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Hommes des premièrs temps

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Academic year: 2021

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Hommes des premièrs temps, barbares du temps présent. Lafitau e il metodo comparativo. “…l’anthropologie a toujours été naturellement comparative”. Marcel Detienne, Comparer l’incomparable. Lo stesso anno in cui Fontenelle pubblica De l’origine de fables, esce a Parigi, un’opera destinata a segnare il lungo percorso della ricerca etnografica, Moeurs des sauvages ameriquains comparée aux moeurs des premièrs temps, del padre gesuita Joseph-François Lafitau. Il 1724 sembra dunque costituirsi come tappa fondamentale e imprescindibile per il metodo comparativo, che trae origine proprio dal parallelismo tra antichi e moderni.

Il mondo antico continua ad essere la pietra di paragone, la lente d’ingrandimento attraverso cui osservare il presente e l’alterità del Nuovo Mondo.

Il titolo programmatico di Lafitau contiene in sé la comparazione, che si evidenzia come linea guida delle indagini. Infatti, l’intento del religioso sembra essere quello di dipingere, o meglio ricostruire, i costumi degli amerindi, in particolare quelli del Nord America, attraverso quelli degli antichissimi abitanti d’Europa.

Sia Fontenelle sia Lafitau utilizzano il paradigma dell’antico, sebbene con scopi diversi: il filosofo francese se ne serve per dimostrare la fallibilità dell’uomo, alla luce di un’analisi contrastiva del mito greco e del mito amerindio, mentre il padre gesuita lo sfrutta come appoggio per dimostrare la sua teoria sull’origine delle popolazioni delle Indie e sulle loro abitudini. Missionario nella regione di St. Lawrence, nella Nouvelle France, per cinque anni, dal 1712 al 1717, Lafitau può contare su un’esperienza di campo, di contatto diretto con gli indigeni canadesi, di cui avrà modo di studiare lingua e tradizioni.1

Certo Lafitau non è l’unico ad usare la comparazione come strategia di ricerca: prima di lui, Erodoto, Strabone e Pausania avevano descritto popoli e luoghi con questa modalità e molti altri viaggiatori e missionari, che si erano avvicendati nelle Indie, avevano lasciato testimonianze basate sul parallelo con le Sacre Scritture o con il mondo classico.

Tuttavia, come ben sottolinea Andreas Motsch, il lavoro del padre gesuita resta originale:

“Questa originalità non ha a che vedere con quello che dice l’autore, ma con il modo in cui lo dice. È nella presentazione e nell’organizzazione delle osservazioni che essa risiede. (…)

I Moeurs costituiscono un perfetto exemplum della letteratura di contatto non solo perché essi ne riassumono i temi e le figure discorsive, ma anche e soprattutto, perché essi operano una sistematizzazione dei dati presentati, dando luogo ad una nuova metodologia”.2

Con Lafitau si assiste infatti al delinearsi di un metodo di lavoro, al tentativo di seguire un profilo rigoroso sia nella disposizione del materiale, sia nello sviluppo dell’indagine.

1 Lafitau tornerà di nuovo in Canada, nel 1727, per una breve missione, di due anni.

2 Andreas Motsch, Lafitau et l’émergence du discours ethnographique, Paris, Septentrion, Presses de l’Université

(2)

Come uno scienziato che esamina il suo oggetto di studio, raccogliendo pazientemente i dati, strutturandoli e tenendo conto dei risultati che sono già stati raggiunti, così il gesuita francese, con il suo bagaglio di cultura classica e religiosa, unito alla nutrita letteratura di viaggio, osserva le tribù indigene del Canada, cercando di fornire una descrizione più dettagliata possibile dei diversi aspetti che compongono la loro cultura.

La materia, di per sé, non è originale, ma Lafitau riesce a creare una trama organica e strutturata, in cui riconsiderare, attraverso un’attenta analisi, le informazioni spesso fin troppo superficiali e incomplete, che hanno creato un’immagine falsata e alterata degli abitanti del Nuovo Mondo.

Fenton e Moore notano come l’obiettivo dei Moeurs, sia proprio quello di “produrre osservazioni originali”3 sulle pratiche culturali e religiose dei selvaggi e confrontare questi elementi con le abitudini e le tradizioni dei popoli antichi.

