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I PREZZI PREDATORI NEL DIRITTO U.E.

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Capitolo IV

I PREZZI PREDATORI NEL

DIRITTO U.E.

Nel secondo dopoguerra il modello economico statunitense, schiacciante vincitore del conflitto, ebbe un gran seguito a livello internazionale tra i Paesi ad economia di libero mercato e tra quelli, come la Germania occidentale, Giappone ed Italia che a quel modello economico ora guardavano e s’ispiravano. Tuttavia, in special modo nell’Europa occidentale, non fu solo l’immagine trionfante del liberatore a portare all’esaltazione del modello economico statunitense, considerato come più efficiente ed in grado di generare un maggior benessere, ma fu la decisione politica d’intervenire, la netta vittoria militare e la suddivisione dell’Europa in aree d’influenza ad alimentare e talvolta imporre l’adozione di legislazioni antitrust1 volte a strutturare e creare un sistema economico del tutto simile a quello degli Stati Uniti d’America. Apparvero così, dapprima in Gran Bretagna e successivamente in Germania e Francia, le prime legislazioni antimonopolistiche. Anche in Italia furono presentati svariati progetti di legge, i quali però ebbero scarso successo.

A livello sovranazionale, invece, con i primi trattati tesi ad aumentare la cooperazione economica tra gli Stati europei, la normativa antitrust divenne parte sostanziale e portante degli stessi accordi. Con il Trattato di Roma del ’57 il valore della concorrenza viene costituzionalizzato tra i principi dell’ordinamento e del diritto comunitario.

1

Non a caso, in Germania il tribunale costituzionale affermò espressamente che la libera concorrenza è uno dei principi fondamentali della costituzione ‘economica’ tedesca.

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Abbandonando il filtro prettamente economico, senza dimenticare, tuttavia, che l’analisi economica costituisce parte integrante dell’argomento giuridico, il quarto capitolo, almeno nelle intenzioni, vuole analizzare come il legislatore e la giurisprudenza europea abbiano codificato ed applicato all’interno del diritto della concorrenza, le conoscenze economiche sul prezzo predatorio, quale strategia tesa a limitare il gioco concorrenziale. A causa dell’indubbia difficoltà ad elaborare una disciplina coerente, capace di regolare in maniera chiara e puntuale l’utilizzo di prezzi predatori, i primi due paragrafi sono volti ad analizzare gli sforzi tanto del legislatore che della dottrina in ambito comunitario al fine di vietare la strategia di predatory pricing. Il terzo paragrafo, nel tentativo di fornire un quadro di analisi completo, offre, invece, la trattazione di alcuni casi giurisprudenziali comunitari. L’ultimo paragrafo, infine, utilizzando lo stesso schema proposto per l’analisi dei prezzi predatori in ambito comunitario, si occupa del predatory pricing nell’ambito nazionale italiano.

4.1. Genesi del diritto antitrust dell’U.E.:

prezzi

predatori

e

interpretazione

estensiva

Sin dall’origine è stato affermato da parte degli organismi sovranazionali europei2 di voler costituire un mercato interno basato sui principi e le regole della libera concorrenza. Proprio sotto tale spinta la normativa antitrust ha ricevuto particolare attenzione dal legislatore comunitario. Nonostante il ruolo centrale delle norme antimonopolistiche, la condotta predatoria rientra ancora oggi tra gli abusi escludenti senza essere espressamente prevista dalla disciplina comunitaria e dalle discipline della maggior parte dei Paesi membri.

2

Si utilizza l’espressione ‘organismi sovranazionali europei’ in quanto si vuole fare riferimento a tutte le Comunità Europee che si sono istituite, talvolta confondendosi e sovrapponendosi, nel corso degli anni e all’Unione Europea.

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Tale pratica mai espressamente regolata rappresenta, dunque, il frutto di una lunga e complessa elaborazione giurisprudenziale e dottrinale che ha consentito di individuare i presupposti e i criteri economici per un suo, non sempre agevole, riscontro.

In ambito comunitario il predatory pricing compariva per la prima volta nel Trattato che istituiva, il 18 aprile 1951, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (C.E.C.A.). Già in questo Trattato, che rappresenta il germe dal quale si svilupperà la cooperazione tra gli Stati europei fino a giungere all’istituzione del complesso organismo sovranazionale quale è, oggi, l’Unione Europea, si cominciano a delineare le caratteristiche proprie dell’antitrust comunitario: le politiche europee volte a tutelare la concorrenza mirano a salvaguardare, in via immediata, il processo concorrenziale nel mercato interno e, in via mediata, la tutela dei consumatori finali e dei concorrenti altrettanto efficienti.

Sulla base di tali finalità, tanto il legislatore che il giudice comunitario hanno proceduto ad individuare e definire i concetti di posizione dominante e del relativo abuso e sfruttamento del potere di mercato3.

In tal senso, il diritto antitrust europeo, si configura come diritto della concorrenza e non diritto dei concorrenti4 e ciò emerge con forza fin dagli albori della cooperazione tra gli

3 Si ricorda che se la struttura del mercato non offre possibilità alle imprese di danneggiare i consumatori,

non vi sarà alcun interesse da parte del legislatore a mettere in discussione e punire il comportamento delle imprese, dato che sarà lo stesso mercato (concorrenziale) a rappresentare la migliore cura verso gli sforzi delle imprese orientati in tale direzione. Si veda Supra paragrafo 1.5.

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Uno dei principali obiettivi della normativa antitrust europea è quello di difendere i consumatori. L’espressione diritto della concorrenza assume in tal caso una valenza specifica, quale quella di garantire un mercato in cui si raggiunga un beneficio per i consumatori pari o almeno prossimo a quello che si avrebbe in concorrenza perfetta. In questo senso, è stato definito il diritto U.E. come diritto della concorrenza e non dei concorrenti, in quanto volto a garantire gli interessi dei clienti e non dei concorrenti. Ciò rappresenta, inoltre, un’importante motivo per il quale la normativa antitrust si incentra sull’abuso di posizione dominante.

In realtà, ma solo marginalmente, l’Unione Europea persegue anche un ulteriore obiettivo che può essere considerato espressione di tutela dei concorrenti, piuttosto che di tutela della concorrenza. Questo obiettivo si concretizza in atti volti a favorire la tutela delle piccole e medie imprese. Tuttavia, tale ‘recente’ indirizzo (‘recente’ in quanto nei primi anni di vita della C.E.E., al contrario, gli organi comunitari auspicavano la formazione di grandi imprese di dimensioni Europee) deriva dal timore dei rischi connessi ad una eccessiva concentrazione del potere economico in poche grandi imprese, giustificato a sua volta dalla configurazione del diritto antitrust come controllo sul potere di mercato successivo e non preventivo. Si può considerare la presenza di tante piccole imprese come un sintomo di un buon livello di concorrenza

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Stati europei, concretizzandosi nell’articolo 66 del Trattato C.E.C.A., in cui il legislatore europeo si preoccupa di definire, seppur in modo sommario, il concetto di posizione dominante, la posizione, cioè, che sottrae l’impresa «a una concorrenza effettiva in una parte importante del mercato comune», e ci fornisce, in modo estremamente generico, la nozione di abuso, quale utilizzo della posizione stessa «a scopi contrari agli obiettivi del presente Trattato».

È certo, comunque, che l’estrema genericità del dispositivo contenuto nell’articolo 66 lasciasse agli organi comunitari un ampio potere discrezionale nella precisazione degli obiettivi e dei parametri in virtù dei quali si sarebbe dovuta giudicare ogni azione intrapresa da imprese in posizione dominante.

Oltre all’attività posta in essere da una singola impresa, la normativa trovava applicazione anche nell’ipotesi di abusi attuati da concentrazioni in precedenza autorizzate in conformità a valutazioni rivelatesi a posteriori erronee.

All’articolo 60 vi si trovavano, invece, disposizioni per la regolamentazione dell’attività delle imprese operanti nel mercato carbosiderurgico, che si riferivano al meccanismo di formazione dei prezzi disponendo, in particolare, il divieto delle pratiche discriminatorie e la fissazione di listini dei prezzi. Quanto al primo aspetto, il più interessante alla luce della nostra trattazione, le pratiche discriminatorie venivano espressamente vietate dallo stesso articolo 60: «le pratiche di concorrenza sleale, in particolare i ribassi di prezzi puramente temporanei o puramente locali, tendenti, all’interno del mercato comune, all’acquisizione di una posizione di monopolio».

