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Capitolo 4 : Neuroscienza entra in aula

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Capitolo 4 : Neuroscienza entra in aula

Nel tentativo di trovare un risvolto pratico e una corretta applicabilità di quanto finora riportato, diventa inevitabile imbattersi nel dibattito nato da millenni sul binomio azione-pensiero umano che si traduce , alla luce di queste nuove tecnologie, in una problematica contrapposizione tra libero arbitrio e determinismo biologico. È dunque l’uomo determinato nel suo agire dalle caratteristiche strutturali e biologiche del suo cervello o dal suo patrimonio genetico?

Il tentativo di rispondere adeguatamente a tale quesito è dunque il frutto del confronto e dell’interazione e intersezione di due sistemi concettualmente distinti, quello scientifico della neuroscienza per l’appunto e quello legale del diritto.

La neuroscienza non può né possiede gli strumenti per determinare la risoluzione di questioni prettamente giurisprudenziali, quali la riconosciuta responsabilità di un soggetto per un determinato comportamento, nel caso specifico un atto criminale; ma attraverso la figura dell’esperto, il neuroscienziato in tal caso, fornisce al diritto, nella persona del magistrato, una migliore lente di ingrandimento e un’ottica meno soggettivistica per la valutazione del caso in corso di analisi.

È lo stesso sistema di diritto, con la sentenza n.9163 del 2005 delle Sezioni Unite, a sostenere “nella simbiosi di un piano empirico e di uno normativo, una

necessaria collaborazione tra giustizia penale e scienza, a quest'ultima il giudice non può in ogni caso rinunciare”.

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4.1 Caso Como

Il primo caso di applicazione delle neuroscienze per vagliare l’imputabilità in Italia e uno dei primi casi del genere nel mondo, è il così detto “caso Como”.

Stefania Albertani, di anni 28, è arrestata nel 2009 in flagranza di reato mentre tenta di dar fuoco alla madre, la donna viene salvata dall’intervento delle forze dell’ordine che hanno precedentemente sottoposto l’abitazione a intercettazione ambientale in seguito all’iscrizione della Albertani nel registro degli indagati per l’omicidio della sorella della ragazza. L’imputata tramite la sottrazione di ingenti somme di denaro dalle casse della piccola impresa famigliare è stata una delle maggiore artefici del fallimento della stessa; al seguito del quale il padre dell’imputata decide con il denaro restante di acquistare un immobile per la figlia maggiore, sorella di Stefania. Quest’ultima mal tollerando tale decisione cerca in tutti i modi di ostacolarne la messa in atto, arrivando a farsi affidare il ruolo di intermediaria tra il venditore e i genitori e fornendo una finta documentazione e una falsa corrispondenza telematica con un fantomatico avvocato che la assisterebbe nella trattazione. Riesce in questo modo a evitare la transazione per qualche tempo, fino a quando non viene scoperta dalla sorella allertata dal venditore stanco di aspettare. La sera stessa l’imputata invita la sorella ad uscire, la stordisce con barbiturici e la porta in pronto soccorso (salvo poi convincerla a

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49 non restare). Infine la sequestra e poco dopo la uccide, bruciandone il cadavere nel giardino dietro casa, dove viene sepolto.

La donna viene sottoposta a una prima perizia psichiatrica che propende per la parziale infermità mentale, senza fornire però una diagnosi specifica; Il tribunale chiede quindi una ulteriore perizia e un secondo psichiatra, fornisce un parere opposto: S.A. è sana di mente, è isterica e ha una personalità istrionica, ovvero finge. Finge in particolare di non ricordare la notte del crimine. È a questo punto che la difesa chiede una terza perizia e questa volta la affida a due professionisti ben noti, Giuseppe Sartori, psicologo dell’Università di Padova, e Pietro Pietrini, psichiatra, docente di biochimica dell’Università di Pisa ed esperto di genetica comportamentale.