“I confronti tra i selvaggi antichi e contemporanei erano di moda. La sfida per Lafiatu era superare i suoi predecessori e produrre un lavoro di etnologia comparativa che fosse inclusivo e scientifico”.4

Riproporre il parallelo tra amerindi e antichi europei può sembrare una semplice rivisitazione di un modello già ampiamente sfruttato. In realtà risponde ad una precisa esigenza teorica. L’ origine degli abitanti delle Indie non è stata ancora chiarita e le analogie culturali, riscontrate dal padre gesuita, nei suoi cinque anni di missione, tra gli indigeni del Nord America e gli europei di un lontano passato, sembrano condurre verso la teoria monogenetica, che vede tutta l’umanità derivare da Adamo ed Eva. L’ipotesi di un’unica discendenza della specie umana permette di accordare i testi sacri con la ricostruzione storico-etnologica e di arginare il dilagare dell’ateismo che, con le sue critiche, sempre più pressanti, mette in pericolo l’autorità e la credibilità della Chiesa.

Lafitau non ignora neppure le evidenti differenze che separano europei e amerindi e ricorre all’ipotesi di una graduale degenerazione, durata secoli.

Infatti

“in origine gli uomini possedevano una religione e un insieme di valori dettati da un Dio, ma, all’epoca delle migrazioni, nelle diverse regioni del mondo, essi dovettero confrontarsi con dei nuovi ambienti; allora passarono i secoli e gli uomini furono inclini a dimenticare: il loro bagaglio culturale si ridusse ed essi persero il contatto con la sola vera religione e l’unica cultura”.5

3 L’espressione “to make original observations”, da me tradotta in italiano, è di William N. Fenton e Elizabeth H.

Moore, Introduction, in Lafitau, Customs of the American Indians compared with the Customs of Primitive Times, Toronto, The Champlain Society, 1974, p. LIX.

4 Ibidem. Traduzione dall’inglese mia.

5 William N. Fenton e Elizabeth H. Moore, “Lafitau et la pensée etnhologique de son temps”, Études littéraires,

(3)

A causa delle migrazioni e dell’allontanamento dal nucleo culturale originario, i popoli hanno cominciato a differenziarsi e sviluppare caratteristiche peculiari, perdendo memeoria delle proprie radici e sostituendo la vera religione con il pericoloso surrogato dell’idolatria.

Senza la salda guida della fede, questi uomini si sono abbandonati alle false credenze e alla magia. Se per Fontenelle, l’ignoranza è alla base del racconto mitico, per Lafitau è il segno evidente della caduta dell’uomo che, da un primordiale stato di grazia, si trova preda di paure e timori, che alimentano le imposture del paganesimo.

Tuttavia né la Bibbia né gli autori antichi sembrano essere d’aiuto, dal momento che nessuna fonte riporta l’esistenza di questi popoli delle Americhe. Lafitau deve allora procedere per ipotesi e congetture che provino la sua teoria:

“Non mi sono accontentato di conoscere il carattere dei selvaggi e di informarmi sui loro costumi e sulle loro pratiche, ma ho cercato, in queste pratiche e in questi costumi, le vestigia dell’antichità più remota; ho letto con attenzione quelli tra gli autori più antichi che hanno trattato dei costumi, delle leggi, delle abitudini dei popoli, di cui avevano qualche conoscenza; ho confrontato questi costumi gli uni con gli altri e ammetto che se gli autori antichi mi hanno dato dei lumi per fondare qualche felice congettura riguardo ai selvaggi, i costumi dei selvaggi mi hanno dato dei lumi per comprendere più facilmente e per spiegare numerosi aspetti che si trovano negli autori antichi.

[…] Alcune delle mie congetture sembreranno superficiali in sé, ma, forse, riunite insieme, formeranno un tutto le cui parti si sosterranno attraverso i legami che hanno tra loro”.6

Sebbene la curiosità del gesuita francese non si fermi agli aspetti superficiali della cultura degli indigeni nordamericani, il programma di documentazione e ricostruzione etnografica appare molto ambizioso e delicato, a causa della difficoltà di reperire fonti di prima mano e dati sicuri e attendibili.

