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Academic year: 2021

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CAPITOLO 1

Lo storytelling di Leslie Marmon Silko

Gli anni successivi alla pubblicazione di House Made of Dawn di N. Scott Momaday, premio Pulitzer per la narrativa nel 1969, videro un incremento considerevole nella produzione letteraria da parte di scrittori nativi americani. Questo fenomeno nato apparentemente all’improvviso venne denominato Native

American Renaissance dal critico letterario Kenneth Lincoln, termine da lui

coniato nell’omonimo volume pubblicato nel 19831; le opere che vengono considerate gli esponenti del movimento sono – oltre al già citato House Made of

Dawn – Winter in the Blood di James Welch e Ceremony di Leslie Marmon Silko.

Questi autori sono originari di popolazioni diverse, ma condividono l’appartenenza alla prima generazione di nativi americani ad aver ricevuto un’educazione completa in lingua inglese, idioma che utilizzano appunto anche nelle opere citate. Credo sia importante ricordare che nella storia delle popolazioni indigene americane l’invasione e la conquista dell’uomo bianco hanno avuto un peso notevole, accompagnandosi a una serie di imposizioni sulle culture native, e la lingua inglese è una di queste. Partendo da questi presupposti, le motivazioni alla base della scelta degli autori in questione di adottare per la scrittura quella che non è la loro prima lingua sono certamente da indagare, come faremo poco più avanti.

Penso che all’interno di ogni discorso sulla letteratura degli indiani d’America sia opportuno accennare brevemente alle realtà infondate e ai

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pregiudizi che hanno accompagnato il mondo indiano, a partire dalla scoperta del continente in avanti. Diventa necessario rivedere alcune concezioni che siamo abituati a considerare in un determinato modo, come ad esempio il termine stesso “scoperta”: all’arrivo dell’europeo infatti il continente americano non era sconosciuto né tantomeno disabitato, pertanto non si trattò di una scoperta. La condizione delle popolazioni indigene non può essere considerata se non all’interno del forte paradosso storico in cui si colloca; dichiarare l’arrivo dei coloni nel continente americano una scoperta ha significato automaticamente annullare la presenza dei nativi sul territorio, rendendo così l’indiano una minoranza nel suo stesso luogo d’appartenenza.

È qui che affondano le radici alcuni concetti chiave nell’approccio alla letteratura nordamericana, primo fra tutti quello di wilderness: dall’anglosassone “wilddeoren”, letteralmente “animale selvaggio”, il termine passò ad indicare per estensione tutta quella parte di territorio selvaggio, o meglio non addomesticato, caratterizzato dall’assenza dell’ordine delle regole degli esseri umani e della civiltà. N. Scott Momaday rappresenta così la wilderness vista con gli occhi dell’europeo:

The landscape was anomalously beautiful and hostile. It was desolate and unforgiving. […] Above all, it was wild, definitely wild. And it was inhabited by a people who were to him altogether alien and inscrutable, who were essentially dangerous and deceptive, often invisible, who were savage and unholy – and who were perfectly at home.2

Per gli europei la wilderness è “Nature in a state uncontaminated by civilization”,3 il luogo ideale per crearsi una nuova vita in un nuovo mondo.

2 N. Scott Momaday, “The American West and the Burden of Belief”, in Geoffrey C. Ward, The

West: An Illustrated History, Boston, Little Brown, 1996, p. 377.

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Questa idea diventa ancora più radicata in epoca puritana, quando il continente americano viene visto come promised land in cui il bianco è destinato a trovarsi, volenteroso di reinventarsi e insediarsi in un territorio puro e incontaminato. La presenza del nativo sul suolo americano ha rappresentato fin da subito un ostacolo nella realizzazione del progetto dei nuovi arrivati.

È in epoca puritana che il termine wilderness viene caricato di un’accezione diabolica, passando a definire un luogo in cui sono assenti i valori e la morale puritana: è un territorio pericoloso, imperscrutabile, pieno di insidie, nel cui cuore si nasconde tutto ciò che è diverso e altro da sé: le bestie feroci, il male, l’indiano. In questa epoca il termine viene associato con il peccato e la wilderness viene considerata l’habitat naturale di Satana; siccome i nativi appartenevano al mondo della wilderness, vennero associati all’idea del male e del diavolo, arrivando ad essere definiti red devil.4

Agli occhi dell’uomo bianco la figura dell’indiano ha acquisito nel tempo svariate connotazioni, tra le quali quella che lo vede come un essere selvaggio da soggiogare o eliminare perché considerato pericoloso; “European invaders […] wished to foster the notion that the New World was populated by savages. Savages could be slaughtered and enslaved; savages were no better than wild beasts and thus had no property rights.”5 Il nativo è stato visto come pagan da convertire al cristianesimo, fino ad arrivare al nobile selvaggio descritto da James Fenimore Cooper in The Last of the Mohicans, o il “buon selvaggio” di Rousseau,

4 Ibidem, pp. 60-3. Garrard nota come già nel Vangelo di Matteo la wilderness venga associata al diavolo, e riporta: “Then was Jesus led up of the Spirit into the wilderness to be tempted of the devil.” (Matteo, 4:1)

5 Leslie Marmon Silko, “Books: Notes on Mixtec and Maya Screenfolds, Picture Books of Preconquest Mexico”, in Yellow Woman and a Beauty of the Spirit, New York, Simon & Schuster, 1996, p. 157.

