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I Temporary shop. Avv. Giulia Comparini Cocuzza & Associati Studio Legale, Milano

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Academic year: 2022

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I Temporary shop

Avv. Giulia Comparini – Cocuzza & Associati Studio Legale, Milano

Il fenomeno dei temporary shop nato nel modo anglosassone si sta espandendo a macchia d’olio anche in Italia dove i negozi temporanei sono sempre più frequenti nelle maggiori piazze commerciali, sia nelle città che in periferia e all’interno dei Centri Commerciali.

Si tratta di negozi operanti in aree ad alta o altissima densità commerciale per un periodo di tempo di breve durata (in media dalle 3 settimane ai 18 mesi). Essi si basano su una formula di vendita focalizzata sulle “risposte emotive” dei consumatori, che, attratti dai display posti sulle vetrine oppure da cartelloni pubblicitari molto evidenti, sono portati all’acquisto di impulso dei prodotti messi in vendita sulla base del breve tempo a disposizione (derivante dalla limitata durata dell’iniziativa) oppure dalla peculiarità del prodotto.

I temporary shop hanno rappresentato inoltre un utile strumento nel corso della recente crisi economica per permettere ai proprietari, da un lato, di mettere a reddito, seppure per brevi periodi, i propri locali e ai retailers, dall’altro, di soddisfare le loro esigenze temporanee di business.

Quale contratto per i temporary shop?

Tali tipologie di retail stores che si manifestano all’apparenza in maniera sostanzialmente uniforme nei vari paesi, in Italia presentano alcuni interessanti profili dal punto di vista civilistico, legati soprattutto alla loro compatibilità con la durata minima dei contratti di locazione ad uso commerciale - fissata in 6 anni dalla legge sull’equo canone (L.392/78). Tale “criticità” è stata risolta dalle parti private facendo uso della c.d. “locazione transitoria” la quale, secondo la stessa legge sull’equo canone, può avere una durata inferiore ai 6 anni qualora l’attività esercitata abbia per sua natura carattere obiettivamente transitorio.

In tal senso si è espressa anche la giurisprudenza secondo cui la “transitorietà” va individuata non tanto in relazione al tipo di attività in sé, quanto piuttosto tenendo conto del particolare modo in cui l’attività stessa si atteggia in concreto, come desumibile dalla volontà delle parti espressa nel contratto. In altre parole, la natura transitoria dell’attività esercitata nell’immobile va intesa in senso

“oggettivo”, la transitorietà va quindi valutata in relazione al tipo di merce e/o a circostanze esterne che ne determinano tale carattere. Il contratto dovrà inoltre contenere una chiara menzione dei motivi che, in concreto, giustificano la transitorietà. Un esempio può chiarire meglio quanto espresso sopra: e’ stata giudicata legittima una locazione temporanea avente ad oggetto un immobile da adibire a deposito e vendita di stock occasionali di mobili ed arredamenti derivanti da fallimenti o compendi ereditari, trattandosi di attività destinata per sua natura a completarsi in un breve lasso di tempo. Parimenti, sono certamente legittime locazioni temporanee stipulate in occasione di fiere e/o altri eventi, per la durata dei medesimi: un esempio calzante al riguardo può certamente essere la stipula di un contratto di locazione temporanea per la durata di Expo.

Al di fuori delle ipotesi sopra esposte, l’utilizzo del contratto di locazione temporanea per regolamentare il rapporto relativo ad un temporary store non è allo stato possibile ricadendo il contratto nell’ambito della normativa vincolistica della legge equo canone, con le relative conseguenze in termini di durata minima del contratto.

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Ciò nonostante, come già detto sopra, nella realtà è assai frequente che le parti ricorrano al contratto di locazione temporanea, per disciplinare rapporti in cui la temporaneità non è determinata dalla natura dell’attività del conduttore o da circostanze oggettive esterne (fiere/eventi etc..), bensì risponde unicamente ad un interesse soggettivo delle medesime.

Gli altri modelli contrattuali posti in essere tra i proprietari e gli operatori interessati ad utilizzare gli spazi per le attività di temporary shop sono l’affitto di ramo di azienda ovvero il contratto di

appalto.

Entrambe tali fattispecie presuppongono, tuttavia, la sussistenza in capo a chi concede la location di una determinata organizzazione di mezzi, che assai spesso è difficile rinvenire in concreto.

L’affitto di ramo di azienda è il contratto mediante il quale il concedente - proprietario del bene/azienda (o ramo di azienda) – ne attribuisce l'intera gestione ad un soggetto terzo - affittuario - il quale, in conseguenza di ciò, si obbliga a "gestire l'azienda senza modificarne la destinazione e in modo da conservare l'efficienza dell'organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte" (art. 2561 e 2562 c.c.)