È per questo che Lafitau, una volta individuate caratteristiche simili, tra le tribù canadesi e i primi europei, si affida ai testi antichi, che riportano informazioni utili per avvicinarsi ad una realtà altra e poco conosciuta. Contemporaneamente però, dallo studio dei selvaggi, emergono nuove considerazioni, che possono gettare luce su alcune criticità del mondo antico.

Antichi e selvaggi si illuminano e si spiegano a vicenda: l’eclaircissement réciproque7

supplisce alla mancanza oggettiva di prove a sostegno della teoria monogenetica e degenerativa, compattando il sapere in un’unità, formata da due metà complementari.

Eppure, a volte, la comparazione non porta i frutti aspettati. Spesso, nella catena dei confronti, ciò che avrebbe dovuto chiarire contribuisce a creare confusione:

“Bisogna dunque spiegare Erodoto, per quanto riguarda il costume che avevano i Lici, di prendere il nome delle madri, attraverso il costume che gli Uroni e gli Irochesi osservano ancora.

In ogni famiglia si conserva un certo numero di nomi di antenati, sia uomini sia donne. (…)

6 Joseph-François Lafitau, Moeurs des Sauvages Amériquains comparée aux moeurs des premièrs temps, tome I,

Paris, chez Sougarain l’ aîné et Charles Estienne Hocherrau, 1724, pp. 3-4. Traduzione dal francese mia.

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Ora c’è il costume, in ogni famiglia, di far rivivere e di far resuscitare in qualche modo quelli che sono scomparsi e che le hanno dato lustro. Si raccolgono nello stesso tempo i nomi di coloro che si fanno rivivere e li si impongono a quelli tra i nipoti che sono destinati a rappresentarli. […]

Ma, come un tempo tra i Lici, oggi [accade] lo stesso tra Uroni e Irochesi: è dalla famiglia delle donne che si prendono questi nomi, e sono loro che si fanno carico di risuscitare i morti e di far rivivere gli antenati. […] Avevo creduto, dico, sul confronto di questi costumi particolari dei Lici, riportati da questi autori che ho appena citato e dagli altri di cui si è scritto, insieme a quelli dei nostri selvaggi, di poter fondare qualche solida congettura per stabilire la loro origine, ma questi caratteri, per quanto apparissero singolari, tuttavia non lo sono, e, confacendosi a molti altri popoli, (…) cade il fondamento di queste congetture e ci lascia nella nostra incertezza”.8

Per tracciare un profilo dell’origine dei selvaggi americani, Lafitau cerca di fondere insieme la tradizione delle Sacre Scritture, le opere degli storici antichi e la sua esperienza di campo della missione canadese:

“La mia opinione è dunque che la maggior parte dei popoli d’America provenga originariamente da questi barbari che occuparono il continente della Grecia e delle sue isole, da dove, dopo aver inviato numerosi coloni per moltissimi anni, furono costretti infine ad andarsene tutti o quasi tutti, per diffondersi in diversi paesi, essendo stati cacciati, in ultima istanza, dai Cadmei o Agenoridi, che si crede siano i popoli di Og re del Bazan, di cui si parla nelle Scritture (…).

È opinione comune, presso gli Autori, che dei barbari abbiano occupato la Grecia, prima di questi popoli che si sono poi conosciuti con il nome di Greci e, sebbene, in seguito, gli Autori e, soprattutto i poeti, avessero loro affibbiato i nomi di questi primi popoli barbari, i Greci erano nondimeno molto diversi, e non erano altro che questi Agenoridi che avevano portato, dal paese dei Cananei, le lettere e forse la lingua greca, che essi sostituirono a quella di questi barbari, di cui non resta quasi più alcuna traccia (…).

[…] Questi barbari, sebbene confusi nelle storie, a causa di una moltitudine di nomi particolari (…), sono tuttavia abbastanza universalmente compresi sotto i nomi generici di Pelasgi ed Elleni (…). Gli Elleni e i Pelasgi si sono abbastanza spesso mescolati insieme, come è chiaro dalle stesse storie, ma i Pelasgi erano diversi dagli Elleni, per il fatto che essi coltivavano un po’ la terra, erano un po’ più fissi e sedentari dei primi, i quali, non seminavano affatto, né vivevano che della frutta degli alberi, di caccia, di pesca e di ciò che il caso poteva loro presentare e non abitavano che in delle tende, [che] smontavano per un nonnulla, e conducevano una vita errante per stato e per necessità.