Lo staff Pietrini-Sartori sottopone la Albertani a 9 colloqui e effettua un preciso lavoro di riscontro tra ciò che l’imputata racconta e ciò che è noto all’indagine per verificare quanto la donna sia attendibile. La valutazione psichiatrica non si limita al colloquio ma utilizza diverse scale validate e test proiettivi a cui si aggiunge la valutazione neuropsicologica che dimostra deficit di memoria e soprattutto di planning e valutazione del rischio. Sottoposta per esempio all’Iowa Gambling Test (un test in cui il soggetto viene invitato a partecipare a un gioco dal quale si traggono vantaggi sul lungo termine se si accetta di perdere nell’immediato), l’imputata dimostra di non avere nessuna capacità di rimandare nel tempo la ricompensa: pensa solo al

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50 beneficio immediato, il che è assolutamente congruente con comportamenti apparentemente assurdi che hanno contribuito a incastrarla, come l’uso delle carte di credito della sorella. Al test di Hayling, che misura l’impulsività di un soggetto, S.A. appare incapace di controllarsi. A prove di teoria della mente (test che richiedono di interpretare le emozioni e i pensieri altrui), la donna ottiene risultati al di sotto della norma, perché manca di empatia. I due periti concludono quindi per una diagnosi finale di “pseudologia fantastica in

persona affetta da disturbo di identità”, patologia composita caratterizzata sia

da quadro psichiatrico di menzogna patologica (a spiegazione che l’imputata mente spesso e anche inutilmente,e crede nella verità delle sue fantasie) sia da sindrome dissociativa (che spiega come l’imputata di fronte a eventi stressanti agisca in modo automatico con modalità disadattive, aggressive, personalità alter, per poi tornare a regime normale, non avendo memoria delle azioni realizzate in queste fasi dissociative) e che è legittimo riconoscerle un parziale vizio di mente. Per corroborare la propria diagnosi aggiungono però altri tre esami. Dato che S.A. afferma di non ricordare nulla del crimine, la sottopongono allo IAT (Implicit association test): si tratta di una tecnica che, misurando i tempi di reazione di un soggetto di fronte a un’affermazione, è in grado di discriminare con una buona precisione (intorno al 92 per cento, affermano i periti stessi) se esistono, nei confronti di quella stessa affermazione, dei meccanismi di difesa. In questo caso è stato utilizzato per uno scopo ancora sperimentale: verificare se una certa informazione è

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51 codificata nel cervello dell’imputata come traccia mnesica oppure no. Per così dire, i periti “penetrano” nella mente dell’imputata e sono in grado di confermare che quando afferma di non ricordare i particolari del crimine, essa dice la verità, perché non c’è alcun rallentamento nei suoi tempi di reazione (un rallentamento che sarebbe lecito aspettarsi se mentisse scientemente). Questo test, afferma la stessa sentenza, è fondamentale per convincere il giudice del fatto che S.A. ha davvero una amnesia dissociativa e non è una simulatrice. L’imputata viene anche sottoposta a una risonanza magnetica per verificare la morfologia del suo cervello: risulta avere una riduzione del volume del cingolo anteriore, come visto in precedenza area importante per il controllo degli impulsi. Infine viene sottoposta anche a un’analisi di genetica e risulta portatrice di una variante di tre geni – quello per la serotonina, quello delle monoaminossidasi e quello per il metabolismo delle catecolamine – come si è visto, noti in letteratura perché associati a un aumento del rischio di comportamenti violenti.

È proprio quest’ultima la perizia a cui il Giudice del Tribunale di Como Luisa Lo Gatto fa riferimento per la pronuncia della sentenza in cui si legge: “il

percorso logico argomentativo seguito dai consulenti della difesa in seconda battuta, grazie ad un ulteriore incarico conferito a nuovi esperti ancora, si rivela condivisibile e la completezza degli accertamenti disposti ha consentito un approfondito esame della perizianda condotto attraverso i tradizionali

