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Hannah Arendt l’apolide

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Academic year: 2021

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PREMESSA

Questo lavoro è dedicato alla figura di Hannah Arendt. Perché se è vero che il Novecento fu il secolo dei profughi, nessuno più della filosofa tedesca ne incarnò ed analizzò le tematiche e le contraddizioni. Ella stessa fu apolide perché ebrea, privata dal nazionalsocialismo della cittadinanza, esule in fuga per tutta l’Europa e internata in un campo di concentramento in Francia perché “straniera sospetta”. Fece parte di quella folta schiera di esseri umani che si ritrovò in uno dei momenti più bui e drammatici della storia europea a perdere man mano casa, affetti, lingua, diritti e certezze, fino alla perdita più estrema, quella della propria dignità. Una perdita di posto nel mondo che confinò queste persone, prima in un limbo, poi sempre più giù fino all’inferno delle camere a gas. A tutto questo però la Arendt si ribellò.

La sua reazione umana e il suo impegno da intellettuale andarono di pari passo. Nei suoi innumerevoli scritti ed articoli condannò ogni forma di totalitarismo, non accettò mai il complesso di colpa a causa del quale una certa mentalità ebraica giustificava come una predestinazione la persecuzione del suo popolo, né all’opposto giustificò mai l’assimilazione di coloro i quali cancellavano la loro identità di ebrei per paura e convenienza. Lontana da ideologie politiche, gruppi e dottrine la sua condizione di paria consapevole le permise di essere un apolide anche del pensiero, schierata solo a favore della verità e della giustizia. Al sionismo guardò sempre con un certo sospetto, la inquietava soprattutto la creazione di uno stato ebraico in Palestina anche se comprendeva il legittimo bisogno di terra degli ebrei.

Fu anche donna d’azione, aiutò indifferentemente amici comunisti a fuggire dalla Berlino nazista e profughi ebrei a emigrare da Parigi per raggiungere la Palestina. Ciò che la rese maggiormente ai “margini” fu la sua lettura del celeberrimo processo ad Adolf Eichmann, dove sola ed unica voce fuori dal coro incolperà oltre i nazisti anche alcuni capi ebraici per la loro collaborazione alla distruzione del proprio popolo. Il male verrà descritto come incapacità di pensare, esecuzione di atti mostruosi senza darne un giudizio morale, come la rimozione della propria coscienza solo per aver eseguito un ordine superiore, uno scollegamento tra pensiero e azione.

Nel secondo capitolo si parlerà dei paria e dei parvenu. I primi prendendo coscienza della propria condizione, preferirono il rischio del margine piuttosto che l’integrazione a qualsiasi costo perseguita dai secondi; i primi furono esclusi dalla società, i secondi si conformarono ai suoi dettami. I paria si rifiutarono di ottenere i diritti in cambio della loro rinuncia all’ebraismo e così vissero in una realtà paradossale e fuori luogo, come gli apolidi privi dei diritti fondamentali e fuori dalla legge. Attraverso cinque figure la Arendt mostrò che la mancata ammissione dell’ebraicità allo spazio pubblico si trasformò in una creatività impareggiabile, capace a sua volta di agire sulla polis interdetta all’ebreo, e che la “galleria dei paria” è un modus vivendi alternativo e l’unico possibile, alle due vie fallite dell’assimilazione e dell’emancipazione. I paria furono un popolo ospite, cercarono di rimanere fedeli alla propria identità e per questo si contraddistinsero per un sentimento di difficile appartenenza. Ma l’emancipazione si sarebbe dovuta realizzare in un’ammissione degli ebrei in quanto tali nell’umanità e non come un’opportunità di recitare la parte dei parvenu. La Arendt non condivise l’assimilazione, così come i sionisti, perché assimilarsi voleva dire accettare l’antisemitismo e inoltre non voleva cercare una via di scampo individuale bensì collettiva, politica. Ma differenza dei sionisti non rifletté in termini identitari, avrebbe voluto bensì, che ogni essere umano avesse il diritto di decidere della propria identità senza dover rinunciare per questo al riconoscimento come cittadino della polis in cui vive, essere ebrei fu per lei un fatto politico.

Si tratterà poi degli ebrei eccezionali, famosi e geniali che cercarono di risolvere la loro condizione di paria, la loro apoliticità con la celebrità. Essi si vollero distinguere dalla massa di ebrei, massa a cui all’inizio dell’Ottocento furono concessi i diritti civili e che vennero disprezzati anche perché lo Stato prussiano gli accordava delle misure straordinarie; cercarono di essere diversi dagli altri uomini per il fatto di essere ebrei e diversi dagli altri ebrei per il fatto di non essere ebrei comuni. La Arendt denunciò così la riduzione del giudaismo a qualità psicologica e della questione ebraica a problema

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2 individuale. Essere un individuo fuori dalla norma venne utilizzato dal singolo ebreo come passe-partout per le porte della società; la massa degli ebrei non fu contemplata; nessuno Stato e gli stessi ebrei si posero mai il problema di un popolo ebraico politicamente riconosciuto e quindi fu facile liberarsi di loro. Ma il paria, come il profugo, non rappresentò il preludio della catastrofe, bensì una condizione di possibilità della libertà umana. La libertà è la possibilità di vivere allo stesso tempo da cittadini e da stranieri, la possibilità di stare dentro senza essere inclusi in una rigida identità collettiva e la possibilità di stare fuori, senza essere esclusi dalla polis.

Si esporrà poi la vicenda degli apolidi, il gruppo umano più caratteristico della storia contemporanea, l’enorme numero di persone che tra le due guerre si trovarono a perdere tutto. La disgregazione degli Imperi di fine Ottocento, i trattati post bellici, la creazioni di nuovi Stati e le rivoluzioni dell’Est ne furono la causa, ma la fu anche l’incapacità dei nuovi governi di comprendere la vastità e l’irriducibilità del fenomeno. Il loro atteggiamento oscillò tra l’idealismo delle Costituzioni basate sui “diritti umani”, la rimozione e pratiche più spregiudicate. Profughi ed apolidi furono privati del diritto d’asilo, di quello alla cittadinanza e alla naturalizzazione anche a chi viveva in quel paese da tempo. La Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 non evitò che milioni di persone fossero espulse, recluse e deportate, perché dall’Ottocento in poi gli Stati identificarono il popolo con la nazione, qualsiasi individuo senza status giuridico perdeva il suo status di persona. I diritti umani così ben enunciati nelle Costituzioni non divennero mai una realtà politica come invece lo furono i diritti civili. L’umanità si organizzò in nazioni e chi non ne aveva una, venne escluso; non la perdita di specifici diritti, ma la perdita di una comunità disposta e capace di garantire qualsiasi diritto fu la sventura che si abbatté su un numero sempre crescente di persone: è la perdita di una comunità politica che esclude dall’umanità.

