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Capitolo primo

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Academic year: 2021

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Capitolo primo L’esigenza dell’oralità 1.1 La voce del testo

“In principio era il Verbo, / il Verbo era presso Dio / e il Verbo era Dio. / Egli era in principio presso Dio: / tutto è stato fatto per mezzo di lui,/ e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste”1

. Questi versi del Vangelo di Giovanni rappresentano un vero e proprio inno alla parola dovuto, innanzitutto, alla traduzione del termine greco antico Λόγος, Lógos con “verbo”; secondo la teologia cristiana il verbo è la parola creatrice di Dio, fonte di vita, ragion d’essere del mondo e dell’uomo. Risalendo alle origini della cultura greca appare lampante che lógos sia intimamente polisemico, i significati distinti che gli sono stati attribuiti nel corso dei secoli vanno dalla ragione ultima delle cose al discorso e alla dialettica, dalla parola alla sapienza; “deriva dal greco legein, che significa “raccogliere”, “contare” o anche “trascegliere” e in greco classico “raccontare”, “parlare”. Lógos, indica il mondo dell'intelligenza o della conoscenza intellettiva; è, infatti, sia l'intelligenza (nella sua valenza intuitiva, cioè come intelletto, e nella sua valenza discorsiva, cioè come ragione), sia l'oggetto dell'intelligenza (il concetto, il giudizio e il ragionamento), sia l'espressione dell'oggetto dell'intelligenza (la parola o il termine, la proposizione, l'argomentazione e, in generale, il discorso).”2 La nozione di logós è da sempre intrinsecamente connessa all’eterno dibattito su quale sia il medium che più di ogni altro meglio realizzi la ricerca della verità: phoné o grammé, parola parlata o parola scritta, dire o scrivere. “Conosci il modo migliore per compiacere alla divinità riguardo ai discorsi, scrivendoli o dicendoli?”3

, è la domanda che pone il Socrate platonico del Fedro, scritto probabilmente nel 370 a.C., che sottoforma di dialogo tra “colui che sa di non sapere” e il giovane ateniese Fedro indaga l’uso e il valore della retorica. In quest’opera Platone risale alle origini della scrittura che intesa come “tecnologia che ha modellato e potenziato l’attività intellettuale dell’uomo moderno, fu un invenzione molto tarda nella storia umana. L’homo sapiens è vissuto sulla terra circa 50000 anni, mentre il primo

1 Vangelo di Giovanni, 1, 1-3, La Sacra Bibbia, CEI, 2008,

http://www.bibbiaedu.it/testi/Bibbia_CEI_2008.ricerca?Libro=Giovanni&capitolo=1&versetto_iniziale=1 &versetto_finale=1&parola=&default_vers=Gv+1&layout=5#VER_-1, (ultima consultazione:

17.01.2016).

2 Dizionario filosofico, http://www.filosofico.net/dizi.html (ultima consultazione: 16.11.2016).

3 Bartoletta, F., La penombra del mito (silloge dei miti platonici), Napoli, Fratelli Conte Editori, 1996, p.

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vero esempio di scrittura di cui siamo a conoscenza, si sviluppò fra i Sumeri della Mesopotamia soltanto intorno all’anno 3500 a.C”1

. Stando a quanto riportato da Platone, secondo gli antichi, la sua creazione si deve a Theut, divinità dell’Antico Egitto, “il primo che scoprì i numeri, il calcolo, la geometria e l’astronomia; fu lui inoltre che inventò il gioco degli scacchi e dei dadi, e soprattutto, le lettere dell’alfabeto”2

. Theut avvertiva la necessità di diffondere queste arti tra tutti gli Egiziani e pertanto si recò a Tebe dal re Thamus che a quel tempo regnava su tutto l’Egitto; il sovrano gli chiese di illustrare l’utilità di tutte le sue invenzioni in modo da poterne giudicare l’effettivo valore, ora elogiandole ora disapprovandole. Giunto il momento di esaminare i caratteri della scrittura, Theut la presentò come un’invenzione che “renderà gli egiziani più sapienti e più forti nel ricordare; con questa tecnica è stata inventata la medicina sia per la memoria sia per la sapienza”3. Thamus, però, si dimostrò turbato poiché questa conoscenza “nelle anime di coloro che l’apprendono produrrà oblio, perché lascerà senza esercizio la memoria; fidandosi troppo della scrittura, infatti, essi richiameranno alla mente le cose dall’esterno, per mezzo di segni estranei, e non dall’interno per mezzo di se stessi; non hai trovato quindi il mezzo per la memoria ma soltanto per richiamare alla memoria. Ai tuoi discepoli, allora, tu non procuri la vera sapienza ma la presunzione di sapere”4. Analizzando questo passaggio del mito platonico, il filosofo francese ma nato a El Biar (Algeri) Jacques Derrida pone l’accento sulla duplicità della scrittura in quanto pharmakon5, da un lato rimedio, medicina, droga benefica che renderà gli uomini più sapienti; dall’altro veleno, sostanza tossica e nociva, che, “con il pretesto di supplire la memoria”6, “rende ancora più smemorati; ben lungi dall’accrescere il sapere, lo riduce. Non risponde al bisogno della memoria, mira nel vuoto, non consolida la mnème”7. Anche Rousseau, nel suo Essai sur l’origine des

langues, sostiene che le lingue sono fatte per essere parlate poiché nate come sostegno

ai bisogni più immediati dell’animo umano che non possono essere rappresentati attraverso la scrittura. Egli afferma, in particolare, quanto segue:

L’écriture, qui semble devoir fixer la langue est précisément ce qui l’altère; elle ne change pas les mots mais le génie; elle substitue l’exactitude à l’expression. L’on rend ses sentiments quand on parle et ses idées quand on écrit. En écrivant on est

1 Ong, W. J., Oralità e scrittura, Bologna, Il mulino, 1986, p. 125. 2 Bartoletta, F., op. cit., p. 29.

3

Ivi, p. 30.

