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Andy Haldane, Chief Economist and Executive Director, Monetary Analysis & Research, Bank of England

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Academic year: 2022

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La pandemia ha depresso, con l’attività economica, i prezzi. Al contempo al fine di evitare collassi recessivo-deflattivi, l’intervento delle principali autorità mondiali ha spinto le quotazioni azionarie e obbligazionarie fino a creare le condizioni di quella che la scuola austriaca di economia definisce

“asset inflation” (bolla nei mercati). E ora che per l’economia reale il quadro inizia a cambiare positivamente (molto si gioca nella riuscita dei vaccini contro la pandemia) il quesito è: come si esce dal “grande” debito da ultimo incrementato dal Covid?

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Il timore è che le grandi risorse finanziarie immesse nell’economia globale, combinandosi con le aspettative inflattive legate alle buone aspettative di ripresa economica, ora possano funzionare come materiale altamente infiammabile. Insomma, è possibile che la molta liquidità faccia

“scattare” l’inflazione. Le banche centrali (BC) sono abbastanza attente a evitare di sottovalutare la questione; ma la lettura che ne fanno, quindi le loro priorità immediate, sono per il

mantenimento della stabilità finanziaria. Se di inflazione si occupano, lo fanno concentrandosi sull’andamento dei tassi d’interesse al fine di evitarne impennate.

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Andy Haldane, Chief Economist and Executive Director, Monetary Analysis & Research, Bank of England Comunque, anche osservatori all’interno delle BC sono preoccupati per le avvisaglie di tensioni sui prezzi. Lo conferma il capo economista della Bank of England (BOE) che, pur ammettendo

l’incertezza delle previsioni, teme che “the greater risk at present is of central bank complacency allowing the inflationary (big) cat out of the bag”. (Andy Haldane, Inflation: A Tiger by the Tail?

BOE, Speech del 21/02/2021). Così l’inflazione torna sul palcoscenico dell’attualità dopo anni in cui, passata la grande paura degli anni Settanta del Novecento, aveva preso a declinare (sulle vicende dei prezzi è originale l’approccio di Christian Marazzi, E il denaro va, Boringhieri, 1988).

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Il discutere di prezzi e mercati finanziari ha senso in particolare ricordando, in questi tempi pandemici difficili, le parole in tema di moneta del grande storico M. Bloch per il quale: “Tra tutti gli apparecchi registratori capaci di rivelare allo storico i movimenti profondi dell’economia, i fenomeni monetari sono senza dubbio i più sensibili” (Marc Bloch, Il problema dell’oro nel Medioevo, in Lavoro e tecnica nel Medioevo, Laterza, p. 111). Parole che ricordano come inflazione e deflazione, specie se si presentano con velocità diverse nell’andamento dei prezzi, sono fenomeni, come d’altronde ricorda Marazzi, che sono tutto meno che neutrali in materia di distribuzione del reddito.

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Riportando tutto ciò all’attualità, il combinarsi di recessione con forti immissioni di liquidità da parte delle BC (com’è avvenuto nella prima fase della pandemia) ha certo premiato il “risparmio finanziario” a scapito di altri fattori della produzione. Tuttavia, la ricchezza dei detentori di titoli è sempre esposta a shock; quindi, dati i segni di inflazione incombente e la montagna di debito accumulato (l’Italia qui cammina sul ghiaccio sottile), la possibile evoluzione economica post- pandemica (in analogia a quanto ci ricorda Marazzi però riferendosi al crack del 1997) “potrebbe rivelarsi una “bolla speculativa” destinata a scoppiare” (p. 16). Parafrasando il “vecchio” Marx, uno spettro è tornato dal passato a tormentare le BC: la svalutazione monetaria.

Ora esse hanno motivi d’allarme. In ragione di ciò, finita l’emergenza (qui il mondo atlantico – USA e UK – ora pare in vantaggio), questa sarà una questione dirimente; forse non subito ma nell’immediato futuro. Per il vero già nel 2008 voci sui rischi di inflazione si levarono quando le

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Autorità di politica economica intervennero pesantemente – stimoli fiscali e iniezioni di liquidità nel sistema bancario – al fine di evitare un big crash simile al Martedì nero USA del 1929. Al tempo, il timore si rivelò infondato. Anzi, le forze della deflazione, anche per effetto della

“limatura” dei prezzi data dalla competizione globale (volendo, marxianamente, l’effetto deflattivo di un “esercito di riserva industriale globale”), vinsero e i profeti dell’inflazione persero. Il dubbio è: accadrà ancora?