Si tratterà degli Heimatlose per eccellenza, gli ebrei, perché non furono in maggioranza in nessun paese e perché intrattennero relazioni internazionali. Il problema delle minoranze e dell’apoliticità non riguardò solo gli ebrei ma i governi, con il pretesto che fosse solo un problema ebraico, lo ignorarono. Si ripercorrerà l’evoluzione della soluzione hitleriana che culminò nel 1941 con le leggi per rendere gli ebrei tedeschi una minoranza non riconosciuta dallo Stato, deportarli nei lager oltre i confini del Reich e lì, apolidi - ridotti per la Arendt a nuda vita - farne ciò che si voleva. Si esporrà con qualche esempio significativo, il comportamento che assunse la Germania nazista nei confronti degli ebrei apolidi e non, in alcuni Stati europei. Si tratteggerà la figura di Eichmann, incaricato di occuparsi della

“questione ebraica” dal 1938 al 1944, che si dedicò instancabilmente prima all’emigrazione forzata e poi alla deportazione di centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini, su treni e a piedi da Vienna, Praga e Budapest verso la parte orientale della Polonia, non annessa al Reich, in condizioni mostruosamente disumane.

Si vedrà infine che lo stesso Eichmann in fuga visse da profugo in Europa e da esiliato in Argentina, dove venne catturato dai servizi segreti israeliani e processato in Israele in quanto apolide. La sua patria infatti gli aveva negato la protezione giuridica di solito accordata agli emigrati all’estero ed in Argentina aveva vissuto sotto falso nome privandosi del diritto di essere protetto dal governo, né aveva mai invocato il diritto d’asilo.

Nelle conclusioni si rifletterà sul fatto che la condizione degli apolidi e degli ebrei delle pagine arendtiane si è protratta nella storia del Novecento fino ad oggi, ancora epoca di esclusi, migranti e rifugiati, e sul fatto che la figura del paria cosciente, mai del tutto a casa sua nel mondo, dal confronto con Kafka in poi, si tradurrà in quella dello straniero;

straniero a cui bisogna aspirare perché essere stranieri fa bene. Lo straniero può visitare, vivere e giudicare il mondo meglio di chiunque altro, pensa e agisce dialetticamente, aperto a più prospettive e punti di vista, più al sicuro dalle ideologie, è al confine tra assimilazione e rigetto.

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Capitolo 1.

Hannah Arendt l’apolide

1.1 Una vita da profuga

Hannah Arendt ebbe una vita molto movimentata e, come disse Bertolt Brecht dei profughi europei giunti in America, fu un messaggero di sventura, visse in tanti luoghi, vide due guerre mondiali, una guerra Fredda, una del Vietnam, scandali presidenziali, movimenti migratori, politici, di emancipazione femminile e le basi per la nascita dell’Unione Europea.

Può essere definita apolide perché non ebbe fissa dimora per molto tempo, fin dalla giovinezza si spostò a causa delle guerre e con l’avvento del nazismo perse la cittadinanza.

Nacque nel 1906 da una famiglia ebraica a Linden, vicino a Hannover e cambiò casa quando, in seguito alla morte del padre, la madre, Martha Arendt, si rimaritò. Crebbe a Königsberg, studiò alcuni mesi a Berlino, fu studentessa di Martin Heidegger a Marburgo e di Edmund Husserl a Friburgo e si trasferì poi a Heidelberg per laurearsi con Karl Jaspers. Nel 1929 andò a Berlino dove si sposò con il primo marito Günther Stern e dopo l’avvento del potere del nazionalsocialismo e l’inizio delle persecuzioni lasciò la Germania, passando per Praga, Genova e Ginevra alla volta della Francia, dove si prodigò per aiutare gli esuli ebrei fuggiti dalla Germania nazista: “Intendevo emigrare in ogni caso. Avevo capito fin dall’inizio che gli ebrei non potevano restare. Non era mia intenzione vagare per la Germania come una cittadina di seconda classe […] per di più ero certa che le cose sarebbero andate sempre peggio.”1 La Francia fu un ulteriore luogo che non le diede una patria, anzi, il governo Vichy la internò nel campo di Gurs in quanto “straniera sospetta”. A Parigi fece parte della tribù degli émigrés, dei quali si sentiva parte e per i quali provava una sorta di amore, quell’ amore che nella tesi di dottorato con Jasper emerse come quel senso comunitario che

1H. Arendt, Archivio Arendt, 1930-1948, Feltrinelli, Milano, 2001, p. 39.

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4 sant’Agostino chiamava “amore per il prossimo”2. Allo stesso modo in cui si sentì far parte della cerchia dei boches (termine spregiativo con cui i francesi chiamavano i tedeschi: “Per sette anni abbiamo recitato la ridicola parte di quelli che cercano di essere francesi o per lo meno, potenziali cittadini; eppure all’inizio della guerra, siamo stati ugualmente internati come boches”3), si sentì anche parte del gruppo dei profughi che riuscirono ad emigrare negli USA; che raggiunse dopo essere fuggita dal campo di Gurs e aver attraversato la Spagna e il Portogallo, da dove si imbarcò nel 1941 con la madre e il secondo amato marito Heinrich Blücher.

È ancora più forte è il “noi” di Hannah Arendt quando scrisse Noi profughi - un testo del 1943, scritto poco dopo il suo sbarco negli USA - dato che lì affermò più volte che non amava appartenere ad alcuna comunità o popolo e che non voleva far parte di alcun gruppo di eccezione.

La sua intera esistenza fu contrassegnata dal Selbstdenken, un desiderio di conoscenza, un anelito alla libertà e alla giustizia vissuto senza potere (né volere) appartenere in senso stretto a nessuna scuola di pensiero, a nessuna ideologia, a nessuna confessione religiosa. Neanche la nozione di “amore per il popolo ebraico” che Gershom Scholem le rimproverava come del tutto assente ne La banalità del male, costituiva un’eccezione: “Hai perfettamente ragione non sono animata da alcun amore di questo genere, e ciò per due ragioni: nella mia vita non ho mai amato nessun popolo o collettività- né il popolo tedesco, né quello francese, né quello americano, né la classe operaia, né nulla di questo genere”4. Amava i suoi amici e le persone e l’amore per gli ebrei le sembrava qualcosa di piuttosto sospetto, essendo lei stessa ebrea: “Non posso amare me stessa o qualcosa che so essere una parte essenziale della mia stessa persona. […] Ebbene, è in questo senso che io non amo gli ebrei, né credo in loro, appartengo semplicemente a loro. Questo è un dato di fatto fuori discussione.”5

Rimase apolide e quindi priva di diritti politici per oltre otto anni, fino al 1951, anno in cui le venne concessa la cittadinanza statunitense.

2E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Per amore del mondo 1906-1975, trad. di D. Mezzacapa, Bollati Boringhieri, Torino, 1994, p. 30.

3 H. Arendt, Ebraismo e Modernità, trad. it. di G. Bettini, Feltrinelli, Milano, 2003, p.43.

4Ivi, pp. 222-223.

5Ibidem.

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5 Iniziò poi la sua carriera accademica ottenendo vari insegnamenti, e dal 1960 al 1963 fu inviata dal settimanale “New Yorker” come reporter per il processo al criminale nazista Adolf Eichmann. Fu anche invitata a tenere delle lezioni all’Università scozzese di Aberdeen dove, durante il secondo ciclo di conferenze, subì il primo infarto e, a causa di un secondo arresto cardiaco, morì nel suo appartamento a New York.