4 Ibidem.

5 Derrida, J., La farmacia di Platone, Milano, Jaka Book, 2015, p. 63. 6 Ivi, p. 91.

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forcé de prendre tous les mots dans l’acception commune ; mais celui qui parle varie les acceptions par les tons, il les détermine comme il lui plait ; moins gêné pour être clair, il donne plus à la force et il n’est pas possible qu’une langue qu’on écrit garde longtemps la vivacité de celle qui n’est que parlée.1

Si oppongono dunque la parola scritta, apparentemente statica e silenziosa, che significa “una cosa sola e sempre la stessa”2

, e la parola parlata, espressione del suono, “agonistica ed enfatica, frutto di una situazione concreta, dell’interagire immediato tra esseri umani. Essa è quella che conta, è la parola-azione che muta il mondo […] Parola-azione contro parola-ricordo, dunque, evento contro situParola-azione, mutamento contro stasi, memoria contro dimenticanza”3. Tuttavia, lo stesso Platone, così come Rousseau secoli più tardi, si fa paradossalmente e inconsapevolmente “paladino della scrittura e non solo in quanto non dice, ma scrive il suo pensiero, servendosi proprio di quel medium che a parole svilisce, ma anche perché esso dipende interamente dalla scrittura”4. Inoltre, se si considera “uno schema che dominerà tutta la filosofia occidentale, una buona scrittura (naturale, viva, sapiente, intelligibile, interiore, parlante) viene opposta ad una cattiva scrittura (artificiosa, moribonda, ignorante, sensibile, esteriore, muta). […] la conclusione del Fedro più che una condanna della scrittura in nome della parola presente, è la preferenza per una scrittura piuttosto che per un’altra, per una traccia feconda piuttosto che per una traccia sterile, per un seme generatore, perché deposto al di dentro, piuttosto che per un seme disperso al di fuori senza profitto”5. Affermare che la grammé può essere un “seme fecondo” significa confutare l’idea che sia sinonimo di morte e deformità poiché, lungi dall’arrecare danno alla parola, lavora al suo fianco e la rende imperitura, in difesa “di un sapere che non sfugga, che non scompaia immediatamente”6. La scrittura di Leïla Sebbar può essere considera espressione di questa “buona scrittura”, una “traccia feconda”, “naturale, viva, sapiente, intelligibile, interiore, parlante” che consente il fluire della parola e delle voci dei personaggi che ne popolano le pagine senza inibire le caratteristiche tipiche del parlato decantate da Rousseau7, quali la variazione dei toni, la forza espressiva, la vivacità, il pathos.

1 Rousseau, J.J., Essai sur l’origine des langues, Bordeaux, Ducros, 1968, p. 67. 2 Bartoletta, F., op. cit., pp. 31-32.

3

Ong, Walter, J., op. cit., p. 7.

4 Ibidem.

5 Detienne, M., Les jardins d’Adonis, Paris, Gallimard, 1972, cit. in Derrida, J., op. cit., pp. 23-24. 6 Petrosino, S., introduzione a Derrida, J., op. cit., p. 29.

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Secondo il critico letterario e filologo svizzero Paul Zumthor, ci sono alcuni testi “che noi leggiamo con gli occhi ma davanti ai quali percepiamo con intensità che richiedono di essere pronunziati, che una voce piena vibrava all’origine della loro scrittura”1

, poiché “il soffio della voce è creatore”, “è voler dire e volontà di esistere”2

e Les

femmes au bain è uno di questi. Si tratta infatti di un’opera che sembra scritta per essere

raccontata, in cui si susseguono inarrestabili tutte le manifestazioni della voce che si fa, di volta in volta, parola, canto, mormorio, sussurro, grido, diventando espressione delle emozioni, dei turbamenti e delle inquietudini più recondite dell’animo umano, di perdite strazianti o di gioie ineffabili, poiché sono proprio queste che “suscitano il suono della voce”3. Secondo Rousseau, la voce e la parola, “la parole distingue l’homme entre les animaux”4

, nascono dal bisogno insito nell’animo umano “de communiquer ses sentiments et ses pensées”5

e “c’est n’est ni la faim ni la soif, mais l’amour la haine la pitié la colère qui leur ont arraché les premières voix”6

. Leïla Sebbar ha dichiarato che il suo intento principale era quello di “faire entendre une voix, une voix qui marche du côté du désir, du plaisir et de l’amour. Une voix de liberté sans contrôle tribal, communautaire, patriarcal, c’est cela qui m’intéresse dans ce texte-là. Cela me faisait plaisir à travers ces voix, car il y a des voix différentes, de femmes, d’hommes aussi”7. E infatti, se da una parte “é da un po’ di tempo che nelle nostre società la passione per la parola viva si è spenta”8

, dall’altra, “le culture africane, culture della parola, dalle tradizioni orali incomparabilmente ricche, rifiutano ciò che disturba il ritmo della voce viva: in vaste regioni (all’Est e al centro del continente), la sola arte praticata è la poesia e il canto. La parola, forza vitale, vapore del corpo, liquidità carnale e spirituale, si espande nel mondo che da essa trae vita e in cui ogni attività è su di essa che si fonda”9. Tuttavia, Walter J. Ong, americano di nascita, gesuita, antropologo, filosofo, insegnante di letteratura inglese e storico delle culture e delle religioni afferma che

le culture orali, in realtà, producono esecuzioni verbali di grande bellezza e di alto valore umano e artistico, impossibili una volta che la scrittura ha preso possesso

1 Zumthor, P., La presenza della voce, introduzione alla poesia orale, Bologna, Il mulino, 1984, p. 39. 2

Ivi, pp. 7-8.

3 Ivi, p. 10.

4 Rousseau, J.J., op. cit., p. 27. 5 Ibidem.

6 Ivi, p. 43. 7

Krouch-Guilhem, C., Leïla Sebbar: entretien sur Les femmes au bain,

http://la-plume-francophone.com/2006/12/01/leïla-sebbar-entretien-sur-les-femmes-au-bain/, (ultima consultazione: 21.11.2015).

8 Zumthor, P., op. cit., p. 7. 9

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della psiche. Ciò nonostante, senza la scrittura la coscienza umana non può sfruttare appieno le sue potenzialità, non può produrre altre creazioni, anch’esse potenti e bellissime. Sotto questo aspetto, l’oralità ha bisogno di produrre, ed è destinata a produrre, la scrittura.1

In Les femmes au bain questi due piani cooperano e Leïla Sebbar riesce a tessere le fila di una narrazione in cui “on entend la voix de la langue, certes, mais d’une langue écrite: c’est là le paradoxe, c’est ce qu’on appelle la poétique du texte. C’est comme une langue intérieure. Ce que Céline disait à propos de sa manière d’écrire, c’est qu’il voulait faire passer l’émotion de la langue parlée dans le texte, à travers ce qu’il écrivait”2

. Sembra quindi che la scrittrice sia determinata a mettere in pratica quanto Céline si proponeva di fare in Entretiens avec le professeur Y, e cioè far trasparire “l’'émotion dans le langage écrit […] le truc, la magie, que n'importe quel con à présent peut vous émouvoir «en écrit»”3.

