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DEI REATI IN GENERALE. Titolo I DELLA LEGGE PENALE

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TiTolo i

DELLA LEGGE PENALE

La legge penale è la norma attraverso la quale comportamenti di carattere criminoso, ovvero con- dotte che mettono in pericolo un bene socialmen- te e giuridicamente rilevante, vengono puniti me- diante l’applicazione di una sanzione detta pena.

Il sistema penale attuale trova nella Costitu- zione il parametro di riferimento e nella ragione- volezza il principio ispiratore per la valutazione della rilevanza degli interessi in gioco.

Originariamente la legge penale era soltanto un mezzo punitivo, oggi, invece, la sua funzione si è ampliata diventando anche uno strumento di re- pressione e prevenzione della criminalità (per que- sto ricomprende anche le misure di sicurezza che tendono al riadattamento sociale del delinquente).

In altri termini le principali finalità della leg- ge penale sono:

– ristabilire l’ordine sociale violato dal reato;

– prevenire la commissione di futuri reati;

– promuovere il miglioramento della società e, con la pena, ottenere la rieducazione del reo.

Nel rapporto con altre norme la legge penale non ha carattere primario (principio di sussidia- rietà): il suo intervento è l’extrema ratio, cioè, si giustifica solo se gli interessi considerati tutela- bili, non trovano un mezzo di tutela diverso che sia in grado di soddisfarli.

In relazione alla sua applicazione e alla luce di una interpretazione sostanziale della Costitu- zione, è necessario:

– che l’intento criminoso del soggetto agen- te si estrinsechi in un comportamento esterno (principio di materialità);

– che l’offesa, oggetto dell’incriminazione pe- nale, sia effettivamente lesiva o, in ogni caso, con- cretamente in grado di mettere in pericolo il bene protetto dalla norma (principio di offensività);

– che il comportamento posto in essere dal soggetto agente sia a questi addebitabile (princi- pio di colpevolezza);

– che tra condotta ed evento intercorra un nesso di causalità [

40].

Di non secondaria importanza è, infine, il c.d.

principio di frammentarietà, il quale serve a cir- coscrivere l’ambito di applicazione del diritto pe- nale, nel senso che ad esso viene conferita una portata più limitata rispetto a ciò che è antigiuri- dico per altri rami dell’ordinamento (esempio n.

1), a ciò che risulta moralmente disdicevole per la generalità dei consociati ed, infine, non sono qualificabili penalmente rilevanti tutte le violenze perpetrate nei confronti del bene giuridico protet- to, ma soltanto alcune di esse (esempio n. 2).

La legge penale costituisce una sorta di limi- te per la libertà dei consociati e, nel conflitto tra istanze punitive e diritto di libertà personale gio- ca la partita della prevalenza la norma incrimina- trice nella misura in cui l’esigenza di preserva- re un bene si presenti, nella gerarchia dei valori, preponderante sulla libertà personale.

1. Alcuni illeciti contrattuali non rilevano per il diritto penale.

2. Il patrimonio, nei delitti ad esso riserva- ti, viene tutelato soltanto contro alcune forme di aggressione.

1

. Reati e pene: disposizione espres- sa di legge. – Nessuno può essere punito

(13

2

) per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge (40, 42, 85), né con pene che non siano da essa sta- bilite (199; 25 Cost.) (

1

).

(1) L’art. 1, primo comma, della L. 24 novembre 1981, n. 689, in tema di depenalizzazione, stabilisce che nessuno può essere assoggettato a sanzioni ammi- nistrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione.

L’articolo in commento è espressione del principio di legalità e trova solenne riconosci- mento sia nell’art. 25 della Carta Costituzionale,

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in base al quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vi- gore prima del fatto commesso” [2], sia nell’art.

7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Il principio di legalità si articola in due fatti- specie ed il nostro ordinamento si ispira alla pri- ma perché assicura maggiore garanzia e certezza ai cittadini:

– principio di legalità formale: si rifà al bro- cardo latino nullum crimen, nulla poena sine le- ge, per il quale è proibito punire un fatto che non sia espressamente previsto dalla legge come rea- to al momento in cui viene commesso e vieta, al- tresì, di irrogare pene non espressamente stabilite dalla legge. Lo stesso vale per l’applicazione di misure di sicurezza [199];

– principio di legalità sostanziale: per il qua- le devono essere considerati reati tutti i comporta- menti che generano allarme sociale, anche se non sono espressamente incriminati da un precetto le- gislativo e ad essi devono essere applicate le pene adeguate alla gravità dell’illecito commesso.

Corollari del principio di legalità sono:

a) principio di riserva di legge, per il quale, in ossequio ad una esigenza di garanzia del cit- tadino, soltanto la legge può stabilire quali com- portamenti devono essere considerati reati e qua- li pene devono essere applicate.

È la legge del Parlamento che può creare il diritto penale, perché è in questa sede che si espri- me la sovranità popolare ed è in Parlamento che il rapporto dialettico tra minoranze e maggioranze politiche scongiura eventuali arbitrarie ingerenze del potere esecutivo e giudiziario. Nonostante il pacifico e incontestabile accoglimento di tale as- sunto, tuttavia, è esclusa dai più l’applicazione ri- gorosa di tale principio generale che consente di far rientrare nel novero delle fonti normative del diritto penale soltanto le leggi formali.

L’orientamento dottrinale prevalente, infatti, ritiene che le norme penali possono trovare ori- gine anche in atti aventi forza di legge emana- ti dal Governo (c.d. leggi materiali), vale a dire in decreti legge e decreti legislativi, ed addirittu- ra, non senza suscitare in taluno forti perplessità, nei bandi militari, atti la cui efficacia spaziale si esplica limitatamente alla zona nella quale il co- mando viene impartito e che sono espressione di una potestà straordinaria delegata al Governo dal Parlamento; di sicuro non possono rappresentare fonti normative penali le leggi regionali e qual- siasi atto normativo del potere esecutivo diver-

so dai decreti legge e decreti legislativi (regola- menti e circolari). Il referendum può considerarsi una fonte normativa penale, perché può abroga- re norme primarie; tuttavia dei dubbi sorgono in relazione a quelle disposizioni penali che sono contenute in leggi atte a disciplinare materie per le quali il referendum non è ammesso.

La riserva di legge può essere:

– assoluta quando l’intero comportamento viene regolato e sanzionato solo dalla norma pri- maria, senza che possano intervenire, a fini inte- grativi, regolamenti o altri atti normativi di natu- ra secondaria;

– relativa quando, tramite la tecnica del rin- vio, è ammesso l’intervento di fonti secondarie nella creazione di fattispecie penali.