In Noi profughi Hannah Arendt si sofferma sulla condizione degli americani di lingua tedesca, i “profughi” ebrei in fuga dalla persecuzione nazista che avevano

“perso la casa, che rappresentava l’intimità della vita quotidiana, il lavoro che incarnava la fiducia di essere di qualche utilità nel mondo, la lingua che significava la spontaneità delle reazioni, la semplicità dei gesti, che era l’espressione sincera e naturale dei sentimenti e i parenti nei ghetti e i gli amici nei campi di concentramento.”6 Tutte le loro vite erano state spezzate, ma non volevano essere chiamati “profughi” perché non avevano agito in nessun modo particolare né sostenuto un’opinione politica radicale per cercare asilo negli Stati Uniti e tra di loro si chiamavano “nuovi arrivati” o “immigrati”.

In effetti con l’arrivo degli ebrei in America il significato del termine “profugo”

cambiò: “ora profughi sono quelli di noi che hanno avuto la grande sfortuna di arrivare in un paese nuovo senza mezzi e per questo hanno bisogno dell’aiuto dei Refugee Committees”7.

La Arendt scrive che prima che la guerra scoppiasse, gli ebrei fuggiti erano ancora più sensibili al fatto di essere chiamati “profughi” perché facevano del loro meglio per dimostrare agli altri di essere partiti di loro volontà, per paesi scelti da loro e negando che la loro situazione avesse a che fare con i cosiddetti problemi ebraici.

Dicevano che erano immigrati o nuovi arrivati perché avevano lasciato i loro paesi per ragioni puramente economiche e volevano ricostruire la loro vita ed essere ottimisti.

Oltre che essere forti e positivi molti di questi “profughi” che avevano trovato rifugio negli USA dovevano assimilarsi alla nuova patria e dimenticare il passato.

Hannah si sentiva invece parte di quella minoranza di ebrei che, pur entro limitati spazi di resistenza, non aveva negato la realtà dei fatti, ovvero che fosse

6H. Arendt, Ebraismo e Modernità, cit., p.36.

7Ivi, p. 35.

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6 ebrea, che fosse dovuta fuggire per questa “colpa” e soprattutto si sentiva tra quelli che avevano tentato di fare qualcosa: “Comunque alla fine non me ne sono andata così pacificamente. E devo riconoscere che ne vado orgogliosa. Venni arrestata e dovetti lasciare il paese illegalmente […] e per me fu una grande soddisfazione. Pensavo: almeno ho fatto qualcosa! Almeno non sono “innocente”!

Nessuno avrebbe potuto dirlo di me! L’opportunità me la offrì l’organizzazione sionista”8.

Secondo la Arendt i nuovi arrivati cercavano di ricominciare le loro vite seguendo più fedelmente possibile tutti i consigli dei loro salvatori: di dimenticare, di apprezzare il nuovo paese come la loro nuova casa, di parlare una nuova lingua ricordando a mala pena la loro, in breve di essere francesi o americani: “Per sette anni abbiamo recitato la ridicola parte di quelli che cercano di essere francesi […]

la maggior parte di noi è diventata a tal punto fedele alla Francia, che non abbiamo potuto nemmeno criticare un ordine del governo francese. Siamo stati i primi

“prisonniers volontaires” che la storia ricordi.”9

In Noi Profughi Hannah Arendt si definisce costantemente una profuga: “dopo lo scoppio della guerra e la catastrofe che si è abbattuta sugli ebrei d’Europa, il semplice fatto di essere dei profughi ci ha impedito di mescolarci con le comunità di ebrei nativi.”10

Inoltre l’identità degli ebrei veniva cambiata così spesso che nessuno poteva scoprire chi erano realmente. In Francia “dopo essere stati imprigionati perché eravamo tedeschi, non venivamo liberati perché eravamo ebrei. […] A Parigi non potevamo uscire di casa perché eravamo ebrei, ma a Los Angeles subiamo delle restrizioni perché siamo nemici stranieri.”11

Molti ebrei arrivati in America, secondo la Arendt, evitavano ogni allusione ai campi di concentramento e al passato e, cosa ancora più grave, non si interessavano ai giornali e alla politica, si nascondevano sotto un falso ottimismo che poi spesso li spingeva al suicidio. Erano potenziali cittadini e nemici stranieri

8H. Arendt, Archivio Arendt, 1930-1948, cit., p. 39.

9H. Arendt, Ebraismo e Modernità, cit., p. 43.

10 Ibidem.

11 Ibidem.

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7 che si erano abituati a desiderare la morte per gli amici e i parenti per evitare molti guai.12

La Arendt critica “l’egotismo dei profughi, in fuga dalla storia e dal mondo al punto da ritrovarsi sospesi tra ottimismo assimilazionista e disperazione suicida, tra annullamento della propria identità e annullamento della propria vita, ma ciò non si risolve in una presa di distanza, né tanto meno in incomprensione o rancore”13, perché ella sa bene quanto sia umano cercare scorciatoie quando non si ha un posto nel mondo. “L’uomo è un animale sociale e la vita non è facile per lui quando vengono recisi i legami sociali […] Pochissimi individui hanno la forza di conservare la loro integrità se la loro condizione sociale, politica e giuridica è del tutto indefinita”14. Si vede qui la genesi del tema arendtiano di esclusione ed inclusione che tratteremo nei prossimi paragrafi.

1.2 Ai margini della politica e del sionismo

Hannah Arendt è stata un apolide in quanto tedesca, ebrea, sionista e teorico della politica perché con entrambi di questi poli ebbe rapporti problematici: era sempre fuori da qualsiasi gruppo.

Arendt si avvicinò al sionismo grazie a Kurt Blumenfeld che fin dal periodo universitario di Königsberg faceva parte del circolo sionista e che divenne nel 1909 il principale portavoce dell’Organizzazione sionista di Germania.

Blumenfeld e Arendt si conobbero a Heidelberg grazie a Hans Jonas in occasione di una conferenza tenuta dal primo che non convertì Hannah al sionismo, ma che la convertì a Blumenfeld. Lo ammirava e continuò sempre ad ammirarlo, divenne il suo mentore in politica, l’uomo con cui scherzare, scambiarsi citazioni di Heine e lettere durante tutti gli anni di esilio. Per lui la sola risposta alla questione ebraica fu il sionismo, ma anche il sionismo gli apparse problematico, così come per Hannah. Egli sostenne che il sionismo era una specie di rivelazione che aveva personalmente vissuto, il fine ultimo di ogni ebreo doveva essere quello di affrontare il fatto che gli ebrei sarebbero stati considerati dai non ebrei prima

12H. Arendt, Ebraismo e Modernità, cit., p. 38.

13I. Possenti, L’apolide e il Paria, Carocci Editore, Roma, 2017, p. 18.

14H. Arendt, Ebraismo e Modernità, cit., p.44.

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8 di tutto e soprattutto ebrei, e si doveva quindi affrontare senza esitazione il tedesco non ebreo.