L’articolo, dunque, menzionava espressamente il prezzo predatorio quale pratica anticoncorrenziale. Il vecchio sistema introdotto dal Trattato C.E.C.A., in tema di concorrenza, era piuttosto completo, poiché riservava agli organi comunitari la competenza esclusiva sulla messa in opera dei divieti e delle autorizzazioni e l’irrogazione delle relative sanzioni. L’illustrazione della disciplina in tema di concorrenza incentrata sull’abuso di posizione dominante, introdotta dal Trattato carbosiderurgico

tra gli operatori, e che gli operatori principali non abusano del proprio potere di mercato. Rispetto alla differente natura, una preventiva, l’altra successiva, del controllo del potere di mercato si veda: F. Denozza, Antitrust leggi antimonopolistiche e tutela dei consumatori nella C.E.E. e negli U.S.A., Il Mulino Bologna, 1988, p. 41.

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costituisce l’antecedente logico, oltre che cronologico, a un’analisi delle importanti regole contenute, sempre in materia di concorrenza, nel Trattato di Roma.

Le regole del Trattato stipulato a Roma il 25 marzo 1957, s’inserivano nel più ampio contesto della Comunità Economica Europea (C.E.E.), cui il Trattato stesso aveva dato vita. Contesto, dunque, di maggiori vedute all’interno del quale si gettavano le basi per un’integrazione economica di portata generale e non più limitata a settori particolari. Scopo della Comunità Economica era di «promuovere mediante l’instaurazione di un mercato comune il graduale ravvicinamento delle politiche economiche degli Stati membri, uno sviluppo armonioso delle attività economiche nell’insieme della Comunità, un’espansione continua ed equilibrata, una stabilità accresciuta, un miglioramento sempre più rapido del tenore di vita e più strette relazioni tra gli Stati che a essa partecipano»5.

Nonostante le più elevate ambizioni della Comunità Economica Europea, contrariamente a quanto previsto dal Trattato C.E.C.A., il Trattato C.E.E. all’articolo 86 relativo all’abuso di posizione dominante, non forniva alcuna definizione idonea ad individuare l’impresa dominante6, in favore piuttosto di una più dettagliata esemplificazione delle pratiche che costituivano lo sfruttamento abusivo, senza però presentare alcuna formula comparabile a quella dell’articolo 66 C.E.C.A. in tema di abuso di potere di mercato. Sembrava pertanto ignorare la pratica di predatory pricing. Analogamente, l’articolo 86 non disciplinava la concentrazione tra imprese a differenza dell’articolo 60 del Trattato C.E.C.A..

L’afasia non è certo frutto di una dimenticanza. Il legislatore comunitario non voleva certo porre ostacoli allo sviluppo delle imprese nei Paesi membri, ritenute troppo piccole rispetto alle esigenze di un mercato unico ed ai concorrenti d’oltreoceano7. Per

5

Articolo 2 Trattato di Roma.

6 Il problema circa la mancanza di una definizione chiara di posizione dominante non tardò molto a

manifestarsi, inducendo tanto i giudici quanto la dottrina ad individuare parametri atti a stabilire quando un’impresa si trovasse in posizione di dominio del mercato. Si veda Supra paragrafo 1.5.

7 Si consideri che la stessa Commissione in data 1 dicembre 1965, su proposta del Commissario alla

concorrenza, inviò agli Stati membri una comunicazione rispondente all’esigenza di favorire la concentrazione di imprese nell’ambito della Comunità. Già nel preambolo del documento, conosciuto come ‘Memorandum sulle concentrazioni’ viene manifesta la necessità di favorire la concentrazione delle

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tale motivo, allontanandosi dalla ormai superata concezione strutturalista del diritto antitrust statunitense, il legislatore comunitario ha preferito non contemplare una disciplina volta a controllare le concentrazioni industriali, in favore, piuttosto, di una formulazione più precisa e dettagliata del divieto di abuso di posizione dominante8. La ‘nuova’ legislazione a tutela della libertà della concorrenza pone forti limiti al comportamento dell’imprenditore che detenga un certo potere di mercato, ma non considera fatto illecito la conquista di tale dominio del mercato per se stessa9. La mancata attribuzione all’autorità antitrust comunitaria di poteri volti a smantellare la posizione monopolistica o comunque di dominio del mercato illecitamente conquistata, comprova l’originale intenzione dei redattori del Trattato di affrancare il problema del monopolio dall’approccio statunitense, rinunciando ad un controllo anticipatorio del potere di mercato individualmente costituito.

La portata dell’articolo 86 non ha però soddisfatto gli interpreti, che hanno con vigore ampliato l’ambito d’intervento della disposizione ricomprendendovi anche i comportamenti escludenti e predatori. Importante è stato l’iter che ha condotto all’accoglimento dell’interpretazione estensiva, ormai indiscussa, e alla conseguente elaborazione della figura dell’abuso anticoncorrenziale.

Già ai primi commentatori era parso poco plausibile che i classici comportamenti anticoncorrenziali che avevano segnato la nascita della legislazione antimonopolistica potessero essere tralasciati dall’applicazione della disciplina comunitaria. La Commissione accolse tale indirizzo nel ‘Memorandum sulle concentrazioni’10. Nel documento, l’organo antitrust comunitario rilevò la volontà di considerare abusivo ogni «comportamento contrario alla realizzazione degli obiettivi fissati dal Trattato»,

imprese: «il mercato Comune esige imprese di dimensioni europee, affinché i vantaggi della produzione di massa e delle conoscenze scientifiche e tecniche vadano a vantaggio, senza alcuna restrizione, a 180 milioni di consumatori. Molte imprese europee dovranno, quindi, adattarsi attraverso l’ampliamento delle proprie dimensioni o la fusione con altre imprese, ad un mercato di dimensioni maggiori. I vantaggi competitivi che ne trarranno saranno in grado di metterle in diretta concorrenza con le grandi imprese dei Paesi extraeuropei». Il problema della concentrazione nel Mercato Comune, Rivista delle Società, 1966, pp. 1181 a ss.

8

P. Giudici, I prezzi predatori, Giuffrè, 2000, pp. 156-159.

9

A. Asquini, L’impresa dominante, Rivista del Diritto Commerciale, 1963, p. 3.

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ricomprendendovi le pratiche con effetti negativi nei confronti «dei concorrenti attuali, dei concorrenti potenziali, nonché dei fornitori e degli utilizzatori». Al solito, spettò ai prezzi predatori dispiegare la propria forza evocativa per giustificare la necessità di un intervento della legge nell’indefinita area del comportamento escludente. La Commissione proseguiva, infatti, rilevando come: «lo stesso art. 86 C.E.E. enumera in modo non esauriente alcuni esempi di tali pratiche abusive. A tali esempi si potrebbe aggiungere innanzitutto una concorrenza di prezzi destinata ad eliminare dal mercato un concorrente che non disponga degli stessi mezzi finanziari per sostenere a lungo vendite al di sotto del prezzo di costo».

La Comunità Economica Europea, quindi, da un lato, tenendo anche conto di essere un’istituzione nuova tuttavia scarsamente istituzionalizzata, ha lasciato un certo grado di indeterminatezza circa l’ambito d’intervento della disposizione, onde evitare che la norma si traducesse in un’eccessiva immistione degli organi comunitari nei meccanismi di funzionamento dei mercati; dall’altro, invece, manifestando ed autorizzando espressamente attraverso il ‘Memorandum sulle concentrazioni’ l’interpretazione estensiva che doveva essere data alla norma, tentava di recuperare spazio sul controllo delle pratiche anticoncorrenziali e perciò, come insegnato dall’esperienza statunitense, sulla struttura del mercato. L’organo antitrust poteva così trovare in modo naturale una propria precisa collocazione istituzionale, assumendo senza eccessivo scalpore il ruolo di motore della politica della concorrenza e la conseguente enorme investitura politica che ne derivava.

