto un contributo suo, testimonianza di un fervido ingegno che solo in parte aveva potuto esprimere le sue potenzialità. Conservo fra le mie carte un suo abbozzo, uno di quelli che Mario amava sottoporre agli amici che, a torto o ragione, egli riteneva avessero competenza sulla questione di cui si stava occupando e dai quali, a torto o ragione, si aspettava critiche, integrazioni, consigli. Non ho notizia che questa breve nota sia stata ritrovata o che, così com’era, sia stata ritenuta pub-blicabile. Mi prendo perciò la responsabilità di farla conoscere, integrandola con os-servazioni e aggiornamenti, ma sempre avvertendo che le idee principali e l’ossatura dell’argomentazione appartengono a Martina.

all’interno della lunga rievocazione delle stragi mariane e sillane nel secondo libro del Bellum civile di Lucano (vv. 67-233), una sezione del poema la cui funzione poetica ed ideologica è stata incisivamente messa in rilievo soprattutto dalla filologia italiana, da gian Biagio Conte a emanuele Narducci1, ampio spazio è riservato alla libera-zione e all’arruolamento di schiavi ad opera di Mario. La condanna di questa iniziativa di Mario costituisce anzi una sorta di passaggio obbligato della storiografia delle guerre civili. Così Lucano esprime la propria esecrazione (2, 94-98):

ut primum fortuna redit, seruilia soluit agmina, conflato saeuas ergastula ferro exeruere manus. nulli gestanda dabantur signa ducis, nisi qui scelerum iam fecerat usum adtuleratque in castra nefas.

si parla dei fatti dell’87 a. C. reduce dalle più pericolose fra le sue traversie (la fuga, le paludi di Minturno, il boia cimbrico che non riesce a portarne a termine l’esecuzione, l’esilio in africa tra le rovine di Cartagine), Mario sperimenta un nuovo improvviso rivolgimento della fortuna, di cui era del resto uno degli exempla canonici nella storiografia e nelle scuole di retorica, e, come varie fonti ostili riferiscono, arruola truppe anche fra gli schiavi per il suo rientro in armi a roma. Del resto, la liberazione degli schiavi è la prima cosa che Mario fa per incrementare le forze esigue e raccogliticce che aveva reclutato in africa e con cui era sbarcato a Talamone (Plut.

Mar. 41, 3-4):

1g.B. CoNTe, Memoria dei poeti e sistema letterario, Torino 1974, soprattutto pp. 80-82; e. NarDuCCi,

La provvidenza crudele, Pisa 1979, pp. 50 ss.; e, ancora, iD., Lucano. Un’epica contro l’impero, roma-Bari 2002, pp. 118 ss.

(2)

ταῦτα τῷ Μαρίῳ πυνθανομένῳ πλεῦσαι τὴν ταχίστην ἐφαίνετο· καὶ παραλαβὼν ἔκ τε Λιβύης Μαυρουσίων τινὰς ἱππότας καὶ τῶν ἀπὸ τῆς Ἰταλίας τινὰς καταφερομένων, συναμφοτέρους οὐ πλείονας χιλίων γενομέ-νους, ἀνήχθη, μεθ’ ὧν προσβαλὼν Τελαμῶνι τῆς Τυρρηνίας καὶ ἀποβάς, ἐκήρυττε δούλοις ἐλευθερίαν· καὶ τῶν αὐτόθι γεωργούντων καὶ νεμόντων ἐλευθέρων κατὰ δόξαν αὐτοῦ συντρεχόντων ἐπὶ τὴν θάλασσαν ἀναπείθων τοὺς ἀκμαιοτάτους, ἐν ἡμέραις ὀλίγαις χεῖρα μεγάλην ἤθροισε καὶ τεσσα-ράκοντα ναῦς ἐπλήρωσεν.