Coloro che conobbero sufficientemente i popoli barbari dell’America settentrionale vi trovarono il carattere di questi Elleni e di questi Pelasgi, gli uni, compresi sotto la lingua urona, coltivano i campi, costruiscono capanne e sono abbastanza stanziali nello stesso luogo. Al contrario, la maggior parte degli Algonchini e dei selvaggi del Nord fanno professione di una vita vagabonda e non vivono che del beneficio del caso”.9

Il padre gesuita sostiene che chi ha avuto la possibilità di conoscere gli indiani nordamericani non può non rilevare le analogie e le caratteristiche che li accomunano ai proto-Greci: la comparazione e l’esperienza lo confermerebbero.

Tuttavia, come osserva Andreas Motsch, l’impianto metodologico dei Moeurs risulta piuttosto debole:

8 J-F. Lafitau, Moeurs des Sauvages Amériquains comparée aux moeurs des premièrs temps, op.cit., tome I, pp.

69-71. Traduzione dal francese mia.

9 J-F. Lafitau, Moeurs des Sauvages Amériquains comparée aux moeurs des premièrs temps, tome I, op.cit., pp.

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“A dispetto di ogni scientificità, la dimostrazione etnologica di Lafitau si basa su premesse indimostrabili. Solo la sua fede, la sua fiducia nella verità dei suoi presupposti, gli permettono di fare astrazione dai difetti della sua dimostrazione”.10

Lafitau procede, per sua stessa ammissione, per tentativi e per congetture, ma la teoria non può spiegare l’ipotesi.

Tutto il suo sistema si basa sulla fede, che si trova adesso a dover sostenere un complesso progetto etnografico, limitato da alcune difficoltà e contraddizioni:

“Far derivare i popoli d’America dai popoli della Tracia, della Scizia, dell’India, dell’Etiopia o della Libia, è quasi come non dire nulla, perché questi nomi hanno sempre avuto un significato assai vasto, che sono sempre stati legati a delle regioni, i cui confini non erano né conosciuti né determinati; che queste regioni sono state abitate successivamente da una moltitudine di genti, che non ci sono più, che erano molto diversi tra loro, e che erano ancora di più di quelli che ci sono oggi in così gran numero. Bisognerebbe dunque dire qualcosa di più preciso ed è in ciò che consiste la difficoltà o l’impossibilità”.11

Il padre gesuita sembra ben consapevole degli ostacoli di una accurata ricostruzione della storia e dell’origine degli amerindi, dal momento che questi ultimi, non conoscendo la scrittura, non hanno lasciato testimonianza del loro passato.12 E, sicuramente, le frequenti migrazioni e le invasioni di popoli sempre diversi, di cui abbiamo solo fonti indirette, che si sono installati in Europa, in epoche molto lontane, rendono il compito ancora più arduo. Se la storia si lega alla scrittura e ne dipende, come si può discutere di ciò che non è scritto? Le società che non hanno lasciato una traccia scritta di sé non hanno storia e, agli occhi degli europei, sono selvagge e primitive.

Non bisogna dimenticare infatti che, per la società occidentale, anche la cultura è fortemente subordinata alla scrittura, con la quale forma un binomio indissolubile.

La storia degli amerindi sembra relegata in un limbo, in uno spazio temporale dell’assenza, consegnata all’ambiguità e alla doppiezza del mito.

10 A. Motsch, “Lafitau et l’anthropologie de la Contre-Reforme”, Transhumances divines. Récit de voyage et de

religion, (ed. par Sophie Linon-Chipon et Jean François Guennoc, Paris, Septentrion, Presses de l’Université Paris-Sorbonne, 2005, p. 133). Traduzione dal francese mia.

11 J. F. Lafitau, Moeurs des Sauvages Amériquains comparée aux moeurs des premièrs temps, tome I, op.cit., p.

42. Traduzione dal francese mia. La teoria di un’origine asiatica dei popoli americani è presente nel dibattito francese già da molto tempo. Secondo Fenton e Moore, Lafitau avrebbe avuto modo di prendere visione della Demonstratio evangelica di Pierre Daniel Huet, pubblicata nel 1672, in cui il grande classicista e precettore del Delfino, riconduce l’origine delle tribù nordamericane ai popoli che abitavano le regioni montuose dell’Asia Minore, in particolare l’area della Licia. (Cfr. su questo punto, W. N. Fenton; E. H. Moore, “Lafitau et la pensée etnhologique de son temps”, art.cit., p. 35).