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concepito come un pacifico animale non ancora corrotto dal progresso e dalla civiltà.

“From the beginning of the European colonial era to the present, dominant cultures have argued that the lands of indigenous peoples are underdeveloped and empty (terra nullius) and that the people on them are less than human, less than ‘civilized’.”6 Il concetto di nativo e selvaggio è stato spesso utilizzato erroneamente come sinonimo di primitivo, e in questo modo l’intervento del bianco civilizzato veniva richiesto e giustificato. I diversi atteggiamenti che il bianco ha adottato rispecchiano alcuni modi in cui il conquistatore ha cercato di rapportarsi con l’indiano; la maggior parte degli approcci sono comunque collegati da un filo rosso, che è la costruzione ad hoc di un’immagine stereotipata del nativo.

All’interno di questo discorso acquista ancora più valore la decisione dei già citati scrittori indiani americani di farsi conoscere dal mondo raccontando la propria versione dei fatti, attraverso la produzione di una letteratura intesa come strumento per controbattere al ritratto non veritiero imposto dal colono. Questa generazione di autori sceglie consapevolmente di intraprendere la battaglia contro la lunga serie di stereotipi, dando voce al proprio popolo e alla sua memoria collettiva; partendo dalla realtà a loro contemporanea, fotografano la condizione di sradicamento e alienazione del mondo indiano, in una forte presa di coscienza fondamentale per innescare il processo di ricostruzione di un’identità troppo spesso compromessa dall’occupante bianco.

6 T.V. Reed, “Toxic Colonialism, Environmental Justice, and Native Resistance in Silko’s

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Nella scelta di questi autori di consegnare la loro testimonianza per iscritto sono due i fatti che potrebbero risultare inusuali: innanzitutto, potrebbe sembrare che la loro produzione letteraria sia apparsa quasi dal nulla, imponendosi repentinamente sul panorama letterario americano. Eppure questa considerazione sarebbe tanto imprudente quanto inesatta; nella cultura nativa infatti la tradizione orale è una realtà caratterizzante e alla base di tutti i processi creativi, si tratti di scrittura creativa o di una qualsiasi espressione artistica. La letteratura è sempre stata presente; solamente ora acquista una nuova forma, quella scritta.

Inoltre, come è già stato detto questi scrittori non scrivono in quella che è la loro prima lingua, ma scelgono di utilizzare la lingua inglese; questa decisione è piena di significato se ci si sofferma sul fatto che si tratta dell’idioma del conquistatore. Attraverso l’utilizzo di questo mezzo linguistico gli autori condividono e riaffermano la centralità del loro immenso bagaglio culturale, spesso messo in pericolo dagli stessi invasori, prendendo pieno possesso di quella che è nata come un’imposizione e piegandola a loro servizio, “Working to make English speak for us.”7 La poetessa indiano-americana Joy Harjo, nell’introduzione alla raccolta antologica di scritti di autrici native “Reinventing the Enemy’s Language”, afferma:

To speak, at whatever the cost, is to become empowered rather than victimized by destruction. In our tribal cultures the power of language to heal, to regenerate, and to create is understood. These colonizers’ languages, which often usurped our own tribal languages or diminished them, now hand back emblems of our cultures, our own designs. […] We’ve transformed these enemy languages.8

7

Leslie Marmon Silko, “Language and Literature from a Pueblo Indian Perspective”, in Yellow

Woman and a Beauty of the Spirit, op. cit., p. 54.

8 Gloria Bird, Joy Harjo (eds.), Reinventing the Enemy’s Language: Contemporary Native

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La scrittrice e poetessa Gloria Bird aggiunge che “There is hope that in ‘reinventing’ the English language we will turn the process of colonization around, and that our literature will be viewed and read as a process of decolonization.”9 Riconsiderando e accettando le “lingue del nemico” è possibile portare avanti attivamente il processo di decolonizzazione dall’usurpatore, che si realizza nella presa di parola per riscrivere la propria identità.

“These women triumphantly proclaim ownership of the colonizer’s language, noting its inadequacies as they craft it to ‘fit’ their own experiences, their own unique worlds.”10 La lingua e la forma non vengono adottate così come sono, ma vengono modellate sulle necessità e le caratteristiche dei nuovi utilizzatori: a livello espressivo formale vengono mantenuti i tratti distintivi della cultura originaria, nativa, che è fortemente radicata nell’oralità. Gli autori in questione scrivono rimandando sempre alla loro tradizione, con l’intento di mettere il lettore nella condizione di “To hear and to experience English in a structure that follows patterns from the oral tradition.”11 Nella produzione letteraria degli scrittori indiani americani la centralità è affidata alla parola e al linguaggio; spesso sono presenti formule ripetute e strutture simmetriche. Inoltre, l’apporto nativo alla forma inglese e occidentale sta nei concetti di “Story within story, the idea that one story is only the beginning of many stories and the sense that stories never truly end”,12 elementi che verranno analizzati in modo approfondito nei capitoli seguenti per quanto riguarda Almanac of the Dead.