“Mario, quando fu informato di queste cose, pensò di dover partire il più presto possibile. Prese dall’africa alcuni cavalieri mauri e alcuni rifugiati venuti dall’ita-lia, non più di mille in tutto, e salpò. approdò a Talamone, in etruria, sbarcò e fece proclamare la libertà per tutti gli schiavi. inoltre i più gagliardi fra i contadini e i pastori del luogo, di condizione libera, accorsero in massa verso la costa at-tratti dal suo nome; prese con sé i più vigorosi e in pochi giorni mise assieme una grande armata, riempiendo quaranta navi”2.

i versi lucanei che abbiamo prima riportato sono una tipica manifestazione di quell’amaro concettismo che gli studi su Lucano hanno ben illustrato e che per que-sto passo in particolare sono oggetto di una acuta analisi di elaine Fantham3: si veda l’ ossimoro per cui Mario, per costituire le sue truppe, “scioglie” schiere di schiavi, e soprattutto il vero tour de force che fa vedere gli ergastula (da intendere metonimi-camente come gli schiavi degli ergastula) levare (exerere) le mani (da intendere pro-priamente come “mani” e non, come molti fanno, nel senso di “orde”), che brandiscono le armi forgiate dalla fusione dei loro ceppi e delle loro catene (conflato...

ferro, al tempo stesso ablativo separativo e ablativo assoluto).

il concettismo culmina ai vv. 96-98: il signum belli viene rilasciato dal comandante solo a quegli schiavi che hanno già dato ampia prova di essere delinquenti scellerati, capaci di contribuire all’orrore delle guerre civili con il proprio apporto di nefas. Questo criterio dì selezione introdotto da Mario nell’arruolamento della milizia, rigoroso quanto singolare, offre al poeta l’opportunità per una delle sue combinazioni parados-sali. Ma non si tratta solo di questo. Non è tanto sul gusto e sulla tecnica del poeta che Martina intendeva attirare qui l’attenzione: più che sui modi e i risultati dell’elaborazione poetica non è infatti inutile soffermarsi sui suoi presupposti. esaminiamo, in particolare, l’informazione che Lucano ci dà a proposito del signum ducis, vale a dire la tessera di con-trassegno (una specie di parola d’ordine) distribuita da Mario ai suoi uomini, piuttosto che, come generalmente si intende, “vessilli”, “insegne”4. Come si cercherà di dimo-strare, non entrano in gioco qui soprattutto 1’immaginazione o la fantasia: il poeta non avrebbe fatto molto di più che lavorare su un dato offertogli dalla sua fonte.

indicazioni preziose e, a quanto pare, finora non messe a frutto, vengono da uno scolio di servio ad Aen. 7, 637, di cui riportiamo il testo e l’apparato secondo l’edi-zione di Thilo:

2Trad. di C. Carena, con ritocchi (Plutarco, Vite parallele, trad. e intr. di C. Carena, Torino 1958). 3e. FaNThaM, Lucan, De Bello Civili Book II, Cambridge 1992, p. 98.

4L’interpretazione di signa come vexilla (guntfanones, cioè “gonfaloni” secondo il Supplementum

(3)

Tessera sigNvM symbolum bellicum, quod ad pugnam exeuntibus datur, scilicet propter confusionem, ut fuit in bello Marii †bardeus, in sullae apollo Delphicus, in Caesaris venus genetrix.

bello LHM: exercitu SRF ║ bardeus libri praeter H, qui basdaeus praebet: Lar deus Fabricius, quod W. H. Roscher (ann. philol. CXiX p. 347) defendit. Liber deus F.

Schoellius. cf. Plin. n. h. XXXiii § 150, Val. Max. iii 6, 6. malim Mars gradivus.

║ syllae libri, nisi quod sillae F.

il disagio dei filologi di fronte alla parola bardeus, contrassegnata dalla crux, appare obiettivamente comprensibile, così come si spiegano i vari tentativi di emendare il presunto guasto: si è pensato, infatti, esserci qui una corruttela, che, a lume di logica e sul modello dei casi seguenti relativi a Cesare e silla, potrebbe celare il nome di una divinità: Lar deus (Fabricius), Liber deus (schoell) o Mars Gradivus (come Thilo avrebbe preferito), Bas(s)areus (Pennisi apud ramires, che accetta la congettura nel testo)5: i riferimenti a Bacco si giustificherebbero in base alle fonti che parlano di Bacco trionfatore dell’oriente come modello per le vittorie di Mario e alla sua in-temperanza di bevitore: Plin. nat. hist. 33, 150; val. Max. 3, 6, 6.