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colloqui clinici, la raccolta dell’anamnesi la testistica neuropsicologica, nonché, a completamento, gli accertamenti tecnici sulla struttura e la funzionalità cerebrale dell’indagata e sul suo patrimonio genetico. Particolare pregio deve essere riconosciuto al lavoro svolto perché la compiutezza degli accertamenti, la valutazione rigorosa del materiale probatorio, la raccolta e la verifica dei dati di anamnesi, sicuramente non paragonabile per accuratezza e livello di approfondimento al lavoro svolto dal primo consulente della difesa, ma neppure quello svolto dal perito d’ufficio, sono tutti elementi che comprovano la serietà e la professionalità del lavoro svolto” e ancora viene riportato, “l’esposizione puntuale del percorso logico argomentativo seguito dai consulenti tecnici ha evitato che il giudice fosse relegato al ruolo di mero certificatore delle risultanze psichiatriche”. Il giudice riconosce come l’approccio psichiatrico classico

trovi utile completamento nelle neuroscienze che consentono di studiare il cervello e in particolare quelle aree associate, secondo acquisizioni tecnico-scientifiche internazionalmente condivise, a funzioni specifiche.

Inoltre, tiene a precisare il Giudice richiamandosi alle riflessioni del neuroscienziato Michael Gazzaniga, fra i primi della comunità scientifica internazionale a occuparsi di problemi di neuroetica, “non si tratta di

introdurre una rivoluzione copernicana in tema di accertamento, valutazione e diagnosi della patologie mentali, né tantomeno di introdurre criteri

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deterministici da cui inferire automaticamente che ad una certa alterazione morfologica del cervello conseguono certi comportamenti e non altri, bensì di far tesoro delle condivise acquisizioni in tema di morfologia cerebrale e di assetto genetico, alla ricerca di possibili correlazioni tra le anomalie di certe aree sensibili del cervello ed il rischio, ad esempio, di sviluppare comportamenti aggressivi o di discontrollo dell'impulsività, oppure tra la presenza di determinati alleli di geni ed il rischio di maggiore vulnerabilità allo sviluppo di comportamenti socialmente inaccettabili perché più esposti all'effetto di fattori ambientali stressogeni”. “Tutto questo – dice la Sentenza

– consente di concludere, in armonia con quanto rilevato dai consulenti

tecnici della difesa, che l'imputata nel periodo in cui ha commesso i crimini, fosse affetta da problemi psichiatrici, e che questi problemi psichiatrici, abbiano, almeno in parte, avuto diretta efficienza causale sui crimini commessi, facendo scemare la capacità critica sui gesti compiuti e inibendo in

parte il controllo sul proprio comportamento”. “Sia le emergenze

psichiatriche, completate dalle risultanze dell'imaging cerebrale e di genetica molecolare, che quelle processuali consentono di rilevare gravi segni di disfunzionalità psichica, eterogenei ma convergenti nell'indicare un nesso causale tra i disturbi dell'imputata ed i suoi comportamenti illeciti”38.

Il riconosciuto vizio parziale di mente si è tradotto in una riduzione della pena dai 30 ai 20 anni di reclusione.

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4.2 Caso Bayout

In realtà, in Italia le neuroscienze cognitive e la genetica molecolare avevano già fatto ingresso in un'aula di Tribunale, nella sentenza della Corte d'assise di appello di Trieste (sentenza 5/2009), che ha aperto un varco nell'uso delle neuroscienze nel processo penale, seguita poi, nel maggio 2011, dal giudice per le indagini preliminari di Como. In questo caso ad essere oggetto di giudizio è un cittadino algerino Abdelmalek Bayout, che uccide accoltellandolo,in un sottopasso ferroviario durante una rissa, il colombiano Walter Felipe Novoa Perez, reo secondo l’imputato di averlo deriso per l’utilizzo del kajal, richiesto per la partecipazione a una cerimonia religiosa della sua cultura. Salvo poi ammettere di riconoscere di essere stato si deriso da un gruppo di sudamericani, ma di non conoscere la vittima, che è risultata tale a causa dei tratti etnici comuni con i suoi precedenti detrattori.

La Corte d’Appello di Trieste, preso atto del disaccordo fra il G.U.P. e il perito d’ufficio in ordine alla capacità di intendere e di volere dell’imputato ha disposto l’effettuazione di una ulteriore perizia psichiatrica.