È lecito dubitarne perché, diversamente dal 2008, oggi la sostanziale “dominanza fiscale” (la politica monetaria è soggetta alle esigenze del bilancio pubblico) cui sono soggette le BC inizia ad operare, invece che in un contesto recessivo, in uno di aspettative di crescita. La questione è se le politiche di bilancio a deficit per reggere l’urto della pandemia potranno rimettere in moto la macchina economica senza al contempo creare inflazione. Difficile se, come sostiene l’economista Tommaso Monacelli

gli agenti si aspettano maggiore espansione monetaria in futuro (l’inflazione è una variabile che dipende fortemente dalle aspettative).

Dunque spinte all’insù dei prezzi essendo questo – qui lo studioso riprende il concetto di

“dominanza fiscale” – “il quadro tipico in un contesto in cui la banca centrale non è indipendente dal potere politico”.

Tant’è che le BC, per riaffermare la loro “forza” dinnanzi alla politica (la dialettica tra BCE e Bundesbank da conto di una simile dinamica), dinnanzi ad un ritorno dell’inflazione (magari favorita dal piano Biden, specie se finanziato dalla FED “stampando” moneta e capace di traslarla via Atlantico e Pacifico al mondo) potrebbero voler fermare la loro azione espansiva così

inducendo nei mercati shock finanziari. Solo un’ipotesi al momento poco probabile; ma che nell’Eurozona significherebbe il ritorno alla divaricazione degli spread.

Sono preoccupazioni correnti in molte analisi di questi giorni. Cionondimeno, nelle BC paiono tuttora prevalere le politiche monetarie non-ortodosse. La loro preoccupazione prevalente, ben comprensibile, per la stabilità finanziaria “qui e ora” (costi quello che costi) obbliga le BC stesse – valida la regola che se i tassi d’interesse, spinti dall’inflazione, crescono allora i prezzi delle obbligazioni scendono – a “stampare” al fine di tenere sotto controllo i rendimenti nei mercati obbligazionari. Di qui la sostanziale riconferma della NIRP (Negative Interest Rate Policy). È la scelta delle BC più importanti del pianeta, timorose di veder collassare i mercati. Dall’attacco alle Twin Towers del settembre 2001 allo tsunami del 2008 per giungere alla pandemia per esse è una sfida costante che ha finora improntato le loro modalità di azione. Ma la NIRP è la soluzione o il problema? Forse, un po’ entrambe le cose.

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È un radicale cambiamento di paradigma di politica monetaria; quindi anche di gerarchia dei valori perseguiti (dalla stabilità dei prezzi alla stabilità finanziaria). La cui ratio, figlia della paura da shock economico, la spiega, l’esperto sul ponte di comando (Bernanke, nel 2008 presidente della Federal Reserve USA (FED) basandosi sull’esperienza tragica del citato Martedì nero del ’29:

di fronte ad un’ondata di panico, la banca centrale dovrebbe seguire la regola di Bagehot,

erogando credito liberamente a chiunque ne faccia richiesta”…[inoltre] la Grande depressione ci ha insegnato che serve una politica monetaria accomodante per evitare che l’economia cada in una profonda recessione” (Ben S. Bernanke, La Federal Reserve e la crisi finanziaria, Il

Saggiatore, p.101).

In altre parole, la sicurezza fa premio su tutto.

Analogamente, ma con approccio biopolitico, Dal Lago vede alla base dell’approccio emergenziale delle BC l’idea che “riscoprendo le necessità dell’indebitamento per la sopravvivenza economica, le istituzioni sovranazionali hanno mostrato di comprendere ciò che davvero è in gioco nella pandemia, l’esistenza stessa delle basi della vita sociale”(Alessandro Dal Lago; Note sull’età

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dell’incertezza, p. 109, aut aut. N 389, 2021). Così era parimenti orientato il whatever it takes del 26 luglio 2012 dell’allora presidente della BCE Draghi.