Ammettendo la riserva di legge relativa, la Corte Costituzionale ha implicitamente ammes- so la legittimità delle cosiddette norme penali in bianco, norme in cui gli elementi principali del precetto normativo penale e la sanzione, sono regolati da fonte normativa primaria, mentre al- tri elementi di dettaglio, come ad esempio quelli di carattere tecnico, sono demandati alla regola- mentazione secondaria: atti amministrativi o re- golamenti (esempio n. 1).

In relazione alla normativa sovranazionale solo i regolamenti della Comunità europea pos- sono creare direttamente disposizioni penali; le altre norme internazionali non hanno immediata operatività, neanche attraverso il dettato dell’art.

10 Cost., ed è, perciò, sempre necessario il loro recepimento in una norma statale che le renda ef- ficaci nel nostro ordinamento.

La consuetudine incriminatrice ed abrogatri- ce sicuramente non può essere fonte del diritto penale altrimenti si avrebbe violazione della ri- serva di legge; la consuetudine integratrice rile- va quando può completare norme che rinviano a disposizioni per le quali la consuetudine può costituire fonte di diritto. La desuetudine, inve- ce,acquista valore quando viene confermata da una nuova norma penale (che non punisce più quel comportamento che per desuetudine non era comunque punito) (esempio n. 2);

b) principio di determinatezza e tassatività, secondo il quale il precetto che punisce un deter- minato comportamento deve essere chiaro e speci- fico, cioè deve raggiungere un grado di determina- tezza tale da consentire l’individuazione del fatto storico disciplinato dalla norma e la sussunzione delle ipotesi incriminatici concrete alle fattispecie tipiche astratte (tipizzazione degli illeciti penali),

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evitando, in conformità alla funzione garantista e di certezza del diritto proprie di tale principio, il- legittimi arbitri da parte dei giudici che non pos- sono applicare la normativa penale al di fuori dei casi espressamente previsti dal legislatore. I con- cetti di “determinatezza” e “tassatività” vengo- no spesso utilizzati come sinonimi, ma in realtà hanno significati diversi. Il primo, infatti, vincola essenzialmente il legislatore, essendo strettamen- te afferente alle modalità di elaborazione lessicale delle norme, che devono individuare con esattez- za le condotte vietate; il secondo, invece, obbliga prevalentemente il giudice, che deve applicare la legge penale soltanto alle fattispecie in essa diret- tamente contenute, senza estenderne l’ambito di operatività a casi diversi, per quanto connotati da elementi di similitudine;

c) principio di irretroattività [

2], secondo il quale nessuno può essere punito per un com- portamento che non costituiva reato al momen- to della sua realizzazione. Da ciò discende che la norma penale produce effetti limitatamente ai fatti commessi dopo l’entrata in vigore della nor- ma e non anche nei confronti di quelli ad essa antecedenti, in quanto considerati leciti nel mo- mento del loro compimento;

d) divieto di analogia: è sancito dall’art. 14 delle Preleggi, secondo il quale: “le leggi penali e quelle che fanno eccezione ai principi genera- li non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”.

Questo significa che il giudice non può appli- care la legge penale fuori dei casi espressamente previsti e disciplinati dal legislatore e tale divieto non investe solo l’elemento precettivo della nor- ma, ma anche la relativa sanzione, le misure di sicurezza e di prevenzione.

Divieto di analogia non significa, però, di- vieto di interpretazione estensiva: nell’analogia la fattispecie non è espressamente prevista dal- la legge e viene disciplinata attraverso il ricorso a disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe, nell’interpretazione estensiva, invece, la fattispecie è regolata da una norma specifica e, mediante il procedimento ermeneutico, si dà ai termini di essa un significato più ampio.

Il divieto di analogia, comunque, non è di na- tura assoluta, nel senso che il ricorso a casi simili è ammesso se, e solo se, produce effetti favore- voli nei confronti della persona che ha commes- so il reato (analogia in bonam partem) (esem- pio n. 3). Anche i confini dell’analogia in bonam partem, tuttavia, rimangono circoscritti entro de-

terminati limiti; è, infatti, escluso che il ricorso all’analogia sia consentito quando il legislatore ha già esteso al massimo la portata applicativa della scriminante e quando andrebbe ad incidere su elementi costitutivi della fattispecie che gene- rano l’estinzione dell’eadem ratio di disciplina e la conseguente creazione di nuove ipotesi di scri- minanti, il tutto in antitesi con il principio di ri- serva di legge (esempio n. 4).

Quanto alle norme eccezionali, vige nei loro confronti un generale divieto di analogia. Ma cosa si intende per “norma eccezionale” e quali elemen- ti la differenziano dalla “norma speciale”? La pri- ma è una norma che disciplina un numero limitato di ipotesi relative ad una certa materia il cui con- tenuto precettivo è differente e antitetico rispetto alle disposizioni generali (se il diritto regolare vie- ta, quello eccezionale comanda); la seconda disci- plina un ristretto numero di casi concernenti una determinata materia, ma la pur diversa regolamen- tazione, non è antitetica rispetto alle disposizioni generali (sia il diritto speciale che comune vietano o consentono un certo comportamento, ma lo rego- lano in maniera differente).

La Corte costituzionale, con sentenza 14 gen- naio 2015, n. 49 ha avuto modo di sottolineare che il giudice comune è tenuto ad uniformarsi alla giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente in modo da rispettare la sostan- za di quella giurisprudenza fermo il margine di apprezzamento che compete allo Stato membro.