9 Ibidem, p. 25.

10 Angeline O’Neill, “Reinventing the Enemy”, Australasian Journal of American Studies, 16, 2, 1997, p. 105.

11 Leslie Marmon Silko, “Language and Literature from a Pueblo Indian Perspective”, op. cit., p. 48. Corsivo nell’originale.

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Un grande punto di forza della cultura indiana sta proprio nella capacità di attuare un grande cambiamento, pur rimanendo nella continuità della tradizione: il Rinascimento Nativo Americano è il segno di questo cambiamento, e l’adozione da parte degli scrittori indiani della forma scritta e della lingua inglese non è da considerarsi come sottomissione alla cultura bianca, bensì come adeguamento, vitale e strumentale, ai mezzi di comunicazione che consentono di raggiungere lettori in tutto il mondo. L’inglese diventa il mezzo attraverso il quale condividere e riaffermare la centralità dell’immenso bagaglio culturale nativo, tradizionalmente conservato oralmente attraverso la pratica dello storytelling: solo attraverso il raccontare, infatti, si può accedere alla memoria tribale collettiva, eredità di miti e leggende su cui si fonda l’acquisizione della stessa identità culturale. Soltanto grazie alle testimonianze dirette degli autori nativi americani è possibile cancellare l’insieme di stereotipi sull’indiano e la sua cultura che si sono tramandati fino ai giorni nostri, “By replacing the stories of the invaders with a narrative that is both strong and fragile.”13

1.1

Introduzione a Leslie Marmon Silko

Leslie Marmon Silko nasce il 5 Marzo 1948 ad Albuquerque, New Mexico, nel pueblo di Laguna, da Mary Virginia Lee Leslie, originaria del Montana, e Lee Howard Marmon, fotografo professionista e proprietario del Trading Post di Laguna.14 Mary Ellen Snodgrass introduce la complessa figura della scrittrice definendola “A Laguna-Cherokee-Latina-Caucasian wisewoman, scenarist, and

13 Gregory Salyer, Leslie Marmon Silko, New York, Twayne Publishers, 1997, p. 116.

14 Per quanto riguarda la biografia della scrittrice si veda Mary Ellen Snodgrass, Leslie Marmon

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revisionary mythographer, memoirist, and poet.”15 Nella linea genealogica di Silko sono infatti presenti apporti messicani, caucasici, bianchi e nativi; “Born and raised at this cultural intersection, Silko grew up becoming part of both Anglo and Keresan cultural traditions.”16

Essere di sangue misto ha significato per Silko la non completa accettazione né da parte dei bianchi né da parte della comunità Laguna, che non consente alla famiglia Marmon di prendere parte alle cerimonie tradizionali della tribù “Because of their multiracial heritage.”17 Questa emarginazione è anche “fisica”, in quanto la loro casa si trova al limite del villaggio.18 “The story of the Marmon family at Laguna is a story of outsiders who became insiders and of insiders who became outsiders – a story about the arts of cultural mediation.”19 Ciononostante, Silko si sente radicata nella società in cui vive, e a proposito del suo bagaglio culturale è nota la sua affermazione “I am of mixed-breed ancestry, but what I know is Laguna.”20

Silko riconosce nella sua infanzia un periodo determinante per lo sviluppo dell’attività di scrittrice, essendo cresciuta in stretto contatto con “The extended Marmon family of storytellers, including her aunt Susie, her grandma A’mooh, her grandfather Henry, and her father, as a powerful shaping influence on her own creative vision and storytelling repertoire”,21 tutte personalità che influenzeranno i suoi lavori. Per l’autrice infatti “The major influence has been growing up around

15 Ibidem, p. 5.

16 Robert M. Nelson, “A Laguna Woman”, in L.K. Barnett & J.L. Thorson (eds.), Leslie Marmon

Silko: A Collection of Critical Essays, Albuquerque, University of New Mexico Press, 1999, p. 16.

17 Mary Ellen Snodgrass, op. cit., p. 8. 18 Ivi.

19

Robert M. Nelson, op. cit., p. 17.

20 Alan Velie, Four American Literary Masters, Norman, University of Oklahoma Press, 1982, p. 106.

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here and listening to people and to the way the stories just keep coming.”22 È in queste circostanze che Silko fa sua la forte tradizione orale del pueblo Laguna, prendendo parte al processo dello storytelling in cui “Any listener, no matter how young, could interrupt to note variations on past tellings. Co-creative additions and deletions renewed narrations, producing literary offspring with an integrity of their own. They became part of the oral tradition.”23

Oltre alla “Informal education she was receiving from the land and the storytellers in her extended family”,24 nel 1970 Silko si iscrive all’Università del New Mexico alla Facoltà di Legge. Nel 1950 cominciò una battaglia legale in cui gli abitanti del pueblo di Laguna chiedevano un risarcimento per i sei milioni di acri che il trattato di Guadalupe Hidalgo dichiarava proprietà indiana, occupati impropriamente dai bianchi. Leslie Silko sceglie di iscriversi alla Facoltà di Legge “To seek justice for the Laguna.”25 Nel 1970 la causa viene vinta dai Laguna, ma il risarcimento per l’occupazione impropria delle loro terre viene stabilito nell’irrisoria cifra di 25 centesimi di dollaro per ogni ettaro di terra rubato, per un totale insufficiente a coprire anche solo le spese legali. Questo episodio ha segnato Silko, ed è alla base della sua decisione di abbandonare gli studi in legge, portandola ad affermare: “The law has nothing to do with justice, and injustice can’t be left unchallenged. So I decided to be a writer.”26

22 Dexter Fisher, “Stories and Their Tellers – A Conversation with Leslie Marmon Silko”, 1977, in Ellen L. Arnold (ed.), Conversations with Leslie Marmon Silko, Jackson, University Press of Mississippi, 2000, p. 25.