Secondo i periti, le cui conclusioni sono state fatte proprie dalla Corte, “la

capacità di intendere del Bayout sarebbe stata grandemente scemata dalla estrema difficoltà, in un quadro psichiatrico caratterizzato da una tipologia di personalità di tipo dipendente-negativistico con un importante disturbo ansioso-depressivo accompagnata da pensieri deliranti ed alterazioni del

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pensiero, associata a disturbi cognitivi, di interpretare correttamente la situazione nella quale si trovava pur non risultando tali deficit di livello talmente grave da abolire la capacità d’intendere”.

Secondo la Corte, “particolarmente significative sono risultate le analisi

genetiche effettuate dai periti alla ricerca di polimorfismi genetici significativi per modulare le reazioni a variabili ambientali fra i quali in particolare per quello che interessa nel caso di specie l’esposizione ad eventi stressanti ed a reagire agli stessi con comportamenti di tipo impulsivo”. Tale indagine ha

consentito di accertare che l’imputato “risulta possedere, per ciascuno dei

polimorfismi esaminati almeno uno se non tutti e due gli alleli che, in base a numerosi studi internazionali riportati sinora in letteratura, sono stati riscontrati conferire un significativo aumento del rischio di sviluppo di un comportamento aggressivo, impulsivo (socialmente inaccettabile). In particolare, l’essere portatore dell’allele a bassa attività per il gene MAOA (L-MAOA) potrebbe rendere il soggetto maggiormente incline a manifestare aggressività se provocato o escluso socialmente. E’ opportuno sottolineare che tale “vulnerabilità genetica” risulta avere un peso ancor più significativo nel caso in cui l’individuo sia cresciuto in un contesto familiare e sociale non positivo e sia stato, specialmente nelle prime decadi della vita, esposto a fattori ambientali sfavorevoli, psicologicamente traumatici o negativi”.

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56 La Corte ha concluso che proprio la circostanza emersa da tale perizia psichiatrica, della presenza di geni nel patrimonio cromosomico dell’individuo che lo renderebbero particolarmente reattivo in termini di aggressività e conseguentemente vulnerabile in presenza di situazioni di stress, ha dunque consentito una revisione e riduzione della pena precedentemente stabilita.

“Proprio l’importanza del deficit riscontrato dai periti con queste nuovissime risultanze frutto dell’indagine genetica portano a ritenere che la riduzione possa effettivamente essere operata nella misura massima di un terzo”39

. È importante sottolineare come il concetto di “vulnerabilità genetica” venga assunto come spiegazione remota del comportamento aggressivo messo in atto e non come giustificazione di esso, ossia che in nessun modo la predisposizione genetica giustifica il comportamento aggressivo.

Va inoltre evidenziato come anche in questo caso, come nel precedente, per la elaborazione della perizia siano stati utilizzati strumenti tradizionali, a partire dalla raccolta dei dati anamnestici e l’esame clinico, il colloquio psichiatrico, la somministrazione di test cognitivi e di personalità, cui si è aggiunto l’esame di risonanza magnetica strutturale e funzionale del cervello e, infine, gli esami genetici per verificare la presenza delle varianti polimorfiche, in letteratura riscontrate essere significativamente associate con l’aumentato rischio di comportamento impulsivo, aggressivo e antisociale.

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4.3 Vantaggi e limiti del ricorso alle neuroscienze

Una prima analisi degli esiti delle sentenze precedentemente esposte, in particolare quella del caso Albertani, conduce dunque a chiedersi se e in quale misura l’ingresso di queste nuove tecnologie in tribunale possa cambiare il destino degli imputati.

Proprio da quanto si evince da entrambe i casi sovraesposti, l’indiscutibile merito dell’indagine neuroscientifica e genetica è quello di ridurre la grande variabilità che si osserva oggi in ambito forense, dove periti diversi arrivano a conclusioni opposte, senza fornire al giudice dati concreti a sostegno delle loro affermazioni. In entrambe le sentenze la genetica molecolare e le neuroimmagini sono servite da ausilio per valutare il grado di capacità di intendere e di volere residua nell’imputato, una volta riconosciuto per altra via (valutazione psichiatrica classica) il disturbo psichico. Infatti sia la perizia di Como che di Trieste è caratterizzata da una prima parte in cui i periti raccolgono i dati anamnestici dal periziando stesso, dai familiari, dal suo entourage al fine di cercare un riscontro oggettivo di ciò che ha riferito l’imputato; in aggiunta poi è stato fatto un approfondimento utilizzando strumenti neurocognitivi e neuroscientifici; questo perché affiancare al colloquio psichiatrico, perno centrale della valutazione clinica, misurazioni strumentali oggettive permette di ridurre la variabilità di interpretazione soggettiva, che, come detto in precedenza, porta spesso i periti a giungere a