in realtà, il testo è quasi certamente sano, a parte forse un possibile ritocco ortogra-fico: la lezione originaria era infatti, quasi certamente, Bardaeus. La si può efficacemente difendere sulla base di una notizia di Plutarco, nella vita di Mario. Nella difesa del testo tradito sulla base del confronto con Plutarco, Martina era stato preceduto da un inter-vento (che probabilmente non gli era noto) di a. Keaveney6(Plut. Mar. 43, 4-5):

ἐκαλεῖτο δὴ τὸ πλῆθος εἰς ἀγοράν· καὶ πρὸ τοῦ τρεῖς ἢ τέσσαρας φυλὰς ἐνεγκεῖν τὴν ψῆφον ἀφεὶς τὸ πλάσμα καὶ τὴν φυγαδικὴν ἐκείνην δικαιολο-γίαν κατῄει, δορυφόρους ἔχων λογάδας ἐκ τῶν προσπεφοιτηκότων δούλων, οὓς Βαρδυαίους προσηγόρευεν. οὗτοι πολλοὺς μὲν ἀπὸ φωνῆς, πολλοὺς δ’ ἀπὸ νεύματος ἀνῄρουν προστάσσοντος αὐτοῦ, καὶ τέλος Ἀγχάριον, ἄνδρα βουλευτὴν καὶ στρατηγικόν, ἐντυγχάνοντα τῷ Μαρίῳ καὶ μὴ προσαγορευ-θέντα καταβάλλουσιν ἔμπροσθεν αὐτοῦ ταῖς μαχαίραις τύπτοντες. ἐκ δὲ τού-του καὶ τῶν ἄλλων, ὅσους ἀσπασαμένους μὴ προσαγορεύσειε μηδ’ ἀντασπάσαιτο, τοῦτ’ αὐτὸ σύμβολον ἦν ἀποσφάττειν εὐθὺς ἐν ταῖς ὁδοῖς. “Così radunò il popolo nel Foro, e prima che tre o quattro tribù avessero espresso il loro voto, gettò la maschera e rinunciò a legittimare il suo ritorno. entrò nella piazza attorniato, come da una guardia del corpo, da alcuni schiavi scelti fra quelli che si erano radunati intorno a lui, e che lui chiamava Bardiei. Costoro uccisero molti cittadini a una sola parola o anche solo a un cenno di comando che venisse da lui; si spinsero fino ad abbattere con le daghe e a gettare davanti ai suoi piedi ancario, un senatore ed ex-pretore, che, avvicinatosi a Mario, non ne era stato salutato. Dopo di allora, bastava che qualcuno lo salu-tasse e non ricevesse risposta o un cenno di saluto da lui, perché fosse ucciso istantaneamente, a quel solo indizio, sulla pubblica via”.

5 Servio: Commento al libro VII dell’Eneide di Virgilio, con le aggiunte del cosiddetto Servio Danielino, intr.,

bibl., ediz. crit. a cura di g. raMires, Bologna 2003, p. 85.

(4)

Poco oltre, Plutarco ci informa che questi cosiddetti Bardiei, che imperversavano per la città come una banda efferata e ormai incontrollabile, seminando morte e vio-lenze di ogni genere, furono successivamente massacrati per ordine di Cinna e ser-torio (Plut. Mar. 44, 9-10):

ῥιπτουμένων δὲ τῶν σωμάτων ἀκεφάλων καὶ πατουμένων ἐν ταῖς ὁδοῖς, ἔλεος οὐκ ἦν, ἀλλὰ φρίκη καὶ τρόμος ἁπάντων πρὸς τὴν ὄψιν. ἠνία δὲ μάλι-στα τὸν δῆμον ἡ τῶν καλουμένων Βαρδυαίων ἀσέλγεια. τοὺς γὰρ δεσπότας ἐν ταῖς οἰκίαις σφάττοντες, ᾔσχυνον μὲν αὐτῶν παῖδας, ἐμείγνυντο δὲ βίᾳ ταῖς δεσποίναις, ἀκατάσχετοι δ’ ἦσαν ἁρπάζοντες καὶ μιαιφονοῦντες, ἕως οἱ περὶ Κίνναν καὶ Σερτώριον συμφρονήσαντες ἐπέθεντο κοιμωμένοις αὐτοῖς ἐν τῷ στρατοπέδῳ καὶ κατηκόντισαν ἅπαντας.7