È, pertanto, solo un “diritto consolidato”, gene- rato dalla giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del pro- prio processo interpretativo, mentre nessun ob- bligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo. Del resto, tale asserzione non solo si accorda con i principi costituzionali, aprendo la via al confronto costruttivo tra giudi- ci nazionali e Corte EDU sul senso da attribu- ire ai diritti dell’uomo, ma si rivela confacente rispetto alle modalità organizzative del giudice di Strasburgo. Esso infatti si articola per sezio- ni, ammette l’opinione dissenziente, ingloba un meccanismo idoneo a risolvere un contrasto in- terno di giurisprudenza, attraverso la rimessione alla Grande Camera. È perciò la stessa CEDU a postulare il carattere progressivo della formazio- ne del diritto giurisprudenziale, incentivando il dialogo fino a quando la forza degli argomenti non abbia condotto definitivamente ad imbocca- re una strada, anziché un’altra. La nozione stes-

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sa di giurisprudenza consolidata trova riconosci- mento nell’art. 28 della CEDU, a riprova che, anche nell’ambito di quest’ultima, si ammette che lo spessore di persuasività delle pronunce sia soggetto a sfumature di grado, fino a quan- do non emerga un well-established case-law che normally means case-law which has been consi- stently applied by a Chamber, salvo il caso ec- cezionale su questione di principio, particularly when the GrandChamber has rendered it (così le spiegazioni all’art. 8 del Protocollo n. 14, che ha modificato l’art. 28 della CEDU). Non sempre è di immediata evidenza se una certa interpreta- zione delle disposizioni della CEDU abbia ma- turato a Strasburgo un adeguato consolidamento, specie a fronte di pronunce destinate a risolve- re casi del tutto peculiari, e comunque formate- si con riguardo all’impatto prodotto dalla CEDU su ordinamenti giuridici differenti da quello ita- liano. Nonostante ciò, vi sono senza dubbio in- dici idonei ad orientare il giudice nazionale nel suo percorso di discernimento: la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confron- ti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se ali- mentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera;

il dubbio che, nel caso di specie, il giudice euro- peo non sia stato posto in condizione di apprez- zare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elabo- rati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco con- facenti al caso italiano. Quando tutti, o alcuni di questi indizi si manifestano, secondo un giudizio che non può prescindere dalle peculiarità di ogni singola vicenda, non vi è alcuna ragione che ob- blighi il giudice comune a condividere la linea interpretativa adottata dalla Corte EDU per deci- dere una peculiare controversia, sempre che non si tratti di una “sentenza pilota” in senso stretto.

Solo nel caso in cui si trovi in presenza di un “di- ritto consolidato” o di una “sentenza pilota”, il giudice italiano sarà vincolato a recepire la nor- ma individuata a Strasburgo, adeguando ad essa il suo criterio di giudizio per superare eventuali contrasti rispetto ad una legge interna, anzitutto per mezzo di «ogni strumento ermeneutico a sua disposizione», ovvero, se ciò non fosse possibile, ricorrendo all’incidente di legittimità costituzio-

nale. Quest’ultimo assumerà di conseguenza, e in linea di massima, quale norma interposta il ri- sultato oramai stabilizzatosi della giurisprudenza europea, dalla quale questa Corte ha infatti ripe- tutamente affermato di non poter «prescindere»

salva l’eventualità eccezionale di una verifica ne- gativa circa la conformità di essa, e dunque della legge di adattamento, alla Costituzione di stret- ta competenza di questa Corte. Mentre, nel caso in cui sia il giudice comune ad interrogarsi sulla compatibilità della norma convenzionale con la Costituzione, va da sé che questo solo dubbio, in assenza di un “diritto consolidato”, è suffi- ciente per escludere quella stessa norma dai po- tenziali contenuti assegnabili in via ermeneutica alla disposizione della CEDU, così prevenendo, con interpretazione costituzionalmente orientata, la proposizione della questione di legittimità co- stituzionale.

La medesima Corte, con sent. 11 maggio 2017, n. 109, ha stabilito che il giudice comune ha il dovere non solo di evitare, attraverso il mec- canismo dell’interpretazione conforme del dirit- to nazionale, di esporre lo Stato italiano a una possibile responsabilità internazionale per viola- zione della Convenzione EDU; ma ha anche il dovere di applicare (direttamente) le disposizioni della Convenzione, che – in quanto incorporate nell’ordinamento italiano in forza della legge n.

848/1955 – formano parte integrante della “leg- ge” che il giudice medesimo ha il dovere di ap- plicare, ai sensi dell’art. 101, comma 2, Cost. Di- sposizioni che il giudice comune dovrà assumere nel significato loro attribuito dalla giurispruden- za di Strasburgo. Tutto ciò, naturalmente, a con- dizione che la Convenzione non si scontri con un dato normativo interno di segno contrario, nel qual caso la soluzione dell’antinomia dovrà esse- re rimessa alla corte costituzionale. Ma quel che più rileva è ciò che la Corte ci dice ora, in nega- tivo ma in modo del tutto trasparente: e cioè che, nella misura in cui le disposizioni convenzionali ricadano in spazi normativamente ‘vuoti’, ossia non regolati in modo antinomico dalla legge na- zionale, esse dovranno essere direttamente ap- plicate dal giudice comune, come qualsiasi altra norma dell’ordinamento.

1. L’art. 650 (inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità) determina la sanzione e descrive genericamente il precetto, demandando a fon- ti secondarie il completamento della disciplina.

L’art. 348 (abusivo esercizio di una professione)

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presuppone l’esistenza di un provvedimento am- ministrativo di abilitazione professionale. L’art.

13 T.U. 309/90 conferisce al Ministro della Sa- lute il compito di stilare l’elenco delle sostanze considerate stupefacenti.

2. È desuetudine punire chi indossa il bikini sebbene la fattispecie potrebbe rientrare nel no- vero degli atti osceni.

3. L’art. 52 può estendersi alla legittima dife- sa anticipata, che si configura quando il pericolo non è “attuale” ma presumibilmente si presenterà nel futuro prossimo.

4. Lo stato di necessità [54] giustifica il com- portamento illecito soltanto quando è necessario salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona e non può estendersi ai danni nei confronti di interessi patrimoniali.

u  Con l’espressione “legge penale in bianco”

si suole indicare quella legge – o quell’atto aven- te forza di legge – la quale faccia riferimento ad un atto normativo di grado inferiore per indica- re tutti i contrassegni di un fatto che la legge medesima (o l’atto avente tale forza) considera penalmente illecito (4431/1983, rv 158997).

u  In tanto la disposizione di un regolamento di esecuzione – cioè di un atto normativo del potere esecutivo, che presuppone una legge (o altro atto normativo avente tale forza) prece- dente alla quale si ricollega e della quale detta le norme particolari concernenti la sua esecu- zione – può costituire fonte, mediata, di norme penali (ovviamente per quel che concerne esclu- sivamente la determinazione degli elementi del fatto incriminato), in quanto la legge stessa – mediante una norma “delegatrice” (detta an- che “autorizzatrice”) che costituisce l’esclusiva fonte della norma penale – abbia conferito, in forma espressa e specifica, al governo la delega- zione della potestà regolamentare in quella de- terminata materia, stabilendo essa stessa diret- tamente la misura della sanzione o prefiggendo il massimo di pena con cui il potere esecutivo potrà sanzionare i precetti così determinati (4431/1983, rv 158999).

u   Dal principio di stretta legalità discende che la delimitazione delle fattispecie incrimina- trici rientra nei compiti esclusivi del Parlamento quale organo costituzionale che più direttamen- te esprime la sovranità e la volontà popolare.