Un’altra considerazione supporta l’idea che operatori tesi a valorizzare il proprio ruolo abbiano alimentato e favorito un’interpretazione estensiva dell’articolo 86. Tale considerazione parte dall’intuizione secondo cui l’estensione dell’ambito di applicazione del divieto di abuso di posizione dominante alle pratiche anticoncorrenziali conduce ad una naturale proliferazione delle richieste d’intervento delle autorità antitrust.11 Alla

11

Si rifletta alle categorie di soggetti che possano essere interessati a chiedere l’intervento di un organo antitrust. Nel caso in cui una normativa sia volta a punire solo lo sfruttamento monopolistico dei propri contraenti, in assenza di class actions, solo i contraenti sfruttati dotati di risorse economiche per sostenere i costi di un’azione legale e per resistere ad eventuali azioni ritorsive da parte delle imprese del settore produttivo coinvolto, possono avere interesse e desiderio di sporgere denuncia alle autorità antitrust o

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luce di ciò, non sorprende che istituzioni fortemente dipendenti dalle denunce private abbiano propeso senza dubbi ed incertezze, nonostante l’opacità del testo normativo, per un’interpretazione estensiva, pronta ad abbracciare anche i comportamenti predatori. Allo stesso modo non dovrebbe sorprendere che la dottrina giuridica che si occupava di diritto comunitario promuovesse tale processo, che avrebbe comportato, come logica conseguenza, un maggior risalto della propria attività interpretativa.

Dal punto di vista della dottrina, il silenzio del Trattato in tema di concentrazioni non deve costituire un elemento decisivo per l’interprete, dal momento che la costruzione dogmatica del prezzo predatorio e, più in generale, dei comportamenti escludenti, fonda le proprie basi sull’originario disposto dall’articolo 3 lettera g) del Trattato C.E.E., di cui l’articolo 86, come tutte le altre disposizioni in tema di concorrenza, viene considerato espressione. L’articolo 3 lettera g) contempla la «creazione di un regime in cui la concorrenza non sia alterata», da ciò ne viene derivato, con facile argomento, che la norma impone a maggior ragione che la concorrenza non venga eliminata, sicché ogni attentato alla concorrenza costituisce abuso12.

Illustrate brevemente le ragioni socio-politiche che spiegano come l’esame dei comportamenti anticoncorrenziali sia andato a costituire la materia essenziale di applicazione del divieto di sfruttamento abusivo di posizione dominante che ha, paradossalmente, finito con l’assumere un’estensione applicativa molto più ampia dello stesso divieto di monopolizzazione posto dalla legislazione antimonopolistica statunitense, e dopo aver, quantomeno, accennato al principale argomento giuridico che ha supportato tale operazione, è giunto il momento di verificare se e come gli interpreti si siano posti il problema di demarcare tutela della concorrenza e tutela dei concorrenti, ossia concorrenza predatoria e concorrenza ‘on the merits’. Tale verifica

comunque intraprendere azioni legali (esponendosi tra l’altro al fenomeno di free-riding). Al contrario, nessun concorrente ha interesse a denunciare le pratiche di sfruttamento della clientela dell’impresa dominante, poiché può imitarle nel futuro. Nel caso in cui, invece, vi sia spazio a denunciare pretesi comportamenti escludenti, aumenta considerevolmente il numero di denunce da parte degli stessi soggetti disciplinati, che chiedono difesa vuoi da atti effettivamente predatori vuoi dal meccanismo selettivo. Si veda P. Giudici, I prezzi predatori, Giuffrè, 2000, pp. 160 ss.

12

Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 21 febbraio 1973, C-6/72, Continental Can/Commissione, in Raccolta, 1973, p. 215.

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sarà almeno inizialmente condotta mantenendosi su un piano d’osservazione generale, propedeutico all’osservazione di carattere analitico del prossimo paragrafo.

Durante i primi anni della C.E.E. la Commissione e la Corte di Giustizia non si sono, praticamente, neppure poste il problema d’identificare il punto di discrimine tra pratica normale, quindi lecita, e pratica abusiva. Lo dimostra il caso Continental Can13, in cui la concentrazione con l’ultimo dei concorrenti è giudicata illecita a prescindere da ogni considerazione circa la possibile futura persistenza di una concorrenza potenziale, o da valutazioni di efficienza produttiva. Il comportamento è qualificato negativamente in ragione agli effetti strutturali che determina.

La disciplina antimonopolistica Comunitaria, in tale primo periodo, è incentrata sulla tutela della concorrenza, intesa come presenza sul mercato di più imprese14, nonostante si favorisse un certo grado di concentrazione industriale. Questo atteggiamento non è mai stato esplicitamente abbandonato dalla Corte di Giustizia, come dimostrano il caso Tetra Pak II15 e le decisioni in materia di prezzi predatori che verranno analizzate nei successivi paragrafi. Così il diritto della concorrenza europeo, sulle tracce del diritto antitrust statunitense, almeno nel primo dopoguerra, considera abusiva la monopolizzazione del mercato, indipendentemente dai modi con cui essa venga conseguita. Solo le pratiche che non possono essere identificate immediatamente nelle fattispecie previste dall’articolo 86 spingono la Commissione e la Corte di Giustizia a ricercare il distinguo tra le forme di concorrenza lecita e quelle illecite.

Alla fine degli anni `70 la Corte di Giustizia concettualizza, per la prima volta, in seno al caso Hoffmann-La Roche16, l’esigenza di una linea di distinzione tra la concorrenza che possa considerarsi lecita e le strategie illecite. Essa precisa di voler considerare abusivo il

13 Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 21 febbraio 1973, C-6/72, Continental Can/Commissione, in

Raccolta, 1973, pp. 215.

14

Lo straordinario capovolgimento di prospettive porta addirittura alcuni interpreti ad affermare che l’abuso di posizione dominante è norma posta a tutela dei concorrenti e non degli acquirenti. Tribunale di Alba, 12 gennaio 1995, Beuf/ Cassa Rurale ed Artigiana di Gallo di Grinzane Cavour soc. Coop. r. l., in Giur. It., 1996, 1, II, c. 212, a c. 225.

15 Corte di Giustizia, 14 novembre 1996, C-333/94, Tetra Pak International SA/Commissione, in Raccolta,

1996, p. I-5951.

16

Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 13 febbraio 1979, C-85/76, Hoffmann-La Roche & Co./Commissione, in Raccolta, 1979, p. 461.

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comportamento dell’impresa dominante «atto ad influire sulla struttura di un mercato in cui, proprio per il fatto che vi opera suddetta impresa, il grado di concorrenza è già sminuito e che ha come effetto di ostacolare, ricorrendo a mezzi diversi da quelli su cui si impernia una concorrenza normale tra prodotti o servizi fondata sulle prestazioni degli operatori economici, la conservazione del grado di concorrenza ancora esistente sul mercato o lo sviluppo di detta concorrenza». Finalmente, la Corte riconosce esplicitamente che non necessariamente tutti gli atti che portano all’estensione o rafforzamento della posizione dominante sono vietati: vanno distinti i mezzi di concorrenza abusivi dai mezzi di concorrenza normale, fondati sulle prestazioni.

Il principale metodo utilizzato dagli organi comunitari per distinguere un comportamento concorrenziale lecito da uno illecito è l’applicazione del criterio dell’obiettiva giustificabilità, soprattutto in relazione alla valutazione di comportamenti estremamente ambigui, quali ad esempio il rifiuto di contrarre17 o i ribassi di prezzo sospettati di avere natura predatoria. Mentre per la maggior parte delle pratiche comunemente considerate abusive il criterio dell’obiettiva giustificabilità permette agli organi comunitari di non utilizzare in modo pregnante gli argomenti propri dell’analisi economica, in quanto è più semplice identificare il supposto intento escludente dell’impresa dominante, in tema di prezzi predatori l’accertamento dell’intento scarsamente si presta a poter essere utilizzato come elemento fondamentale utile ad identificare la fattispecie. Ciò deriva dal fatto che, come la teoria economica ha più volte sottolineato, i prezzi predatori sono, sostanzialmente, l’unica pratica anticoncorrenziale in cui è lo stesso criterio d’identificazione a dover essere interamente assoggettato a metodi di analisi economica. Il rifiuto di contrarre, per esempio, è facilmente riconoscibile in quanto il dibattito economico e giuseconomico che lo riguarda s’incentra sulla valutazione dei loro effetti anticoncorrenziali e, dunque, sulla meritevolezza o

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Il rifiuto di contrarre è stato generalmente associato alle strategie operative di un'impresa che possiede in monopolio un fattore produttivo essenziale per la fornitura di un servizio o di un prodotto ai consumatori. Qualora un'altra impresa intenda entrare in quest'ultimo mercato, tale obiettivo può essere conseguito solo se le viene consentita l'utilizzazione del fattore produttivo essenziale. La prima impresa, rifiutandosi di contrarre con la seconda, può impedirle l'accesso al mercato, ponendo in essere un comportamento di abuso di posizione dominante.