“i corpi decapitati venivano gettati nelle strade e calpestati; ma non era tanta la compassione, quanto l’orrore e il tremito che tutti provavano a quella vista. Nulla però dispiaceva al popolo quanto la ribalderia dei cosiddetti Bardiei: non contenti di sgozzare i padroni nelle loro case, abusavano dei loro figli e violen-tavano le loro mogli, senza che nessuno riuscisse a fermare i loro massacri e le loro rapine, finché Cinna e sertorio, dopo essersi consultati, li assalirono mentre dormivano nell’accampamento e li ammazzarono tutti a colpi di giavellotto”.

Particolarmente interessante, nel primo dei due brani plutarchei (43, 4), è l’espres-sione οὓς Βαρδυαίους προσηγόρευεν: Bardiei (o Bardei) era il nome che proprio Mario aveva imposto a questi uomini. si trattava di una popolazione illirica stanziata nella zona del fiume Naron e sulla costa davanti all’isola di Pharos (Lesina). La grafia corretta del nome è incerta e ne sono attestate varie forme: oltre che Bardaei (CgL ii 28, 27), la forma Vardaei è in Cicerone (fam. 5, 9, 2) e in Plinio (nat. hist. 3, 143), mentre la forma Ardiaei è attestata in Livio (27, 30, 14) e Ἀρδιαῖοι in strabone (7, 5, 5 et alibi), appiano (Illyr. 10) e altre fonti greche8. Vardaicus in Marziale (4, 4, 5) è uno stivale militare e di Bardaicus calceus parla anche giovenale (16, 13).

in base agli indizi che ricaviamo da queste varie attestazioni possiamo ritenere che si trattasse di una tribù particolarmente bellicosa e che schiavi di origine illirica fossero stati particolarmente attivi nelle tumultuose vicende degli anni di Mario e silla: probabilmente agli eventi del’87/86 si riferisce Plinio (l. c.) quando parla dei

Vardaei come di populatores Italiae. La violenta e spietata guardia del corpo di cui Mario

si circondò in vista del suo ingresso a roma non sarà stata formata tutta da schiavi illirici: ma il nome di quella tribù evocava una idea di violenza e di efferatezza che ne faceva un simbolo capace di comunicare la determinazione con cui il vecchio gene-rale, ormai disposto a tutto, si presentava allo scontro decisivo.

alla luce di questa testimonianza di Plutarco, lo scolio serviano acquista piena e definitiva attendibilità. e dobbiamo essere grati al commentatore di virgilio per averci conservato una notizia come questa, non importantissima, è vero, ma d’altra parte neppure irrilevante. Nei manuali di storia romana è doverosamente registrata la no-7Di questi avvenimenti, di cui Plutarco dà notizia anche nella vita di sertorio (5, 7), fa menzione,

oltre ad appiano, Floro e orosio, anche una glossa greco latina, interessantissima a dispetto delle con-dizioni in cui ci è pervenuta (CgL ii 28, 27).

(5)

tizia di appiano relativa ai symbola distribuiti da Cesare e Pompeo a Farsàlo (BC 2, 11, 76): οἱ μὲν δὴ τοιάδε κατ’ ἀλλήλων ἐμηχανῶντο καὶ περιῄεσαν ἑκάστους, καθι-στάμενοί τε τὰ ἐπείγοντα καὶ ἐς εὐτολμίαν παρακαλοῦντες καὶ τὰ συνθήματα ἀναδιδόντες, ὁ μὲν Καῖσαρ Ἀφροδίτην νικηφόρον, ὁ δὲ Πομπήιος Ἡρακλέα ἀνίκητον.