Pertanto, le sentenze costituzionali con “porta- ta manipolatrice”, non vincolano il giudice ordi- nario nella parte relativa alla integrazione della

“sanctio legis” (5655/1984, rv 164856).

u  La sanzione da applicare ad una fattispe- cie che ne sia priva non può essere rinvenuta attraverso l’interpretazione analogica. In caso contrario l’interprete della legge si trasforme- rebbe in legislatore con marcata incidenza ne- gativa sia sul principio di certezza sia sulla stessa efficacia determinante delle disposizioni penali coinvolte in siffatta operazione interpretativa, diretta a correlare, con l’intervento del giudice, il comportamento del soggetto attivo del reato ad una pena non costituente oggetto di specifica comminatoria legislativa (5655/1984, rv 164857).

u  In base all’art. 9 ter del codice della stra- da, introdotto ad opera della legge 1 agosto 2003, n. 214, la partecipazione a gare di velocità non organizzate è stata trasformata da illecito amministrativo in delitto (7294/2009).

u   Costituisce condotta penalmente ri- levante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estrai- bili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto a uso personale, essendo irrilevante ai fini della sussistenza del reato la distinzione tra coltiva- zione tecnico-agraria e coltivazione domestica (16843/2010).

u   È incostituzionale la riforma introdotta dall’art. 4 bis del D.L. 272/2005, conv. dalla L. n.

49/2006, che ha soppresso la distinzione tabel- lare fra droghe “leggere” e droghe “pesanti”

ed ha mutato il trattamento sanzionatorio da riservarsi a chi illegalmente detiene sostanze stupefacenti di tipo e natura diversi. Una vol- ta dichiarata l’illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate riprende applicazione l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 nel testo an- teriore alle modifiche con queste apportate, resta da osservare che, mentre esso prevede un trattamento sanzionatorio più mite, rispetto a quello caducato, per gli illeciti concernenti le cosiddette “droghe leggere” (puniti con la pena della reclusione da due a sei anni e della multa, anziché con la pena della reclusione da sei a venti anni e della multa), viceversa stabili- sce sanzioni più severe per i reati concernenti le cosiddette “droghe pesanti” (puniti con la pena della reclusione da otto a venti anni, anziché con quella da sei a venti anni). Quando venga spezzato il legame essenziale tra decretazione d’urgenza e potere di conversione, non sussiste- rebbe una illegittimità delle disposizioni intro- dotte nella legge di conversione per mancanza dei presupposti di necessità e urgenza delle norme eterogenee, ma una illegittimità per l’uso improprio, da parte del Parlamento, di un potere che la Costituzione gli attribuisce, con

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speciali modalità di procedura, allo scopo tipico di convertire un decreto-legge (sentenza n. 355 del 2010). Sarebbe, quindi, preclusa la possibili- tà di inserire, nella legge di conversione, emen- damenti del tutto estranei all’oggetto e alle fi- nalità del testo originario, in quanto si tratta di una legge «funzionalizzata e specializzata» che non può aprirsi a qualsiasi contenuto ulteriore anche nel caso di provvedimenti governativi ab origine eterogenei: in tale ultimo caso il limite all’introduzione di ulteriori disposizioni in sede di conversione è rappresentato dal rispetto del- la ratio del decreto-legge (ordinanza n. 34 del 2013) (Corte cost. 32/2014).

u  Il diritto fondamentale alla libertà perso- nale deve prevalere sulla intangibilità del giu- dicato, sicché devono essere rimossi gli effetti ancora perduranti della violazione conseguente alla applicazione di tale norma incidente sulla determinazione della pena in caso di reato cir- costanziato, dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale dopo la sentenza irrevocabile. Il compito di rimuovere tale illegittimità compete al giudice dell’esecuzione il quale, come ovvio, non avrà la stessa libertà del giudice del meri- to, dovendo sottostare ai limiti in cui gli è con- sentito dalla pronuncia di cognizione: ovvero le valutazioni del giudice dell’esecuzione non potranno contraddire quelle del giudice di me- rito così come risultano dal testo della sentenza irrevocabile (S.U. 42858/2014).

u   In tema di pene incostituzionali relative alle droghe “leggere” e rideterminazione delle stesse alla luce della sentenza della Corte cost., n. 32 del 2014, va affermato che successivamen- te a una sentenza irrevocabile di condanna, la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale diversa dalla norma incrimi- natrice, idonea a mitigare il trattamento san- zionatorio, comporta la rideterminazione della pena, che non sia stata interamente espiata, da parte del giudice dell’esecuzione. Nel caso in questione deve trovare applicazione l’art.

30, comma 4 della L. n. 87/1953 (secondo cui

“quando in applicazione della norma dichiara- ta incostituzionale è stata pronunciata senten- za irrevocabile di condanna, ne cessano la ese- cuzione e tutti gli effetti penali”), interpretato nel senso che il concetto di “norma dichiarata incostituzionale” ricomprende anche le norme penali sostanziali diverse da quella incriminatri- ce che abbiano inciso sulla determinazione del- la pena (53793/2014).

u  La scelta legislativa di non introdurre una soglia di punibilità della condotta in caso di omesso versamento di contributi previdenziali –

diversamente da quanto prevede la fattispecie di cui all’art. 10-bis d.lgs. 74/2000 – è costituzio- nalmente legittima, per la ragione che le due norme incriminatrici sono poste a tutela di inte- ressi diversamente rilevanti per l’ordinamento e che di conseguenza una ragionevole differen- ziazione di disciplina rientra nel corretto eserci- zio della discrezionalità legislativa (Trib. Aosta 7 novembre 2014).

u   In caso di confisca disposta in ragione dell’oggettivo contrasto del piano di lottizza- zione con la normativa urbanistica, nonostante il reato fosse stato dichiarato estinto per pre- scrizione, l’applicazione al ricorrente di una

“sanzione penale”, quando il reato è estinto e la sua responsabilità non è stata accertata con una sentenza di condanna, contrasta con il principio di legalità enunciato dall’art. 7 della CEDU. Questa disposizione infatti non si concilia con la punizione di un imputato, il cui processo non si è concluso con una condanna (Corte cost. 49/2015).