1.2 Le origini familiari e l’identità culturale

Comprendere l’uso particolare e ammaliante che Leïla Sebbar fa del linguaggio in Les

femmes au bain e la costruzione dell’intreccio che si crea tra oralità e scrittura è parte di

un percorso tortuoso la cui prima tappa riguarda le origini familiari e il contesto in cui la scrittrice è nata e cresciuta che rendono alcune tematiche imprescindibili dai suoi testi e dalla sua scrittura, poiché radicate nella sua identità. Michel Laronde, esperto di studi francofoni presso l’università dell’Iowa, spiega che le colonne portanti della sua opera sono la “dialectique du «croisement»”4, in italiano si potrebbe parlare di incontri, scambi e commistioni interculturali, e la “dialectique de l’exil”5 che si compenetrano, si arricchiscono e si influenzano l’un l’altra. Entrambi i termini sono polisemici e carichi di significato, non si riferiscono a una perdita ma piuttosto a un guadagno che, in primo luogo, la coinvolge in prima persona e che, in secondo luogo, si riflette sui personaggi dei suoi romanzi e racconti nei quali troviamo scambi etnici, geografici, storici, sociali, e Les femmes au bain non rappresenta certo un’eccezione; “les personnages de la fiction portent en eux des racines culturelles diverses qui, plutôt que de se fondre dans l’indifférenciation, s’ajoutent et créent des identités plurielles”6

. Leïla Sebbar scrive a

1 Ong, Walter J., op. cit., p. 34. 2

Krouch-Guilhem, C., op. cit.

3 Céline, L.F., Entretiens avec le professeur Y, Paris, Gallimard, 1996, pp. 22-23. 4 Laronde, M., Leïla Sebbar, Parigi, L’Harmattan, 2003, p. 17.

5 Ibidem. 6

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proposito della sua stessa identità culturale “je suis une croisée”1

ed essere una croisée significa per lei nutrirsi e nutrire la propria opera “de l’intersection de pays, de cultures, d’identités et d’Histoires différentes mais en contact […] «croisement» est un terme positif, un terme d’addition et de multiplication avec une valeur ajoutée née du croisement identitaire personnel même”2. La scrittrice non si riconosce infatti in nessuna delle etichette che nel corso degli anni le sono state attribuite; non si reputa “ni beure, ni maghrébine, ni tout à fait française”3

ma l’erede degli scambi e delle contaminazioni tra i sistemi culturali e linguistici che ha ricevuto in dono dalla sua famiglia e che sono soggiacenti alla sua scrittura della quale rappresentano allo stesso tempo il punto di partenza e il punto di arrivo. Come spiega Michel Laronde4, Leïla Sebbar non è un’immigrata né una “enfant de l’immigration”5

e non è nemmeno figlia di coloni francesi in Algeria; l’arabo non è la sua lingua madre, non lo parla, lo ascolta soltanto, senza comprenderne il significato e, pertanto, non si può definire una scrittrice magrebina d’espressione francese né tantomeno un’intellettuale d’Algeria in esilio in Francia; è “une écrivaine française au nom arabe”6, nata in Algeria, e il peso della sua terra natale, inteso come cultura, drammi, colori, suoni e soprattutto voci, si ripercuote sulla sua scrittura. Questa si potrebbe definire prendendo in prestito le parole stesse di Leïla Sebbar, o meglio, i titoli di due dei nove testi raccolti in ordine di apparizione in

L’arabe comme un chant secret in cui ripercorre la sua infanzia e la sua adolescenza

nell’Algeria coloniale prima, in Francia, a Nizza e a Parigi poi, nel tentativo di spiegare a se stessa e ai lettori come, e se, è possibile vivere separati dalla lingua del padre. Si tratta di Le corps de mon père dans la langue de ma mère e Entendre l’arabe comme un

chant secret, due affermazioni che risuonano come una presa di coscienza a proposito

dell’identità, della poetica e della scrittura di una donna che, da bambina, associava le sue origini a quelle della madre sentendosi francese perché sua madre lo era, “authentifiée dans ma francité par ma mère”7

, dice, non prestando attenzione al fatto che suo padre fosse arabo, il suo nome non fosse francese o che i suoi capelli fossero “noirs frisés, comme les Arabes”8. Solo con la guerra d’Algeria, che l’ha portata lontana da casa, ha raggiunto la “certitude foudroyante que je suis la fille d’un Arabe et d’une

1 Huston, N., Sebbar, L., Lettres parisiennes, op. cit., p. 264. 2 Laronde, M., op. cit., p. 19.

3 Huston, N, Sebbar, L., Lettres parisiennes, cit. in: Laronde, M., op. cit., p. 16. 4

Laronde, M., op. cit., pp. 15-16.

5 Ivi, p. 16. 6 Ibidem.

7 Chant secret, p. 17. 8

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Française, que la France a colonisé l’Algérie, que mon père est colonisé et ma mère colonisateur (colonisatrice?), que je suis divisée”1

; la guerra le ha fatto capire che “être née d’un père arabe dans l’Algérie coloniale et d’une mère française dans une Algérie qui travaillait à son indépendance c’était n’être à sa place ni d’un coté ni de l’autre”2

e di essere quindi portatrice di una divisione biologica e culturale dalla quale non si può prescindere e che la colloca “au croisement, en déséquilibre constant, par peur de la folie et le reniement si je suis de ce côté-ci ou de ce côté-là. Alors je suis au bord de chacun de ces bords”3

. Ed è proprio in quest’ottica che il croisement diventa fecondo, una fonte di arricchimento che mette in moto l’attività della scrittura alla ricerca incessante di una risposta all’interrogativo sulle proprie origini: “et moi, fille, dans cette histoire de langue, d’origine?”4, o ancora, “et moi, dans cette histoire de corps, d’âme et de langue?”5

La maggior parte delle sue opere sono permeate dalla sua storia personale basti pensare al sopracitato L’arabe comme un chant secret o a Je ne parle pas la

langue de mon père o ancora a Journal de mes Algéries en France.