23

Mary Ellen Snodgrass, op. cit., p. 11. 24 Robert M. Nelson, op. cit., p. 18. 25 Mary Ellen Snodgrass, op. cit., p. 15. 26 Cit. in Mary Ellen Snodgrass, op. cit., p. 15.

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1.1.1 La questione della lingua

Come abbiamo appena visto, la cultura nativa è fortemente basata sulla tradizione orale, composta da “Speakings that communicate through voice’s timbre, language’s rhythm, embodied gesture and the melodies of conversation, all part of the Laguna tradition.”27 La centralità è data alla parola, che è respiro e vita: attraverso l’arte del raccontare, dello storytelling, la memoria tribale conserva l’eredità dei miti e delle leggende su cui si fonda l’identità culturale. L’insieme di queste narrazioni viene trasmesso oralmente dallo storyteller nel rapporto generazionale. Silko fa riferimento puntuale alla tradizione orale in tutti i suoi scritti, considerando “Oral lore as a human energizer, the antidote to lethargy, sickness, and victimhood.”28

Tenendo presente l’importanza data all’oralità, le scelte di Leslie Silko (così come quelle degli altri scrittori appartenenti al Native American Renaissance) possono risultare anomale, prima fra tutte quella dell’adozione della forma scritta per le sue opere: in una tradizione che ha storicamente subìto diverse minacce di oppressione e annientamento dei propri usi da parte del conquistatore, usare la scrittura (mezzo tipicamente occidentale e proprio del colonizzatore) non è forse un processo di ulteriore indebolimento della propria identità? E ancora, scrivere nella lingua dell’attuale occupante delle terre native, l’inglese, non è forse una forma di assimilazione alla stessa cultura dominante?

Come per gli altri autori indiani, anche per Leslie Silko la risposta a questi interrogativi è chiara: se il fine primario dello storyteller è quello di fare arrivare le sue storie e di trasmettere un messaggio, allora l’impiego di ogni mezzo a

27 Ibidem, p. 295. 28 Ibidem, p. 293.

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disposizione sarà ben accetto. Lo storyteller del passato racconta; quello moderno invece scrive, e non esita a farlo anche in inglese: non si tratta di un tradimento nei confronti della tradizione, ma semplicemente dell’adozione del mezzo più attuale e potente per riuscire a fare sentire più alta la propria voce.

Simon Ortiz, poeta, narratore, saggista e storyteller originario del pueblo di Acoma, scrive così a proposito dell’uso della lingua inglese: “As a writer who has used language, mostly English, in poetry, fiction, and essay for many years, I’ve tried to bring it within my grasp and comprehension and those of others, as I’ve said before – to demystify it essentially. I feel I’ve made English, the Mericano language, accessible to me.”29 La lingua inglese deve essere spogliata dell’idea ingiusta che la ritrae come ennesimo segnale dei vincoli imposti dal conquistatore, per trasformarsi in utile strumento.

Riguardo alla scelta della lingua da utilizzare per l’esposizione della propria narrazione, Leslie Silko afferma: “It is imperative to tell and not to worry over a specific language. The imperative is the telling.”30 Poco importa dunque quale sia il mezzo scelto per raccontare; è di vitale importanza però riuscire a non rimanere staticamente inflessibili, nel tentativo di seguire rigidamente le usanze della propria tradizione. In un passaggio del suo primo romanzo, Ceremony, Silko spiega per bocca del medicine man Betonie che è necessario che le cerimonie della tradizione si modifichino costantemente, nonostante il passare del tempo e i cambiamenti nel mondo, per rimanere vive ed efficaci: infatti, “Things which don’t shift and grow are dead things.”31 L’utilizzo della produzione scritta e della

29

Simon J. Ortiz, Woven Stone, Tucson, University of Arizona Press, 1992, p. 4.

30 Brewster E. Fitz, Silko: Writing “Storyteller” and “Medicine Woman”, Norman, University of Oklahoma Press, 2004, p. 17.

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lingua inglese rappresentano per Leslie Silko l’unico modo per perpetrare lo

storytelling, un fatto culturale che, pur rimanendo nella continuità della tradizione,

deve cambiare continuamente, in un vitale adeguamento ai mezzi moderni di comunicazione.

Per la scrittrice “The great struggle is to make whatever language you have really speak for you.”32 Grazie all’utilizzo dell’inglese, la lingua riesce davvero a parlare per Silko e per tutti quegli scrittori indiani americani che hanno deciso di adottarla per raccontare le loro storie.