u   Con riferimento all’art. 8 Cedu, la Corte europea rimprovera a uno stato membro sia la mancata predisposizione di una struttura giu- diziaria idonea ad evitare la fuga di notizie sia di non aver previsto un rimedio che consentisse al ricorrente una riparazione per la violazione subita dalla pubblicazione sulla stampa di con- versazioni aventi natura strettamente privata (Corte dir. uomo, 3 febbraio 2015).

u  Si ravvisa, da un lato, una violazione degli obblighi positivi discendenti dalla disposizione convenzionale, per non aver posto in essere mi- sure appropriate al fine di proteggere i mani- festanti dagli attacchi violenti subiti; dall’altro, una violazione procedurale per non aver svolto indagini adeguate a far emergere le eventua- li responsabilità della forza pubblica. A ciò si aggiunge una violazione dell’art. 13 Cedu do- vuta all’assenza, nell’ordinamento dello stato membro, di disposizioni legislative in grado di assicurare ai ricorrenti la possibilità di ottenere adeguati rimedi preventivi e compensatori in relazione al mancato intervento della polizia (Corte dir. uomo, 25 febbraio 2015).

u  Principi in tema di obblighi positivi discen- dono dall’art. 2 Cedu, i quali comportano per lo Stato il dovere di predisporre un quadro legi- slativo e amministrativo volto a garantire un’ef- fettiva deterrenza rispetto a condotte contrarie al diritto alla vita. Per ritenere sussistente una violazione della disposizione convenzionale sotto questo profilo, al ricorrente è sufficiente dimostrare che – alla luce delle concrete circo- stanze del caso – le autorità statali non abbiano

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fatto tutto ciò che era ragionevole aspettarsi per evitare un rischio reale e attuale per la vita, del quale avevano o avrebbero dovuto avere conoscenza (Corte dir. uomo, 26 febbraio 2015).

u  Nel ricorso proposto da Bruno Contrada, va affermato che sussiste violazione dell’art. 7 CEDU in relazione ai principi di irretroattività e prevedibilità della norma incriminatrice nell’i- potesi di condanna per concorso esterno in as- sociazione di tipo mafioso, in relazione a fatti commessi dal 1978 al 1988. In tale epoca, infatti, vi era contrasto giurisprudenziale sulla configu- rabilità del reato di “concorso esterno in asso- ciazione di tipo mafioso”, superato solo con la decisione delle Sezioni Unite 5 ottobre 1994, n.

16, Demitry, che ne ha affermato la configurabi- lità giuridica specificando i caratteri della con- dotta illecita e rendendo dunque prevedibili le conseguenze (Corte dir. uomo, 14 aprile 2015).

u   Non viola il principio europeo di ne bis in idem (ex artt. 4 Prot. 7 CEDU e 50 CDFUE) la previsione normativa interna (art. 10 bis d.l- gs. n. 74 del 2000) che consente di perseguire penalmente per omesso versamento delle rite- nute d’imposta il soggetto che sia già stato san- zionato, per lo stesso fatto, con una decisione amministrativa irrevocabile che abbia irrogato una sovrattassa (ex art. 13 d.lgs. n. 471 del 1997) (Corte giust. eur., 15 aprile 2015).

u   Va sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., in relazione all’art. 10-ter, d.lgs. n. 74/2000, nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui all’imputato sia già stata comminata, per il me- desimo fatto, nell’ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della CEDU (Trib. Bologna 21 aprile 2015).

u   In tema di connivenza non punibile e favoreggiamento nei reati permanenti non è possibile equiparare condotte espressive di una partecipazione al reato a condotte nate solo dall’intenzione – manifestatesi attraverso individuabili modalità pratiche – di realizza- re una facilitazione alla cessazione del reato (3384/2015).

u  L’applicazione di una pena accessoria ex- tra o contra legem da parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giu- dice dell’esecuzione, purché essa sia determina- ta per legge (o determinabile, senza alcuna di- screzionalità) nella specie e nella durata, e non derivi da un errore valutativo del giudice della cognizione” (S.U. 6240/2015).

u   È escluso che lo straniero, imputato di un delitto contro la persona (nella specie: mal- trattamenti in famiglia, violenza sessuale, vio- lazione degli obblighi di assistenza familiare), possa invocare, anche in via solo putativa, la scriminante dell’esercizio di un diritto correlata a facoltà asseritamente riconosciute dall’ordi- namento dello Stato di provenienza (consue- tudini), qualora tale diritto debba ritenersi in linea di principio escluso dall’ordinamento in- terno, in una prospettiva imperniata – in linea con l’art. 3 Cost. – sulla centralità della persona umana, quale principio in grado di armonizza- re le condotte individuali rispondenti a culture diverse, e di consentire quindi l’instaurazione di una società civile multietnica (14960/2015).

u  Il principio di necessaria retroattività del- la disposizione più favorevole, affermato dalla sentenza CEDU del 17 settembre 2009 nel caso Scoppola contro Italia, non è applicabile in re- lazione alla disciplina dettata da norme proces- suali, che è regolata dal principio “tempus regit actum”. (Fattispecie relativa agli effetti della modifica normativa dell’art. 274 cod. proc. pen.

realizzata dalla legge 16 aprile 2015, n. 47, artt.

1 e 2, considerati dalla S.C. non applicabili per la valutazione della legittimità della misura caute- lare impugnata, adottata in epoca antecedente la novella legislativa) (28153/2015).

u  In tema di peculato, la condotta del pub- blico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che utilizza reiteratamente l’autovet- tura di servizio per finalità attinenti alla vita privata configura il reato di cui all’art. 314 comma 1 c.p.in quanto realizza una condotta appropriativa di un bene della pubblica ammi- nistrazione per la cui integrazione è sufficiente l’esercizio da parte dell’agente di un potere uti dominus tale da sottrarre il bene alla disponibi- lità dell’ente (13038/2016).

u   Successiva all’abrogazione, da parte del d.lgs n. 7/2016 in materia di depenalizzazione, del reato di “Appropriazione di cose smarrite, del tesoro e di cose avute per errore o caso for- tuito”, previsto dall’articolo 647 cp è irrilevan- te che la calunnia riguardi detta fattispecie o il reato di furto. Nel caso di specie, la denun- cia dello smarrimento di un carnet di assegni – quindi, nemmeno di un singolo assegno – costituisce calunnia (interpretando estensiva- mente la fattispecie) perché non è consentito affermare la coscienza e consapevolezza di si- mulare a carico di un altro soggetto un reato impossibile ovvero il reato di appropriazione di cose smarrite (reato depenalizzato); infatti ai fini della configurabilità del reato di cui all’ar-

