L’Italia Forestale e Montana / Italian Journal of Forest and Mountain Environments 71 (6): 319‐329, 2016
© 2016 Accademia Italiana di Scienze Forestali doi: 10.4129/ifm.2016.6.01
CONFERENZA
NUOVE NORMATIVE E VALORIZZAZIONE DELLE PRODUZIONI FORESTALI
Firenze, 7 dicembre 2016
Il 7 dicembre 2016, a Villa Favorita, sede dell’Accademia Italiana di Scienze Forestali, si è tenuta la Conferenza “Nuove normative e valorizzazione delle produzioni forestali”. Sono intervenuti il Vice Presidente dell’Accademia Prof. Raffaello Giannini e gli Accademici Sandro Dettori, Professore Ordinario presso l’Università di Sassari e Donatella Spano, Assessore della Difesa dell’Ambiente della Regione Autonoma della Sardegna e Professore Ordinario in Scienze e tecnologie dei sistemi arborei e forestali presso l’Università di Sassari.
RAFFAELLO GIANNINI (*)
LEGNO ED ENOLOGIA
(*) Accademia Italiana di Scienze Forestali. Piazza Edison, 11 - 50133 Firenze; raffaello.giannini@unifi.it
Oggi più che mai è richiesto uno sforzo non indifferente per individuare il migliore compromesso tra conser- vazione della più alta efficienza funzionale degli ecosistemi forestali ed il più corretto uso dei beni e servigi che questi possono fornire. Seguendo questo pensiero e facendo riferimento ai risultati del progetto PRO- VACI incentrato sulla valorizzazione della biomassa legnosa dei boschi del Chianti classico, vengono illu- strate le possibilità offerte soprattutto dai boschi di castagno nel fornire biomassa da destinare alla produzione di vasi vinari ed in particolare a quella di Carati del Chianti. Rivalutando quello che nel non lontano passato era ampiamente diffuso, viene considerato con favore il valore aggiunto che si verrebbe a creare nella filiera vite/vino nel caso in cui la produzione di legno locale venisse impiegata nella fabbricazione del Carato per l’affinamento del vino.
Parole chiave: castagno; ceduo; produzione legnosa; doghe; vasi vinari; Carato.
Key words: chestnut; coppice system; wood production; staves; wine wooden containers; Carato.
Citazione: Giannini R., 2016 - Legno ed enologia. L’Italia Forestale e Montana, 71 (6): 319-329.
http://dx.doi.org/10.4129/ifm.2016.6.01
1. I NTRODUZIONE
Nel 2015 per i tipi della Firenze University Press, veniva pubblicato il volume
“Il vino nel legno”, in cui si esponevano i risultati del Progetto “Valorizzazione
della produzione legnosa dei boschi del Chianti” (PROVACI) che aveva come obiettivo, quello di individuare, nell’ambito del territorio del Chianti Classico, le strategie tese ad associare una gestione sostenibile degli ecosistemi forestali con la valorizzazione dei prodotti della filiera foresta-legno.
La scelta del territorio del Chianti Classico è stata determinata dal fatto che in tale area, più che altrove, la presenza del bosco ha sempre svolto il ruolo di
“bosco colonico” (Del Noce, 1849), ovvero integrazione profonda con la produ- zione agro-pastorale dell’azienda agraria.
Emanuele Repetti (1855) conferma questa caratteristica del paesaggio affer- mando: Porta tutt’ora il nome di Chianti la contrada posta fra le sorgenti dell’Arbia, dell’Ambra, dell’Ombrone sanese che scendono a levante della Pesa, e se si vuole ancora della Greve che si dirigono a ponente nel mare toscano. Cotesta contrada intorno al mille era tutta coperta di boschi per cui le sue antiche battesimali portarono il distintivo di Avena, Avenano, quasi a Venando, ecc; la stessa contrada è ora in gran parte ridotta a filari di viti basse che somministrano il vino più pregiato della Toscana.