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meno di una sanzione da parte del diritto antitrust. Una volta adottato un percorso interpretativo l’identificazione delle pratiche lecite da quelle illecite risulta, almeno in termini astratti, relativamente agevole; se non altro un rifiuto a contrarre s’individua con una certa facilità. In tema di prezzi predatori, invece, il cimento con l’analisi economica dovrebbe essere continuo: anche una volta fissati i criteri generali, dalla semplice richiesta di un prezzo non si può dire nulla circa la qualificazione di quel prezzo, senza un’accurata analisi economica. Una semplice analisi ‘formalista’ per categorie non può identificare un prezzo predatorio, occorre un’analisi economica specifica.

L’analisi dei casi mostra che dinanzi ai comportamenti strategici gli organi comunitari non si siano davvero impegnati in difficili, se mai possibili, calcoli costi-benefici, né si sono cimentati con il dibattito giuseconomico sulle varie fattispecie di volta in volta prese in considerazione18. Anche con riguardo ai casi di prezzi predatori, tanto la Commissione quanto gli organi giudiziari non sono stati in grado di basarsi esclusivamente su valutazioni di carattere economico, minando in tal modo gli stessi criteri d’identificazione giuseconomici che intendevano utilizzare.

Nonostante le norme antitrust divennero parte sostanziale e portante del Trattato istitutivo della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio del ‘51, con cui veniva concretizzato il piano Shuman volto alla creazione di un primo progetto economico europeo, il successivo Trattato della Comunità Economica Europea con il quale si voleva porre in essere il più ampio progetto economico di un mercato unico costituì un piccolo passo indietro. Il nuovo Trattato C.E.E. si limitava, a differenza del Trattato C.E.C.A. a riportare un elenco semplificato delle pratiche considerate abuso di posizione dominante, senza fornire, però, una definizione di cosa si intenda per dominio del mercato e senza contemplare una disciplina volta a controllare le concentrazioni industriali. Anche il riferimento al prezzo predatorio come pratica abusiva scomparve del

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In quest’ottica, se il diritto antitrust è terreno privilegiato dell’incontro tra economia e diritto, occorre dire che, nell’ambito europeo, esso non si è affatto palesato quale luogo di applicazione dell’analisi economica del diritto. Contrariamente alle aspettative, sia la Commissione che la Corte di Giustizia hanno prodotto una giurisprudenza pressoché priva di analisi economica. A. S. Pathak, Articles 85 e 86 and anticompetitive exclusion in EEC Competition law, European Competition Law Review, 1989, p. 74.

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tutto. Tuttavia, la ‘nuova’ normativa antitrust così formulata alla luce dell’esigenza di aumentare il livello di competitività delle imprese europee, fu oggetto di lavoro degli interpreti, i quali hanno ampliato con vigore l’ambito d’intervento della disposizione ricomprendendovi anche i comportamenti escludenti e predatori.

Allo stesso modo, dopo un primo periodo in cui gli organi della C.E.E. non operavano alcuna distinzione tra concorrenza lecita e concorrenza illecita, ma si limitavano a punire qualsiasi comportamento che fosse di semplice identificazione come abuso di posizione dominante in quanto facilmente incasellabile in una delle fattispecie menzionate nell’articolo 86 C.E.E., a partire dagli anni ’80 si è tentato, così come accadeva dall’altra parte dell’oceano, di elaborare criteri volti ad identificare le strategie escludenti da quei comportamenti di concorrenza ‘on the merits’. Tuttavia, il diritto antitrust delle Comunità Europee prima e dell’Unione dopo, ha tentato, almeno nella giurisprudenza, di sottrarsi all’applicazione dell’analisi economica del diritto. Nonostante tale resistenza da parte dei giudici europei, ciò è risultato difficile almeno riguardo al predatory pricing. In conclusione, sotto l’impulso tanto degli organi europei che della dottrina giuridica e di tutti gli operatori coinvolti, da un lato, si può affermare che l’interpretazione estensiva dell’ex articolo 86 C.E.E, oggi 102 del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea, è ormai indiscussa; dall’altro, nonostante la reticenza dei giudici europei ad avvalersi dell’analisi economica del diritto, si sono sviluppati (seppur non esenti da critiche) criteri atti a riconoscere se un comportamento posto in essere da un’impresa dominante sia di natura abusiva o semplicemente fondato sulle migliori prestazioni dell’impresa.

4.2. L’articolo 102 T.F.U.E. ed il ‘Guidance

Paper’ della Commissione U.E.

L’elisione della concezione secondo cui qualsiasi comportamento debba considerarsi abusivo esclusivamente sulla base degli effetti strutturali che determina, unitamente all’interpretazione estensiva volta a far rientrare nell’ambito d’intervento

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della normativa le strategie escludenti e predatorie, ha ricondotto il predatory pricing all’interno della categoria delle pratiche di abuso di posizione dominante. Ciò, tuttavia ha causato non pochi problemi in capo tanto alla dottrina quanto alla giurisprudenza nel tentativo di giustificare l’illiceità del prezzo predatorio in seno ad una delle quattro pratiche di sfruttamento abusivo previste dall’articolo 102 del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea ed, in secondo luogo, in relazione al criterio ed ai parametri che debbono essere utilizzati nell’identificazione di un prezzo come predatorio, nonostante in tale ultima circostanza le scienze giuridiche possano ricevere aiuto dalla scienze economiche.

“È incompatibile con il mercato interno e vietato, nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato interno o su una parte sostanziale di questo.

Tali pratiche abusive possono consistere in particolare:

a) nell'imporre direttamente od indirettamente prezzi d'acquisto, di vendita od altre condizioni di transazione non eque;

b) nel limitare la produzione, gli sbocchi o lo sviluppo tecnico, a danno dei consumatori;

c) nell'applicare nei rapporti commerciali con gli altri contraenti condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, determinando così per questi ultimi uno svantaggio per la concorrenza;

d) nel subordinare la conclusione di contratti all'accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l'oggetto dei contratti stessi.”

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L'articolo 102 del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea (T.F.U.E.) riguarda non solo le pratiche che provocano un danno immediato ai consumatori, ma anche quelle che li danneggiano pregiudicando la sussistenza di una concorrenza effettiva. Tuttavia, la constatazione dell'esistenza di una siffatta posizione dominante non comporta di per sé alcuna censura nei confronti dell'impresa che detenga il potere di mercato.

L'articolo 102 T.F.U.E., in accordo con l’intero indirizzo del diritto antitrust europeo19, per un verso non ha in nessun modo lo scopo di impedire ad un'impresa di conquistare grazie ai suoi meriti una posizione dominante su un dato mercato e, dall’altro, non è diretta a garantire che rimangano sul mercato concorrenti meno efficienti dell'impresa che detiene una posizione dominante20. Per definizione, la leale concorrenza dovrebbe portare per sé alla sparizione dal mercato o all'emarginazione dei concorrenti meno efficienti e quindi meno interessanti per i consumatori, segnatamente dal punto di vista dei prezzi, della scelta, della qualità o dell'innovazione.

È all'impresa che detiene una posizione dominante che incombe la responsabilità particolare di non pregiudicare, con il suo comportamento, una concorrenza effettiva e leale all'interno del mercato interno. Ove l'esistenza di una posizione dominante tragga origine da un precedente monopolio legale, occorre tener conto di tale circostanza21. A questo proposito si deve altresì ricordare che l'articolo 102 T.F.U.E. vieta, in particolare, i

19 In tal caso si fa speciale riferimento all’identificazione del diritto antitrust europeo come diritto della

concorrenza e non dei concorrenti, volto a tutelare, nell’obiettivo dell’efficienza di mercato, i consumatori.

20 Così come ha precisato la stessa Corte di Giustizia ai punti 24 e 25 della sentenza del 17 febbraio 2011,

Post Danmark/Konkurrencerådet, C‑52/09, in Raccolta, 2012, p. I-527.