Leïla Sebbar nasce nel periodo coloniale a Aflou, una piccola città dell’Algeria, dove resterà fino a diciannove anni quando, alla fine della guerra, decide di intraprendere gli studi in Lettere in Francia. In un’intervista6 particolarmente illuminante a proposito dell’importanza che l’esilio, tematica che verrà approfondita in seguito, ha avuto sulla sua crescita personale e di scrittrice, ha dichiarato che per quanto durante gli anni trascorsi lontano da casa (definisce la Francia “«mon» pays” ma l’Algeria “maison”) la tentazione di farvi ritorno fosse forte, non vi ha mai ceduto spinta dalla consapevolezza che l’ispirazione che muove la sua penna l’avrebbe abbandonata, quella stessa ispirazione di cui il paese natale che abita ancora oggi i suoi sogni è il motore. Solo quando penserà di non aver più niente da dire, o da scrivere, si recherà nuovamente a Aflou. Uno dei particolari biografici di maggiore importanza e che più di altri ha avuto un ruolo fondamentale nella sua formazione riguarda però i suoi genitori. Se infatti nasce in un paese arabo, del Maghreb, il contesto in cui si trova a vivere e crescere fin

1 Ivi, p. 43.

2 Belzan, G., «Je suis en exil dans la langue de mon père», interview de Leïla Sebbar,

http://www.bleu-autour.com/PDF%20en%20ligne/SEBBAR_TDC-DECEMBRE-2013.pdf, (ultima consultazione: 22.11.2015).

3 Huston, N, Sebbar, L., Lettres parisiennes, cit. in: Laronde, M., op. cit., p. 16. 4 Chant secret, p. 17.

5 Ivi, p. 45.

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dalla nascita è essenzialmente francofono; sua madre è una “Française de France”1 , ai suoi occhi “elle est la France […] elle est la langue de la France”2

; si trasferisce in Algeria per amore di suo padre, arabo, algerino, maestro di Francese presso una scuola elementare, e lavora anch’essa come insegnante di francese per i bambini autoctoni arabi e berberi nella scuola di cui il padre è anche direttore, una scuola “de la France coloniale et colonialiste. Elle a colonisé mon père dans la langue de ma mère”3. E infatti il padre non ha insegnato alle sue figlie la lingua del suo paese, di sua madre e “des femmes de son peuple”4; loro parlano la lingua della madre, il francese, che permetteva la comunicazione e l’accesso al sapere e, pertanto, non avvertivano la necessità vitale di apprendere l’arabo che diventa per loro una sorta di sottofondo, un canto segreto appunto che accompagna le loro vite ma le cui parole sono percepite come suoni privi di significato. Ed ecco allora il motivo della sua affermazione “je suis une croisée”5

; da un lato “la tradition maternelle catholique”6, europea, dall’altro quella “paternelle musulmane, algérienne”7; da un lato il francese, quello della scuola, dei libri, ma anche “de l’ordre et de la loi”8, che “doivent parler tous les Français au-delà de la Méditerranée, dans le pays où de Marseille à Lille on parle la langue de Paris, et Paris c’est la France”9

. Una lingua che la cinge, la avvolge, la stringe e che la porta a scrivere: La langue de ma mère me cernait, me cerne encore. Ma mère m’a enfermée dans sa langue, comme encore dans son ventre. Je me suis enfermée moi-même dans les livres- à l’école, en pension, pendant mes études de lettres en France- et dans la langue maternelle. J’ai appris d’autres langues, langues latines uniquement.10 Una lingua che definisce “carapace d’insecte au-dehors, désintégrée au-dedans”11

, la cui mancanza di unità è dovuta, come spiega Michel Laronde12, alla duplicità caratteristica delle situazioni coloniali; non si tratta solo della lingua delle istituzioni e dei libri ma anche della lingua coloniale, presunta portatrice di civilizzazione, obbligatoria, strumento di promozione sociale e, più tardi, uno dei mezzi della liberazione algerina.

1 Chant secret, p. 49. 2 Ivi, p. 48. 3 Ivi, p. 44. 4 Ivi, p. 59.

5 Huston, N., Sebbar, L., op.cit., p. 264. 6 Chant secret, p. 44. 7 Ibidem. 8 Ivi, p. 62. 9 Ivi, p. 49. 10 Ivi, p. 17. 11 Ivi, p. 45. 12

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All’estremo opposto si colloca invece l’arabo, “la langue joyeuse”1

della madre e delle sorelle di suo padre, di Aïcha e di Fatima, le domestiche a servizio nella loro casa, delle madri velate dei suoi alunni, “des femmes de son peuple”2

; ma anche dei ragazzi di strada che insultavano lei e le sue sorelle in quanto figlie del maestro e perciò “francesi”; una lingua che si fa ora più dura, ora più dolce e pacata, allo stesso tempo “étrange et familier”3. Quest’antinomia deriva dal fatto che, per quanto durante tutta l’infanzia e adolescenza abbia sentito l’arabo risuonare nelle sue orecchie, si tratta comunque di una lingua che lei ha solamente ascoltato, senza condividerla, parlarla o anche capirne il senso; basti pensare che durante le visite alla casa di sua nonna nel villaggio di Ténès, in riva al mare, il padre doveva tradurre per sua moglie e per le sue figlie le parole delle altre donne della famiglia, parole che parlavano “de tendresse et de nourriture”4. In L’arabe comme un chant secret5, scrive a proposito del padre che “il est

arabe mais je ne sais pas qu’il est arabe” poiché, non avendo insegnato a lei e alle sue sorelle “la langue des femmes de son peuple”, non avendo raccontato loro “les légendes de son peuple”, non avendo riempito la biblioteca di libri in arabo, “pas un livre, pas un mot de sa langue”, egli le ha separate, separando di conseguenza anche se stesso, “de sa terre, de la langue de sa terre”6. Con la complicità di sua moglie, “l’étrangère”, egli ha fondato “une famille separée, sa famille, […] dans la langue étrangère”7

, ricreando, con fierezza, in Algeria, una “petite France”8 circondandosi di amici, anch’essi insegnanti di francese, che hanno compiuto la sua stessa scelta linguistica. Sebbar definisce i suoi genitori “missionnaires de la République française et de ses lettres, alphabétiseurs des enfants musulmans de la Colonie”9

che hanno dato vita nella scuola così come tra le mura domestiche a una “République idéale où s’exercent, au nom de la justice, de l’égalité, de la fraternité, les lois de l’apprentissage scolaire dans les livres de la France, la géographie et l’histoire de la France”10

trasmettendo in questo modo un “savoir

1 Chant secret, p. 28. 2 Ivi, p. 59. 3 Ivi, p. 28. 4 Ivi, p. 18. 5 Ivi, pp. 59-62. 6

Sebbar, L., Je ne parle pas la langue de mon père, Paris, Julliard, 2003, p. 42.