Alessandro Dal Lago

Pronunciate in una fase drammatica per la sopravvivenza dell’euro le parole di Draghi sono di fatto assurte a simbolo di una sorta di new normal nella conduzione degli affari monetari con la NIRP divenuta una sorta di obiettivo/vincolo. L’esperimento pare aver funzionato, se i rendimenti delle obbligazioni (pubbliche e private) sono stati radicalmente contenuti. Ossigeno per il debito sovrano del Belpaese altrimenti poco sopportabile. Ma è lontano o no il punto di rottura (ritorno dell’inflazione) di queste politiche?

Ovvero: i bassi tassi d’interesse sono qui per restare ancora? Il combinarsi di perdita di Pil e pandemia, quasi “catturando” le BC a scapito, per dire con Monacelli, della loro autonomia e indipendenza dalla politica, porta in questa direzione; così rendendo la NIRP difficilmente

revocabile. Sotto questo profilo tornano attuali le considerazioni del già Governatore di Bankitalia Guido Carli quando sottolineava – in altre condizioni ma analoghe per il fatto che strette

monetarie ora porrebbero seri problemi di ordine pubblico economico – come in nessun caso il Banchiere centrale dovrebbe assumere comportamenti eversivi della stabilità sociale (Guido Carli, Intervista sul capitalismo italiano, Laterza, 1977, p. 43). Ovvero, di una sua necessaria priorità.

Non a caso una linea simile, sebbene con molte cautele aggiuntive, è quella che la Presidente della

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BCE Lagarde ha annunciato: più ritmo negli acquisti obbligazionari in ambito del Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP). Questo indica la precisa volontà, di tranquillizzare i mercati monetari e finanziari, ma senza sfoderare nessun bazooka; anzi. Difatti, se da un lato la Lagarde ha annunciato che la BCE aumenterà il ritmo degli acquisti di bond purtuttavia i saldi finali del PEPP (1.850 miliardi di euro utilizzabili fino al marzo 2022) restano invariati. Una prudenza forse indice di qualche timore sulla dinamica dei prezzi probabilmente di origine Bundesbank.

La FED mostra la stessa cautela dinnanzi alla brezza, questo è ancora al momento, inflattiva. Anzi, il suo presidente Jerome Powell esclude mutamenti in senso restrittivo della politica monetaria.

Conseguentemente, le pressioni inflattive su alimentari ed energetici sono prive di incidenza.

D’altronde, la FED, come le consorelle, opera in un contesto di economie ancora deboli; quindi,

“tirare il freno” sarebbe, quantomeno politicamente, fuori dalla logica e la NIRP resta tuttora il quadro di riferimento delle BC. Francoforte compresa, anche forzando la cultura fondativa (sensibilissima all’inflazione) della BCE medesima.

Così le BC tengono a riferimento, invece del tasso d’inflazione generale, la curva di rendimento delle obbligazioni, per domarla. È un effetto della pandemia che impone, come detto specie per via politica e del consenso su cui essa si basa, alle BC di dare uno “scudo monetario” a quel debito che poi è la risposta degli Stati per approntare linee di difesa contro la pandemia medesima.

Merita ripeterlo: funziona nell’ipotesi di inflazione assente; fino a decidere di sottostimarne, rispetto ad altre priorità, la presenza. A conferma, il 17 marzo il presidente delle FED Powell, pur riconoscendo pressioni sui prezzi in specie per difficoltà dal lato dell’offerta, ha voluto sottolineare che “questi aumenti una tantum dei prezzi avranno verosimilmente solo effetti transitori

sull’inflazione”.

Da tempo di questa nessuno si preoccupava più. La stessa Italia, stagnante da anni, pareva doversi preoccupare di tutto meno che della crescita dei prezzi. Pertanto altre emergenze dal forte potere deflattivo sui mercati – prima il terrorismo (l’11 settembre 2001), poi la crisi della Lehman (2008), infine la pandemia – hanno indotto le BC, per evitare il “panico finanziario”, ad allargare i cordoni della politica monetaria. Qui le radici del problema attuale, percepito tale da molti analisti, nei mercati finanziari: ovvero che pure l’asset inflation (bolla) può essere un problema.

