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Scuola di Ingegneria Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Biomedica ! Design, realizzazione e caratterizzazione di una testina inkjet open-source per il settore della biofabbricazione

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Academic year: 2021

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Scuola di Ingegneria

Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Biomedica

Tesi di Laurea Magistrale

Design, realizzazione e caratterizzazione di una

testina inkjet open-source per il settore della

biofabbricazione

Relatori:

Ing. Giovanni Vozzi

Ing. Carmelo De Maria

Candidato:

Laura Ferrari

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Introduzione

La tecnologia inkjet negli ultimi anni ha espanso i suoi campi applicativi grazie alla capacità di generare gocce di volume estremamente ridotto che vengono rilasciate, senza contatto, sul substrato in posizioni determinate. Questa caratteristica è utilizzata ad oggi in campo industriale, ad esempio per la produzione di circuiti stampati (dall’inglese printed circuit board, PCB), ed anche in ambito medico-scientifico per la deposizione di materiali biologici. In particolare, da circa dieci anni, la tecnologia inkjet è utilizzata nel campo dell’ingegneria tessutale ad esempio per la funzionalizzazione delle superfici. La deposizione controllata e automatizzata tramite stampanti di proteine, come il collagene, su un substrato solido repellente ha consentito di creare dei pattern per l’adesione e la coltura cellulare. Inoltre la possibilità di controllare il flusso in uscita dalla macchina, che depone gocce solamente dove e quando richiesto, ha diminuito gli sprechi abbattendo così la spesa in applicazioni che richiedono l’utilizzo di materiali costosi, come il DNA. All’interno di questo campo di ricerca è diventato sempre più importante riuscire a realizzare strutture 3D multiscala e multimateriale complesse, come quelle che caratterizzano i nostri tessuti. Questa necessità ha portato alla nascita di un nuovo campo di ricerca, il Bioprinting, nel quale sono inte-grati tecnologie di fabbricazione, assistite al computer, e materiali biologici. Gli elementi principali del Bioprinting sono il bioink, il biopaper e la stampante. Col termine bioink si identifica una soluzione contenente materiale cellulare, il biopaper rappresenta invece il supporto, costituito solitamente da idrogel, che può essere stampato simultaneamente alla soluzione cellulare. Le stampanti più utilizzate sfruttano il principio inkjet e l’estrusione controllata in pressione, e grazie alla tecnologia CAD/CAM, propria dei sistemi odierni di fabbricazione, realizzano la deposizione controllata di bioink e biopaper strato su strato, al fine di ottenere la struttura 3D.

In questo lavoro di tesi sarà realizzata una testina inkjet low-cost, open-source e ver-satile, che può essere applicata al campo del Bioprintig. Il progetto e la caratterizzazione del dispositivo saranno disponibili ed integrabili on-line, consentendo così ai vari laboratori di ricerca di poter lavorare con un dispositivo condiviso e potenzialmente modificabile per rispondere ad esigenze specifiche.

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particolare attenzione rivolta alla tecnologia DOD piezoelettrica e al suo principio di fun-zionamento. Sono inoltre qui riportati i campi applicativi e l’obiettivo della tesi. Nel capitolo 2 verrà approfondito il Bioprinting, con alcuni esempi riguardo risultati raggiunti in questo campo di ricerca.

Nel terzo capitolo saranno introdotti e spiegati i modelli agli elementi finiti (dall’inglese Finite Element Model, FEM) implementati nel corso del lavoro di tesi e che hanno guidato la progettazzione della testina di stampa. Nel capitolo 4 sarà analizzato il processo di pro-totipazione che ha portato alla realizzazione della testina di stampa. Nel capitolo 5 saranno riportati, descritti e analizzati i risultati ottenuti per la verifica della stampabilità. Sarà inoltre descritta la validazione del dispositivo nel campo nel Bioprinting, che ha previsto la stampa di cellule.