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ticolo 368 cp, non è sufficiente una “qualsiasi denuncia che risulti in prosieguo infondata, ma una incolpazione orientata a procurare siffatta deviazione nell’amministrazione della giustizia in forza della consapevolezza dell’innocenza dell’incolpato” (6483/2016).

u  I principi affermati dalla sentenza CGUE, Grande sezione, Taricco, del 8 settembre 2015, con possibilità di disapplicazione della disciplina sulla prescrizione se idonea a pregiudicare gli obblighi imposti a tutela degli interessi finan- ziari dell’Unione europea, non si applicano ai fatti già prescritti alla data di pubblicazione di tale pronuncia (3 settembre 2015) (7914/2016).

u  La nozione di acquirente finale, peraltro, va intesa in senso restrittivo, nel senso che per tale deve intendersi solo ed esclusivamente colui che acquisti il bene contraffatto per uso strettamente personale, e, quindi, resti estra- neo non solo al processo produttivo ma anche a quello diffusivo del prodotto contraffatto. Ri- mangono, quindi, escluse dall’area dell’illecito amministrativo e restano all’interno dell’area penale di cui all’art. 648 (reato presupposto art.

473 c.p.), tutte le ipotesi in cui chi acquisti un bene contraffatto, non lo acquisti per sé, ma lo destini ad altri. In tali ipotesi, infatti, il sog- getto agente risponde del reato di ricettazione perché, con la sua condotta, contribuisce all’ul- teriore distribuzione e diffusione della merce contraffatta, essendo irrilevante se l’ulteriore diffusione avvenga a scopo di lucro (come av- viene per l’ipotesi di cui all’art. 474 c.p.) o a tito- lo gratuito: in tale senso, ad es., furono ritenuti colpevoli del reato di ricettazione due imputati

"trovati in possesso di numerosi capi di abbi- gliamento ed accessori femminili che, sebbene non fosse provata la destinazione alla vendita, per ammissione degli stessi ricorrenti, erano pa- cificamente destinati a regalie in favore di fami- liari e dipendenti "per compensarli di qualche ora di straordinario", così da garantirne l’uso ed il consumo a terzi, non rilevando se a titolo gratuito od oneroso (12870/2016).

u  È escluso l’istituto della particolare tenuità del fatto, per i reati di omesso versamento IVA, ritenute e indebita compensazione (un contri- buente veniva accusato per il reato di cui all’art.

10-bis del d.lgs. n. 74/2000, per aver omesso il versamento di ritenute per circa 160.000 euro) per i quali il Legislatore ha già previsto la non punibilità se il contribuente versa il proprio de- bito entro l’apertura del dibattimento di primo grado. In ogni caso, però, poiché le condizioni per la non punibilità sono attuabili solo dall’en- trata in vigore della nuova disposizione, per il

passato è possibile verificare se il fatto possa essere esiguo e quindi non punibile per partico- lare tenuità (18680/2016).

u   Il giudice dell’esecuzione (in tema di in- costituzionalità della legge 49 del 2006 che parificava droghe leggere e pesanti e in tema di abolitio criminis dell’art. 6 del testo unico in materia di immigrazione) può revocare, ai sen- si dell’art. 673 cod. proc. pen., una sentenza di condanna pronunciata dopo l’entrata in vigore della legge che ha abrogato la norma incrimi- natrice, allorché l’evenienza di abolitio criminis non sia stata rilevata dal giudice della cognizio- ne (S.U., 26259/2016).

u   In caso di furto di autovettura lasciata incustodita sulla pubblica via, la circostanza aggravante della esposizione per consuetudi- ne alla pubblica fede, non presupponendo la predisposizione di un qualsiasi mezzo di dife- sa avverso eventuali azioni criminose, sussiste anche se l’autovettura sia stata lasciata con gli sportelli aperti e le chiavi inserite nel cruscotto (30730/2017).

u  Rientrano nella nozione di privata dimora di cui all’art. 624-bis c.p. (fattispecie più grave rispetto al reato di furto, determinata dalla violazione di un luogo di privata dimora) esclu- sivamente i luoghi, anche destinati ad attività lavorativa o professionale, nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare. Un esercizio commerciale non può essere considerato “luo- go di privata dimora”, specialmente durante l’orario di chiusura, ossia in un momento in cui è da escludersi lo svolgimento al suo interno di

“atti di vita privata” (S.U. 31345/2017).

u  In base ai principi della sentenza De Tom- maso v. Italia, pronunciata dalla Grande Camera della Corte edu il 23 febbraio 2017, la norma incriminatrice di cui all’art. 75 d.lgs. n. 159 del 2011, che punisce la condotta di chi violi gli ob- blighi e le prescrizioni imposti con la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pub- blica sicurezza ai sensi dell’art. 8 del d.lgs. non ha ad oggetto anche la violazione delle prescri- zioni di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi”. Si tratta di prescrizioni generiche e in- determinate, la cui violazione può tuttavia rile- vare in sede di esecuzione del provvedimento ai fini dell’eventuale aggravamento della misura (S.U. 40076/2017).

u  L’inapplicabilità della “regola Taricco”, se- condo quanto riconosciuto dalla sentenza M.A.

S., ha la propria fonte non solo nella Costituzione repubblicana, ma nello stesso diritto dell’Unione,

(9)

sicché ha trovato conferma l’ipotesi tracciata da questa Corte con l’ordinanza n. 24 del 2017, ov- vero che non vi sia alcuna ragione di contrasto.

Ciò comporta la non fondatezza di tutte le que- stioni sollevate, perché, a prescindere dagli ulte- riori profili di illegittimità costituzionale dedotti, la violazione del principio di determinatezza in materia penale sbarra la strada senza eccezioni all’ingresso della “regola Taricco” nel nostro or- dinamento (Corte cost. 115/2018).

2

. Successione di leggi penali (1

). – Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu com- messo, non costituiva reato (25 Cost.).

Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non co- stituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano la esecuzione e gli effetti penali.

Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflit- ta si converte immediatamente nella corri- spondente pena pecuniaria, ai sensi dell’ar- ticolo 135 (

2

).

Se la legge del tempo in cui fu commes- so il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronun- ciata sentenza irrevocabile (648 c.p.p.) (

3

).

Se si tratta di leggi eccezionali o tempo- ranee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti (14 prel.).