21

La stessa Corte di Giustizia in più sentenze afferma che, nella valutazione dei comportamenti strategici considerati predatori, si debba tener necessariamente conto dei forti vantaggi concorrenziali di cui l’ex impresa monopolista dispone rispetto alla neonata concorrenza. Ciò viene esplicitato dalla Corte al punto 23 della sentenza del 17 febbraio 2011, Post Danmark/Konkurrencerådet, C‑52/09, in Raccolta, 2012, p. I-527. Per quanto riguarda, invece, l’esistenza di diritti esclusivi, secondo una giurisprudenza costante, un’impresa che fruisce di un monopolio legale su una parte sostanziale del ‘Mercato Comune’ può essere considerata un’impresa che occupa una posizione dominante ai sensi dell’articolo 102 T.F.U.E.. Occorre precisare, tuttavia, che, sebbene il semplice fatto di creare una posizione dominante mediante la concessione di diritti esclusivi ai sensi dell’articolo 106 T.F.U.E. non sia di per sé incompatibile con l’articolo 102 T.F.U.E., uno Stato membro contravviene ai divieti imposti da queste due disposizioni quando l’impresa di cui trattasi è indotta, con il mero esercizio dei diritti esclusivi che le sono attribuiti a sfruttare abusivamente la sua posizione dominante. Si vedano le sentenze: Corte di Giustizia, 23 aprile 1991, C-41/90, K. Höfner e F. Elser/Macrotron GmbH, in Raccolta 1991, p. I-1979; Corte di Giustizia, 18 giugno 1991, C-260/89, E. Radiophonia Tiléorassi AE/D. Etairia Pliroforissis e S. Kouvela, in Raccolta 1991, p. I-2925

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comportamenti che abbiano, a danno dei consumatori, l'effetto di impedire, mediante il ricorso a mezzi diversi da quelli che reggono una normale competizione in base alle prestazioni degli operatori economici, il mantenimento del livello di concorrenza esistente sul mercato o lo sviluppo della medesima.

Dopo tali valutazioni di carattere generali sull’articolo 102 T.F.U.E., non appare tuttavia chiaro come il predatory pricing possa essere ricondotto ad una delle fattispecie esemplificative vietate dallo stesso articolo. Eppure sfruttandone l’abbrivio, gli organi comunitari e la dottrina trovano appigli testuali favorevoli all’interpretazione estensiva ora dell’una, ora dell’altra delle quattro fattispecie.

La Corte di Giustizia nel caso Continental Can22, cita sia la fattispecie prevista alla lettera c) sia quella prevista alla lettera d) a giustificazione dell’estensione della norma ai casi di monopolizzazione del mercato.

Il primo richiamo è certamente debole: l’enunciato attribuisce rilievo alla discriminazione che determina a carico dei contraenti discriminati, uno svantaggio per la concorrenza, mentre la discriminazione predatoria dispiega i propri effetti negativi sui concorrenti dell’impresa discriminante. Tuttavia, la circostanza che la discriminazione predatoria possa risolversi anche in un astratto svantaggio concorrenziale dei soggetti discriminati consente agli organi comunitari di sorvolare il problema, incasellando, senza troppe questioni, sospette pratiche di predazione effettuate tramite discriminazione di prezzo nell’ambito della fattispecie astratta delle lettera c).23 Tuttavia, la sola lettura di tale passaggio della disposizione comunitaria24 non è in grado di offrire alcun decisivo

22

Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 21 febbraio 1973, C-6/72, Continental Can/Commissione, in Raccolta, 1973, pp. 215.

23

P. Giudici, I prezzi predatori, Giuffrè, 2000, pp. 164-167.

24

L’unico riferimento alla lettera c) e d) dell’art. 102 T.F.U.E. viene fatto al punto 26 della sentenza nel quale si può leggere: «È alla luce delle suddette considerazioni che va interpretata la condizione posta dall' art. 86 C.E.E., secondo cui, per essere vietato, lo sfruttamento di posizione dominante dev’essere stato attuato in modo abusivo. Questo articolo elenca un certo numero di pratiche abusive ch’esso vieta. Si tratta di una enumerazione esemplificativa, nella quale non sono compresi tutti i modi di sfruttamento abusivo di posizione dominante vietati dal trattato. D'altra parte, come risulta dalle lettere c) e d), questo articolo non riguarda soltanto le pratiche che possano causare direttamente un danno ai consumatori, bensì anche quelle che recano loro pregiudizio, modificando un regime di concorrenza effettiva, quale e quello di cui all' art. 3, lettera f), del Trattato C.E.E.. Può quindi costituire un abuso il fatto che un’impresa in posizione dominante rafforzi tale posizione al punto che il grado di dominio così raggiunto rappresenti un sostanziale ostacolo per la concorrenza, nel senso di lasciar sussistere solo imprese dipendenti, per il

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argomento atto a giustificare la tesi estensiva secondo cui le pratiche predatorie possano essere fatte ricadere all’interno del divieto di abuso di posizione dominante sancito alla lettera c).

In altre occasioni, la Corte di Giustizia ha chiamato in causa la fattispecie prevista alla lettera b) dell’articolo 102 T.F.U.E., vale a dire la limitazione della produzione, degli sbocchi o dello sviluppo tecnico a danno dei consumatori25. Tale fattispecie è la più classica ipotesi di sfruttamento del potere monopolistico per estrarre ricchezza dalla clientela, costituendo il collaterale della fissazione dei prezzi monopolistici26. L’argomentazione fornita dalla Corte è, però, che la fattispecie di cui alla lettera b) non faccia esclusivo riferimento alla limitazione dell’offerta dell’impresa dominante, ma anche alla limitazione dell’offerta altrui indotta dal comportamento predatorio posto in essere27.

Proprio la strategia di predatory pricing, mostra in questo caso, quanto la tesi sia forzata. La caduta dei prezzi presuppone, nel breve periodo (ovvero nella fase predatoria), un più o meno marcato aumento della produzione. Per poter affermare, dunque, che i prezzi predatori sono strumenti di limitazione dell’offerta, si dovrebbe essere in grado di dimostrare che l’enunciato ha prevalente riguardo alla composizione dell’offerta, cioè al fatto che la stessa provenga da più imprese. Tale argomentazione tuttavia, può essere facilmente scartata, in quanto supporrebbe che la funzione primaria del diritto antitrust dell’Unione sia la garanzia di una pluralità di scelte a favore dei consumatori28.

loro comportamento, dall' impresa dominante». Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 21 febbraio 1973, C-6/72, Continental Can/Commissione, in Raccolta, 1973, pp. 215.

25 Corte di Giustizia, 16 dicembre 1975, cause riunite 40-48, 50, 54-56, 111, 113 e 114/73, Suiker Unie e

altri/Commissione, in Raccolta, 1975, p. 2030-2031.

26

Aumento del prezzo e la riduzione dell’offerta possono considerarsi due leve dello stesso meccanismo. P. Giudici, I prezzi predatori, Giuffrè, 2000, p. 167.

27

Parte della dottrina giustifica tale posizione della Corte di Giustizia sostenendo che interessi dei concorrenti ed interessi dei consumatori sono due facce della stessa medaglia, poiché unico è il bene tutelato dalla norma antitrust, vale a dire l’effettività del gioco concorrenziale, ovverosia la libertà di concorrenza. A. Palazzo, A. Sassi, R. Cippitani, Diritto privato nel mercato, Iseg Gioacchino Scaduto, 2007, p. 415.

28 Si ricorda che obiettivo dell’antitrust è sì la tutela dei consumatori, ma sempre e comunque nel

perseguimento di un mercato efficiente. Se lo scopo principale del diritto antitrust fosse la tutela di una pluralità di scelte circa i beni e servizi offerti ai consumatori, ciò porterebbe naturalmente alla distruzione dello stesso gioco concorrenziale tutelando imprese che non sono efficienti.

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In alternativa si potrebbe affermare che i prezzi predatori sono destinati a diminuire l’offerta nel lungo periodo e che, appunto, è al lungo periodo che guarda l’articolo 102 T.F.U.E.. Per coerenza, però, si dovrebbe, altrettanto, affermare che i ribassi di prezzo che conducono all’esclusione del concorrente non sono di rilievo in tutti i casi in cui il predatore non sia in grado di imporre, in una fase successiva, prezzi monopolistici e quindi di ridurre la produzione. Tale posizione richiederebbe agli organi europei di applicare il recoupment test, i quali però in più occasioni hanno esplicitamente rifiutato di seguire questo criterio29.