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Indice

1 Tecnologia InkJet 6

1.1 Storia . . . 6

1.2 Classificazione . . . 15

1.2.1 Tecniche di stampa CIJ . . . 16

1.2.2 Tecniche di stampa DOD . . . 18

1.2.2.1 DOD Piezoelettrica . . . 21

1.3 Principio di funzionamento di una testina inkjet DOD piezoelettrica . . . . 36

1.3.1 Le onde acustiche . . . 37

1.3.2 Fluidodinamica di una goccia . . . 39

1.3.3 L’impatto . . . 41

1.4 Caratteristiche di stampa . . . 43

1.4.1 Requisiti principali . . . 43

1.4.2 Problematiche . . . 44

1.5 Applicazioni . . . 47

1.5.1 Stampanti inkjet come strumento di prototipazione rapida . . . 48

1.5.1.1 Polyjet . . . 49

1.5.1.2 Ballistic Particle Manufacturing (BPM) . . . 50

1.5.1.3 Three dimensional printing (3DP) . . . 50

1.6 Obiettivo della tesi . . . 51

2 Il Bioprinting 56 2.1 Origini del bioprinting . . . 57

2.2 Caratteristiche fondamentali del Bioprinting in TE . . . 58

2.2.1 Il Bioink . . . 60

2.2.2 Il Biopaper . . . 61

2.2.3 Tecnologie di stampa . . . 62

2.2.3.1 Tecnologia inkjet nel Bioprinting . . . 63

2.2.4 Inkjet printing di tessuti . . . 68

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2.2.4.2 Deposizione diretta di cartilagine . . . 70

2.2.4.3 Biofabbricazione di strutture complesse basata su una te-stina inkjet piezoelettrica . . . 71

3 Modellazione agli elementi finiti 76 3.1 Ambiente di simulazione Comsol Multiphysics . . . 76

3.2 L’attuatore, il disco piezoelettrico . . . 77

3.2.1 Definizione del modello . . . 78

3.2.2 Risultati . . . 81

3.3 Studio sulla flessione in funzione dello spessore dello strato piezoelettrico . . 84

3.3.1 Risultati . . . 84

3.4 Fluidodinamica della camera . . . 85

3.4.1 Singolo Flusso . . . 85

3.4.1.1 Definizione del modello . . . 86

3.4.1.2 Risultati . . . 89

3.4.2 Flusso bi-fase . . . 89

3.4.2.1 Definizione del modello con onda quadra reale . . . 90

4 Progettazione e realizzazione della testina PIJ 94 4.1 Testina PIJ 1.0 . . . 94

4.1.1 Realizzazione del primo prototipo . . . 95

4.1.1.1 Ottimizzazione del nozzle . . . 97

4.1.1.2 Identificazione della pressione ottimale . . . 99

4.1.1.3 Dimensionamento della camera . . . 100

4.1.2 Il circuito di alimentazione . . . 100

4.1.3 Il programma software . . . 103

4.2 Testina PIJ 2.0 . . . 104

5 Esperimenti e Risultati 106 5.1 Verifica del funzionamento della testina inkjet . . . 106

5.1.1 Esperimenti con ugello di diametro 0.8mm . . . 108

5.1.1.1 Analisi dei risultati . . . 110

5.1.2 Esperimenti con ugello di diametro 0.65mm . . . 113

5.1.2.1 Analisi dei risultati . . . 114

5.1.3 Validazione del modello FEM . . . 114

5.2 Validazione della testina inkjet per Bioprinting . . . 115

5.2.1 Stampa di gelatina 0.1% . . . 115

5.2.1.1 Risultati . . . 116

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5.2.2.1 Risultati . . . 116

5.3 Stampa di cellule . . . 117

5.3.1 Colture cellulari . . . 117

5.3.2 Mezzo di coltura . . . 118

5.3.3 Procedura di stampa . . . 118

5.3.4 Determinazione della vitalità . . . 118

5.3.4.1 Alamar Blue . . . 118

5.3.4.2 LIVE/DEAD . . . 119

5.3.5 Risultati . . . 119

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Capitolo 1

Tecnologia InkJet

In questo primo capitolo sono illustrati la storia ed i principi fisici che stanno alla base delle diverse tecniche di stampa inkjet.

In generale la procedura di stampa prevede il trasferimento, senza contatto, di una matrice di gocce di inchiostro su un substrato; le gocce vengono emesse da un piccolo orifizio direttamente nella posizione che devono assumere sul supporto, per ricreare l’immagine digitale desiderata [1].