7 Chant secret, p. 62. 8 Ivi, p. 60.

9 Ivi, p. 93. 10

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universel” in “une langue unique”1

. In questo immaginario le due lingue diventano due roccaforti che cercano di difendere i valori di cui sono portatrici; scrive l’autrice:

nous portions, mes sœurs et moi, en carapace, la citadelle de la langue de ma mère, la langue unique, la belle langue de la France, avec ses hauts murs opaques qu’aucune meurtrière ne fendait.2

Al contrario, in quest’ottica, l’arabo si delinea come

une citadelle close, enfermée dans sa langue et ses rites, étrangères, distantes, au cœur même de la terre dont nous ne savions rien et qui avait donné naissance à mon père, aux garçons de sa langue, à nous, les petite Françaises, à mes frères séparées de nous, les filles, hors de la maison. Citadelle invincible, qui la protégeait ?3

Ed è proprio nel silenzio di questa lingua che i due assi portanti della sua poetica, l’esilio, inteso come estraneità dalla lingua paterna, e la commistione tra culture e tradizioni, si fondono dando vita a una riflessione e a una scrittura profondamente collegata ai rapporti tra francese e arabo, tra colonizzatori e colonizzati, tra lingua dominante e lingua dominata. Si tratta di una scrittura generata da “le silence […] de la langue”4 attraverso il quale il padre l’ha tenuta lontana dalle donne della famiglia e del suo popolo quelle stesse donne di cui vuol far emergere corpo e voce attraverso le sue parole:

Ces femmes avec qui je n’ai pas habité m’ont habitée comme si j’étais née avec elles, comme si je les portais en moi. Je crois que je les porte et qu’elles me parlent dans une langue que j’entends sans la comprendre, j’ai le son, je n’ai pas besoin du sens, il est pour ainsi dire déjà là, je sais ce qu’elles disent, ce qu’elles se disent, je ne crois pas me tromper. Elles me soufflent leurs mots. Un ange à ma droite, un ange à ma gauche, elles sont mes anges5.

1.3 La scelta dell’esilio

Milan Kundera, scrittore ceco naturalizzato francese, nel suo romanzo L’ignoranza, affrontando la tematica delle difficoltà derivate dal vivere lontano dal proprio paese natale e, allo stesso tempo, dal farvi ritorno, si chiede se sia “vero che gli artisti emigrando perdono la loro forza creatrice”6

e se sia “vero che l’ispirazione inaridisce non appena le radici del paese natale cessano di alimentarla”7. La tematica dell’esilio è

1 Ibidem.

2 Sebbar, L., Je ne parle pas la langue de mon père, op. cit., p. 39. 3

Ibidem.

4 Chant secret., p. 90. 5 Ivi, pp. 89-90.

6 Kundera, M., L’ignoranza, Milano, Adelphi Edizioni, 2003, p. 14. 7

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da sempre presente in tutta la produzione letteraria europea e mondiale e affonda le proprie radici nell’opera che forse più di ogni altra ne custodisce i significati, l’Odissea, “l’epopea fondatrice della nostalgia”1

, la narrazione da parte di Omero delle infinite peregrinazioni di Ulisse, “l’eroe di vario ingegno, / Che gran tempo vagò, poiché distrutto/ Ebbe il sacro Ilïon; che d’infinite / Genti i costumi e le città conobbe; / E gravi in mar sostenne e lunghi affanni”2, per tornare alla sua “petrosa Itaca”3. Scrive Kundera che Ulisse, “il più grande avventuriero di tutti i tempi, è anche il più grande nostalgico. Partì (senza grande piacere) per la guerra di Troia e vi rimase dieci anni. Poi si affrettò a tornare nella natia Itaca, ma gli intrighi degli dèi prolungarono il suo periplo”4 fino a quando, dopo vent’anni, poté finalmente posare i suoi piedi sulla sua amata spiaggia e “vide l’insenatura che conosceva sin dall’infanzia, i due monti che la sovrastavano, e carezzò il vecchio albero d’ulivo per assicurarsi che fosse ancora quello di vent’anni prima”5. Un altro importante contributo a questo argomento viene dalla Bibbia; i primi esiliati di cui si ha memoria furono Adamo ed Eva banditi dall’Eden e condannati a una vita di lavoro e sofferenza; Caino intraprese la fuga dopo il fratricidio commesso ai danni di Abele; passando al nuovo Testamento, la fuga in Egitto rappresentò l’unica via di salvezza per Giuseppe, Maria e Gesù dalla tirannide di Erode. Ma basti pensare alla diaspora del popolo ebraico, avvenuta durante i regni di Babilonia e durante l’impero romano. Ci sono poi tutti gli esempi che la storia fornisce; solo per citarne alcuni, in epoca moderna, Albert Einstein, fu vittima delle persecuzioni naziste in quanto ebreo e fu costretto a cercare rifugio negli Stati Uniti; Sigmund Freud, anche lui di origini ebraiche, dovette abbandonare l’Austria quando venne annessa al Terzo Reich; il pittore bielorusso Marc Chagall venne perseguitato sotto il regime dello Zar e pertanto costretto a lasciare San Pietroburgo per stabilirsi a Parigi; il ballerino Rudolf Nureyev chiese asilo politico alla Francia per sfuggire al regime sovietico. Per tutti loro, in modi e tempi diversi, l’esilio assunse un carattere politico e sembrò rappresentare l’unica via di salvezza. È però corretto attribuire un significato univoco a questo termine? Si è consapevoli del senso profondo e delle implicazioni che comporta? “Esilio”, “dal latino exsŭle, composto di “ĕx”, fuori, e “sŏlum”, suolo”6

, letteralmente potrebbe essere

1 Ivi, p. 13.

2 Omero, Odissea, a cura di Maspero, P., Firenze, Successori Le Monnier, 1906, vv. 1-5. 3

Nicoletti, G., Foscolo, Roma, Salerno Editrice, 2006, p. 28.