Altri interpreti, infine hanno tentato di valorizzare la fattispecie dei prezzi e delle altre condizioni contrattuali non eque, giudicandovi direttamente ricompresa la pratica del ‘predatory price cutting’ durante la fase predatoria. La tesi, però, sembra di difficile dimostrazione. Risulta particolarmente complesso riuscire a dimostrare che un prezzo non è equo in quanto troppo basso o che siffatto prezzo possa essere frutto di un’imposizione. L’enunciato, quindi, sembra non contenere nessun elemento descrittivo interno atto a giustificare un’estensione semantica tale da comprendere la figura dei prezzi predatori, che il legislatore comunitario ha mostrato saper tratteggiare con molta chiarezza nell’articolo 60 C.E.C.A.30.

29 Il rifiuto da parte degli organi europei circa l’utilizzo del recoupment test viene manifestato dapprima nel

caso Tetra Pak II (Commissione delle Comunità Europee, 24 luglio 1991, Tetra Pak II, in G.U n. L 072, 1992 pp. 1-68) e successivamente nella Comunicazione della commissione ‘Orientamenti sulle priorità della Commissione nell'applicazione dell'articolo 82 del trattato C.E. al comportamento abusivo delle imprese dominanti rivolto all'esclusione dei concorrenti’ del 2009 nella quale al punto 70 si può leggere: «L’individuazione del danno arrecato ai consumatori non è un calcolo meccanico di profitti e perdite, e non è necessaria la prova dei profitti complessivamente realizzati. Il danno probabile ai consumatori può essere dimostrato valutando il probabile effetto di preclusione causato dal comportamento, prendendo nello stesso tempo in considerazione altri fattori, come le barriere all’ingresso sul mercato. In questo contesto, la Commissione considererà anche le possibilità di reingresso sul mercato». La Corte di Giustizia, inoltre, nel primo caso comunitario successivo alla pubblicazione della Comunicazione ha confermato l’irrilevanza del recoupment test, rilevando, tuttavia, come lo stesso possa essere impiegato come fattore di valutazione aggiuntivo ai fini dell’abuso, ulteriormente legittimante l’intervento antitrust. Corte di Giustizia, 2 aprile 2009, C-202/07, France Télécom SA/Commissione, in Raccolta, 2009, p. I-2369. Per un analisi più dettagliata sull’irrilevanza del recoupment test in ambito europeo, in cui viene evidenziata tra l’altro la differente postura del diritto statunitense, si veda: M. Moura e Silva, Predatory pricing under article 82 and the recoupment test: Do not go gentle into that good night, European competition law review, Vol. 30, Num. 2, 2009, p.61, tuttavia il tema verrà trattato diffusamente nei successivi paragrafi.

30

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Tuttavia, in conclusione solo l’ultima delle quattro fattispecie analizzate lascia un qualche spazio per argomentare la possibilità di un’applicazione delle pratiche predatorie pure, quale l’utilizzo del predatory pricing, pur non avendo da sola forza dirimente. Le altre tre fattispecie, nonostante il tentativo, tanto della dottrina che del giudice europeo, non offrono margini sufficienti, o meglio la fattispecie di cui alla lettera b) avrebbe da sola forza dirimente se solo le autorità antitrust comunitarie ammettessero l’uso del recoupment test nei loro criteri d’identificazione di un prezzo come predatorio.

La pratica dei prezzi predatori, finalizzata all’esclusione dei concorrenti più deboli, viene infatti ricompresa nella nozione di cui all’articolo 102 T.F.U.E. lettera a), secondo cui è vietato imporre direttamente o indirettamente prezzi non equi, sul presupposto che prezzo troppo basso ed eccessiva iniquità non sono termini incompatibili, perché anche chi, per inseguire l’impresa dominante che pratica prezzi predatori, è costretto ad abbassare i propri prezzi al di sotto dei costi, si vede imporre un prezzo eccessivamente iniquo, nonostante ciò risulti di difficile dimostrazione. La Corte di Giustizia pone, in tal senso, l’accento sul fatto che con la produzione in perdita l’impresa persegue esclusivamente lo scopo di eliminare i concorrenti31. Tuttavia, condannare una strategia di predatory pricing alla luce del concetto di equità genera una forte incoerenza con quello che dovrebbe essere l’obiettivo della concorrenza, ovvero l’efficienza dei mercati. Per determinare se l'impresa che detiene una posizione dominante abbia sfruttato in modo abusivo tale posizione per effetto dell'applicazione delle proprie pratiche tariffarie, occorre, tuttavia, valutare tutte le circostanze ed esaminare se tali pratiche siano volte a sopprimere o a limitare la possibilità per l'acquirente di scegliere le proprie fonti di rifornimento, a chiudere l'accesso al mercato dei concorrenti, ad applicare a controparti commerciali condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, creando loro in tal modo uno svantaggio concorrenziale, o a rafforzare la posizione dominante mediante una concorrenza falsata.

31

Corte di Giustizia, sentenza 3 luglio 1991, C-62/86, Akzo Chemie Br/Commissione, in Raccolta, 1991, p. I-3359.

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4.2.1. (Segue). Il ‘Guidance Paper` del 2009

Il fatto che la strategia di predatory pricing non riesca a collocarsi immediatamente, nel diritto europeo, in una delle fattispecie di abuso di posizione dominante, rende particolarmente complicato per il giudice comunitario stabilire quando un prezzo eccezionalmente basso possa considerarsi prezzo predatorio. Ad aggravare ulteriormente la definizione di un criterio d’identificazione dei prezzi predatori all’interno del diritto antimonopolistico dell’Unione, vi è, da un lato, la scarsa propensione da parte delle autorità antitrust ad attingere in modo significativo e diretto al contributo offerto dalle scienze economiche, nonostante, come già si è accennato ciò è necessario nel caso dei prezzi predatori32, e dall’altro, il fatto che la Corte di Giustizia abbia posto, soprattutto negli ultimi anni, particolare attenzione alla distinzione tra i mezzi di concorrenza abusivi e mezzi imperniati sui meriti. Sarebbe predatorio, pertanto, il comportamento imperniato sui prezzi che si discosti da una concorrenza meritoria che faccia leva sugli stessi.

Accusata, quindi, di aver attuato un approccio formalistico, a discapito di più accurate valutazioni economiche e di mercato che avrebbero, forse, consentito, in soccorso ai giudici, una disciplina più adeguata degli abusi di posizione dominante, la Commissione ha pubblicato nel 2009 una Comunicazione in cui si delinea una possibile metodologia per la valutazione di alcune delle più diffuse pratiche di esclusione abusive, tra cui, le strategie di predatory pricing33. Il documento, che sancisce ufficialmente l’utilizzo di un approccio economico, si configura come una sorta di guidance paper, volto a fornire

32

Tuttavia, pur avvalendosi delle scienze economiche, non risulta altrettanto semplice scegliere un criterio direttamente applicabile, generale e astratto in grado di identificare i prezzi predatori. Non a caso, già nel 1981 Easterbrook iniziava la trattazione del proprio articolo osservando ironicamente come ci sia un mercato altamente concorrenziale per le teorie sul predatory pricing. F. H. Easterbrook, Predatory Strategies and Counterstrategies, University of Chicago Law Review, Vol. 48, 1981, pp. 263 ss.

33 In un primo momento, nel 2005, la Commissione ha pubblicato un ‘discussion paper’ al fine di

promuovere un dibattito su come proteggere al meglio i mercati europei dai comportamenti escludenti che rischiano di indebolire la concorrenza. Successivamente, nel dicembre del 2008, la Commissione ha emanato un documento formale, il quale, però, verrà pubblicato nel 2009: ‘Comunicazione della Commissione. Orientamenti sulle priorità della Commissione nell’applicazione dell’art. 82 del trattato C.E. e al comportamento abusivo delle imprese dominanti volto all’esclusione dei concorrenti’. Bruxelles, 9-2-2009, C (2009) 864.

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maggiore chiarezza e prevedibilità34 per quanto riguarda il quadro generale di analisi utilizzato dagli organi europei per stabilire come debbano essere esaminati casi relativi a varie forme di comportamenti di esclusione.

Riguardo ai comportamenti escludenti imperniati sui prezzi, la Commissione sancisce la generale proficuità di una concorrenza vivace incentrata sugli stessi. Onde impedire un’eventuale preclusione anticoncorrenziale, l’intervento comunitario sarà effettuato esclusivamente qualora il comportamento in questione abbia già ostacolato, o sia atto a ostacolare, la concorrenza da parte dei concorrenti che sono considerati efficienti quanto l’impresa dominante, prevedendo, tuttavia, che in «determinate circostanze» potrebbe essere necessario proibire condotte di ‘low pricing’ al fine di proteggere i concorrenti meno efficienti35.