È interessante la lettura che Fitz rende dell’uso che Silko fa della forma scritta all’interno della tradizione orale: “Silko has a conflicted desire for both orality and literacy [that] becomes a yearning for a written orality.”33 Secondo Fitz, l’autrice è alla ricerca di un “Privileged kind of universal language in which writing and orality are organically one, life-affirming, all embracing, and motherly.”34 Le parole di Gregory Salyer a proposito dello storytelling sembrano un commento all’osservazione di Fitz: “What emerges from Silko’s narration is that storytelling is a process of dissolving the rigid differences upon which Euro-American culture depends”35, già a partire dal modo in cui la scrittrice colma la separazione tra scrittura e oralità.

1.2 Il macrotesto

Abbandonati gli studi in legge, Leslie Silko decide di prendere la parola attraverso la scrittura, ritenendo che “Certainly for me the most effective political

32

Laura Coltelli, “Leslie Marmon Silko”, 1985, in Ellen L. Arnold (ed.), op. cit., p. 59. 33 Brewster E. Fitz, op. cit., introduzione, p. x.

34 Ibidem, p. 7.

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statement I could make is in my art work.”36 Dopo aver scritto alcune short

stories, Silko si afferma come autrice nel 1974, quando viene pubblicato Laguna Woman: Poems, una raccolta di poesie; il titolo fa riferimento a Kochininako,

anche detta Yellow Woman, personaggio molto presente nella mitografia dell’autrice. La leggenda narra del rapimento della donna nei pressi di un fiume da parte di uno sconosciuto, che in realtà si rivelerà una figura divina; la donna torna dalla sua famiglia pochi anni più tardi con due gemelli tra le braccia. Nella tradizione il marito pretende che gli venga raccontata una storia degna di giustificare il suo comportamento: in questo modo inizia un nuovo racconto.37

Il bagaglio di miti e tradizioni della cultura Laguna permea l’opera di Silko, eppure “She refuses to claim expertise in Indian mythos by declaring herself a mixed-blood writer, an issue that permeates her autobiography.”38 Nella nota autobiografica a Laguna Woman la scrittrice descrive la complessità della sua identità, situata tra mondi diversi: “I suppose at the core of my writing is the attempt to identify what it is to be a half-breed or mixed blood person; what it is [to] grow up neither white nor fully traditional Indian… I am only one human being, one Laguna woman.”39 Essere una “Laguna Woman” diventa quindi una nuova identità, inclusiva. Il discorso sulle identità di frontiera verrà approfondito nel terzo capitolo, dove vedremo il modo in cui certi autori occupano e colmano questa zona di divisione.

Nel 1977 viene pubblicato Ceremony, romanzo che consacra Silko come la prima scrittrice nativa americana, imponendosi immediatamente come punto di

36 Laura Coltelli, op. cit., 1985, p. 63. 37

Per la leggenda si veda Mary Ellen Snodgrass, op. cit., pp. 187-9. 38 Ibidem, p. 17. Corsivo mio.

39 Leslie Marmon Silko, Laguna Woman: Poems, New York, Greenfield Review Press, 1974, p. 35.

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riferimento per lo sviluppo del Native American Renaissance. L’opera è considerata dalla critica un capolavoro: l’autore Sherman Alexie l’ha proclamata “The greatest Native American novel”40, e la prestigiosa casa editrice Penguin ha pubblicato un’edizione deluxe per il trentesimo anniversario del testo, presentando l’autrice come “A literary star of unusual brilliance.”41 Eppure, il periodo durante il quale Ceremony ha cominciato a prendere forma nella mente dell’autrice non è stato affatto facile; nel 1973 Silko si trasferisce in Alaska seguendo il marito, ispettore dell’Alaska Legal Services. Lo sradicamento dalla propria terra durato due anni, il brusco cambiamento climatico e l’arrivo dei mesi invernali sono la causa di un periodo di forte depressione nella sua vita; la scrittura diventa un utile strumento per combattere questo stato d’animo, come racconta in una lettera a James Wright, poeta, corrispondente e amico: “I was so terribly devastated by being away from Laguna country that the writing was my way of re-making that place, the Laguna country, for myself.”42

Ceremony è ambientato nel periodo successivo alla fine della seconda

guerra mondiale, nel pueblo di Laguna; il panorama descritto è un mondo di alienazione, apatia e disperazione provate dai nativi superstiti della guerra tra i quali Tayo, reduce della guerra del Vietnam. Al ritorno dal conflitto, molti di loro falliscono nel difficile processo di riadattamento nella cultura pueblo e nella guarigione dalla “malattia della guerra”: Silko riporta la frustrazione e l’odio di questi uomini che, incapaci di trovare consolazione e pace, sfogano la loro rabbia nell’abuso di alcool e nella violenza verso gli esseri umani e la natura circostante.

40

Cit. in Mary Ellen Snodgrass, op. cit., p. 18.

41 Larry McMurtry, introduzione all’edizione di Ceremony del 2007, New York, Penguin, p. xxxi. 42 Leslie Marmon Silko, James Wright, The Delicacy and Strength of Lace: Letters between Leslie

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La scrittrice punta il dito contro la scelta dei reduci indiani di seguire valori come “L’individualismo esasperato, l’irresponsabilità sociale e l’adesione ai ‘miti’ del denaro e del successo, appartenenti alla civiltà dei bianchi, [che] li alienano dal mondo pueblo”43, complicando ulteriormente il loro riadattamento.