4 Kundera, M., op. cit., p. 13. 5 Ivi, p. 14.

6 Dizionario Garzanti,

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interpretato come “fuori da questa terra”. In una prima accezione, infatti, si riferisce a uno degli eventi più drammatici della vita dell’uomo, l’allontanamento dalla propria casa, dai propri affetti, dalla propria terra, molto spesso privati della possibilità di farvi ritorno, una perdita irrecuperabile, quindi, associata a nostalgia, impotenza, solitudine, abbandono; nell’immaginario comune è sinonimo di distacco, separazione, privazione, frattura tra l’uomo e la terra che sente sua. Tuttavia Vera Linhartova, una delle scrittrici e poetesse più ammirate in Cecoslovacchia, sostiene che l’esilio può essere interpretato diversamente; una seconda accezione non lo considera più una punizione, un castigo, ma “un punto di partenza verso un “altrove” incognito, per definizione, aperto a ogni possibilità […] un’occasione straordinaria, che bisogna cogliere al volo, di cui approfittare senza tergiversare”, nella convinzione che “nella vita di un uomo il dovere verso la terra di appartenenza o verso i legami di sangue non sia un fattore determinante”1

e, per lei, l’esilio è stata l’occasione di scegliere consapevolmente il luogo in cui voleva vivere ma anche la lingua che voleva parlare. Sembra esistere, infatti, un legame indissolubile tra intellettuali esuli e produzione artistica e letteraria. Se per Dante, l’esule per eccellenza, l’allontanamento forzato significava provare sulla propria pelle “sì come sa di sale / lo pane altrui, e com’è duro calle / lo scendere e’l salir per l’altrui scale”2

, allo stesso tempo, proprio gli anni trascorsi in esilio si dimostrarono i più fecondi per la sua produzione artistica. Anche per Ugo Foscolo, per quanto fosse dolorosa la consapevolezza di non poter mai fare ritorno a Zacinto, alle “sacre sponde / ove il mio corpo fanciulletto giacque”3, è proprio la condizione di sradicato dalla propria terra, di apolide a stimolarne le capacità e il bisogno creativo. Ma ancora James Joyce, Bertol Brecht, Milan Kundera, Pablo Neruda, Isabel Allende e la lista sarebbe ancora lunga, dimostrano come il distacco consenta loro di adottare un punto di vista acuto e privilegiato sulla condizione e sull’esistenza umana.

L’esilio assume ancora un altro significato presso gli scrittori francofoni. In tutti i territori che furono soggetti alla colonizzazione francese lo sviluppo di una letteratura nazionale è innanzitutto “strettamente legato al problema della lingua, e alla presenza dominante nel paese di tre diverse culture: araba, berbera e francese” e al fatto che “la colonizzazione francese tentò di sradicare ogni forma di espressione e manifestazione

1 Linhartová, V., Pour une ontologie de l'exil, Parigi, L'Atelier du roman, 1994, p.128.

2 Alighieri, D., La divina commedia, Paradiso, Canto XVII, In: Emiliani Giudici, P., I quattro poeti

italiani, Firenze, Società editrice fiorentina, I edizione elettronica, 2013, vv. 58- 59- 60, p. 809.

3

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culturale, secondo una politica di assimilazione decisa dal governo di Parigi”1 . Nonostante questo, la lingua araba classica è sopravvissuta così come la memoria storica e letteraria dei singoli paesi e sono molti gli intellettuali e gli scrittori che hanno fatto sentire la propria voce per rivendicare e difendere la propria cultura e identità. Tuttavia la maggior parte di essi sono costretti o scelgono di vivere in un paese straniero; per molti di essi, gli algerini Assia Djebar, Malika Mokeddem, Yacine Kateb, Leïla Sebbar, seppur con dinamiche e percezioni diverse, la tunisina Fawzia Zouari, la meta prescelta è stata la Francia. In tutti questi casi, però, l’esilio non è mai solo fisico ma è dovuto “al tormento di esprimere in Francese quello che la mente pensa in arabo”2

. Lo scrittore indiano Salman Rushdie, costretto a vivere in clandestinità per sfuggire alla

fatwa emessa contro di lui in seguito alla pubblicazione del suo romanzo I versi satanici, ritenuto blasfemo e offensivo, scrive nel saggio Imaginary Homelands3 che ogni scrittore, cosiddetto postcoloniale, che compie la scelta obbligata di scrivere in una lingua che non è la sua prima lingua è il primo traduttore di se stesso, “we are translated men”4

, siamo uomini tradotti, scrive. Lo scrittore tunisino Malek Haddâd, si dichiara “in esilio nella lingua francese”5

che è stata “per un’intera generazione di scrittori maghrebini l’unica lingua possibile della scrittura. Scolarizzati in francese, magari emigrati in Francia per completare gli studi universitari, questi autori vivono spesso un rapporto conflittuale con il loro medium espressivo, che pure è l’unico che hanno a disposizione. Se è vero che per appartenere a una cultura la sola lingua non è sufficiente e che quindi gli scrittori di lingua francese fanno comunque parte della letteratura araba per il loro modo di sentire e per i temi trattati, è altresì vero che il francese viene comunque percepito come la lingua dell’usurpatore”6.

Come è stato visto però, la condizione di Leïla Sebbar è differente da quella di tutti gli intellettuali maghrebini di espressione francese, etichetta che non la rispecchia; per lei “esilio” è un termine polisemico che significa in primo luogo essere “à la lisière, à l’écart, au bord, toujours, d’un coté et de l’autre, en déséquilibre permanant”7

, una

1 Hamdi, A., Algeria, storia, economia e risorse, società e tradizioni, arte e cultura, tradizioni, Bologna,

Edizioni Pendagron, 1998, p. 71.

2 Ivi, p. 72. 3

Rushdie, S., Imaginary homelands, New York, Granta Books, Penguin Books, 1992, p. 17.

4 Ibidem.

5 Hamdi, A., op. cit., p. 72. 6 Ibidem

7

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condizione di separazione e “de division, nécessaire et vitale”1

o, piuttosto, di “divisions, ou division multiple, multipliée”2

che ha ereditato dal “double exil” dei suoi genitori: il padre, “il a donné à ma mère l’hospitalité dans sa terre et ma mère lui a donné l’hospitalité dans sa langue”3

. La madre aveva infatti lasciato la sua patria per amore, per diventare “la femme du maître indigène, la belle étrangère qui n’a pas peur des Arabes”4; l’esilio del padre invece si concretizza nel momento in cui “dans la maison de sa femme, mon père ne parle pas la langue de sa mère”5. Quello della scrittrice, di conseguenza, non è un allontanamento politico né necessariamente fisico poiché si realizza fin dall’infanzia in seno a quella lingua mai parlata che suo padre le ha negato; così vicina, intima e familiare eppure così distante e sconosciuta. In un’intervista6

in cui si affrontava questa difficile tematica ha infatti dichiarato di non essere un’esiliata algerina ma di trovarsi in una posizione singolare, in esilio nella lingua del padre che è la lingua araba, proprio perché egli non gliel’ha mai insegnata. Tuttavia, è proprio in quest’ottica che l’esilio diventa fecondo poiché, come dichiara lei stessa7, prendere coscienza di questa condizione di lontananza, seppur nella vicinanza, le permette di scrivere e non è pronta a rinunciare a questa condizione privilegiata. In

L’arabe comme un chant secret scrive che “l’énigme de ma naissance, un étranger avec

une étrangère dans la langue unique et belle de la Française ma mère, l’énigme de la langue absente que mon père garde secrète derrière la langue commune à la famille qu’il engendre, ces énigmes-là font l’objet de mes livres”8. Tuttavia attribuisce un’ultima accezione a questo termine tanto discusso e sfaccettato; significa non morire nel proprio paese natale e lei è consapevole di aver lasciato una terra nella quale non farà ritorno poiché questo ritorno è inimmaginabile9, così come non era pensabile per suo padre, “mort loin de l’arabe de la maison du vieux Ténès, loin de la tombe de sa mère dans le

1 Ivi, p. 258. 2

Ibidem.