Più in particolare, per i casi di predazione, la Commissione definisce che l’organo comunitario interverrà generalmente quando l’impresa dominante: «sostiene deliberatamente perdite o rinuncia a profitti a breve termine, in modo da precludere o avere la probabilità di precludere il mercato a uno o più dei suoi concorrenti reali o potenziali allo scopo di rafforzare o di mantenere il suo potere di mercato, causando quindi un danno ai consumatori».

All’interno di tale nuovo contesto, la Commissione propone che ai fini dell’individuazione di un prezzo predatorio occorra la sussistenza di due elementi: il sacrificio e la preclusione anticoncorrenziale.

Per sacrificio si intende il comportamento secondo il quale l’impresa dominante «applicando un prezzo più basso per tutta la sua produzione o per una sua parte particolare durante il periodo rilevante, o ampliando la sua produzione durante il

34

Fornire un certo grado di prevedibilità, attraverso le posizioni sostenute dalla Commissione sui criteri che verranno utilizzati nelle aule dei tribunali europei, non è un fattore d’importanza secondaria. Un’applicazione prevedibile di determinati parametri da parte degli organi europei, nell’ottica di garantire una maggiore certezza del diritto, favorisce le imprese nell’orientare il proprio comportamento permettendo di valutare la liceità o meno dello stesso.

35 Il contrappeso concorrenziale rappresentato dai concorrenti meno efficienti dovrebbe essere valutato in

modo dinamico, tenendo conto del fatto che, in assenza della pratica escludente, i rivali potrebbero beneficiare di vantaggi relativi alla domanda, quali effetti di rete e d’apprendimento, che tenderebbero a migliorare l’efficienza.

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periodo rilevante, sostiene, o ha sostenuto, perdite che avrebbero potuto essere evitate, sostenendo in tal modo un sacrifico economico».

A tal proposito, viene formulato un sacrifice test incentrato sul costo evitabile medio come criterio valutativo per determinare se l’impresa dominante sostiene, o ha sostenuto, perdite evitabili. I prezzi inferiori a tale parametro di costo costituiscono generalmente un chiaro indice di sacrificio36.

Il sacrifice test non comprende, tuttavia, soltanto il confronto dei prezzi con il costo evitabile medio. Per dimostrare l’esistenza di una strategia predatoria, l’organo comunitario può anche valutare se il comportamento d’impresa ha determinato a breve termine ricavi netti più bassi rispetto a quanto ci si sarebbe potuti attendere da un comportamento ragionevolmente alternativo, ossia se l’impresa dominante ha sostenuto una perdita che avrebbe potuto essere evitata.

Da quanto detto, dunque, si evince che la predazione non si riscontri esclusivamente in presenza di vendite al di sotto dei costi di produzione, ma che la stessa possa anche manifestarsi allorquando l’impresa stia realizzando profitti inferiori rispetto a una condotta di prezzo alternativa. La Commissione, a tal fine, confronterà il comportamento effettivo esclusivamente con alternative economicamente razionali e praticabili che può prevedere, tenendo conto delle condizioni di mercato e delle realtà commerciali che affronta l’impresa dominante, siano realisticamente più proficue37. Nonostante il tentativo di formulazione di un test chiaro e agevole, una tale enunciazione rimane piuttosto ampia, lasciando grande incertezza applicativa. La Comunicazione non menziona, infatti, in conformità a quali valutazioni considererà ‘deliberato’ il sacrificio di profitti; sembra piuttosto che la deliberatività della scelta sia presunta. Ciò è supportato dall’affermazione secondo la quale l’impresa non verrà penalizzata per aver sostenuto perdite ex post quando la decisione ex ante di adottare il

36

Si veda supra paragrafo 2.4.1.

37

Secondo alcuni autori, un più ragionevole approccio avrebbe forse considerato la condotta tenuta in passato dalla stessa impresa. Se questa, in precedenza, otteneva dall’applicazione di determinati prezzi grossi guadagni, allora un cambio di politica commerciale che comporti una forte diminuzione dei ricavi potrebbe essere sintomo di sacrificio. In tal senso E. Rousseva, Rethinking exclusionary abuses in E.U. Competition Law, Hart Publishing, 2010.

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comportamento è stata presa in buona fede, ossia se possono fornire prove inoppugnabili del fatto che potevano ragionevolmente prevedere che l’attività sarebbe stata redditizia.

Il criterio del ‘deliberato’ sacrificio ha essenzialmente la funzione di filtrare i casi al fine di concentrarsi su quelli che possano causare reali effetti anticompetitivi.

Al fine di stabilire il carattere predatorio occorre anche un ulteriore elemento, ovvero la preclusione anticoncorrenziale. Dall’analisi della Comunicazione si desume che i prezzi inferiori al costo evitabile medio comportino una presunzione di preclusione anticoncorrenziale oltre che di deliberato sacrificio dei profitti e, pertanto, siano considerati abusivi, salvo che l’impresa non presenti obiettive giustificazioni38.

Con riferimento ai prezzi superiori al costo evitabile medio, ma inferiori al costo incrementale medio di lungo periodo, tale prezzo intermedio indica che l’impresa non sta recuperando i costi fissi e che dunque un concorrente altrettanto efficiente potrebbe essere precluso dal mercato, ma ciò non è sufficiente ai fini di un abuso. La Commissione dovrà, pertanto, esaminare anche tutti gli altri fattori che sono rilevanti ai fini della preclusione, quali la posizione dell’impresa, dei suoi concorrenti e dei clienti, le caratteristiche del mercato rilevante e la portata della condotta. Oltre a ciò, l’organo comunitario farà riferimento ad ulteriori fattori specifici per uno scenario di predazione, quali la rilevanza delle asimmetrie informative, la capacità di distorcere i segnali di mercato sulla profittabilità dello stesso.

La Commissione sembra, dunque, voler abbandonare la nozione d’intento, come secondo elemento del test, a favore di un’interpretazione dei summenzionati fattori

38

Cosa si intenda per obiettive giustificazioni non viene esplicitato in nessun punto della Comunicazione. Anche volendo ricostruire una definizione di ‘obiettive giustificazioni’ a partire dalla giurisprudenza, le pronunce della Corte sul punto spesso sono state poco chiare e contraddittorie. La prassi decisionale finora ha dimostrato un’ampia apertura teorica all’accettazione di giustificazioni di tipo economico del comportamento in questione, non supportata però da un concreto accoglimento delle argomentazioni invocate a propria discolpa dalle imprese. Un esempio di obiettiva giustificazione potrebbe essere riuscire a dimostrare, o che il proprio comportamento è obiettivamente necessario, o che l'effetto preclusivo che ne deriva può essere controbilanciato, o anche superato, da vantaggi in termini di efficienza che vanno anche a beneficio del consumatore.

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quali indici di probabile preclusione39. A tal proposito, la documentazione interna dell’impresa attestante l’intenzionalità del sacrificio finalizzato all’esclusione di un rivale o all’impedimento dell’ingresso sul mercato, o le concrete prove di minacce in tal senso, saranno utilizzate esclusivamente al fine di interpretare la condotta, ossia a supporto dell’onere probatorio, anziché come prova dell’intento.