La presenza del bosco si associa e si compenetra, ancora oggi, alla coltura della vite conferendo al paesaggio quel particolarissimo fascino che è motivo di evidenza, di valore economico, di fattore traente e di supporto ad altre attività produttive.
Il progetto prendeva in considerazione i boschi di castagno e i boschi a pre- valenza di roverella analizzandone l’estensione, la caratterizzazione delle strut- ture, la stima della produttività e dell’accessibilità della biomassa, gli assortimenti ritraibili attraverso la selezione fenotipica dei fusti in piedi in base ai difetti este- riori, l’analisi della struttura genetica e la certificazione genetica del legno, la de- finizione di alcuni modelli di gestione.
Più in generale si voleva pervenire ad una valutazione della produzione degli assortimenti di pregio che nella realtà del territorio fanno riferimento ancora oggi alla paleria ed in particolare quelle di supporto alla viticoltura, alla falegnameria ed agli usi strutturali, alla produzione di vasi vinari. In questo ultimo caso era di interesse conoscere come nel passato venissero realizzati e quali fossero le fonti di approvvigionamento della materia prima legno.
2. U NO SGUARDO AL PASSATO
Le relazioni fra la materia prima legno e l’enologia si sono instaurate nel tempo e rimangono a tutt’oggi assai vivaci sebbene abbiano subito comprensibili differenziazioni. Il riferimento è incentrato soprattutto alla relazione tra legno e vino, ma non dobbiamo sottovalutare quanto sia stata stretta, soprattutto nel passato, la comunione tra l’albero vivente, la paleria e la vite rappresentando, i primi due, i tutori della seconda.
Apprezzo, con entusiasmo, il vino molto buono, che bevo con moderazione
per comprenderne in profondità lo spirito. Questa bevanda non è solo dirompente
per il fascino e l’attrattività gastronomica, ma anche per la capacità intrinseca che
possiede nel comunicare e trasmettere da un solare senso della vita ad un profondo
senso di mistero. Sangue della terra è indicato da Androchide in una lettera ad Ales- sandro come riferito nella Naturalis Historia da Plinio il Vecchio e descritto poi da Galileo Galilei come Sangue della terra, sole catturato e trasformato da una struttura così artificiosa qual è il granello dell’uva, mirabile laboratorio in cui operano ordigni, ingegni e potenze congegnate da un clinico occulto e perfetto (Pini, 1989; Patrone, 1989).
Nel nostro paese il vino ha avuto ed ha tutt’ora importanza fondamentale, rappresentando spesso fattore determinante per l’economia del mondo agro-ali- mentare, ma congiuntamente assumendo ruolo di riferimento soprannaturale della poesia, della pittura e della scultura, del mito, della religiosità e spiritualità e quindi della cultura.
L’Italia è stata e continua ad essere la terra del vino che ne rappresenta il codice genetico ovvero lo spirito, peculiarità ed eredità secolare del suo popolo (Pini, 1989). Alcuni giorni fa è stato varato dal Parlamento Italiano il Testo Unico sulla vite e sul vino in cui è manifesto il riconoscimento del vino come patrimo- nio economico, culturale e sociale d’importanza nazionale (G.U. n.302, del 28.12.2016). Enotria, così fu chiamata l’Italia dai coloni greci che giunsero, inse- diandosi, nella Magna Grecia (VI sec. a.C.) riconoscendo che la coltivazione della vite era già praticata dalle popolazioni locali. Lo storico Antonio Ivan Pini (1989) sottolinea questo fatto mettendo in evidenza che i greci della Magna Grecia asse- gnarono al vino non solo il ruolo di alimento, ma anche quello di fonte non se- condaria di ricchezza. Nello stesso tempo importarono il mito del vino ed il culto di un dio, Dionisio, divenuto poi Bacco, protettore della coltivazione della vite.
Sumeri, Fenici, Egiziani, Cartaginesi, Romani impiegavano il vino come of- ferta propiziatoria verso gli Dei. I cristiani lo indicano simbolo sacro di valore liturgico che raggiunge l’espressione più alta di santificazione nel rito della messa con l’eucaristia nella religione cattolica.