L’identità frammentata di Tayo non è causata unicamente dalla condizione post-conflitto; infatti il protagonista condivide con Silko l’occupazione di quel territorio non fisico a cavallo tra le diverse etnie, essendo un mixed-blood, un mezzosangue. Il romanzo si concentra sul suo lungo processo di guarigione, nel quale Silko sottolinea l’inutilità della medicina “occidentale” per guarire un male incurabile con i sedativi e gli antidepressivi prescritti dagli psichiatri militari, che sprofondano Tayo in una condizione simile alla morte: “In that hospital they don’t bury the dead, they keep them in rooms and talk to them.”44

La cerimonia del titolo si concentra sulla ricerca di una cura che faccia guarire Tayo dal male, che nel romanzo passa necessariamente attraverso la ricerca e l’accettazione della sua identità, in un percorso rigenerativo che impone il recupero e la conservazione dei legami con il passato e il mondo mitico della cultura nativa; “Wholeness lies in the veteran’s remembrance and recovery of native wisdom lore.”45 La cerimonia si riferisce infatti anche all’importanza delle storie, attraverso le quali si possono arginare il dolore e la violenza.

Leggiamo in Ceremony:

I will tell you something about the stories, [he said]

They aren’t just entertainment.

43 Laura Coltelli, “La cerimonia del mito e dello storytelling in Leslie Marmon Silko”, postfazione a Cerimonia, Urbino, Quattroventi Edizioni, 2007, p. 253, traduzione italiana di V. Marchi, a cura di L. Coltelli.

44 Leslie Marmon Silko, op. cit., 1977, p. 114. 45 Mary Ellen Snodgrass, op. cit., p. 74.

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Don’t be fooled. They are all we have, you see,

all we have to fight off illness and death. You don’t have anything if you don’t have the stories.46

Tayo racconta la storia del suo viaggio in ricerca della sua identità agli anziani del pueblo, e soltanto allora la narrazione diventa un’esperienza collettiva, e la cerimonia può finalmente completarsi.

Nel 1976 Silko divorzia dal primo marito, e nel 1978 comincia ad insegnare scrittura creativa alla University of Arizona, attività che rallenta la sua produzione letteraria. Tre anni più tardi, nel 1981, riceve il premio MacArthur Foundation per Storyteller, una raccolta di 26 fotografie della storia della sua famiglia, ciascuna accompagnata da una poesia o una short story. Il volume è non convenzionale: la scrittrice non segue un ordine cronologico degli eventi, gli episodi autobiografici si confondono con il mito, la narrazione segue le caratteristiche dell’oralità, di cui vengono evidenziate le formule anche nell’impaginazione, con diversi caratteri per le diverse voci e per le formule ripetute; immagine e racconto sono una a commento dell’altro, sullo stesso piano. L’antologia contiene leggende, canzoni, esperienze personali dell’autrice e della sua famiglia, sezioni autobiografiche; sullo sfondo sono il pueblo di Laguna e la società nativa.

La decade che separa il 1981 e il 1991, anno di pubblicazione di Almanac

of the Dead, coincide con la scomparsa virtuale della scrittrice dal mondo

letterario. In questi anni Silko si dedica allo studio della cultura e dei calendari

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maya, e iniziano a delinearsi nella sua mente i primi personaggi del romanzo; la scrittrice comincia a comporre alcune sezioni per Almanac, e il materiale scritto supera le mille pagine. Per la comodità del lettore inizia a collegare le singole porzioni tra di loro, in modo da rendere il suo lavoro più accessibile al pubblico.

Il 2 Novembre 1991, nel giorno dei morti, quasi al cinquecentesimo anniversario dall’arrivo degli europei nel continente americano, viene pubblicato

Almanac of the Dead. Nel quarto capitolo avremo modo di soffermarci

ampiamente sulle reazioni della critica, molte delle quali negative: vedremo che il testo contiene innumerevoli aspetti e rappresentazioni di violenza cruda, perversione e distruzione. Per dieci anni critici e lettori avevano aspettato la nuova opera dell’autrice di Ceremony, e rimasero sconvolti dalla lettura di Almanac. Silko racconta di aver provato una profonda inquietudine una volta terminata la scrittura del romanzo, perché sapeva che il suo contenuto avrebbe scioccato e turbato i lettori.

Nel 1993 esce un nuovo lavoro, Sacred Water: Narratives and Pictures, una raccolta di testi e fotografie, in forte contrasto con l’orrore racchiuso in

Almanac. La scrittrice afferma che “Sacred Water was meant as a soothing,

healing antidote to the relentless horror lose in this world. It was meant as a gift to the readers who wrestled with Almanac of the Dead. Some of the readers were wrenched by Almanac and I wanted to give them something generous, yet truthful.”47

Alla pubblicazione di Almanac seguì un lungo tour promozionale, e questa è una piccola parte delle motivazioni che spinsero Silko alla scelta di evitare le

47 Lettera a Coltelli, cit. in Laura Coltelli, “Le Sacred Waters di Leslie Marmon Silko”, RSA:

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case editrici e di occuparsi direttamente della pubblicazione del suo nuovo lavoro: nello stesso anno infatti l’autrice crea la sua personale casa editrice, la Flood Plain Press. La vera rivoluzione però sta nella sua scelta di occuparsi personalmente anche della creazione manuale del volume, che risulta interamente pensato, voluto, stampato e assemblato dalla sua autrice, senza intermediari tra l’ideazione dell’opera e la sua realizzazione. Silko si procura i materiali necessari – carta, forbici, fotografie, colla, spago – e assembla personalmente, una per una, le copie del volume.