3 Sebbar, L., Chant secret, op. cit., p. 85. 4 Ivi, p. 49.

5 Ivi, p. 61.

6 Broué, C., Les migrants dans la fiction: Pascal Manoukian et Leïla Sebbar,

http://www.franceculture.fr/emission-la-grande-table-1ere-partie-les-migrants-dans-la-fiction-pascal-manoukian-et-leïla-sebbar-2, (ultima consultazione: 21.11.2015).

7 Ibidem.

8 Chant secret, p. 87. 9

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petit cimetière marin, sans la voix sacrée de la prière des morts, sans les gestes rituels qui accompagnent le défunt musulman”1.

1.4 L’esilio in Les femmes au bain

Per capire se e in quale misura la tematica dell’esilio sia presente in Les femmes au bain bisogna tenere a mente che quando Leïla Sebbar dice “esilio” non attribuisce al termine un significato univoco ma, al contrario, lo utilizza con valenze diverse a seconda delle situazioni e delle persone che sono coinvolte. La scrittrice ha dichiarato, a proposito di questo testo, che “on a apparemment l’impression que les thèmes qui traversent mes livres ne sont pas là mais ils sont en fait toujours présents. L’exil est là”2. Dichiara innanzitutto che “on y retrouve aussi l’obsession de la mort en terre étrangère”3

e questo è lampante fin dalle prime pagine, nel racconto degli uomini che lasciano il loro paese natale per andare a cercare lavoro nel Nord occidentale. Vivono “sans femmes ni famille” cercando consolazione nelle donne del bordello dimenticando i nomi e l’età dei figli, fino al giorno in cui decidono di non tornare più, “ils étaient comme morts mais ils n’étaient pas morts”, poiché “une autre femme, l’étrangère maudite, avait volé l’homme, le mari, le fils, elle l’avait envouté […] il avait perdu l’esprit et l’honneur, sa femme devant Dieu, ses enfant, il avait tout oublié”4

. E quando “un jour on apprendrait sa mort chez les Infidèles”5, non ci sarà nessuno a occuparsi delle preghiere e dei riti: il vero castigo è quello di morire soli e lontani da casa, esiliati in vita per necessità, esiliati nella morte per punizione. Tuttavia l’esilio riguarda soprattutto i tre narratori di cui il testo si avvale, la Bien-aimée, l’Étranger de sang e la vieille négresse, le cui figure, ruolo sociale e funzione all’interno del racconto verranno approfonditi nel capitolo successivo. A questo punto bisogna soffermarsi sul modo in cui l’esilio influisce sulla loro esistenza: per la Bien-aimée si potrebbe parlare di un “esilio dell’anima”, poiché si tratta di un sentimento nato dalla non appartenenza e dalla mancata identificazione con quella tribù che pensa di possederla e, di conseguenza, di poterle imporre le sue regole e le sue restrizioni mentre lei si dichiara estranea alla tribù “des femmes qui obéissent”6.

1 Chant secret, p. 88.

2 Krouch-Guilhem, Leila Sebbar : entretien sur Les femmes au bain,

http://la-plume-francophone.com/2006/12/01/leila-sebbar-entretien-sur-les-femmes-au-bain, (ultima consultazione: 21.11.2015). 3 Ibidem. 4 Femmes, p. 11. 5 Ibidem. 6 Ivi, p. 8.

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Si potrebbe interpretare quindi come una ricerca della grazia e della generosità, lontana da quegli uomini che non vuole ascoltare poiché “ils n’aiment pas la vie, ils n’aiment pas les femmes”1

mentre lei ambisce alla “lumière, l’impertinence, non pas cette violence qui nous détruit, et nos vies se passent dans l’ennui, la résignation, sans amour”2. Per quanto riguarda l’Étranger de sang, la sua condizione è duplice; da un lato si tratta di un “déséquilibre permanent”3

tra il vagabondare per il mondo e il fare ritorno nel proprio paese natale, dalle donne che ama poiché “il vient de loin, il a marché sur les routes de l’inconnu, de l’autre coté du monde, mais il est né de la même terre, du même sang, de la même langue”4; si tratta della “division nécessaire et vitale”5

che lo contraddistingue da tutti quegli uomini che vessano le donne mentre lui, in virtù de “sa voix, sa parole, sa grâce, l’élégance discrète, comme s’il était né d’une fée aux vertus éternelles”6, “il sait nous aimer”, egli è “celui qui ne vit pas dan la tyrannie des maisons, celui qui sait parler avec nous et qui parle de nous et qui nous écoute, il ne donne pas des ordres, il ne crie pas, il ne dit pas qu’il prendra bientôt une épouse plus jeune, plus docile, avec lui la langue de notre peuple est belle et tendre, nous apprenons des poèmes d’amour fou et nous parlons du vaste monde”7

. Dall’altro lato però si traduce in separazione e distacco fisico non solo da colei che ama più di ogni altra, ma da tutte le donne; il castigo peggiore per lui non è tanto la prigionia in senso stretto, la reclusione fisica, quanto l’isolamento, “la solitude avec des hommes, privé de femmes”8

. Per quanto riguarda la vieille négresse, il suo esilio è volontario: alla morte del padre, ha lasciato la casa del marito, ha lasciato il suo paese ma non ne ha abbandonato la lingua; è partita attraversando città, campagne, deserti, mare, vestita da giovane taleb, uno studioso del Corano, andando “partout où une femmes ne serait pas allée”9, cantando e danzando, ricevendo ospitalità da donne di ogni estrazione sociale che la accoglievano senza fare domande aiutandola senza chiedere niente in cambio se non che ascoltasse le loro storie. Quello che compie è un lungo cammino di liberazione dalle regole sociali e di arricchimento poiché ogni incontro le lascia un insegnamento, da quello con i giovani della campagna che le mostrano come difendersi, a quello con l’uomo che la assume per

1 Ibidem. 2 Ibidem.

3 Huston, N., Sebbar, L., Lettres parisiennes, op. cit., pp. 258- 259. 4 Femmes, p. 10.

5

Huston, N., Sebbar, L., Lettres parisiennes, op. cit., p. 258.