Furono i Romani che, favorendo più la quantità che la qualità, diffusero am- piamente la coltura della vite la cui estensione nel tempo seguì le vicende storiche del nostro paese subendo marcate riduzioni dal V secolo fino al medioevo. Con- finata spesso nell’ambito delle proprietà degli ordini monastici simboleggiò una viticoltura indicata ecclesiastica. A questa seguì una viticoltura laica, poi signorile ed infine borghese, tutte intimamente collegate ad una potente classe mercantile che incitava in misura sempre maggiore ad investire in questa attività.
La produzione, la conservazione ed il trasporto del vino hanno imposto su- bito l’impiego di contenitori. Nel tempo si sono susseguiti otri di pelle, anfore ed orci di terracotta e ceramica, fasciame. In tempi più moderni nella vinifica- zione si è fatto ricorso a manufatti cementizi e di acciaio. Il legno ha sempre mantenuto uno stretto legame nella filiera vite-vino inizialmente come materia prima di manufatti per contenere il liquido, successivamente come mezzo raffi- nato di tipicizzazione del prodotto nell’invecchiamento.
Tini, botti, botticelle, barili, barilotti, barriques, carati, caratelli, bigonge sono al-
cuni dei vasi vinari, ognuno caratterizzato da un ruolo specifico di impiego. Ma la
specificità riguardava anche le procedure tecniche di costruzione e di manuten-
zione che dettero origine ad altrettanti specifici mestieri tra cui bottai e carpentari.
Intorno all’anno 100 a.C., presso le popolazioni celtiche si costruivano botti destinate soprattutto al trasporto della birra: nasce così il mestiere, che diventa arte, del bottaio che si diffonde nelle regioni limitrofe (Amici, 1989). Strabone (63 a.C.- 23 d.C.) ricorda nella sua Geografika, come, nell’area prealpina, il vino venisse con- servato in recipienti di legno. Plinio attribuisce l’origine della botte ai vignaioli della Gallia Cisalpina descrivendo vasi vinari lignei rinforzati da circulis che sostituirono anfore e giare in ceramica. Nel 1958 a Manzano nelle Langhe, viene ritrovata una stele del I sec. d.C., in cui è riprodotta una botte su di un carro (Mosca, 1958;
Patrone, 1989): la documentazione storica in questo settore è vasta.
La nascita ed il successo della botte sono legate alla scoperta della capacità del legno ad essere piegato con il calore (Vivas, 2003) ed ai vantaggi offerti da un contenitore caratterizzato dalla presenza di un rigonfiamento centrale, ovvero la così detta pancia, che conferisce alla stessa maggiore resistenza agli sforzi di pressione, all’accatastamento ed agli urti, maggiore facilità di spostamento per rotolamento (minore superficie di attrito), maggiore facilità nella eliminazione di eventuali depositi dei liquidi. Gli scambi commerciali del vino imposero subito specifiche tipologiche ai contenitori da trasporto pensati anche in funzione delle infrastrutture (viabilità terrestre, vie di acqua) e della logistica (mezzi di tra- sporto). Viene a realizzarsi un sistema funzionale basato sulle relazioni intercor- renti tra quantità e qualità del vino, consumo, commercio e mercato, che è in- fluenzato a sua volta, dalle caratteristiche ambientali dei paesi coinvolti, dalla storia e dall’evoluzione sociale dei loro popoli. Si comprese poi ben presto quanto fosse vantaggioso per la qualità del vino essere a contatto con diversi tipi di legno per cui prese origine il concetto di affinamento. Difatti la botte, perché di legno, chiarifica, matura ed affina il buon vino (Orefice, 2011), attraverso la com- binazione dei tannini e dei polisaccaridi del legno con quelli del vino miglioran- done, attraverso una continua microssigenazione, la qualità, il sapore, il profumo.