Leslie Silko combatte la distruzione contenuta e il malessere provato durante la stesura di Almanac occupandosi della creazione di Sacred Water: la scrittrice trasforma questo processo manuale in una cerimonia rigenerante, portatrice di serenità e benessere. Silko si dice entusiasta dell’unicità di ogni singola copia:

I like the idea that like the oral narrative which changes subtly with each telling, my book Sacred Water also changes as I tinker with the text and with the ‘glyph’ and other visual dimensions of the book. Because I am making my own books, I can amend the text and change the book’s design to experiment with different visual effects freely.48

Lavorando personalmente alla realizzazione di ogni singola copia avvicina il testo scritto allo schema tipico della tradizione orale e dello storytelling in cui la narrazione cambia leggermente ad ogni racconto, e ogni membro della comunità può intervenire per integrare o modificare un particolare. “When I see a word or phrase or a punctuation in Sacred Water that I don’t like, I simply change it.”49 In

Sacred Water Silko sceglie di non farsi scrittrice occidentale che codifica e fissa la

48 Ibidem, p. 61.

49 Leslie Marmon Silko, “As a Child I Loved to Draw and Cut Paper”, in Yellow Woman and a

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sua opera rendendola immodificabile; la fragile consistenza del volume avvicina il testo alla tradizione orale dei pueblo, in rappresentazione concreta del perpetuo ciclo delle cose, sempre in divenire. Il volume consiste in 80 pagine di fotografie Polaroid in bianco e nero scattate dall’autrice accompagnate da brevi prose e narrazioni. Nel saggio “As a Child I Loved to Draw and Cut Paper”, Silko sottolinea l’equilibrio tra parola e immagine: le fotografie

Don’t illustrate the text, […] don’t serve the text, but […] form a part of the field of vision for the reading of the text and thereby become part of the reader’s experience of the text. The influence of the accompanying photographic images on the text is almost subliminal. […] The words do not overpower the odd minimalism of the pictures but instead depend upon the pictures for a subtle resonance.50

L’oggetto della stretta relazione tra immagini e parole è l’acqua: il suo passaggio o presagio, la sua presenza tanto quanto la sua assenza vengono celebrati in modo quasi rituale attraverso i ricordi della scrittrice. La cultura pueblo attribuisce un grande valore a questo elemento naturale, e la sua manifestazione o assenza vengono collegate ad altri concetti: le nuvole della pioggia sono considerate una benedizione mandata dagli spiriti shiwana, “dispensatori di pioggia”, in dono agli esseri umani. La siccità viene vista come una punizione da parte di Spider Woman, la Creation Mother, divinità creatrice secondo i pueblo: l’aridità è il risultato di una rottura dell’armonia del creato, causata dal cattivo comportamento degli esseri umani. In Sacred Water Silko ricorda che l’apparizione dell’acqua è un’esperienza epifanica, e i pueblo imparano a distinguere i segnali del suo arrivo nel cielo carico di nuvole gonfie, nell’umidità dell’aria, tutti indizi riconosciuti “Come l’anticipazione di un

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racconto – e quasi di un racconto cerimoniale – che tra poco la terra comincerà a narrare.”51

Nella cultura pueblo le fonti sotterranee sono il luogo in cui vivono le entità dispensatrici di vita, come Spider Woman e il Serpente, che nella cultura nativa viene visto come messaggero divino tra il mondo in cui viviamo e i mondi sotterranei al nostro. L’acqua è considerata portatrice di vita anche nella morte: nella tradizione pueblo sulla tomba dei defunti viene posta una caraffa, per non far soffrire la sete oltre la morte. Questo discorso è presente anche nella short story “The Man to Send Rain Clouds”: in un perfetto esempio di sincretismo culturale e religioso, i nipoti del defunto chiedono al prete cattolico di benedire la tomba del nonno con l’acqua santa. Il gesto della tradizione cattolica viene adottato da quella nativa adattandone il significato, “So he won’t be thirty.”52 Nella tradizione pueblo infatti la vita non finisce nella morte, ma in una metamorfosi ciclica il defunto diventa dispensatore di pioggia e di acqua vitale: “He was happy about the sprinkling of the holy water; now the old man could send them big thunderclouds for sure.”53 Silko ribadisce: “As a child, I learned there is nothing to fear from the dead. They love us and they bless us when they return as rain clouds.”54

Nel 1996 viene pubblicata la raccolta di saggi in prosa Yellow Woman and

a Beauty of the Spirit: Essays on Native American Life Today, in cui la scrittrice

tratta numerosi argomenti di suo interesse: Silko narra del suo compito di

51 Laura Coltelli, op. cit., 1993, p. 58.

52 Leslie Marmon Silko, “The Man to Send Rain Clouds”, in Storyteller, New York, Viking, 1981, p. 184.

53 Ibidem, p. 186.

54 Leslie Marmon Silko, Sacred Water: Narratives and Pictures, Tucson, Flood Plain Press, 1993, p. 17.

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scrittrice, delle sue opere, di esperienze personali, del materiale utilizzato per la stesura di Almanac of the Dead, di elementi che la affascinano nelle concezioni delle civiltà precolombiane sul tempo e l’oralità; Yellow Woman è un testo estremamente utile per chiunque voglia comprendere meglio e più da vicino la complessa figura dell’autrice.