Le disposizioni di questo articolo si ap- plicano altresì nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto legge e nei casi di un decreto legge convertito in legge con emendamenti (77 Cost.) (

4

).

(1) Si vedano gli artt. 10, 12 e 15 delle disposizioni sulla legge in generale del codice civile.

(2) Questo comma è stato inserito dall’art. 14 della L. 24 febbraio 2006, n. 85.

L’art. 15 della medesima legge prevede inoltre che alle violazioni depenalizzate dalla stessa legge si appli- cano, in quanto compatibili, gli articoli 101 e 102 del D.L.vo 30 dicembre 1999, n. 507.

(3) L’art. 30, quarto comma, della L. 11 marzo 1953, n. 87, contenente norme sul funzionamento della Corte costituzionale, stabilisce che, qualora in applica- zione di una norma dichiarata incostituzionale sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne ces- sino l’esecuzione e tutti gli effetti penali.

(4) La Corte costituzionale con sentenza 19 febbra- io 1985, n. 51 ha dichiarato l’illegittimità costituziona- le di questo comma nella parte in cui rende applicabili alle ipotesi da esso previste, le disposizioni contenute nel secondo e terzo comma di questo articolo.

Questo articolo, suddiviso in cinque commi, è espressione di un fondamentale assunto al qua- le il nostro ordinamento si ispira: il principio del favor libertatis, in base al quale il Codice ha san- cito:

– la irretroattività della legge sfavorevole al reo;– la retroattività della legge favorevole al reo.

Il principio di irretroattività richiede un ap- profondimento. Esso non è previsto soltanto in materia penale, ma anche nell’ordinamento ci- vilistico, con una importante differenza: mentre l’art. 11 delle Preleggi (per il quale “la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto re- troattivo”) sancisce un principio di irretroattività assoluta che può essere, però, superato con una legge successiva, ciò non accade in campo penali- stico, dove tale principio è stato costituzionalizza- to, per garantire che un soggetto non possa esse- re punito per fatti che non siano considerati reati dalla legge al momento della loro esecuzione.

La successione di leggi penali, comunque, è regolata da un principio di irretroattività relativa e non assoluta, ed infatti la legge più favorevole al reo può avere effetto retroattivo.

Sul piano formale potrebbe sembrare sussi- stente un contrasto tra art. 25 Cost. e art. 2 del Codice, ma, in realtà, la ratio sottesa a tali artico- li è comune: l’ordinamento intende difendere il diritto di libertà del cittadino.

È da sottolineare che non essendo stato di- chiarato il valore costituzionale del principio di retroattività della norma favorevole dalla Corte Costituzionale, è stata data al legislatore la liber- tà di stabilire, nel rispetto dei principi di ugua- glianza e di ragionevolezza, quali norme favore- voli al reo abbiano efficacia retroattiva (sentenza n. 80 del 1995).

A completamento del suddetto principio di irretroattività, il nostro sistema giuridico pre- vede il principio di non ultrattività della legge [

15 disp. prel. c.c.], in base al quale la legge non trova applicazione su fatti compiuti dopo la sua estinzione.

Dall’analisi delle singole parti dell’articolo in commento si evince che il primo comma prevede l’ipotesi di nuova incriminazione, che si ha quan-

(10)

do una legge riconosce come reato un fatto che prima era perfettamente lecito (esempio n. 1).

Il secondo comma stabilisce, invece, che qua- lora una norma posteriore abroghi un reato rite- nendo non più punibile un determinato compor- tamento, nessuno può più essere punito per quel comportamento e se vi è una sentenza penale re- lativa a quel precetto ne cessano gli effetti e l’e- secuzione (abolitio criminis) (esempio n. 2).

Il legislatore del 2006, riformando la disciplina inerente i reati di opinione, ha apportato una signi- ficativa modifica all’articolo in commento introdu- cendo un nuovo comma tra gli originari secondo e terzo, che stabilisce un principio di carattere gene- rale in base al quale se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusiva- mente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135 (qualora si debba dar luogo ad un ragguaglio fra pene pecu- niarie e detentive per un qualunque effetto giuridi- co, un giorno di detenzione è pari a trentotto euro o ad una frazione di tale cifra).

Il comma successivo prevede che, qualora una norma posteriore non abroghi ma soltanto modifichi un precetto penale, trova applicazione la norma più favorevole al reo. Questo fenomeno, denominato “successione di leggi penali nel tem- po”, ha suscitato non pochi problemi interpretati- vi, per risolvere i quali la dottrina ha individuato tre distinti criteri, dei quali l’ultimo appare il più persuasivo. Il primo è quello della teoria del fatto concreto, per il quale il fenomeno successorio si configura quando il fatto concretamente compiu- to è rilevante sia per la legge anteriore che per quella successiva; il secondo è quello della conti- nuità del tipo di illecito, che si basa sul confron- to fra le fattispecie astratte e rinviene un’ipote- si di successione quando fra norma precedente e posteriore sussiste un’area di illiceità omogenea, per interesse protetto o modalità di offesa; il ter- zo, infine, è quello della piena continenza, che si specifica nella tesi c.d. “strutturale”, per il quale devono essere analizzati i rapporti strutturali fra le disposizioni astratte, per vedere se tra le fatti- specie è possibile ravvisare una relazione di ge- nus a speciem, e cioè se esse prevedano elementi tra loro corrispondenti sul piano normativo, solo in tal caso si potrà parlare di successione di leg- gi penali nel tempo. Per quanto concerne il con- cetto di “norma più favorevole”, essa può essere definita come quella che, tenuto conto in concreto del caso specifico cui deve essere applicata, risul-

ti più favorevole al reo (esempio n. 3). La norma più favorevole si applica sempre tranne il caso in cui la sentenza emessa sia divenuta irrevocabile, cioè sia passata in giudicato a seguito dell’inutile decorso dei termini per l’impugnazione (tramite i mezzi di impugnazione ordinari) o a causa del rigetto dell’impugnazione stessa. Un tale assun- to, tuttavia, non può che far sorgere dei dubbi di costituzionalità per contrarietà all’art. 3 della Co- stituzione (e non tanto per contrarietà all’art. 25 Cost. in quanto il principio di retroattività della legge più favorevole non è stato costituzionaliz- zato), perché situazioni equivalenti potrebbero avere un trattamento differente (esempio n. 4). La Corte Suprema ha avuto modo di specificare che l’inammissibilità originaria del ricorso per cassa- zione per manifesta infondatezza dei motivi non consente l’instaurazione di un valido rapporto di impugnazione e, pertanto, preclude anche la pos- sibilità di applicare la legge penale più favorevo- le. Deve pertanto escludersi la possibilità di appli- care lo ius superveniens più favorevole introdotto dall’art. 4 bis D.L. n. 272 del 2005, convertito in L. n. 49 del 2006, che ha ridotto da anni otto ad anni sei di reclusione il minimo edittale previsto per il reato di cui all’art. 73, comma primo, D.P.R.

n. 309 del 1990 (produzione, traffico e detenzio- ne illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope).