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58 conclusioni molto distanti tra loro. Quando si verifica una tale divergenza di pareri sullo stato di mente dell’imputato, non resta al giudice che esplicitare i criteri in base ai quali è stata operata la scelta per una delle due opposte tesi. Ne consegue che il giudice dovrà sottoporre a vaglio rigoroso le emergenze psichiatriche, facendo un uso particolarmente avveduto e controllato delle categorie strettamente penalistiche, per poi procedere a una verifica finale della forza persuasiva delle conclusioni psichiatriche, anche e soprattutto in ragione della loro possibile armonizzazione con le emergenze processuali. A tal fine l’approccio psichiatrico convenzionale, basato essenzialmente sulla valutazione della manifestazione di malattia, può trovare utile completamento nelle neuroscienze che consentono una diagnosi più oggettiva, che toglie lo stesso giudice dalla passività del ruolo di mera constatazione di perizie consuetamente contrastanti, ridimensionandone la valutazione e interpretazione puramente soggettivistica. Compito del perito è cercare di capire come e perché l’imputato ha messo in atto un determinato comportamento, cerca cioè di ricostruire un mosaico la cui immagine risulterà tanto più chiara, anche agli occhi del giudice, quante più tessere verranno messe a disposizione.

Di contro a questo notevole vantaggio, l’impiego e di conseguenza il riconoscimento, al momento, di un certo ruolo svolto dalle neuroscienze nelle aule di tribunale, o più sinteticamente di una “applicazione delle neuroscienze

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59 al diritto”, è minata da una serie di limitazioni sia in termini strettamente tecniche, legate agli strumenti di ricerca utilizzati, o metodologiche, inerenti al processo di deduzione e elaborazione dei dati da parte della scienza, o concettuali, dovute alle differenze culturali tra neuroscienza e diritto.

Innanzitutto, la maggior parte degli studi sperimentali che valuta il rapporto tra attività cerebrale e comportamento si avvale di situazioni di laboratorio semplificate, è cioè influenzata da un ambiente diverso da quello della vita reale, per cui una generalizzazione dei ritrovamenti da questi esperimenti al mondo reale potrebbe risultare difficile e incerto40. Inoltre la selezione delle condizioni di sperimentazione e di controllo è fondamentale in quanto, diverse condizioni possono produrre diversi modelli di attivazione durante la valutazione della esecuzione di uno stesso compito. Mentre la necessità di un’interazione con l’ambiente reale, al fine di ottenere outcomes più veritieri, non risulta al momento superabile, la limitazione inerente l’uniformità di condizioni di sperimentazione e controllo potrebbe essere superabile attraverso l’introduzione di linee guida che regolamentino ad esempio le stesse in relazione alla comune abilità che si andrà a valutare nei diversi soggetti.

Questione di notevole importanza è anche il momento in cui viene fatta la valutazione del criminale, essa può essere resa non valida dall’intervallo di tempo intercorso tra il crimine e la valutazione stessa, che può rendere impossibile dedurre le condizioni al momento della commissione del reato.

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60 Potrebbe essere che sia stato l’atto compiuto a determinare le alterazioni funzionali riscontrate e non viceversa?