In seguito alla pubblicazione di Almanac of the Dead Silko viene accusata da parte della critica di non essere in grado di scrivere un’opera che non sia accusatoria e polemica nei confronti del mondo attuale. In risposta, l’autrice decide di comporre un testo apolitico, con una trama che ruota intorno a fiori e giardini. Racconta:

I started writing, but then it wasn’t too long before I realized how very political gardens are. Though my conscious self had tried to come up with an idea for a non-political novel, I had actually stumbled into the most political thing of all – how you grow your food, whether you eat. […] You have the Conquistadors, the missionaries, and right with them were the plant collectors. When I started reading about the orchid trade, then suddenly I realized, but it was too late then! I realized that this was going to be a really political novel too.55

Così nasce Gardens in the Dunes, pubblicato nel 1999. Il titolo fa riferimento ai diversi tipi di giardini che la protagonista, Indigo, una bambina membro dei Sand Lizard, popolazione nativa quasi estinta, incontra; scappata da una boarding school viene accolta da Hattie, una donna bianca dalla mentalità aperta che affiancherà Indigo nelle sue avventure. Insieme al marito di Hattie inizieranno un viaggio partendo dal sudovest americano, che li porterà nella East Coast e poi in Europa, tra Italia, Gran Bretagna e Corsica; il filo rosso di questo viaggio sono i giardini. Attraverso gli occhi di Indigo notiamo le differenze tra i giardini-orti del sudovest, fonte di sostentamento e quindi profondamente

55 Ellen L. Arnold, “Listening to the Spirits: An Interview with Leslie Marmon Silko”, 1998, in Ellen L. Arnold (ed.), op. cit., p. 164.

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rispettati dagli esseri umani, e lo sfarzo esibito in quelli della costa orientale, stravolti al cambiare della moda, usato unicamente per esibire la ricchezza della famiglia.

Per Silko i giardini sono politici perché riflettono determinate culture e determinate concezioni: l’inserimento di una statua rappresentante un guerriero o un’aquila dalle ali spiegate piuttosto che di una ninfa o una donna che danza sono il risultato di un processo di accettazione o rifiuto degli elementi che compongono il giardino. Allo stesso modo, la scelta di far crescere piante del luogo stride con quella di installarne alcune, come ad esempio i gladioli, che sono state introdotte in Gran Bretagna attraverso la tratta dello schiavismo nel triangolo Bristol - West Africa - America.

Durante i dieci anni che le servono per la composizione di Almanac of the

Dead Silko si interessa ai culti precristiani in Europa, scoprendo che tra i Celti e

nell’Europa meridionale venivano venerate le stesse figure, molte delle quali tuttora care alla cultura pueblo. La scrittrice inserisce questo aspetto in Gardens, quando fa scoprire a Indigo nei giardini italiani e inglesi statue raffiguranti una vulva, una donna-orsa che allatta un bambino, un serpente, che vengono riconosciuti dalla bambina negli stessi simboli rispettati e adorati nel suo pueblo natio. Come vedremo nelle riflessioni su Almanac of the Dead, a Leslie Silko sta a cuore sottolineare i punti di contatto tra le diverse culture, permettono in questo modo l’accostamento di popoli normalmente considerati diversi e lontani. Indigo scopre un punto di relazione tra questi mondi in un passato di credenze comuni e valori condivisi.

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La fine del romanzo coincide con quella del viaggio, quando Indigo torna nel giardino-orto dei Sand Lizard e coltiva un nuovo giardino grazie ad alcuni semi di gladioli ricevuti in dono in Gran Bretagna. La pianta diventa metafora della migrazione positiva delle civiltà suggerendo la possibilità dell’ibridazione tra culture diverse come valore aggiunto, eredità consegnata da un passato di credenze comuni che, anche se vissute in culture e contesti diversi, hanno saputo dare risalto alle affinità preesistenti rispetto agli interessi economici e religiosi che le hanno spezzate. Come la pianta, così Indigo si fa ponte tra mondi e culture diverse diventando, citando la critica Katanski, un “Moral victor, one who was able to taste the fruit of knowledge, hybridize it to grow in her own climate, and then tend her gardens on her ancestral lands.”56

Nel 2007 Silko lascia la casa editrice Simon & Schuster e firma con Viking un accordo per la pubblicazione di The Turquoise Ledge, avvenuta nel 2010; l’opera è un memoir basato sui trentadue anni trascorsi tra le montagne intorno a Tucson. “I had to stand back or stand apart from myself to get away from self-consciousness. […] Real life isn’t that neat at all… There’s no pure objective self that can ever be accessed”57: con queste parole la scrittrice commenta la scelta della fiction per questo volume, preferendola all’autobiografia.

56

Amelia V. Katanski, Learning to Write “Indian”: The Boarding-School Experience and

American Indian Literature, Norman, University of Oklahoma Press, 2005, p. 214.

57 Kim Jeffries, “A Conversation with Leslie Marmon Silko on The Turquoise Ledge”, Seattle

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