Quando la Arendt, più tardi, parlerà e scriverà sulla necessità per gli ebrei di rifiutare di umiliarsi lo farà nel ricordo dell’atteggiamento della madre e del sionismo radicale di Blumenfeld: “Nel decennio seguito alla prima guerra mondiale, e persino nel decennio che la precedette, il sionismo trasse la sua forza non tanto dall’intuizione politica (del resto non creò convinzioni politiche), quanto all’analisi critica delle reazioni psicologiche e dei fatti sociologici. La sua influenza fu principalmente pedagogica e andò molto più in là della cerchia relativamente ristretta dei suoi membri effettivi”15.

Blumenfeld chiamava il suo sionismo post-assimilatorio perché era adatto a quegli ebrei che avevano già alle spalle una storia di emancipazione di assimilazione e a quelli che avevano perduto il contatto con la cultura ebraica e che intendevano conservare i rapporti con la cultura nazionale con cui erano cresciuti. Voleva che il sionismo fosse un vero movimento nazionale e sosteneva che l’emigrazione in Palestina dovesse far parte del programma di vita di ogni sionista. Ma ciò implicava prima di tutto la formazione di una comunità ebraica che ancora per lui non esisteva e che andava costruita. Una comunità tollerante verso i diversi retroterra culturali non ebraici di ciascuno dei suoi membri, una comunità nella quale, come Hannah Arendt dirà: “l’assimilazione non è il prezzo da pagare per la cittadinanza”16. Le critiche di Blumenfeld all’assimilazione miravano a mettere in guardia gli ebrei contro le tensioni che la vita in una società non ebraica comportava e anche contro il pericolo di ricreare intolleranza in una futura società di ebrei. Voleva eliminare le disuguaglianze dalla vita ebraica e lasciarsi quindi alle spalle il sionismo filantropico che non faceva altro che consolidare la differenza tra quegli ebrei che avevano raggiunto il successo il quanto parvenu e quelli che non volevano o non potevano lasciarsi alle spalle la condizione di paria.

Hannah Arendt accettava le grandi linee dell’analisi di Blumenfeld sulle dimensioni psicologiche e sociologiche delle reazioni ebraiche all’antisemitismo.

Era sensibile al pericolo che avvertiva lui, ovvero che gli stessi modi e gli stessi

15H. Arendt, Le Origini del Totalitarismo, Einaudi, Torino, 2009, p. 111, nota 61.

16Discorso per il premio Sonnig, 1975, Carte Arendt presso la Biblioteca del Congresso, Washington, D.C.

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9 tipi di pregiudizio patiti dagli ebrei tedeschi potessero riprodursi in seno alle comunità ebraiche qualora non fossero stati superati gli atteggiamenti assimilazionistici17. Ma l’idea dell’emigrazione in Palestina non fece mai parte del programma di vita di Hannah.

Il primo modo con cui, secondo la Arendt, la questione ebraica poteva essere se non risolta, sopportata, era con il concetto di amore agostiniano per il prossimo e l’interesse del santo per la vita socialis. Su questo verteva la sua dissertazione di dottorato, sul concetto di amore in Sant’Agostino, e rimanendo fedele al ruolo di costante spina nel fianco dei dotti18, la Arendt intrecciava in quest’analisi contesti concettuali diversi e contradditori, molti dei quali ripresi da Jaspers e Heidegger.

Dopo la laurea, per un breve periodo, visse a Francoforte con il primo marito Günther Stern, ma entrambi non si trovarono molto bene, anche perché, non ebbero mai simpatia, sul piano intellettuale, per i marxisti della Scuola di Francoforte19. I due ritornarono a Berlino e una delle riviste socialiste più autorevoli, Die Gesellschaft, propose a Hannah di scrivere una recensione del libro di Karl Mannheim, Ideologia e Utopia. Articolo che, con quello scritto con Stern sulle Elegie duinesi di Rilke, segnarono “per Arendt il punto culminante del suo atteggiamento del pensare come attività mondana e verso l’amore come principio trascendente”20. Per Rilke come per Agostino, gli uomini sono creature straniere nel mondo, che lottano per trascendere la transitorietà del mondo e la propria condizione mortale. Rilke però non possedeva l’immagine della grazia redentrice di Dio, e gli uomini non possono mai trovar requie ai loro sforzi.

A Berlino si trovò di nuovo a stretto contatto con Blumenfeld e i suoi amici sionisti. In questo periodo scrisse la storia della vita di un pensiero di un’ebrea:

Rahel Varnhagen. Nel testo, tra le tante cose, critica l’introspezione con la motivazione politica che essa preserva la distinzione tra privato e pubblico e mostra come essa rendesse impossibile il giudizio politico. Giunge alla conclusione di dire di no all’assimilazione, no al sionismo e sì all’ambiguità, un’ambiguità politica come unica via d’uscita che consiste nel rifiutare di aderire a qualsiasi gruppo con un programma. Anche se ciò non è privo di pericoli:

17E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Per amore del mondo 1906-1975, cit. p. 104.

18Ivi p. 105.

19Ivi p. 111

20Ivi p.116.

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10 perché “ambiguità può significare non avere più radici e rifiutarsi di stare con gli altri può significare inazione”21.

Nel 1933, prima della fuga da Berlino, la Arendt aveva completato i primi undici capitoli del libro su Rahel grazie anche al sostegno di uno dei suoi migliori amici, Walter Benjamin, un altro apolide, e scrisse gli ultimi due nel 1938 che, notò Jaspers, avevano un tono del tutto diverso: “Nell’estate del 1938 l’ho portato a termine, irritata perché Heinrich e Benjamin non mi davano pace. […] È scritto dal punto di vista della critica sionista all’assimilazione, in cui mi sono identificata, e che ancora oggi ritengo sostanzialmente giusta […] All’origine ero semplicemente ingenua; il cosiddetto problema ebraico lo trovavo noioso. Su questo mi ha aperto gli occhi Kurt Blumenfeld”22. Se in proposito era stato Blumenfeld ad aprirle gli occhi, fu però l’internazionalismo politico di Blücher e di Benjamin che le permise di vedere con maggiore ampiezza il destino degli ebrei. In quei due ultimi capitoli la Arendt mette in risalto tutta l’ironia della posizione assimilazionista: “In una società, quasi interamente antisemita- e questo vale, nel nostro secolo, per tutti i paesi in cui vivono gli ebrei- ci si può assimilare solo se ci si assimila all’antisemitismo”23. Rahel si era rifiutata di essere antisemita e accettò di essere ebrea.

Nel 1931 e nell’anno successivo il pensiero della Arendt divenne stabilmente più politico e storico, continuò a scrivere per “Die Gesellschaft” e ora anche per l’Archiv. Scrisse riguardo al movimento femminista che criticò perché non scendeva nell’arena politica e non traduceva la sua ideologia in obiettivi politici concreti (stessa critica che rivolgerà poi ai sionisti).

L’adesione alla critica sionista dell’assimilazione si faceva sempre più profonda così come si faceva sempre più acuta la sua intolleranza verso gli intellettuali (come Leo Strauss) che non riuscivano a vedere come la situazione politica del nazionalsocialismo si andasse facendo sempre più buia.