Altro importante limite tecnico, in aggiunta a quello riguardante l’ambiente di acquisizione dei dati, è la tipologia di metodica impiegata. Ad esempio, mentre l’EEG è caratterizzato da una elevata risoluzione temporale e da una scarsa risoluzione spaziale, cioè rileva anche la più piccola variazione dell’attività cerebrale a livello cranico in maniera immediata, ma ha difficoltà nel localizzare l’origine dell’anomalia; la f-RMI e la PET hanno una risoluzione spaziale molto superiore ma hanno un più scarsa risoluzione temporale, andando esse a misurare indici indiretti basati su cambiamenti regionali del flusso ematico cerebrale, dipendenti dalla lenta risposta dei vasi sanguinei a variazioni di ossigeno nel sangue, che seguono l’accresciuta o decresciuta scarica neuronale41. Tale limite risulta facilmente superabile dall’impiego in combinazione di entrambe le metodiche, fornendo prove convergenti con punti di forza complementari su informazioni spaziali e temporali.

In seguito all’acquisizione dei dati, va infine notato la mancanza di parametri normativi per interpretare i risultati e per determinare chiaramente dove termina la normalità e comincia la patologia, non si conosce in realtà il volume reale delle varie aree cerebrali, in teoria ogni dato cervello potrebbe qualificarsi come normale in una misura ma non in un’altra. Così come pure

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61 uno schema di attivazione è definito per convenzione piuttosto che come standard assoluto. Come tale rappresenta una interpretazione statistica di un insieme di dati complesso, che potrebbe essere interpretato in maniera differente da diversi ricercatori42.

L’analisi statistica costituisce proprio il primo grande limite metodologico all’applicazione delle neuroscienze in ambito legale.

Gli esperimenti dei neuroscienziati riguardano gruppi di individui, essendo gruppi diversi i risultati sono frutto di una media delle varie differenze, come punto di partenza per ricercare differenze tra ogni gruppo sperimentale. L’interpretazione della media di gruppo risulta difficile da applicare al singolo caso, che è ciò a cui è interessato in ultima analisi il diritto, ne deriva un problema inerente l’applicazione di un sapere basato su “gruppi” di studio al diritto stesso. Per esempio una differenza statisticamente significativa fra due gruppi non prova che ogni individuo di ogni gruppo possa essere completamente differente da un individuo di un altro gruppo. Poiché, soprattutto, nella ricerca comportamentale le differenze di gruppo sono spesso maggiori della differenza-media nei due gruppi, un individuo che appartiene a uno qualsiasi di essi potrebbe assomigliare dal punto di vista comportamentale a molti individui che appartengono ad altri gruppi. Il pericolo è una eccessiva generalizzazione conseguente a traslazione da conoscenze di tipo accademico ai casi di interesse del diritto43.

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62 Un altro punto metodologico controverso riguarda il fatto che scienza e diritto spesso perseguono la verità abbastanza differentemente. Mentre la scienza costruisce il suo iter conoscitivo attraverso una serie di errori o conferme date da esperimenti che possono essere seguiti da altri nuovi e migliori, ( tra l’altro importante anche ai fini legali, la ripetibilità e replicabilità dei ritrovamenti sperimentali) allo scopo di raggiungere una conoscenza generalizzabile; il percorso del sistema legale è costellato di “prese decisionali” una tantum che non hanno incidenza generalizzabile su altre sentenze o sull’accumulo di un maggior numero di conoscenze. In altre parole, la scienza approssima la verità con ipotesi-verificate, mentre il sistema legale si avvicina ad essa attraverso la valutazione di prove e argomentazioni apportate da due parti contrapposte44.

Problemi aggiuntivi e limitanti provengono da limiti di tipo concettuale e interpretativo dovuti alla sostanziale differenza dei due sistemi coinvolti.

Innanzitutto il concetto legale di causazione, contrapposto a quello scientifico di correlazione. “Correlation is not causation”, scrive Jones, ossia la presenza di un’anormalità cerebrale o genetica in nove su dieci criminali non vuol dire che quella alterazione determini quel dato comportamento criminale, è solo una correlazione, non una certezza, le due variabili possono essere collegate o viceversa essere del tutto indipendenti45. Ad esempio nel caso specifico della nauroimaging, essa valutando l’associazione tra due variabili non può desumere una causalità, non c’è prova che i suoi ritrovamenti abbiano

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63 una qualche validità predittiva ad esempio per un dato comportamento antisociale. Come tale ogni correlazione non realizza un’evidenza di causalità, di cui il diritto necessita.