Tale soluzione presuppone che il contratto abbia ad oggetto non tanto e non soltanto la locazione di uno spazio fisico al retailer ove quest’ultimo eserciterà la propria attività, quanto e soprattutto la locazione di una serie di beni organizzati, di mezzi, per l’esercizio dell’attività costituenti nel loro insieme, per l’appunto, l’azienda e/o un suo ramo. Nella pratica, invero, non sempre i contratti di affitto rispecchiano le previsioni normative, soprattutto quelli relativi a posizioni commerciali situate nei centri città, che assai spesso mascherano delle vere e proprie locazioni commerciali.

Ed infatti, l’affitto di ramo di azienda viene talvolta preferito alla locazione perché è scarsamente regolamentato nel nostro ordinamento e le parti sono quindi libere di determinarne il relativo contenuto e, quindi, anche la durata. La stipula di un contratto di affitto presuppone fra l’altro, che il concedente (il soggetto cioè che ha la materiale disponibilità dei locali in qualità di proprietario o conduttore dei medesimi) sia già titolare di una autorizzazione commerciale per l’esercizio dell’attività, essendo in possesso dei requisiti di legge all’uopo necessari. Il contratto di affitto può pertanto essere, in certi casi, una scelta obbligata per l’operatore retail che decida di aprire un temporary shop, come, ad esempio, nel caso in cui il temporary shop abbia una superficie di vendita superiore ai 250 mq.. In tal caso, infatti, le tempistiche per il rilascio da parte delle autorità amministrative della licenza commerciale per “media struttura” di vendita si scontrerebbero con la necessità del retailer di utilizzare la location solo per un breve periodo di tempo.

Inoltre, non è un caso che l’affitto di ramo di azienda sia il contratto generalmente utilizzato dai Centri Commerciali anche con riferimento alle location offerte come temporary shop all’interno delle loro strutture. Nei Centri Commerciali, infatti, a ciascuno spazio è legata una licenza di cui solitamente è titolare la società proprietaria della struttura ovvero altra società di servizi ad essa legata, cui viene delegata la gestione degli esercizi commerciali del Centro. Ma non è questa la sola ragione. Nei Centri Commerciali, alla concessione in affitto di uno spazio si associano sempre tutta una serie di servizi per il retailer, derivanti, appunto, dall’entrare a far parte della struttura del Centro Commerciale, che meglio possono giustificare l’inquadramento del rapporto relativo come affitto di ramo di azienda.

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Occorre inoltre precisare che l’affitto di ramo di azienda, (a differenza della locazione,che va solo registrata se superiore ai 30 giorni), per essere opponibile ai terzi deve essere stipulato innanzi a ad un notaio (che ne cura poi la registrazione, obbligatoria in tutti i casi) con conseguente e assai spesso non gradito aggravio di costi, soprattutto se la breve durata del rapporto non giustifica tali formalità.

Quanto al ricorso alla fattispecie dell’appalto di servizi, si precisa che tale contratto è disciplinato dall’art.1655 del codice civile e si caratterizza per il fatto che una parte - detta appaltatore - assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, la realizzazione di un opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro fornito dal committente o appaltante. Nel caso che ci occupa, l’appaltante è il soggetto che offre al retailer (l’appaltatore) la location ove gestire a titolo temporaneo la propria attività. Tuttavia la concessione in godimento a titolo temporaneo della location non basta a integrare la fattispecie dell’appalto di servizi, la quale presuppone che l’appaltante offra al retailer, in aggiunta, anche tutta una serie di servizi che giustificano l’appalto.

Tale formula viene generalmente utilizzata mediante l’intermediazione di società che ottengono il godimento dei locali dal proprietario e offrono gli spazi ai temporary retailer congiuntamente ad altri servizi, quali la promozione dell’attività, il personale da utilizzare nel negozio nonché la progettazione e gli allestimenti degli spazi. In altre parole, nel contratto di appalto l’offerta della location temporanea rappresenta uno dei servizi offerti dall’appaltante. La soluzione dell’appalto di servizi è già nella pratica molto utilizzata con riferimento agli uffici, in quanto richiede una minore specializzazione da parte dell’appaltante, mentre è ancora molto meno praticata con riferimento ai negozi, sebbene si stia sviluppando nelle più grandi città del Nord Italia.

Dall’analisi sopra esposta emerge chiaramente come le tipologie contrattuali attualmente a disposizione per la regolamentazione dei temporary shop siano ancora ben lontane dal soddisfare le esigenze attuali del mercato e dei retailers. Ed il nostro legislatore ha certamente perso una buona occasione di riformare adeguatamente la materia delle locazioni commerciali quando ha introdotto le recenti modifiche del Decreto Sblocca Italia, convertito in legge (n. 262 dell’11 novembre 2014), in quanto si è limitato a “liberalizzare” le sole locazioni commerciali il cui canone superi i 250.000,00 euro annui, mentre ha lasciato del tutto irrisolto il fenomeno dei temporary shop.