Venne anche risolto il problema della realizzazione della botte
1che richiedeva l’assemblaggio ed il fissaggio (con cerchi metallici, ma anche di legno per piccoli contenitori) di tavole di legno modellate a doghe (le così dette vere doghe), ov- vero tavole piegate, con vapore, al centro, variabili in lunghezza, larghezza e spessore a seconda delle dimensioni e dell’uso del contenitore i cui lati sono sa- gomati inclinati secondo i raggi della sfera immaginaria contenuta nella botte,
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La botte viene diffusa prima come recipiente di trasporto - anche di materiali non liquidi (derrate) - poi di
stoccaggio e trasporto, distinte rispettivamente nelle categorie di botte a mercanzie e botte a tenuta. Nel primo
caso le dimensioni e quindi il volume è più contenuto per non compromettere la facilità di spostamento (non
più di 700 litri per il tipo da trasporto standard, 523 litri per la botte napoletana, 400 litri per il tipo pipa). Nel
secondo i volumi possono raggiungere e superare il 300 ettolitri (la Ditta Garbellotto di Conegliano V.to, ha
costruito la botte “Magnifica” della capacità di 33.000 litri (44.400 bottiglie) con rovere di Slavonia destinata
all’affinamento dell’Amarone dell’Azienda Tommasi di Pedemonte di Valpolicella (VR) (Orefice, 2011). Le
botti da cantina trovano riferimento a quattro tipologie: botte rotonda, botte ovale, barile o caratello (barrique),
tino-botte. In relazione ai trasporti per via marittima o per le scorte dei liquidi delle navi, si sviluppa il concetto
di stazza della nave essendo questa valutata in relazione del numero di botti che poteva contenere la stiva
(espressa ancora oggi in tonnellate di stazza - una tonnellata è uguale a 2,831 m
3). Maggiori dettagli sulla tipo-
logia delle botte all’inizio del secolo scorso si trovano negli Appunti alle lezioni di Tecnologia Forestale di
Alberto Cotta (1910).
ovvero in modo che ciascuna porti sopra un fianco il tenone e sull’altro la mortisa (Pic- cioli, 1922) (Tab. 1). In questo modo si costruisce un recipiente a tenuta stagna assimilabile ad uno sferoide tronco di sezione circolare o ovale (solido di rivolu- zione) composto di due piani tra loro paralleli, realizzati con doghe da fondi - la base e la sommità - con un asse centrale passante per il centro dei fondi e un lato formato da una curva regolare simmetrica attorno al centro (Logan, 2008) il cui perimetro interno è sempre minore di quello esterno.
Tabella 1 - Dimensioni delle tavole grezze per doghe (doublon-marrain).
Vaso Vinario Lunghezza Larghezza Spessore
Doga (cm) (cm) (mm)
BOTTE
Doga di Germania 180 - 300 ≥ 7 44 - 90
Carratone 135 - 212 ≥ 6 43 - 45
Pipa 135 id. 25 - 26
Bocci 115 id. 28 - 30
Carratoncino 115 id. 38 - 40
Doga standard 106 - 114 id. 22 - 30
Mezza pipa 105 id. 25 -26
Doga di Spagna 90 - 135 7 - 16 70 - 160
Doga Basilicata 120 - 150 10 - 30 50 - 80
Dogarella 66 - 135 10 - 30 30 - 50
Carato 105 ≥ 5 23 - 25
Caratello 92 - 95 id. 18 - 22
Bordolese 90 - 92 11 - 16 23 - 25
Barile 79 - 85 5 - 10 18 - 22
Nota - Da: A.A.V.V., Nuovo Vocabolario italiano d’arti e mestieri, 1869; Cotta, 1910; Piccioli, 1922;
A.A.V.V., Enciclopedia Agraria Italiana, 1952; Giordano, 1956; Cantiani, 1965. Lo spessore è generalmente uguale al 4-5% della lunghezza; nella doga finita lo spessore alla metà di questa è di 1/3 inferiore di quello delle estremità. La dogarella veniva ricavata per spacco da squarti sub-trapezoidali (spacconi) di toppi di cerro. Nelle doghe per botti di grosse dimensioni la “piegatura” veniva spesso realizzata con la sega per cui lo spessore della tavola grezza doveva essere maggiore in funzione dell’angolo di sagomatura. La doga di Spagna veniva ricavata dai polloni dei cedui di castagno (Lazio, Campania, Calabria) ed utilizzata per botti impiegate in Puglia sopratutto per l’esportazione dei vini in Spagna.