Passava molto tempo con i suoi amici sionisti e ciò non poteva non avere effetti sul suo matrimonio perché in quel periodo tra sionisti e comunisti non correva molto rispetto reciproco, nonostante il fatto che spesso si aderisse al sionismo e

21Ivi p. 122.

22H. Arendt, Rahel Varnhagen, trad. di L. R. Santini, Il Saggiatore, Milano 2016, pp. 353 seg.

23Ivi, p. 229.

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11 al comunismo per ragioni analoghe, come il rifiuto dei comportamenti borghesi o assimilazionisti. Ma spesso i sionisti consideravano i comunisti

“assimilazionisti rossi”, e i comunisti con la loro mentalità internazionalista, vedevano nel sionismo una specie di fanatismo24.

Tensioni domestiche e la fuga di Günther Stern da Berlino a Parigi dopo alcuni giorni dall’incendio del Reichstag, divisero i due coniugi.

Hannah rimase a Berlino e decise che non voleva essere solo un’osservatrice.

Intensificò i rapporti con i sionisti e collaborò alla fuga dei nemici di Hitler, la maggior parte dei quali comunisti: fu il battesimo che la introdusse al mondo dell’azione.

Quando uscì il controverso libro su Eichmann, Gershom Scholem in una lettera aperta la definì come una fra quei “tanti intellettuali che provengono dalla sinistra tedesca”. Al che la Arendt ribatté: “Io non sono una degli “intellettuali che provengono dalla sinistra tedesca”. Questo non potevi saperlo dato che da giovani non ci conoscevamo. È un fatto di cui non vado particolarmente orgogliosa e che sono un po’ restia a sottolineare, in particolare da quando in questo paese è iniziata l’era di McCarthy. Ho compreso tardi l’importanza di Marx, perché da giovane non ero interessata né alla storia né alla politica. Se posso dire di “provenire da qualche parte”, è dalla tradizione della filosofia tedesca”25.

È vero che in gioventù la Arendt non si interessava di politica ma è anche vero che sua madre era socialdemocratica, suo marito Stern un uomo di sinistra e che a Berlino aveva iniziato a leggere Marx, Lenin e Trockij a che quando nel 1933 il Parlamento venne dato alle fiamme lei i comunisti li aiutò per davvero.

In ogni caso anche queste parole della Arendt sottolineano quanto fosse restia ad appartenere a qualsiasi categoria.

L’appartamento a Berlino era stato acquistato dagli Stern nell’estate 1932 ed era stato finalmente una vera casa26 e ora c’era un gran via vai di visitatori che servivano anche a proteggere i fuggiaschi.

24E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Per amore del mondo 1906-1975, cit., p. 130.

25H. Arendt, Ebraismo e Modernità, cit., p. 221.

26Arendt a Jaspers, 1° gennaio 1933, Carte Arendt presso il Deutsches Literatur-archiv, Marbach, Repubblica Federale Tedesca trad. it. parz. di Q. Principe, Carteggio. Filosofia e politica, Feltrinelli, Milano, 1989.

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12 La patria di Hannah, la sua casa, la sua Heimat era la Mutter-Sprache. La lingua era ciò che rappresentava la continuità, ma il tedesco era un fatto politico27. La lingua tedesca era la sola nella quale fosse possibile pensare politicamente; e per lei Germania voleva dire lingua madre, filosofia e poesia, realtà di cui si voleva fare garante28. Ma a tutto il resto si sentiva estranea, compreso ciò che Jaspers chiamava deutsches Wesen, essenza tedesca, e scriveva: “la Germania nell’antico splendore è il suo passato. Quale sia il mio, potrei dirlo in due parole, e direi, allora, che ogni fisionomia per noi evidente- sia essa quella dei sionisti, dei favorevoli all’assimilazione o degli antisemiti- è soltanto una parvenza che maschera la vera problematica della situazione”29.

Jaspers continuava a sperare di poterla riconciliare con la germanicità, e di poter ottenere il suo consenso continuando a discutere: “L’uomo non può vivere soltanto di negazioni, di problematiche e di ambiguità”30. Temeva per lei, e pensava che, se avesse continuato in questo modo a criticare tutto e tutti, anche i sionisti, non le sarebbe rimasto più dove stare e le sarebbe venuta meno ogni base per qualsiasi convinzione positiva. Per lui l’ambiguità non poteva essere una via d’uscita. Ma in aprile quando Arendt lo andò a trovare un’ultima volta a Heidelberg, non tentò neanche di convincerla.

Con quella risposta a Scholem voleva sottolineare di essere arrivata alla politica e alla resistenza non come una di sinistra ma come un’ebrea.

Erano stati i sionisti a far sì che Hannah cominciasse ad agire in quanto ebrea.

Infatti nel 1933 un collega di Blumenfeld le chiese di fare per loro un lavoro illegale - dato che non aveva rapporti ufficiali con i sionisti - ovvero raccogliere presso la Biblioteca di Stato Prussiana del materiale che dimostrasse la presenza antisemita nelle organizzazioni non governative, nei circoli privati e nelle associazioni di commercianti e professionisti.

Fuggita da Berlino, visse a Praga e a Ginevra dove lavorò per l’agenzia ebraica, si stabilì poi a Parigi fino al 1941 dove lavorò con organizzazioni che aiutavano i profughi ebrei a emigrare in Palestina e che fornivano assistenza legale agli antifascisti. Lì comprese che la critica sionista all’assimilazione andava

27E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Per amore del mondo 1906-1975, cit., p. 29.

28Arendt a Jaspers, 1° gennaio 1933, Marbach, trad. it. In Carteggio, cit., p. 35.

29Arendt a Jaspers, 6 gennaio 1933, Marbach, trad. it. In Carteggio, cit., p. 38.

30Jaspers a Arendt, 10 gennaio 1933, Marbach.

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13 modificata perché le persone che incontrava erano il prodotto di due o tre processi di assimilazione differenti31, aveva accolto la distinzione tra paria e parvenu di Blumenfeld ma si accostava sempre di più alle idee di Bernard Lazare che aveva ripudiato i capi ebraici, alcuni dei quali sionisti, che volevano guidare le masse come bambini32 e che come lei, sempre più attivamente, spingeva per una politica rivoluzionaria.

Con il saggio su Rosa Luxemburg, la cui morte “segnò la linea di demarcazione tra due epoche della storia della Germania, e per la sinistra tedesca il punto di non ritorno” la Arendt sostiene che ogni rivoluzione deve provenire dal basso e critica ogni dirigenza che abbandoni la sua base locale - vera fonte del potere - come avevano fatto i comunisti e ora stava facendo la direzione ebraica. Più tardi estenderà tale critica alla dirigenza politica dell’Europa del dopoguerra, poi allo Stato di Israele e infine alla patria di adozione americana.

Nel periodo parigino Hannah lavorò in due organizzazioni, alla Agriculture et artisanat e alla Youth Aliya che preparava i giovani emigrati alla vita in Palestina.

Nel 1935 le venne assegnato il compito di accompagnare un gruppo di giovani che avevano terminato la loro formazione e prima di arrivare fece tappa a Siracusa, luogo da cui rimase affascinata.