12 “Non si può concludere niente sui selvaggi, riguardo alla loro origine. Non avendo affatto lettere, non hanno

neppure dei fasti e degli Annali, sui quali si possa contare. Ma essi hanno una specie di tradizione sacra, che hanno cura di conservare (…). Del resto, questa tradizione, passando di bocca in bocca, riceve ogni volta delle alterazioni, e degenera in miti così assurdi, che non si può avere che una pena estrema a riportarli”. [LAFITAU, Moeurs des Sauvages Amériquains comparée aux moeurs des premièrs temps, tome I, op.cit., pp. 92-93. Traduzione dal francese mia].

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Michèle Duchet ricorda infatti che “ciò che ha un rapporto con i moeurs degli americani non può essere che là, altrove, in uno spazio primitivo, dove lo storico non saprebbe avventurarsi. Un luogo da dove [provengono] le astuzie del discorso per mascherare l’incertezza del passo: costituiti di frammenti di ‘temps inconnus’ e di brandelli di ‘temps fabuleux’, i ‘premièrs temps’ sono una storia ascoltata alle porte del mito. […] I ‘premièrs temps’, di cui

nessun’epoca è certa, inglobano tutto ciò che precede i ‘temps historiques’ (…)”.13 Il concetto di premièrs temps è dunque assai vago e indeterminato, dal momento che anche i

testi antichi ne fanno solo rapidi accenni.

Lafitau è infatti convinto che non si possa parlare con sicurezza delle epoche precedenti alle Olimpiadi greche e che, su tempi così remoti, impossibili da definire, si possa solo congetturare:

“Prima delle Olimpiadi non si trovano affatto epoche certe nell’antichità.

Tutti i tempi fin lì sono tempi oscuri ed è in questa oscurità che si trova sommersa l’epoca in cui l’America ha potuto essere popolata, ammesso che sia così antica”.14

Nonostante ciò, se è vero che non ci sono dati certi per ciò che concerne il popolamento delle Americhe, nondimeno è possibile occuparsi della cultura degli amerindi.

Per il padre gesuita, l’histoire non è solo quella scritta, ma anche quella che fa riferimento alle abitudini, alle credenze e alle tradizioni dei popoli e che è fortemente legata al concetto di moeurs. Motsch sintetizza molto bene questo punto:

“Per gli europei, la storia dei popoli del Nuovo Mondo mancava di leggibilità ed essi interpretavano la loro propria incapacità di comprendere come una carenza di queste società e come segno della loro non – storia, del loro stato selvaggio e del loro primitivismo. L’emergenza del discorso sui moeurs non solo ristabilirà questa argomentazione storica difettosa, recuperando la storia non scritta dei «popoli senza scrittura» per la storia occidentale, ma istituirà anche una leggibilità, che supererà di gran lunga quella che il discorso storico non ha mai potuto offrire”.15

L’ambiguità del concetto di premièrs temps investe anche il concetto di moeurs, l’asse principale sui cui è costuita l’opera di Lafitau.

Fenton e Moore, nella loro Introduzione all’edizione canadese, precisano il significato di questo termine, la molteplicità di contenuti che veicola e i problemi delle scelte traduttive ad esso collegate:

“Ways of mankind” o “customs” è ciò che Lafitau intende quando scrive moeurs. Nel tradurre moeurs con customs ci uniformiamo all’uso corrente tra gli antropologi.

13 Michèle Duchet, “Discours ethnologique et discours historique: le texte de Lafitau”, Studies on Voltaire and the

Eighteenth Century, CLI-CLV, Oxford, The Voltaire Foundation and Taylor Institution, 1976, p. 614. Traduzione dal francese mia.