Resta che i bassi tassi d’interesse hanno facilitato il ricorso al debito: un gioco nell’immediato conveniente, ma precario. Specie se forti espansioni fiscali, monetizzate dalle BC (piano Biden, ad esempio), creano aspettative di crescita dei prezzi. È vero: l’inflazione resta attualmente

moderata. Però è sufficiente perché gli investitori inizino a chiedere rendimenti più alti. Ciò pone

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le BC in angolo. Perché, se allentano la politica espansiva, frenano economie già deboli; ma se li lasciano salire, essendo il debito “benzina” e i tassi d’interesse il “cerino”, incendiano i mercati (esplode la bolla). Un difficile “che fare?” per le BC.

Insomma la NIRP, nella sua accettabilità politica, nasce dall’idea che l’inflazione fosse un

problema lontano, archiviato già a fine ‘900. La stessa pandemia era vista come fattore deflattivo:

crollo del Pil via lockdown e “ghiaccio” sui prezzi. A conferma dell’ipotesi, la radicale caduta del prezzo del petrolio del maggio 2020. Ma le cose cambiano e l’inflazione, come dice lo stesso presidente della FED Powell, può tornare; anzi, è tornata a farsi sentire. Un segnale è la stessa volatilità dei mercati. C’è incertezza; che forse spiega la “galoppata” del Bitcoin sempre più visto, al posto dell’oro, come asset (bene rifugio) dinnanzi a situazioni finanziariamente dubbie.

Tutto ciò porta le BC a pattinare su ghiaccio sottile. Se da un lato c’è una montagna di debito, anche conseguente alle loro politiche monetarie generose con tassi a zero o negativi, dall’altro basta il sospetto di cenni inflattivi perché si alzino i tassi e si generi “panico da vendita” con shock sui mercati finanziari e sull’economia “reale”. Può essere il volto del post pandemia. Insomma, per le BC l’annunciato ritorno dell’inflazione (le tensioni sui mercati finanziari mostrano che ci si crede e, peggio, ci si potrebbe scommettere) implica per esse una prova difficile.

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Che il problema sia nell’aria, col rischio di brusche correzioni implicanti rischi sistemici, lo ricorda in una conferenza degli inizi di marzo Guido Carli, Intervista sul capitalismo italiano, Laterza, capo del principale ente regolatorio delle banche cinesi nonché responsabile della cellula del PCC presso la Banca Popolare Cinese (la BC di Pechino), per il quale: “Le bolle nei mercati statunitensi ed europei potrebbero scoppiare perché i loro rally si stanno dirigendo nella direzione opposta rispetto alle loro economie reali e dovranno affrontare correzioni prima o poi”. Quindi Pechino paventa il rischio di bolla; e pure i mercati occidentali sono in allarme.

Il problema c’è; ma che fanno le BC? Meglio: cosa possono fare? Poco: anche perché la ripresa è più in fieri che in atto; gelarla è ciò che le BC, e tanto più la politica con cui comunque debbono rapportarsi, temono maggiormente. Al momento dunque le Autorità monetarie, timorose della sensibilità dei mercati ai tassi d’interesse e di fatto “catturate” dai mercati finanziari, escludono di

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“frenare per evitare a questi ultimi shock”. Però così si accumula instabilità.

Certo, siamo lontani dalle inflazioni a due cifre degli anni ’70 del ‘900; ed anche dal sommarsi – nell’immediato almeno negli USA, in Europa chissà – dell’inflazione medesima con la stagnazione economica, la cosiddetta stagflazione (in materia un piccolo “classico” d’epoca non-convenzionale è Carl Levinson, Capitale, inflazione e imprese multinazionali, Etas/Kompass). Le BC ancora scommettono (probabilmente con qualche ansia crescente) “contro” la crescita inflattiva e

continuano la politica monetaria non-convenzionale, soprattutto attentissime a stoppare eventuali impennate dei tassi. Su questo sia la presidente della BCE Lagarde che il presidente della FED Powell proprio pochi giorni fa sono stati chiarissimi.