La botte si fabbrica a mano facendo ricorso, nel tempo, alle stesse tecniche
ed agli stessi strumenti, in prevalenza strumenti da taglio: così è accaduto
dall’epoca romana fino alla metà del XIX secolo poiché i cambiamenti tecnolo-
gici hanno richiesto tempi molto lunghi. Da allora solo alcune fasi della lavora-
zione vengono eseguite da macchine che oggi sono raffinate e progettate con il
contributo diretto dei bottai.
Questi ultimi, con capacità manuale e grande ingegno, interpretano e tradu- cono la geometria sferica in geometria piana per poi convertire questa nuova- mente in geometria sferica anche se nel passato non avevano mai sentito parlare di geometria e per questa grande perizia conquistata, in passato, erano chiamati Maestri, cioè persone capaci di svolgere bene un mestiere complesso (Logan, 2008; Giannini, 2015). Il bottaio, che inizialmente nasce dal mestiere di fale- gname, è un artista che fa vasi di legno a doghe (A.A.V.V., 1869): doveva possedere profonde conoscenze sulle caratteristiche esteriori e tecnologiche del legname dovendo individuare in bosco la specie ed i fusti più adatti a fornire tronchi, toppi, quarti e tavole per doghe. Ed il bottaio sapeva bene che era indispensabile disporre di legno di ottima qualità con fibra perfettamente diritta (ricavabile da fusti diritti, cilindrici), così detto gentile, perché facile a piegarsi, con anelli di accrescimento di ampiezza contenuta e regolare, privo di nodi, di schianti, di screpolature e di residui di attacchi fungini (Cotta, 1910; Giordano, 1981-1986;
Monelli, 1980; Vivas, 2003; Logan, 2008; Orefice, 2011).
La prima abilità operativa del bottaio era quella di sezionare il fusto in toppi (rocchi) della lunghezza opportuna per il tipo di botte desiderato, che venivano spaccati con l’impiego di scure e di un affilato cuneo, per ottenere quarti se- guendo i piani di vero clivaggio. Questa fase, ancora oggi, consente di valutare la linearità delle fibre e quindi incidere sulla selezione del legno stesso. Attraverso una scure a lama larga il bottaio dai quarti, formava tavole da doghe (marrain), prive di alburno, da trasferire alla fase di stagionatura. In effetti i tronchi (toppi) possono essere anche segati in tavole dietro fibra avendo cura che il taglio di queste sia il più possibile parallelo ai raggi midollari (Alessandri, 1906; Giordano, 1956; Giordano, 1971-1976; Giannini, 2015).
Al legno del genere Quercus è riconosciuta una provata superiorità e per l’Eu- ropa il primo posto è assegnato a rovere (Q. petraea Liebl.) e farnia (Q. robur L.).