La Commissione con la pubblicazione del guidance paper suggerisce, in sostanza, ai giudici europei di avvalersi, al massimo, di fattori oggettivi nella valutazione delle condotte di prezzo. La valutazione dovrebbe concernere se sia stato attuato un oggettivo atto anticompetitivo. Una tale preoccupazione consiglia di concentrarsi su prove economiche o comportamentali, escludendo dunque l’intento quale principale scopo dell’analisi, nonostante esso si sia consolidato nella prassi giuridica come il principale elemento preso in considerazione nella decisione dei casi sui prezzi predatori40. In altre parole, la valutazione dovrebbe concentrarsi sulla condotta, considerando ad esempio se, dal punto di vista dell’impresa che pone in essere un dato comportamento, il suo impiego è economicamente razionale a prescindere da qualsiasi

39 Nonostante la Commissione, all’interno della Comunicazione, sembri mostrare un approccio più

sfumato sulla rilevanza dell’intento predatorio, rilevando tra gli altri fattori che, insieme con la prova diretta di qualsiasi strategia escludente, possa essere rilevante un’indagine sui probabili effetti anticompetitivi del comportamento presumibilmente abusivo, tale retorica tuttavia non si riflette nell’applicazione pratica della Commissione né nella giurisprudenza della Corte. Uno stretto affidamento sull’intento, senza la considerazione di un’analisi basata sugli effetti, può causare risultati perversi portando a considerare anticompetitive certe condotte laddove non vi siano obiettive giustificazioni in tal senso. Poiché non vi è distinzione pratica tra il desiderio di competere e l’ambizione di sconfiggere il rivale, giacché l’intenzione di eliminare i propri avversari è l’essenza della concorrenza, punire le imprese perché semplicemente intendano primeggiare sul mercato rischia di confondere e di scoraggiare le dinamiche del processo concorrenziale, trasformando il diritto della concorrenza in diritto dei concorrenti. In particolare, contrastare il comportamento unilaterale sulla base dell’intento eliminatorio potrebbe trasmettere il messaggio secondo il quale sia pericoloso e sbagliato cercare di guadagnare maggiori profitti a spese del concorrente. Si dovrebbe notare che tale messaggio può aver effetti anche nei confronti delle imprese non realmente dominanti, data la possibilità di rinvenire un significativo potere di mercato a livelli non elevati. Il peso assegnato all’intento non sembra, dunque, sia stato preceduto da una matura riflessione in tal senso e rischia di creare un contesto nel quale le imprese potrebbero aver timore di ridurre i prezzi per la preoccupazione di incorrere in responsabilità.

40

La prova dell’intento eliminatorio è spesso usata dalla Corte come un succedaneo degli effetti anticoncorrenziali. A parere della Corte, infatti, anche quando il risultato ricercato dal presunto predatore non sia raggiunto, perché, per esempio, il predatore ha sottovalutato la resistenza della preda, l’applicazione dell’articolo 102 T.F.U.E. non può essere esclusa una volta che sia stato dimostrato che la condotta è stata adottata per eliminare il rivale.

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effetto di esclusione del rivale che si possa avere, nonché su altri strumenti oggettivi (barriere, possibili controstrategie, tagli selettivi, probabilità di esclusione).

Al massimo, il ruolo dell’intento potrebbe essere confinato a una prova secondaria di conferma, ossia, utilizzato per supportare la prova del danno anticoncorrenziale, già sufficientemente raggiunta attraverso altre prove comportamentali ed economiche.

Nonostante, tanto per la dottrina quanto per il giudice Comunitario, sia risultato difficile individuare possibili appigli testuali in ciascuna delle quattro fattispecie previste dall’articolo 102 T.F.U.E., si può affermare che la pratica di predatory pricing, seppure con qualche forzatura, può essere riconosciuta alla lettera a) dello stesso articolo, in cui si vieta l’imposizione di prezzi non equi.

Risolto il problema di carattere semantico con il fine di incasellare le strategie di prezzo predatorio nell’elencazione degli abusi di posizione dominante vietati, resta tuttavia il dilemma circa i criteri e i parametri da utilizzare per definire una politica dei prezzi come predatoria.

La scarsa propensione da parte degli organi comunitari ad utilizzare argomentazioni economiche al fine di individuare i comportamenti escludenti e predatori, ha portato l’accertamento dell’intento escludente in capo all’impresa dominante come principale elemento utilizzato dal giudice comunitario, in quanto facilmente individuabile senza ricorrere necessariamente all’analisi economica. Tuttavia, come la teoria economica ha più volte sottolineato, i prezzi predatori sono, sostanzialmente, l’unica pratica anticoncorrenziale in cui anche la ricerca dell’intento predatorio deve essere interamente assoggettato a metodi di analisi economica.

Nel tentativo di sostituire la nozione di intento predatorio, pur non tralasciandola definitivamente, con un’analisi che eleva il livello di prova richiesto ai fini della dimostrazione dell’esistenza di una politica predatoria, la Commissione ha pubblicato nel 2009 un guidance paper che, seppur priva di valenza giuridica, offre agli organi europei delle linee guida circa l’applicazione dell’articolo 102 T.F.U.E..

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La Comunicazione, sebbene sia l’esito di un percorso di ricostruzione dei precedenti casi comunitari, rappresenta un tentativo da parte della Commissione di introdurre un metodo di valutazione delle pratiche escludenti basato sugli effetti da queste prodotte sul mercato rilevante. La disciplina che emerge richiede come elemento di preselezione dei casi rilevanti il deliberato sacrificio dei profitti da parte dell’impresa dominante, sia sotto forma di vendita sottocosto che di prezzi inferiori rispetto a una condotta alternativamente razionale, nonché l’effetto di preclusione anticoncorrenziale rilevato attraverso l’esame di una serie di elementi, quali la posizione dell’impresa, dei suoi concorrenti e clienti, le particolari condizioni di mercato e la portata della condotta escludente.

Si sostituisce pertanto all’intento, l’interpretazione dei fattori di mercato quali indici di probabile preclusione. Tuttavia, sebbene la Commissione cerchi di abbandonare la soggettività della nozione focalizzandosi sugli effetti della condotta, l’intento è incorporato nel primo elemento del test, ossia nel ‘deliberato’ sacrificio dei profitti, che, tuttavia, in tal caso si basa su un’attenta analisi economica.

4.3. Il prezzo predatorio nell’esperienza

giuridica europea

Nonostante il tentativo, da parte delle autorità antitrust, di regolare in maniera chiara e puntuale l’utilizzo di prezzi predatori, possiamo affermare che non esiste tutt’oggi una disciplina coerente della materia.

Anche il guidance paper pubblicato nel 2009 dalla Commissione, nel tentativo di fornire un quadro generale circa i criteri da seguire nelle fasi di decisione riguardo la predatorietà o la liceità di un prezzo sensibilmente basso, non offre grande certezza applicativa dei metodi proposti. Per tale motivo nello studio delle politiche predatorie, ai fini di una loro attenta comprensione, è essenziale, congiuntamente alla conoscenza della normativa, l’analisi dei casi comunitari nei quali il comportamento predatorio è

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risultato predominante. Nella giurisprudenza europea relativa ai casi di predatory pricing risulta evidente come le decisioni degli organi comunitari si siano fondate principalmente sul raffronto tra prezzi e costi, in cui l’intento escludente gioca un ruolo determinante, quale elemento decisivo del test.

4.3.1. (Segue). Il caso Akzo

Il landmark case comunitario in tema di prezzi predatori è il caso Akzo41. Si tratta della prima controversia per la quale gli organi comunitari hanno dovuto affrontare la problematica questione della liceità delle vendite sottocosto.

Il caso ECS/Akzo riguarda l’industria chimica e si colloca temporalmente all’inizio degli anni ’80. ECS era un piccolo produttore inglese di sostanze chimiche che venivano utilizzate sia nel mercato degli additivi per farine alimentari, sia nel processo di produzione dei polimeri; Akzo era invece una multinazionale della chimica, con quote di mercato dominanti in entrambi i mercati. Nello specifico, Akzo deteneva il 55% del mercato degli additivi per farine, mentre ECS il 30% circa.

Fino al 1979, l’ECS vendeva i propri prodotti solo in tale mercato.

La Akzo agiva sostanzialmente da price leader, mentre ECS seguiva gli aumenti decisi da Akzo, mantenendo i prezzi più bassi del 10% rispetto alla rivale. Da quella data in poi, ECS, che fino ad allora aveva acquistato il perossido di benzoile (utilizzato come additivo per farina) da Akzo, cominciò a produrlo in proprio ed irruppe nel mercato delle applicazioni per materie plastiche e per cosmetici (mercato dei polimeri), vendendo il proprio prodotto direttamente alla BASF (uno dei principali clienti di Akzo), a prezzi più bassi del 15-20% rispetto alla concorrente.

Di fronte al tentativo di ECS di mutare gli equilibri precostituiti, insediandone la posizione dominante, Akzo minacciò di eliminare ECS dal mercato a meno che quest’ultima non decidesse di ritirarsi definitivamente dal mercato dei polimeri. A

41 Commissione delle Comunità Europee, 29 luglio 1983, ECS/Akzo – provvedimenti provvisori, in G.U.C.E.

n. L 252, 1983, p. 14; Commissione delle Comunità Europee, 14 dicembre 1985, ECS/Akzo, in G.U.C.E. n. L 374, 1985, p. 1; Corte di Giustizia, sentenza 3 luglio 1991, C-62/86, Akzo Chemie Br/Commissione, in Raccolta, 1991, p. I-3359.

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