C’è da chiedersi se possa parlarsi di succes- sione di leggi nelle seguenti tre ipotesi:

– interpretazione autentica: è tale la norma che si limita a specificare il significato che deve essere conferito ad una preesistente disposizione legislativa e dunque, avendo una funzione mera- mente ricognitiva, non può considerarsi nuova;

– norme giuridiche integrative di una norma penale in bianco: nel caso di emanazione di una norma integrativa, la successione di leggi si con- figura soltanto quando la norma integrativa po- steriore prevede la punibilità di un fatto che fino a quel momento era considerato lecito; quando la disposizione integrativa viene invece abrogata, la successione di leggi è pacificamente accettata, considerato che tale abolizione comporta l’irri- levanza penale dell’interesse giuridico anterior- mente tutelato;

– norme giuridiche integrative di un elemen- to normativo di una disposizione penale: l’abro- gazione di tali categorie di norme configura una successione di leggi quando la norma integrati- va comporta l’estinzione del disvalore giuridico della condotta illecita; mentre non sussiste quan- do l’antigiuridicità del fatto anteriormente rea-

(11)

lizzato permane nonostante l’abrogazione della norma integratrice.

Il quinto comma pone una deroga al principio di retroattività della norma più favorevole rela- tivamente alle norme eccezionali e temporanee.

Queste si applicano per il tempo in cui sono ne- cessarie e, se successivamente vengono abrogate o modificate, ritorna in vigore la normativa pre- cedente ovvero quel determinato comportamen- to non è più punito senza che però decadano le sentenze precedenti e gli effetti ad esse connessi.

Tutto ciò ha sicuramente una sua ratio:

– le norme eccezionali sono quelle che ope- rano in caso di situazioni eccezionali da fronteg- giare e, quindi, sicuramente decadono col venir meno della situazione contingente, ma qualora si applicasse il principio in base al quale le norme abrogate fanno decadere le sentenze emanate, sa- rebbe inutile la loro operatività (giustificata pro- prio dalla eccezionalità);

– le norme temporanee, invece, sono quelle che hanno un tempo di operatività limitata: an- ch’esse, quindi, dopo un determinato periodo, sono abrogate e, se si applicassero le disposizioni prece- denti, non avrebbe alcun senso la loro esistenza (è il caso delle norme tributarie).

In caso di successione di leggi eccezionali o temporanee tra di loro, quanto previsto dai com- mi 3 e 4 del presente articolo trova applicazione a seconda che la legge posteriore vada a disci- plinare o meno la stessa situazione di emergenza regolata dalla legge precedente.

Prima della sentenza della Corte Costituzio- nale n. 51 del 1985 (la quale ha sancito l’aboli- zione dei decreti legge non convertiti ex tunc), i principi sopra enunciati si applicavano anche in caso di decreti legge non convertiti e decreti con- vertiti con emendamenti. La dichiarazione di in- costituzionalità dell’ultimo comma dell’articolo in commento ha fatto sì che in presenza di de- creti legge non convertiti non si possa parlare di successione di leggi nel tempo. Solo nei casi in cui il decreto è operativo e non ancora decaduto ed è più favorevole al reo si può applicare la re- gola di cui al presente articolo e, quindi, la legge più favorevole. La stessa disciplina è prevista per le norme dichiarate incostituzionali che perdono efficacia ex tunc. Per quanto concerne, infine, i decreti reiterati (che si hanno quando vengono emanati consecutivamente più decreti legge di uguale contenuto, ciascuno dei quali decade al termine della sua vigenza perché non converti- to) la giurisprudenza sostiene che non possono

essere puniti i fatti illeciti compiuti durante la vi- genza del decreto legge precedente a quello in vigore, perché ormai definitivamente decaduto, seppur riprodotto in quello successivo.

Bisogna ora solo stabilire quando si può con- siderare compiuto un illecito (tempus commissi delicti):

1) al momento del verificarsi della lesione conseguente alla condotta (teoria dell’evento);

2) al momento della realizzazione dell’azio- ne o dell’omissione (teoria della condotta);

3) al momento sia della condotta che dell’e- vento (teoria mista): secondo tale teoria si de- ve dare rilevanza al momento della condotta o dell’evento a seconda di qual è la soluzione con- cretamente più vantaggiosa per il reo.

Stabilire il momento in cui è stato commesso il reato è fondamentale per vedere qual è la legge applicabile al caso: la dottrina maggioritaria ritie- ne che il momento a cui è necessario far riferimen- to è quello della condotta poiché non tutti i reati sono seguiti da un evento (esistendo anche i rea- ti di sola condotta). Altra parte della dottrina, in- vece, sostiene che un fatto può essere regolato da due norme: una corrispondente al momento della condotta e una corrispondente al momento dell’e- vento. Se si aderisce alla tesi dottrinale prevalente e si intende individuare la normativa applicabile al caso concreto bisogna partire dalle singole catego- rie di reati e prendere in considerazione:

– l’unico atto tramite cui si esplica la con- dotta nei reati unisussistenti;

– l’ultimo atto attraverso cui si realizza l’a- zione o l’omissione nei reati a condotta fraziona- ta, nei reati tentati, in quelli di durata (permanen- ti o abituali).

In proposito appare doverosa una precisazio- ne: l’assunto secondo cui, in caso di successione di leggi, la norma applicabile è quella posteriore se l’ultimo atto della condotta è stato compiuto dopo la sua entrata in vigore, rileva soltanto quan- do la norma successiva si limita a predisporre una disciplina modificativa rispetto alla precedente, mentre nelle ipotesi di nuova incriminazione non è sufficiente che il soggetto agente realizzi l’ul- timo atto della condotta durante la vigenza della nuova legge, ma è anche necessario che tale atto contenga quel disvalore giuridico che giustifica la reazione dello Stato: sostenere il contrario signifi- cherebbe sancire la retroattività della norma incri- minatrice, in netto contrasto con la disposizione in esame e l’art. 25 della Costituzione.

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