“essi dunque preparavano queste misure gli uni contro gli altri, e intanto pas-savano tra le file, provvedendo a quanto era necessario, invitando al coraggio, dando la parola d’ordine, che per Cesare era «venere vincitrice» e per Pompeo «eracle invincibile»”9.

allo stesso modo, è giusto rivendicare attendibilità alla notizia dello scolio ser-viano. Come insegnava e. Fraenkel, nella sua celebre recensione all’edizione har-vardiana, servio meritava più credito di quanto gli venisse abitualmente concesso. Così come aveva battezzato “Bardiei” i suoi scherani, Mario aveva fatto di questo nome un’empia parola d’ordine per la tessera che consegnava ai suoi soldati, perché fosse chiaro il terribile mandato di morte e di barbara violenza che essi erano chiamati a eseguire nella guerra civile.

Ma la notizia di servio, a sua volta, impone anche di riconsiderare in modo nuovo i versi lucanei dai quali siamo partiti e ai quali ora possiamo ritornare. se fin qui si è argomentato in modo corretto, dovrebbe risultare che c’è in essi qualcosa che li di-stingue dall’enfasi puramente declamatoria che troviamo, ad esempio, in Floro (2, 9, 38-45). Nel rievocare la liberazione degli schiavi ad opera di Mario, Floro si limita ad esprimere una generica indignazione (2, 9, 38-45):

redit ab Africa Marius clade maior; si quidem carcer catenae, fuga exilium horrificaverant dignitatem. itaque ad nomen tanti viri late concurritur, servitia – pro nefas! – et ergastula armantur, et facile invenit exercitum miser imperator. itaque vi patriam reposcens, unde vi fuerat expulsus, poterat videri iure agere, nisi causam suam saevitia corrumperet.

rispetto all’immagine di Lucano, quella di Floro non è più che una figura retorica di fattura scolastica. Lucano procede in modo del tutto differente. egli ‘vede’ e de-scrive con piena evidenza un oggetto materiale assolutamente concreto (questo vale tanto per la tessera quanto per il ferrum conflatum) e soltanto in un secondo momento sollecita il lettore a condividere il suo senso di repulsione. L’ evidentia lucanea è tutta nutrita di tragica concretezza.

9 Trad. di D. Magnino (La storia romana. Libri XIII-XVII. Le guerre civili di Appiano, a cura di e.

(6)

aBsTraCT

sulla base di un abbozzo inedito di M. Martina, i versi di Lucano sull’arruolamento di schiavi ad opera di Mario e in particolare l’amaro concettismo per cui il signum belli viene ri-lasciato dal comandante solo agli schiavi che hanno già dato prova di essere delinquenti scel-lerati (B. C. 2, 94-98) viene interpretato attraverso il confronto con Plut. Mar. 41, 3-4 e lo scolio di servio ad Aen. 7, 637, in cui la genuinità della lezione tràdita Bardeus può essere difesa attraverso il confronto con Plut. Mar. 43, 4-5 e 44, 9-10: Mario aveva fatto del nome di questa tribù illirica un’empia parola d’ordine per la tessera che consegnava ai suoi soldati, perché fosse chiaro il mandato di barbara violenza che essi erano chiamati a eseguire nella guerra civile.

on the basis of an unpublished sketch by M. Martina, the verses of Lucanus on the recruitment of slaves by Marius and in particular the bitter paradox by which the signum belli is released by the commander only to slaves who have already shown themselves to be nefarious criminals (B.C. 2, 94-98) is interpreted by comparison with Plut. Mar. 41, 3-4 and serv. ad Aen. 7, 637, where the genuineness of the lesson Bardeus can be defended by comparison with Plut. Mar. 43, 4-5 and 44, 9-10: Marius had made of the name of this illyrian tribe an impious password for the tessera he gave to his soldiers, so that the mandate of barbaric violence that they were called to perform in the civil war was clear.

KeyworDs: Lucan; Plutarch; servius; Marius; Bardeus.

Maria Luisa Delvigo università degli studi di udine maria.delvigo@uniud.it

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