Il punto è che, come osservato, a creare problemi basta poca inflazione (sui problemi di

rilevazione dell’inflazione in pandemia Andrea Garnero, Anche l’inflazione risente della pandemia, lavoce.info, 11/11/29). Difatti, è sufficiente che il trend inflattivo superi il livello dei prezzi previsto

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dalle Autorità e che i mercati lo incorporino perché questi chiedano rendimenti più elevati. Nel caso, per l’economista Penati guardando agli USA (ma vale per il mondo) “la FED si trova dunque in un vicolo cieco”(Alessandro Penati, Lo spread non dice tutta la verità sui rischi del nuovo debito da crisi, Domani, 6. 3. 21). È il cane che si morde la coda. Le BC, “catturate” dai mercati”,

cercheranno di restare sulla linea di tassi a 0 a tutela nel breve della stabilità finanziaria.

Jerome H. Powell, Chairman of the Board of Governors of the Federal Reserve System

L’obiettivo delle Autorità, è di evitare il cosiddetto “panic selling” (fuga dai titoli) così salvando anche le brezze di ripresa. Logica la tentazione (di BC e governi) di “calciare il barattolo in avanti”. Anche perché le BC (forse il Saturday Night Disaster del 6 ottobre 1979, quando l’allora Presidente della FED Volcker capovolse la politica monetaria USA per ridurre l’offerta di dollari sui mercati, è tuttora vivida nelle immediate conseguenze) esitano a creare artificialmente una crisi per evitarne una maggiore in futuro.

Il guaio è che così il sistema diviene sempre meno elastico; cioè più fragile. Come uscirne? La via più pericolosa anche per la tenuta della nostra democrazia è il ricorso ad austerity fiscale più inevitabili default. Politicamente un suicidio. La seconda, viceversa più soft, si baserebbe, pure riprendendo per il possibile l’esperienza del Secondo dopoguerra, sulla capacità di controllare inflazione e curva dei tassi a lunga con l’obiettivo di avere così un “atterraggio morbido”. Essendo difficile (come nota il citato economista Penati) illudersi ipotizzare una crescita di produttività capace di assorbire il debito, questa seconda via pare l’unica possibile per affrontare il problema

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debitorio del post pandemia. Come in ogni ipotesi d’azione c’è rischio; ma se l’inflazione resta sotto controllo può aiutare, come negli anni Cinquanta del Novecento, a far diminuire il debito.

Una strada per il vero più facilmente percorribile in USA sia per le forti dosi di pragmatismo del Paese che per l’indiscutibile vantaggio di disporre della moneta stella polare dell’economia- mondo.

In USA però c’è un problema in meno. Ed è che il rialzo dei rendimenti negli States è

accompagnato, sempre se senza eccessivi timori inflattivi (l’incognita pericolosa), da aspettative di ripresa economica. Questo tranquillizza i mercati allontanando i timori di shock finanziario. In Eurozona, viceversa, manca tuttora un chiaro rimbalzo (pur in presenza di segni di tenuta) rispetto al crollo del 2020; e le vaccinazioni (funzionali alle aspettative di ripresa economica) vanno a rilento mentre si assiste ad un continuo stop and go dei lockdown. In ragione di ciò il rialzo dei rendimenti sovrani è più preoccupante che oltreatlantico.

I mercati potrebbero sospettare che l’UE perda l’appuntamento con la ripresa del Pil restandole però in mano il cerino dell’inflazione. In tal caso le richieste degli investitori potrebbero produrre condizioni finanziarie esiziali almeno per gli Stati membri più indebitati. Se così fosse l’UE

finirebbe diritta a sperimentare la prima via, quella più dura, di uscita dalla crisi. Per evitarlo e prendere la seconda strada è necessario che la curva dei rendimenti a lunga dei titoli sovrani in euro resti sotto controllo. A febbraio la Lagarde ha dichiarato che la BCE “monitora con attenzione l’evoluzione dei rendimenti a lungo termine”: un’utile novità d’approccio nella filosofia monetaria di Francoforte che ci avvicina alla strada più pragmatica per affrontare il post-pandemia.

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Volcker, sempre rifacendosi alla sua esperienza di banchiere centrale contro l’inflazione degli anni Settanta del Novecento, scrive che al tempo “The FED was losing credibility” aggiungendo che allora “We needed a new approach”. (Paul A. Volcker, Keeping at it, Public Affairs, 2018). Sono parole che, pur in altra fase storica, possono tuttora avere la loro attualità.

Di certo, comunque uscire dal debito sarà tutto meno che un pranzo di gala.

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