6 Femmes, p. 35. 7 Ivi, pp. 69-70. 8 Ivi, p. 18. 9

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esibirsi nel suo cabaret, a quello con la cantante Cheikha Rimitti, prima che diventasse famosa, anche lei coinvolta in una vita di peregrinazioni tra feste, canti e danze, a quello con la giovane aristocratica russa che attraversava il paese a cavallo vestita come un cavaliere arabo. Si tratta di Isabelle Eberhardt, scrittrice francese d’origine russa, nata a Meyrin in Svizzera nel 1877 e morta a Ain Séfra in Algeria nel 1904, talmente appassionata e affascinata dalla cultura islamica da decidere di convertirsi all’Islam e di abbandonare l’Europa e le sue convenzioni per esplorare il Maghreb nascosta, proprio come la narratrice, dietro abiti maschili, con lo pseudonimo di Mahmoud Saadi; infatti ci si riferirà a lei più avanti nel romanzo come “Isabelle-Mahmoud”1

. A questa donna straordinaria, che abbracciò il Sufismo, la forma di ricerca mistica dell’Islam, in seguito all’incontro e al matrimonio con Slimène Ehnni, Leïla Sebbar ha dedicato una raccolta di racconti e novelle con il titolo di Isabelle l’Algérien dal quale emergono molte caratteristiche che le due hanno in comune, a partire dall’aver ereditato l’esilio dei propri genitori, passando per la scelta di un esilio volontario e arrivando infine allo sfruttamento della scrittura per comprenderne le ragioni ed esplorare le proprie origini; Sebbar scrive infatti che l’oggetto dei testi e dei romanzi di Isabelle Eberhardt è “cette recherche obsessionnelle, indissociable de l'errance”2. Infine, un ultimo “personaggio”, quello che potremmo considerare il protagonista assoluto di tutta la narrazione, il cui potere salvifico sarà approfondito successivamente, si trova in una condizione di esilio: la parola, o meglio, la parola delle donne e il testo rappresenta un invito a riprenderne possesso facendo sentire la propria voce.

1.5 Le corps de mon père dans la langue de ma mère.

Attraverso ogni sua opera, e quindi anche attraverso Les femmes au bain, Leïla Sebbar compie un vero e proprio nostos, un viaggio di ritorno difficile e travagliato la cui meta è la riappropriazione del “corps de l’Algérie”3

e del silenzio della lingua del padre che resuscita attraverso quella della madre. Si tratta di un viaggio compiuto nell’esilio attraverso la scrittura; afferma:

j’écris la violence du silence imposé, de l’exil, de la division, j’écris la terre de mon père, colonisée, maltraitée (aujourd’hui encore), déportée sauvagement, je l’écris

1 Ivi, p. 66.

2 Sebbar Leïla. Isabelle Eberhardt : Isabelle, l'Algérien. In: Les Cahiers du GRIF, n°39, 1988. recluses

vagabondes. P. 98. http://www.persee.fr/doc/grif_0770-6081_1988_num_39_1_1775

3

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dans la langue de ma mère. C’est ainsi que je peux vivre, dans la fiction, fille de mon père et de ma mère. Je trace mes routes algériennes dans la France.1

Si dichiara infatti certa di una cosa:

Si j’avais su l’arabe, la langue de mon père, la langue de l’indigène, la parler, la lire, l’écrire… je n’aurait pas écrit […] Si j’étais resté dans le pays de mon père, mon pays natal avec lequel j’ai une histoire très ambiguë, je n’aurais pas écrit, parce que faire ce choix-là, c’était faire le corps avec une terre, une langue, et si on fait corps, ont est si près qu’on n’a plus de regard ni d’oreille et on n’écrit pas, on n’est pas en position d’écriture.2

Questa posizione di scrittura invece la ritrova dall’esilio, da questo nuovo paese che, tuttavia, non è per lei un paese straniero, in cui decide di stabilirsi, da cui può scrivere “le corps de mon père dans la langue da ma mère, la langue de la France, ma langue agitée, violente et pudique”3. Compie una particolare operazione di traduzione attraverso la quale accoglie nella lingua della madre quella del padre che a sua volta aveva accolto il francese; come lei stessa scrive, traduce l’Algeria, traduce suo padre, traduce il corpo di suo padre e del suo paese, il corpo delle voci delle donne del suo popolo; riesce a trasporre nella sua prima lingua, l’altra lingua che per tanto tempo ha creduto “étrangère, hostile et dangereuse” ma nonostante questo adorata, “absente, entendue, perdue, retrouvée, jamais parlée” ma che “malgré le silence volontaire, elle est là, sédimentée”4 come “une musique, une langue sacrée […] un chant profond”5. L’esilio le consente di sentirla ancora, non più nel paese del padre, ma nel paese in cui ha scelto di vivere che non è un paese dell’Islam; qui, l’arabo abita i suoi libri “souterrain, patient, secret, je voudrais dire sacré”6

così come “les voix des femmes arabes qui ne taisent pas”7, al contrario, la seguono e la seducono diventando le eroine dei suoi libri; non solo donne ma madri “berbères, arabes, musulmanes, analphabètes, séquestrées [...] Des mères premières, mères archaïques, maternelles, au corps vaste enveloppé de linges où se perd le corps d’un enfant, mères à la langue inconnue”8. Questo processo, alla base della sua scrittura, è ciò che fa fluire la lingua melodiosa de

Les femmes au bain nelle cui pagine attraverso la lingua Francese risuonano e si

alternano le voci delle donne e degli uomini che parlano la lingua che ha accompagnato la sua infanzia, la “seconda lingua” che emerge sensibile ed emozionante e la cui

1 Ivi, p. 68.

2 Huston, N., Sebbar, L., Lettres parisiennes. In : Communications, op. cit., p. 253. 3 Chant secret, p. 46. 4 Ivi, pp. 91-92. 5 Ivi, pp. 91- 92. 6 Ivi, p. 103. 7 Ivi, p. 46. 8 Ivi, p. 56.

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interazione con la “prima lingua” da vita a un modo di scrivere tanto particolare. Sotto la lingua francese, si può sentire la lingua del padre, “elle n’est plus muette”, ma è possibile anche intravedere “la mère et les sœurs de mon père” e tutte le altre donne arabe, non più lontane; scrive Leïla Sebbar, “je veux les entendre, les écrire dans la langue de ma mère, pour accéder au père, au silence de sa langue, l’arabe, l’arabe, l’arabe de mon père”1

.

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