Una volta terminato il lavoro, il suo interesse più vivo non fu quello di vedere Sion ma piuttosto la terra sulla quale tanti antichi popoli si erano insediati costruendo le loro città e nella quale tanti popoli moderni ancora vivevano. Era più informata sugli antichi greci e romani che non sugli ebrei: se era sionista ciò avveniva per ragioni di pratica politica, perché sapeva che il suo popolo aveva bisogno di un posto dove vivere, e non per motivi religiosi o culturali. Vedeva con entusiasmo le possibilità sociali e politiche offerte dalla Palestina ai coloni ebraici ma era contraria a quel tipo di sionismo che in seguito avrebbe definito

“concentrato sulla Palestina”. Lodò i villaggi di lavoro e i kibbutzim che aveva visitato in quanto esperimenti politici degni di ammirazione ma aveva paura che si trattasse di una nuova aristocrazia e che tutto si riducesse a dominare i propri vicini33. Da quella prima visita in Palestina le sarebbe sempre rimasta questa

31E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Per amore del mondo 1906-1975, cit., p.151.

32H. Arendt, Prefazione a Bernard Lazare, Job’s Dungheap, Schocken Books, New York, 1948.

33Arendt a Mary McCarthy, 7 ottobre 1967, in Tra amiche, trad. it. di A. Pakravan Papi, Sellerio, Milano 1999.

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14 ambivalenza tra ammirazione politica e riserve personali, anche se sapeva che un’eventuale catastrofe in Israele l’avrebbe colpita più profondamente di qualsiasi cosa.

La Youth Aliya si trasferì in Inghilterra e così nel 1938 Hannah si trovò nuovo lavoro all’Agenzia ebraica. Assisteva i profughi austriaci e cecoslovacchi e intanto rifletteva sul fatto che il sionismo come movimento isolato non bastava più e che era necessario organizzare la resistenza, una lotta politica.

Nel 1941 i Blücher giunsero a New York City con venticinque dollari in loro possesso e una borsa mensile di settanta dollari che ricevevano dalla Zionist Organization of America. Da subito la Arendt lodò lo spirito democratico americano e scoprì di avere in antipatia la vita sociale degli americani e al tempo stesso ammirazione per la loro vita politica.

I coniugi affittarono un appartamento in centro con Martha Arendt e iniziarono a imparare l’inglese e a cercare un lavoro. Hannah trovò posto come articolista per il giornale ebraico di lingua tedesca Aufbau e come insegnante part-time presso il Brooklyn College.

A Parigi erano circondati da una tribù di amici, la maggior parte dei quali emigrati, che si ricreò a New York anche se molti rimasero in Europa e con l’inasprirsi della guerra era difficile comunicare con essi e quasi impossibile aiutarli a emigrare. In tutta New York, ogni volta che due profughi si incontravano per caso per la strada si formava un nuovo collegamento per la loro rete d’informazioni. Era un mondo chiuso e impaurito quello degli ebrei tedeschi emigrati: la sospettosità nei confronti dei goyim era universale, giacché si presumeva che l’antisemitismo regnasse fra gli americani, per dirla con un termine usato dalla Arendt, come consensus omnium.34

Per tutto l’inverno 1941-1942 la Arendt si servì della sua colonna su “Aufbau” per promuovere la formazione di un esercito ebraico, contro quegli ebrei americani che, per paura dell’antisemitismo e di apparire poco patriottici, e contro gli inglesi che, per paura di incrinare i rapporti con gli arabi palestinesi e le truppe britanniche stanziate in Palestina, non lo volevano. La Arendt auspicava nell’immediato che gli ebrei si esprimessero politicamente cioè combattendo,

34E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Per amore del mondo 1906-1975, cit., p. 208.

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15 anziché contare sulle armi altrui o limitarsi ad assistere le vittime della guerra con la carità e più a lungo termine che gli ebrei potessero partecipare insieme agli alleati alle future conferenze di pace, perché chi non partecipa alla guerra non partecipa alla pace35. Riteneva che un’azione svolta con gli europei avrebbe offerto agli ebrei la migliore occasione per l’emancipazione nazionale, qualora, nello sforzo comune contro Hitler, gli antagonismi tra i popoli europei fossero scomparsi. Esprimeva insomma la speranza che aveva già formulato a Parigi ovvero che una futura federazione europea avrebbe assicurato una patria agli ebrei. Ammoniva i sionisti con la mentalità del “ritorno al ghetto” a non concentrarsi solo sulla Palestina. Temeva che l’unicità del popolo ebraico avrebbe finito per alienare gli ebrei dal resto degli europei, specialmente se queste idee avessero assunto toni nazionalistici o ripreso il concetto germanico di “unità organica” di popolo. Quando usava il termine Volk lo faceva in senso politico e non razziale, si rivolgeva alla massa del popolo, non ai dirigenti ebraici, invitava gli ebrei a guardare alle loro tradizioni politiche e ad ammirare Mosè e David senza dipendere dai Washington e dai Bonaparte di altri popoli36. Un esercito popolare secondo lei avrebbe presentato al mondo un nuovo senso dell’identità ebraica, liberata da tutte le vecchie connotazioni caritatevoli (come ebreo Schnorrer, accattone) che l’avevano sempre contraddistinta. Era contro l’idea, comune tra gli ebrei secolarizzati e assimilati, che un senso di solidarietà potesse nascere solo in senso negativo, cioè come timorosa reazione all’antisemitismo, contro coloro che da Theodor Herzl a Jean-Paul-Satre credevano che una nazione fosse un gruppo di persone tenute insieme da un nemico comune: “è stata una disgrazia che soltanto i suoi nemici, e quasi mai i suoi amici, si rendessero conto che la questione ebraica era essenzialmente politica”37. Il Commitee for a Jewish Army, diretto Ben Hecht, che si batteva per la sua stessa causa, le appariva come un gruppo di amici che avevano capito che bisognava metter fine all’indifferenza degli ebrei verso l’azione politica.

Si rese poi conto che il comitato era in realtà un fronte revisionista e formò con Joseph Maier, un altro articolista di “Aufbau”, Il Gruppo giovane-ebraico, che si

35H. Arendt, Antisemitismo e identità ebraica. Scritti 1941-1945, a cura di Marie Luise Knott, Edizioni di Comunità, Torino, 2002, pp. 31-33.

36H. Arendt, Antisemitismo e identità ebraica. Scritti 1941-1945, cit., pp. 27-28.

37H. Arendt, Le Origini del Totalitarismo, cit., p. 79.

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16 riuniva per conferenze e dibattiti; durante i quali la Arendt criticava le ideologie del passato e le loro visioni pseudopolitiche del mondo e quelle visioni del futuro che presuppongono una conoscenza del corso della storia che “hanno tutte un patto segreto con l’hegeliano spirito del mondo”. Confutava il materialismo storico, lo storicismo, il liberalismo, il socialismo e il sionismo, quest’ultimo per le sue manie divinatorie sul futuro. La libertà e la giustizia, affermava, sono i veri principi della politica, e ogni popolo che lotta per la giustizia e per la libertà deve farlo senza nutrire illusioni circa il ruolo della storia, e senza abbandonarsi a idee grandiose sull’umanità.