14 J-F. Lafitau, Moeurs des Sauvages Amériquains comparée aux moeurs des premièrs temps, tome I, op.cit., p.

35. Traduzione dal francese mia.

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Customs è ciò che gli antropologi americani intendono generalmente quando scrivono ‘patterns of

culture’, in riferimento al comportamento caratteristico di una società. Effettivamente, l’uso che diciottesimo secolo fa del termine - moeurs in francese e manner in inglese – che derivava dal latino

mos mores, aveva il senso di ‘manners, habits, customary ways’, un significato che non è radicalmente

diverso dall’idea centrale del concetto di cultura: comportamento significativo. (…)

Sumner suggeriva che ‘ethology’ potrebbe essere un buon termine per lo studio di manners, customs, usages e mores, e per il modo in cui sono formati. (…) Sumner aveva in mente il termine greco ethos riferito all’insieme degli specifici usi, standard, idee e codici dai quali un gruppo è governato.

Mores, così come era usato tra i Romani per customs, in un più ampio e ricco senso, portava in sé

un’implicazione mistica, secondo la quale il benessere della società, in qualche modo, dipendeva dalla loro osservanza. L’inglese non ha un derivato o un equivalente e il tedesco Sitte, secondo Sumner, ‘rende mores ma in modo imperfetto’. Allora rimane solo il francese moeurs, che egli considera, ‘insignificante se paragonato a mores’. […] Usage è considerata la categoria più inclusiva nella terminologia della moderna sociologia francese”.16

Il termine moeurs copre dunque un’area semantica piuttosto estesa, che comprende coutumes e usages. La storia degli amerindi viene dunque reinterpretata in chiave culturalemorale, con una prospettiva che privilegia abitudini e tradizioni piuttosto che documenti scritti.

L’impegno etnografico del gesuita francese cerca di provare che i ‘popoli senza storia’ non sono necessariamente popoli senza cultura.

“Per Lafitau” infatti “il termine moeurs designa innanzitutto il modo di essere, di fare, di sentire e di pensare di un popolo o di un’individuo. Rinvia dunque a “pratiche, costumi, usi, riti, leggi, credenze, modi e abitudini” in tutta la loro eterogeneità. Come indica Lafitau, les moeurs riguardano tutto il dominio dell’esperienza umana: la religione (…), il governo, il matrimonio, la guerra, la medicina e anche la morte”.17

Secondo Motsch è proprio questa prospettiva globale, che abbraccia tutti gli elementi che compongono la vita di una comunità, a favorire la creazione di ulteriori collegamenti con un passato lontano e indefinibile.

Non si tratta più di raccogliere curiosità esotiche per soddisfare l’avidità del ristretto pubblico di una corte cinquecentesca, ma di delineare il profilo di un popolo.

Il sincero interesse per la dimensione umana guida il padre gesuita al di là della distinzione tra barbari e selvaggi:

“Sauvage, dal latino silvaticus, selvatico, era originariamente applicato agli abitanti delle aree boschive, che vivevano di caccia, pesca e raccolta, e, di conseguenza, si riferiva ad una condizione di vita selvaggia e non civile, come la vita in uno stato di natura o di selvatichezza. Questo significato si adattava bene ai popoli cacciatori che vivevano a nord del fiume St. Lawrence, che parlavano le lingue algonchine, e, ancora di più, ai coltivatori di mais, fagioli e melopopone, che vivevano vicino alla Georgian bay, a sud e a ovest del lago Ontario, che parlavano soprattutto dialetti irochesi. Lungo tutto il suo libro, Lafitau non fa distinzione tra sauvages e barbares, sebbene probabilmente avesse in mente la diversa derivazione etimologica.

Egli usa sauvage, come gli altri scrittori francesi, per indicare l’indiano americano, (…).

16 Fenton; Moore, Introduction, in Lafitau, Customs of the American Indians compared with the Customs of

Primitive Times, op.cit., p. LXVIII. Traduzione dall’inglese mia.

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Barbare deriva dalla parola greca per i popoli che non parlavano greco. (…) Lafitau dà ampiamente

prova di essere conscio dell’originale significato di barbaro (…). […]

Egli usa sauvage sia come nome sia come aggettivo (…) e, spesso, per indicare semplicemente popoli che vivono lontano dalla società civilizzata. Usa barbare nello stesso modo”.18

Lafitau intende correggere la visione che l’Occidente ha dei popoli americani. Essi sono, prima di tutto, uomini e i loro costumi lo dimostrano:

“Nella maggior parte delle relazioni di viaggio, ho visto, con estrema pena, che coloro che hanno scritto dei costumi dei popoli barbari, ce li hanno dipinti come gente che non aveva alcun sentimento di religione, alcuna conoscenza della divinità, alcun oggetto cui rendere culto: come gente che non aveva né leggi, né educazione, né forma di governo, in una parola, come gente che dell’uomo quasi non aveva che l’immagine.