Infine, ogni campo scienza e diritto compreso, ha il suo “linguaggio”, così è possibile originino fraintendimenti tra parole usate da entrambe i campi ma con significato differente, ad esempio il diverso connotato dell’espressione

“emergenza psichiatrica” e “emergenza processuale”, o questioni dubbie

quando un campo utilizza un vocabolo molto comune in un modo molto tecnico e l’altro no, è il caso del termine “significativo”, usato nell’ambito scientifico con connotato statistico e in quello legale come sinonimo di “importante”. Notevolmente importante è l’utilizzo del termine “affidabilità” in riferimento all’ammissibilità di una prova nel processo; affidabile è per il diritto una prova che viene usata o invocata per prendere una decisione, in netta contrapposizione con il connotato scientifico che intende una prova affidabile, “una prova scientificamente ripetibile in un certo numero di esperimenti”, evento che non basta al diritto per definire quella stessa prova come “affidabile”46

.

Anche qualora tali questioni fossero superate, come sostenuto da Eastman

“rimane il problema fondamentale riguardante la misura in cui costrutti legali, come intenzione e responsabilità, si approssimano a costrutti cognitivi che sono stati indagati biologicamente”.

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4.4 Libero arbitrio, determinismo biologico e responsabilità

Il cardine su cui si basa l’intero ordinamento penale nel nostro come pure di tutti gli altri Paesi democratici, come detto all’inizio di questo elaborato, è il Libero Arbitrio, vale a dire la capacità di scegliere, la capacità di decidere di fare altrimenti. Più profondamente, in cosa consiste il libero arbitrio? Ha ragione Spinoza quando dice che il sentimento del libero arbitrio deriva dal fatto che l’uomo ha consapevolezza delle sue intenzioni e ignoranza assoluta delle cause che l’hanno determinata? O ha ragione Sartre che dice che l’uomo è ciò che egli fa della sua vita? Perché un individuo possa esercitare il Libero Arbitrio deve avere piena capacità di intendere e di volere, tale coscienza e volontà d’azione, o suitas, per usare un termine prettamente giuridico, sarebbe quello che l’uomo è riuscito a essere nonostante e non solo a causa del suo corredo genetico e del suo cervello, oppure la sua mente è semplicemente una strategia del suo cervello per potersi adattare al meglio al mondo e garantirne la sopravvivenza? Sono queste le domande che spesso risuonano nei tribunali e che direttamente si collegano al concetto di responsabilità dell’imputato, tale concetto è per l’appunto di natura socio-giuridica e non scientifico, per cui le neuroscienze non possono arrogarsi il diritto, né devono essere percepite come tali, di svelare quanto ci sia di predeterminato nell’agire umano al fine di decidere di una riconosciuta o meno imputabilità. Le neuroscienze possono però dare nuova linfa a istituti giuridici esistenti, “sta alla giurisprudenza

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chiedersi cosa e quanto delle nuove conoscenze abbia implicazioni per il suo ordinamento, non alle neuroscienze”47, come sostenuto dal professor Pietrini.

Inoltre sebbene le neuroscienze cerchino di aumentare la comprensione del modo in cui particolari eventi neuronali sono legati a particolari azioni, e nonostante si sia mostrato come tali eventi possano causare certi atti, non ne consegue che sia inappropriato ritenere le persone responsabili delle proprie azioni. Ci sono infatti molti antecedenti che esercitano effetti causali sull’agire, in aggiunta a quelli di tipo chimico, neurologico o biologico, vi sono quelli educativi, culturali, sociali. La giurisprudenza non ha ancora individuato quali di questi antecedenti possano giustificare o mitigare la messa in atto di un dato comportamento, in quanto il diritto non si approccia, come gli scienziati a una relazione di causa-effetto di tali antecedenti sull’agire umano. Piuttosto il diritto presuppone che la volontà sia libera e non vincolata e che le persone siano attori razionali48. Siamo di fronte alla questione se dare la colpa alle forze antecedenti che agiscono sul cervello o se dare la colpa alla persona. Oggi vi sono autori come Joshua Greene, Jonathan Cohen che considerano ormai valida l’ipotesi del determinismo cerebrale (grazie ai progressi delle neuroscienze cognitive e delle neuro immagini), per essi le azioni di una persona non dipendono da una scelta ma dal suo cervello. La conseguenza logica di questa posizione è che una persona con un profilo genetico alterato o una conformazione cerebrale anormale che lo spingono alla