Il gruppo era assai critico nei confronti del sionismo, per loro la Palestina non era la sola salvezza degli ebrei, bensì un punto di cristallizzazione per la politica ebraica. Su questo punto c’era disaccordo tra la Arendt e Blumenfeld, mentre erano d’accordo sulla diffidenza verso i parvenu filantropici e sul fatto che tutti i popoli oppressi sono doppiamente oppressi: dai loro nemici e dalle loro stesse classi privilegiate.

Nel maggio 1942 si tenne una conferenza all’Hotel Biltmore di New York che avrebbe portato alla luce i cambiamenti di consenso che si andavano creando tra i sionisti. Chaim Weizmann, direttore dell’Agenzia ebraica, anche se deluso dal rifiuto britannico di riconoscere un esercito ebraico, propose di intensificare la collaborazione con l’Inghilterra nella lotta contro Hitler e di non insistere per la creazione di uno Stato ebraico in opposizione alla politica britannica, ma i delegati e in generale tutti i sionisti americani si andavano sempre di più schierando con le idee di David Ben-Gurion. Egli voleva la nascita di una Palestina che riscattasse per sempre le sofferenze degli ebrei e che rendesse giustizia al loro genio nazionale, orgoglio di ogni ebreo della diaspora, e che gli inglesi cedessero il controllo dell’immigrazione in Palestina all’Agenzia ebraica. Il convegno di Baltimore segnò una svolta nella storia del sionismo americano: la visione di Ben- Gurion era quella a cui ci si doveva conformare.

La Arendt non era d’accordo né con l’intenzione di Weizmann di conservare lo status quo con gli inglesi e di non preparare alcun esercito ebraico; né con l’appello di Ben-Gurion per uno Stato ebraico in Palestina. Rifiutava anche la posizione dei rabbini riformisti e quella assunta da Judah Magnes, fondatore

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17 dell’Università ebraica, di una Palestina binazionale entro una federazione di Stati Arabi.

Dopo la conferenza all’Hotel Biltmore, il rapporto di Hannah Arendt con il sionismo cambiò radicalmente e cominciò a elaborare la sua posizione di paria.

Cercava qualche sionista americano non soggiogato dai suoi dirigenti che fosse disposto ad ascoltarla. In polemica con Herzl per lei l’antisemitismo era un fenomeno politico e non naturale, e voleva un movimento rivoluzionario ebraico.

La Arendt sperava che la tradizione politica americana, quella degli eredi della Rivoluzione, che ella ammirava tanto, potesse formare i sionisti americani e si appellava al loro senso di giustizia.

Nell’articolo La crisi del sionismo Hannah Arendt si rivolge ai sionisti dissidenti perché non accettino l’idea che la Palestina debba diventare una colonia britannica, una parte di un impero coloniale come prefigurato dalla dichiarazione Balfour del 1917. Li invita poi a lavorare per la creazione di una Palestina che alla fine della guerra diventi parte del Commonwealth britannico, piuttosto che uno stato autonomo. Un esempio istruttivo, dice, si può trovare nell’operato di Gandhi in India. Il secondo punto è un invito a lavorare per la nascita di una federazione europea, unica via che possa garantire l’esistenza della Palestina come zona di insediamento ebraico. Infine viene auspicato che, in seno a quella futura federazione, si approvi una serie di leggi che dichiari l’antisemitismo un crimine contro la società.

Quel terzo articolo sulla crisi del sionismo fu anche l’ultimo, nell’atmosfera di crescente entusiasmo per Ben-Gurion e del suo personale sionismo, le proposte della Arendt rimasero inascoltate e la sua rubrica sostituita.

Ma la Arendt non si perse d’animo e continuò a combattere l’attaccamento dei sionisti a concetti e convinzioni, secondo lei, sorpassati.

Nell’articolo del 1943 Can the Jewish-Arab Question Be Solved? che fu pubblicato da “Aufbau”, la Arendt respinge le due idee più importanti e dibattute dopo la conferenza del Biltimor. La prima, di un Commowealth ebraico, uno stato autonomo nel quale gli arabi palestinesi (la maggioranza della popolazione) si sarebbero visti attribuire uno status di minoranza. Con sarcasmo la Arendt osserva che questa soluzione nazionalista “sarebbe una novità nella storia degli Stati nazionali” e, quanto al nazionalismo ancora più estremista implicito nel

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18 programma revisionista, che conteneva una proposta di trasferimenti coatti delle popolazioni arabe, lo condanna in quanto fascista.

La seconda proposta era una versione modificata di quella già avanzata da Judah Magnes, la creazione di uno stato binazionale, in cui agli ebrei sarebbe stato attribuito lo status di minoranza, incorporato in un protettorato anglo- americano, che la Arendt respinse ulteriormente; perché entrambe le posizioni identificavano lo Stato con quel gruppo nazionale che al suo interno gode dello status di maggioranza. La Arendt aveva invece in mente un’entità palestinese in cui non vi fossero distinzioni fra maggioranza e minoranza, e in cui non vi siano più tracce dell’idea dei diritti delle minoranze tanto disastrosamente sperimentata nei trattati del 1918 relativi agli Stati dell’Europa centro-orientale.

Una federazione araba per lei sarebbe stata solo una copertura per un impero, un veicolo per l’esercizio della propria influenza coloniale, mentre “una genuina federazione è costituita da elementi nazionali e politici diversi, e chiaramente distinti fra loro. In una federazione di questo genere i conflitti nazionali possono essere risolti solo perché il problema insolubile delle maggioranze e delle minoranze cessa di esistere. Gli Stati Uniti d’America sono la prima realizzazione di una tale federazione. In quell’unione di Stati non c’è singolo Stato che abbia una qualche supremazia su un altro: il paese è governato da tutti gli Stati insieme. Un altro modo di risolvere il problema della nazionalità è quello dell’Unione Sovietica, che ha abolito l’impero russo creando un’unione di nazionalità eguali senza tener conto delle dimensioni delle diverse parti costituenti. Il Commowealth britannico, distinto dall’Impero britannico, può essere considerato un’altra potenziale federazione.”38

La Arendt proponeva che la Palestina divenisse parte del Commonwealth britannico.

L’indipendenza della sua posizione ebbe l’effetto di tagliarla fuori da ogni possibilità di azione e la privò di qualsiasi influenza in seno al sionismo.

Per la gente di Hannah Arendt, per gli ebrei, la patria europea era già perduta per sempre nel 1943: era il loro “non più”. Cosa sarebbe accaduto nell’Europa in futuro, il non ancora, era inimmaginabile. Altrettanto inconoscibile era cosa

38H. Arendt, Antisemitismo e identità ebraica. Scritti 1941-1945, cit., pp. 85-92.