[…] È necessario distruggere la falsa idea che questi autori hanno dato dei selvaggi, dal momento che solo questa idea è il fondamento di un pregiudizio così sfavorevole. […] Non si tratta dunque che di provare questa uniformità di sentimenti in tutti i popoli, mostrando che, in realtà, non ne esiste uno tanto barbaro da non avere una religione o dei costumi”.19

I moeurs sono il comune denominatore che avvicina tutte le società umane e le caratterizza, nessuna esclusa. Ed è attraverso i moeurs che si possono confrontare i popoli tra di loro.

“L’ermeneutica etologica o etnologica è così messa in atto”.20

Anche la religione assume un ruolo importante nel piano comparatista di Lafitau, dal momento che, anche il popolo più arretrato e primitivo possiede almeno una vaga idea di una potenza a lui superiore. L’esperienza religiosa è, per Lafitau, una delle chiavi per comprendere una società e i rapporti tra i suoi componenti.

Come nota Saggioro, “egli per primo, grazie all’ardita comparazione con il paganesimo dell’antichità classica, ha permesso un ampliamento del concetto di religione e delle prospettive di interpretazone di culture ‘altre’, contribuendo a determinare l’attribuzione di una religione e di dignità umana ai ‘sauvages’ americani, che fino a quel momento ne erano stati considerati privi”.21 Inoltre, alcune pratiche rituali, in uso presso le tribù nordamericane, possono servire come modello per illustrare corrispondenti culti dell’Europa arcaica.

La prospettiva teologica rafforza quella etnografica e viceversa.

La degenerazione della vera religione ha prodotto una serie di idoli e divinità, in sostituzione dell’unico Dio, che spesso si sono identificati con gli elementi naturali.

18 Fenton; Moore, Introduction, in Lafitau, Customs of the American Indians compared with the Customs of

Primitive Times, op.cit., pp. LXX-LXXI. Traduzione dall’inglese mia. Cfr. su questo punto Sergio Landucci, I filosofi e i selvaggi, op.cit., p. 333: “Il termine selvaggi, che agli uomini del Rinascimento era venuto spontaneo dal loro bagaglio classico, continuò ad essere usato universalmente, fino a tutto il Settecento, a motivo delle sue evidenti virtù espressive ed allusive (…)”.

19 J-F. Lafitau, Moeurs des Sauvages Amériquains comparée aux moeurs des premièrs temps, tome I, op.cit., pp.

5-7. Traduzione dal francese mia.

20 A. Motsch, Lafitau et l’émergence du discours ethnographique, op.cit., p. 61. Traduzione dal francese mia. 21 Alessandro Saggioro, “Lafitau e lo spettacolo dell’‘altro’. Considerazioni iniziali in margine a un comparativista

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Lafitau pone l’accento sull’elemento simbolico, che accomuna le diverse espressioni del paganesimo, sulla “necessità, per gli esseri umani, di darsi una rappresentazione di Dio, in

quanto essere infinito, che li spinge a creare delle «immagini sensibili», cioè dei «simboli»”.22 Anche il mito, custode della tradizione, si inserisce nella dimensione del sacro, illuminando la

spiritualità, così forte e caratteristica, dei selvaggi americani.

Luoghi e spazi si animano e respirano attraverso la divinità, riempiendo l’immagianrio umano.

Anello di congiunzione tra culto e moeurs, la danza si colloca al centro della vita sociale delle tribù nordamericane e Lafitau ne registra attentamente la funzione.

Essa assume un grande rilievo anche nell’ambito politico-militare, dal momento che, come sottolinea Saggioro, “le danze sono guerriere o di religione”.23

L’esperienza della danza, per Uroni e Irochesi, non è divertissement e spettacolo, ma è un momento serio e grandioso, carico di significati, che riunisce tutta la comunità:

“Il sacrificio e il banchetto erano seguiti dal canto e da alcune danze militari.