Per queste specie, nell’ambito del loro areale naturale di distribuzione, è stata
messa a punto una graduatoria di qualità del legname definita da criteri multipa-
rametrici per la realizzazione di botti, basati su differenti livelli di selezione. I
parametri considerano la variabilità intra ed interspecifica, l’estensione e le carat-
teristiche strutturali dei soprassuoli (almeno 100.000 ettari a livello nazionale,
corrispondenti nel caso di turni di 200 anni, a superfici boscate di 500 ettari da
utilizzare all’anno come garanzia di continuità temporale della produzione di bio-
massa per botti), le specifiche tecnologiche e le proprietà chimico-fisiche, le qua-
lità gustative (grana, porosità, tessitura, infradensità, tannini ellagici, aromi) (Vi-
vas, 2003). Questa procedura associata ad analisi genetico-molecolari, permette
di selezionare, certificare e quindi valorizzare i migliori popolamenti nell’ambito
nazionale (Vivas, 2003). Per la Francia legname di pregio è quello di alcune fo-
reste, spesso di proprietà pubblica, di varie regioni tra cui quelle del Limousin,
Vosgi, Allier, per le quali sono previsti ed applicati piani di gestione con modelli
colturali codificati con turni di utilizzazione relativamente lunghi (200-300 anni)
e rinnovazione artificiale (Lacroix, 1992) (gestione basata su indirizzi simili a
quelli delle abetine pure di abete bianco di Vallombrosa per la produzione di
antenne da marina). Per la Francia tutto ciò ha rappresentato e rappresenta un notevole successo di commercio e di immagine: saranno diminuite le richieste delle botti di grandi dimensioni, ma l’incremento della produzione e dell’impiego di barriques di 225 litri di volume per la fase di affinamento del vino è pratica divenuta comune anche in quasi tutte le aziende viti-vinicole italiane le quali ac- quistano quasi esclusivamente vasi vinari costruiti con legno di rovere e farnia.
In effetti altre specie, tra cui il castagno, sono state
2e lo sono tutt’oggi, og- getto di interesse per la produzione di assortimenti da destinare alla realizzazione di vasi vinari. Ciò è legato anche al fatto che è ancora attuale l’idea di utilizzare nell’arte enologica il legname di qualità prodotto in loco. Si ricorda il caso della Quercus toza L. (Q. pyrenaica Willd.), molto prossima alla roverella, in Spagna e Portogallo, ma anche di quanto accade nel Nord America relativamente all’im- piego delle querce bianche (Q, alba e simili) (Timbal e Kremer, 1994). Nel sud d’Italia nel passato si è fatto ricorso al farnetto e anche al cerro (dogarelle), in particolare a quello così detto cerro rosso, caratterizzato da una abbondante dura- mificazione ed una facile fendibilità a spacco (Pironti, 1918; de Philippis, 1936, 1942; Giordano, 1956).
Nel recente passato il castagno trovava un forte impiego nella realizzazione di vasi vinari. Nei boschi cedui di Piemonte, Toscana, Lazio, Campania, Calabria tra gli assortimenti di pregio vi erano i toppi per doghe ricavati dai polloni per i contenitori di volume ridotto. Già Piccioli nel 1922 indicava il modello colturale più idoneo per esaltarne la qualità e la valorizzazione d’uso, basato soprattutto su diradamenti selettivi dal basso, per ottenere a fine turno fusti ben conformati e distribuiti in piccolo numero ed a distanza uniforme sulla stessa ceppaia (Gian- nini et al., 2014), applicato, ad esempio, da Patrone (1960) nell’assestamento dei cedui di castagno della foresta di Vallombrosa. Lo stesso concetto era stato ri- badito da De Philippis (1955) e ripreso da Ciancio e Nocentini (2002).
3. I L C ARATO DEL C HIANTI
È stato il contenuto di una lettera del luglio del 1868 che il Barone Bettino Ricasoli inviava al suo enologo di fiducia Prof. Cesare Studiati dell’Università di Pisa, nella quale riferiva su di alcuni problemi sull’acidità dei vini, uno dei principali motivi a riproporre, per la valorizzazione dei boschi di castagno del Chianti, la produzione di tavole per doghe. Difatti il barone scriveva sui problemi relativi all’acidità dei vini (Dalmasso, 1961; Ciuffoletti, 2009): Contraeva questo vizio quando era consuetudine tenerlo ad invecchiare in caratelli di 5 o 10 barili. Ho avuto anche il sospetto che si potesse contribuire qualche acidità propria del legname del quale facciamo i vasi vinari.
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