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19 sarebbe accaduto in futuro in Palestina. Non c’era nulla che Hannah Arendt potesse fare, nessuna azione pratica che potesse intraprendere per aiutare la sua gente, senza avere una base nella comunità sionista. E, visto che non aveva questa base, accettò riconoscente un’occasione di lavorare e pensare al futuro con un gruppo non politicamente allineato: divenne direttrice presso la Conference on Jewish Relations. La Arendt doveva recuperare i tesori della cultura ebraica europea, libri, manoscritti documenti, e dare a essi una nuova sistemazione e per fare ciò, insieme ai suoi collaboratori intervistò i profughi ebrei che avevano lavorato nelle biblioteche, scuole e musei d’Europa.

Questa ricerche le servirono anche per il suo grande successo: Le origini del totalitarismo, che aveva iniziato a prendere forma grazie anche all’aiuto del marito Heinrich che aveva trovato lavoro come annunciatore radiofonico per i notiziari in lingua tedesca.

Nel 1948 la Commissione si costituì in un ente chiamato Jewish Cultural Reconstruction e Hannah Arendt ne divenne direttrice esecutiva fino al 1952.

Lavorare per la ricostruzione culturale, trovare una collocazione agli oggetti e documenti ebraici, le fu di conforto ma il suo senso di essere senza patria non poteva trovare conforto.

Hannah si struggeva di nostalgia per il mondo perduto, l’Europa.

Una delle poesie più tristi da lei scritta nel 1964 è ispirata a un celebre verso di Nietzsche “Felice colui che ha ancora una patria”:

La tristezza è come una luce che splende nel cuore, il buio è come un bagliore che cerca la nostra notte.

Dobbiamo solo accedere la piccola fiamma del dolore

Per trovare come ombre, attraverso la lunga, vasta notte, la via di casa.

Luminoso è il bosco, la città, la strada, l’albero.

Felice colui che non ha una patria: egli almeno la vede in sogno.

Il contributo della Arendt alla difesa del patrimonio ebraico continuò come caporedattrice dalla casa editrice Schocken Books, per cui curò un’edizione tedesca dei Diari di Franz Kafka. Scriveva recensioni di vari libri e lavorava in redazione, modi per contribuire alla ricostruzione culturale dell’Europa, per

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20 iniziare gli intellettuali americani alla letteratura e filosofia europea contemporanea.

Dopo la guerra iniziò a frequentare quel gruppo di persone non definibile con un’etichetta, che costituiva la sinistra letteraria, in buona parte ebraica, di New York. In quel nuovo ambiente, che la interessava vivamente, Hannah si sentiva un po’ sperduta: “A volte- scrive a Blumenfeld- mi sento oppressa, perché ho conosciuto tanta di quella gente che tutte quelle facce e quei nomi mi si confondono in un furioso caos.”39

Negli anni dal 1945 al 1949 la Arendt lavorò sul totalitarismo e come ambasciatrice per la filosofia e la letteratura tedesca. Questo fu una specie di ritorno in Germania e ciò l’aveva distolta dal prender parte al dibattito sul futuro della Palestina anche se nel 1946, per il cinquantenario della pubblicazione del libro di Herzl, aveva scritto The Jewish State: 50 Years after, Where Have Herzl’s Politics Led? Il saggio era stato sollecitato dalla rivista Commentary che nel 1944 si era rifiutata di pubblicare l’articolo della Arendt Ripensare il sionismo.

Quest’ultimo era una critica feroce di tutta la politica ebraica, dall’estremismo del partito revisionista al socialismo dei kibbutzim40. Era stato giudicato pieno di implicazioni antisemitiche, perché per molti ebrei americani il minimo accenno al fatto che il sionismo stava navigando sotto bandiera revisionista costitutiva una dichiarazione di antisemitismo. E più Hannah Arendt esponeva chiaramente la sua posizione, più grande si faceva il suo isolamento da quegli stessi ebrei americani dei quali un tempo aveva apprezzato la mancanza di fanatismo. “Al momento attuale- aveva scritto senza mezzi termini nel 1944- ciò che distingue i revisionisti dai sionisti generali è solo l’atteggiamento verso l’Inghilterra, una questione che non ha un’importanza politica fondamentale.”41

L’articolo è un sommario di tutte le proteste che la Arendt era andata facendo per oltre un decennio: la dirigenza ebraica aveva tradito il suo popolo quando era venuta ad un accomodamento con il nazismo, rifiutandosi di appoggiare il boicottaggio del 1935 e approvando invece l’esportazione delle merci tedesche in Palestina; l’Agenzia ebraica non era riuscita a condurre in porto la questione

39 Arendt a Blumenfeld, 19 luglio 1947, Marbach.

40E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Per amore del mondo 1906-1975, cit., p. 263.

41H. Arendt, Ebraismo e Modernità, cit., p.83.

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21 dell’esercito ebraico, appoggiandosi invece sempre più alle potenze straniere, in particolare all’Inghilterra; i socialisti ebraici, nel condurre l’ammirevole esperimento socioeconomico dei kibbutzim, avevano trascurato le questioni politiche. L’unica possibilità per la sopravvivenza dello stato ebraico stava nella creazione di una federazione. Cercava di convincere il suo popolo della necessità di evitare la creazione di uno Stato ebraico, che sarebbe stato solo un’altra sfera di interessi per le potenze straniere e che avrebbe alienato la simpatia dei vicini.

In Ripensare il sionismo (alla fine pubblicato sul “Menorah Journal”) affermava che solo i sionisti americani, in virtù delle tradizioni politiche alle quali erano stati educati, sarebbero forse riusciti a impedire una rinascita del nazionalismo europeo fra gli ebrei emigrati in Palestina.

Nel maggio 1948 Hannah Arendt riprese a occuparsi di politica ebraica con l’articolo Salvare la patria ebraica- C’è ancora tempo che riscosse l’ammirazione di Judah Magnes. La Arendt lo aveva criticato ma ammirava la sua onestà intellettuale e la sua autorità morale. Egli aveva criticato la Dichiarazione Balfour del 1917, riteneva che gli inglesi non avessero il diritto di promettere la Palestina a nessuno e che la promessa avrebbe avuto come unico risultato quello di scatenare l’ostilità degli arabi che ci abitavano. Come il gruppo Brit Shalom, sosteneva lo Stato binazionale in Palestina, in cui né agli arabi né agli ebrei sarebbe stata attribuita una condizione di minoranza e in cui entrambi avrebbero avuto eguali diritti. Poi fondò lui stesso un partito: Ikhud (Unità).

La Arendt era più vicina alle proposte di Magnes che a quelle dei sionisti, ormai quasi tutti schierati dalla parte di Ben-Gurion. Tuttavia ella riteneva che l’idea di una federazione araba legata a un’alleanza anglo-americana fosse pura follia e che non rappresentasse altro che una variante della politica filo-britannica di Weizmann. Magnes e Arendt criticavano aspramente l’Agenzia ebraica e lei apprezzava l’Ikhud perché fondava la sua opposizione sulla politica.

La situazione in Palestina andò sempre peggiorando tra rivolte e attacchi terroristici. Gli inglesi nel 1947 chiesero aiuto alle Nazioni Unite, in cui la maggioranza della Commissione propendeva per la spartizione della Palestina e la minoranza per la creazione di uno stato binazionale a maggioranza araba.

Magnes fu sconfitto, nel maggio del 1948 fu proclamato lo Stato d’Israele, e lui se

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