Sembrerà inizialmente sorprendente che le cose che ci sembravano così profane come la danza e così lontane dallo spirito della religione come la guerra, siano state unite, quasi in maniera indissolubile, con la solennità dei sacrifici”.24

Come accadeva nel mondo antico, canti e inni sigillano la sacralità del rito, che unisce la sfera civile e quella religiosa.

Nonostante Lafitau riabiliti la danza, riconoscendole uno statuto complesso e ricco di valori sociali e religiosi fondamentali per le società canadesi, la sua posizione rimane tendenzialmente ambigua. Il padre gesuita non può certo avallare l’idolatria, ma non sembra respingere neppure del tutto l’interpretazione che gli amerindi danno della divinità.

Motsch insiste sulla sostanziale ambivalence théologique di Lafitau, che, pur criticando, assolverebbe i suoi selvaggi, perché, “malgrado le loro pratiche idolatre, non sono interamente corrotti (…)”.25 Attraverso la comparazione, il missionario francese cerca di ricondurre il nuovo al noto, anche se questo non è un percorso privo di criticità e di contraddizioni.

Il continuo parallelo culturale e religioso, più che portare alla conoscenza e alla luce, porta ad una sorta di riconoscimento, di appiattimento degli aspetti peculiari, che contraddistinguono le tribù nordamericane, sul modello del mondo antico o arcaico.

Lafitau si appoggia agli autori classici e all’auctoritas dei testi sacri, per trarre informazioni sugli eventi di un passato lontano e spesso sfuggente, nel quale collocare gli indiani americani.

22 A. Motsch, “Lafitau et l’anthropologie de la Contre-Reforme”, art.cit., p. 138. Traduzione dal francese mia. 23 A. Saggioro, “Lafitau e lo spettacolo dell’‘altro’. Considerazioni iniziali in margine a un comparativista ante

litteram”, art.cit., p. 200.

24 J-F. Lafitau, Moeurs des Sauvages Amériquains comparée aux moeurs des premièrs temps, tome I, op.cit., p.

194. Traduzione dal francese mia.

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“È infatti necessario postulare la natura primitiva dell’antichità al fine di riconoscervi la natura primitiva degli amerindi. Allo stesso modo, l’autore dei Moeurs trae profitto dalla nobiltà dell’antichità, al fine di conferirne un po’ agli amerindi”.26

L’evidente difficoltà di spiegare perché i popoli dell’America settentrionale conservino ancora molti tratti delle tribù che colonizzarono la Grecia, spinge il padre gesuita ad intraprendere una ricerca che colga gli autentici moeurs dei selvaggi, prima che i contatti con gli europei li contaminassero. Secondo Motsch, nonostante Lafitau rivoluzioni il modo di guardare e di studiare le culture altre, il quadro che emerge dalla sua opera non difende l’alterità e la specificità dei popoli d’oltreoceano.

Le ricostruzioni e le descrizioni fornite sarebbero infatti funzionali e subordinate alla coerenza delle teorie esposte e agli obiettivi della missione.

Sicuramente il progetto del missionario gesuita è vasto e ambizioso.

Il titolo del suo lavoro non fa riferimento al concetto di histoire, come molti altri testi della letteratura di contatto, ma si avventura su un terreno ancora più accidentato, quello dei moeurs, che comprende tutti gli aspetti di una cultura, dai costumi, alle abitudini, alla religione, alla vita sociale. Con Lafitau emerge una dimensione più privata, più intima e profonda dell’uomo, che il metodo comparativo cerca di interpretare.

Certo, la maggiore criticità del comparativismo è quella di rischiare di misconoscere l’alterità, di perdere la differenza. E perdere la differenza significherebbe violare l’altro ancora una volta, negare la sua unicità e il suo posto nel mondo.

Greci e indigeni canadesi sono troppo lontani tra loro per avere qualcosa in comune.

Ma forse è proprio lo “choc de l’incomparable”27 la scintilla dalla quale rinasce l’etnografia, la ricerca e lo studio dell’uomo, il labirintico progetto che risponde al bisogno di conoscere e riconoscere l’altro per definire meglio se stessi.

26 A. Motsch, Lafitau et l’émergence du discours ethnographique, op.cit., p. 75. Traduzione dal francese mia. 27 Marcel Detienne, Comparer l’incomparable, Paris, Édition du Seuil, 2000, (éd. 2009), p. 46.

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