Gli “artifizi” regionali in tema di temporary shop

A complicare ulteriormente il panorama legislativo italiano già abbastanza complesso in materia, alcune Regioni, piuttosto che volgersi verso la direzione della liberalizzazione del commercio, ribadita anche di recente dalla Corte Costituzionale, hanno “rinnovato” il loro impulso regolatore volto ad inserire inutili prescrizioni contrarie alla libera concorrenza e alla libertà di impresa, con l’effetto di rendere più difficoltoso l’esercizio dell’impresa nella forma dei temporary shop.

Dal punto di vista amministrativo, i temporary retailer sono soliti utilizzare il subentro nel provvedimento autorizzativo rilasciato al proprietario, se esistente, oppure presentare un’istanza diretta al Comune dove viene esercitata l’attività (di solito si tratta di esercizi di vicinato) e, al termine dell’iniziativa, presentare una comunicazione di cessazione dell’attività.

Tuttavia alcuni parlamenti regionali hanno deciso di complicare tale lineare (e legittimo) schema autorizzativo.

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Si tratta delle Regioni Campania, Veneto e Marche, le quali hanno fornito una propria chiave di lettura alla fattispecie che presenta risvolti di dubbia costituzionalità.

Anche la Liguria aveva adottato una normativa restrittiva in materia di “attività temporanee” (così nella legge regionale 1/2007) che è stata, per fortuna, recentemente abrogata.

In Veneto, ad esempio, i temporary store (così nella legge regionale) possono proporre in vendita anche beni non alimentari, ma sono tenuti ad indicare nella SCIA (o nella domanda di autorizzazione) la durata, che non può essere superiore a 12 mesi e può essere rinnovata una sola volta per un periodo massimo di 6 mesi. Quindi per vendere prodotti collegati ad un evento di durata biennale a Venezia occorre presentare (almeno) 2 diverse pratiche al Comune e sacrificare 6 mesi (su 24) durante i quali non sarà possibile esercitare l’attività temporanea di vendita (articolo 24 della l.r. 50/2012).

Allo stesso modo, in Campania, la normativa locale consente l’esercizio dei temporary shop (così nella legge regionale) anche per la vendita di prodotti non alimentari; tuttavia, la durata dell’attività è strettamente collegata alla durata delle fiere, mercati o eventi straordinari ai quali sono necessariamente connessi e, in ogni caso, non può eccedere i 45 giorni.

Nelle Marche, la legge regionale 27/2009 definisce il “temporary shop” (così nella legge regionale) come l’“attività commerciale che offre prodotti specifici per un periodo di tempo limitato”

stabilendo altresì che la durata di un temporary shop non può essere superiore alle sei settimane.

Infine la regione Lazio nel progetto della nuova legge regionale sul commercio definisce i

“Temporary store” (così nel progetto di legge regionale) come “i locali e gli insediamenti dove si svolgono temporanei eventi di promozione o esposizione al pubblico di prodotti alimentari e non alimentari e stabilisce che la durata dell’attività temporanea non può essere superiore alla durata delle fiere, mercati, feste o eventi straordinari ai quali sono necessariamente connessi.

Le normative sopra citate, oltre a complicare la normativa vigente in materia di temporary shop, introducono evidenti disparità di trattamento fra retailers operanti in diverse regioni, disparità assolutamente prive di qualsiasi ragionevole giustificazione.

La Corte Costituzionale ha statuito, infatti, che l’azione del legislatore deve essere volta - da un lato - ad impedire che le funzioni amministrative risultino inutilmente gravose per i soggetti amministrati e - dall’altro - a semplificare le procedure volte al rilascio dei titoli amministrativi (nel caso di specie si trattava di somministrazione di alimenti e bevande). Secondo la Corte, sull’intero territorio nazionale deve essere assicurato il godimento di un livello minimo di prestazioni garantite, tra cui lo svolgimento contemporaneo dell’attività di vendita in condizioni di parità e semplicità.

Le normative regionali sembrano porre in essere l’esatto contrario dei principi codificati dalla Corte: che senso ha, infatti, costringere un retailer ad indicare in una Regione i mesi di durata nella SCIA oppure, in un’altra Regione, a rendere l’esercizio di un temporary shop quale attività ancillare a fiere o mercati, tra l’altro limitando la durata dell’attività a pochissime settimane, quando a pochi chilometri di distanza (si pensi alle regioni confinanti) è possibile, sull’intero territorio nazionale, avviare l’attività mediante il deposito di una semplice SCIA senza alcun limite di durata e, a pochi giorni di distanza dalla fine dell’iniziativa, inviare una semplice comunicazione di cessazione dell’attività?

Di fronte a questo caos normativo e ai rilevati profili di incostituzionalità di alcune normative regionali, sarebbe pertanto auspicabile un intervento del legislatore nazionale che, preso atto delle

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mutate condizioni del mercato (la legge equo canone risale al 1978!), liberalizzasse definitivamente la disciplina delle locazioni commerciali ponendo così un freno all’impulso regolatore delle Regioni e legittimando tutte quelle locazioni temporanee che oggi vengono mascherate mediante l’artificioso ricorso ad altre tipologie contrattuali.

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