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66 violenza, dovrebbe esser condannato (indipendentemente dalla gravità del reato commesso) ad una pena indeterminata, o almeno dovrebbe essere posto in condizione di non nuocere sino a che delle evidenze scientifiche non ne dimostrino la cessata pericolosità.

Tale posizione sembrerebbe avvalorata dagli esperimenti interessanti, svolti tra gli anni ’70 e gli ’80 del secolo scorso, del neuroscienziato Benjamin Libet, che studiando la relazione temporale intercorrente tra l’intenzione di compiere un movimento e l’attivazione cerebrale necessaria per eseguirlo, ha evidenziato come l’attività cerebrale nella corteccia motoria supplementare coinvolta nella preparazione del movimento (il cosiddetto “potenziale di prontezza”) precede di alcune centinaia di millisecondi il manifestarsi nella coscienza della “sensazione di volere”.Il fatto che il “potenziale di prontezza” precedesse di alcune centinaia di millisecondi la “sensazione di volere” ha portato Libet a sostenere che la volontà cosciente non ha un ruolo centrale nell’agire umano, in quanto i processi cerebrali precedono temporalmente la determinazione ad agire in una certa maniera. I comportamenti, quindi, sarebbero causati dal cervello e non dalla volontà dell’individuo. Ma se è semplicemente il cervello che induce una persona ad agire, attraverso eventi neuronali non coscienti, prima che egli abbia consapevolezza della presa decisione, come possiamo ritenere una persona responsabile delle sue

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67 decisioni mentali, soprattutto qualora i sottostanti circuiti cerebrali vengono mostrati disfunzionali?

In realtà la questione è molto più complessa, si è riconosciuto in primis che gli esperimenti di Libet fanno riferimento alla presa di decisioni estremamente semplici, la messa in atto di un singolo movimento come il sollevamento di un arto, e che non possono dunque essere paragonati al processo decisionale sottostante la messa in atto di un comportamento complesso, governata invece dalla coattivazione e interconnessione di più circuiti e aree cerebrali e influenzata dalla complessa interazione con la vita reale. Il cervello è dunque un sistema altamente parallelo e distribuito con milioni di decisioni da prendere contemporaneamente, la responsabilità invece riflette una norma che emerge dalla interazione di uno o più agenti in un contesto sociale. La responsabilità non è nel cervello, ma nel contesto sociale49.

La responsabilità è dunque intesa come capacità di dare ragione delle proprie azioni e di attribuirgli un significato coerente; ogni soggetto è ritenuto arbitro delle proprie azioni sino a quando non intervengano fattori, siano essi patologici o alterazioni della normale funzionalità, indipendenti dalla sua volontà che limitano, in tutto o in parte, questo suo potere.

Come ogni nuova scienza, anche la neuroscienza è suscettibile di abuso, compito dei neuroscienziati sarà gravato non solo dalla responsabilità dei dati che generano,

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68 ma anche da quella di criticare e contrastare tale abuso, cercando di superare numerosi sfide prima di essere riconosciuta come un reale beneficio per i processi50. Nel frattempo è indubbio che “le neuroscienze metteranno e nostra

disposizione nuovi modi per capire il comportamento. Quello però di cui dovremo renderci conto è che, persino se la causa di un atto (penale o di altro tipo) è spiegabile con il funzionamento del cervello, ciò non significa che l’autore dell’atto vada assolto (…): il cervello è un congegno automatico, governato da regole e determinato; invece le persone sono agenti personalmente responsabili, liberi di prendere le loro personali decisioni”51.

L’intera e complessa questione bene si riassume nell’affermazione del professore di legge e psichiatria dell’Università della Pennsylvania Stephen Morse:

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