1.1 Storia

La storia della stampante inkjet non può prescindere dalla storia della fluidodinamica. L’interesse per la meccanica dei fluidi risale alle primissime applicazioni ingegneristiche e alla necessità di realizzare macchine adibite a varie funzioni. Archimede (287-212 a.C.) fornì probabilmente il primo contributo in questo campo con l’invenzione della pompa a vite, e con la postulazione del I principio di Archimede [2]. Dopo di lui gli etruschi costruirono imponenti opere di acquedotti e fognature, senza però lasciare tracce dei loro metodi di calcolo. In seguito non ci furono grandi passi in avanti, si dovette passare attraverso il Medio Evo fino ad arrivare a Leonardo Da Vinci che, nel 1508, con il Codice Leichester, si occupò di fluidi [3]. Egli però, come tutti gli studiosi dell’epoca, considerava la tensione superficiale solamente come la forza in grado di tenere il liquido insieme, mentre la gravità era ritenuta essere la causa della rottura di un getto d’acqua. Questa convinzione venne sostenuta anche successivamente, con studi più quantitativi, da Mariotte [4]. Negli stessi anni Newton pubblica il famoso ”Philosophi Naturalis Principia Mathematica” (1687), con la seconda legge di Newton e la definizione di viscosità newtoniana. Una formulazione matematica più evoluta della fluidodinamica è però disponibile a partire solo dal secolo successivo con il contributo di Bernoulli (1700-1782), d’Alembert (1717-1783) e Euler (1707-1783); in particolare Euler diede il maggior contributo in quanto fu il primo a descrivere il

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flusso di un fluido in termini di campi tridimensionali di pressione e velocità e a modellare i fluidi come continui deformabili. Egli applicò per lo studio della dinamica dei fluidi il principio di conservazione della massa e la seconda legge di Newton ottenendo due equazioni alle derivate parziali non lineari accoppiate contenenti il campo di pressione e di velocità. Il lavoro di Euler diede notevoli contributi alla fluidodinamica teorica, benché egli ricavò le sue equazioni senza mettere in conto l’effetto dell’attrito agente sulla particella fluida dovuto al suo stesso stato dinamico, poiché egli non considerò gli effetti della viscosità [5]. Nel 1749, in Francia, ci fu il primo tentativo di modificare un flusso di gocce d’acqua grazie all’ esperimento dell’abate Nollet. Egli sperimentò l’idea secondo la quale l’acqua, che normalmente zampillava goccia a goccia da un tubo capillare, scorreva con un flusso continuo se il tubo era elettrificato [6].

Ciò che ancora manca da approfondire agli scienziati dell’epoca è quindi il ruolo di due importanti grandezze fisiche, la tensione superficiale e la viscosità.

Il riconoscimento che la tensione superficiale sia la forza che, oltre a tenere il liquido insieme, guida la sua rottura, ovvero porta alla formazione di gocce, è dovuto a Young (1804) [7] e a Laplace (1805) [8]. Questi due studiosi definirono indipendentemente la tensione superficiale in quella che è conosciuta come l’equazione di Young-Laplace. Si tratta di un’ equazione non lineare alle derivate parziali che descrive la variazione di pressione capillare all’interfaccia fra due fluidi, ad esempio acqua e aria. L’interfaccia è intesa come una superficie di spessore nullo e la differenza di Pressione è funzione della tensione superficiale e della forma della superficie.

Per quanto riguarda gli effetti della viscosità nel moto dei fluidi fu fondamentale il la-voro di Claude-Louis Navier (nel 1822) [9] e George Gabriel Stokes (nel 1845) [10], i quali formularono, indipendentemente, un sistema di equazioni differenziali alle derivate parziali, noto come le Equazioni di Navier-Stokes. Le equazioni di Navier-Stokes rappresentano lo standard nella descrizione matematica della dinamica dei fluidi e sono la formalizzazione di tre principi fisici ai quali i fluidi, intesi come continui, rispondono; per questo motivo sono spesso nominate anche equazioni di bilancio. Il primo è il principio di conservazione della massa, noto anche come equazione di continuità, il secondo principio è il bilancio della quantità di moto ed infine si ha il primo principio della termodinamica ovvero la conserva-zione dell’energia. Le equazioni di Navier-Stokes sono in grado di descrivere completamente qualsiasi flusso fluido, anche turbolento, e la loro soluzione fornisce il campo di velocità del fluido; tuttavia la risoluzione analitica generale rappresenta attualmente uno dei problemi irrisolti della matematica moderna. Soluzioni analitiche particolari si hanno in casi estre-mamente semplificati mentre soluzioni approssimate si ottengono tipicamente ricorrendo a metodi propri dell’analisi numerica e all’uso congiunto del calcolatore.

Sempre nel corso dell’800 venne alla luce quella che è ritenuta essere la base della tecnologia inkjet, la teoria dell’instabilità di Rayleght - Plateau; si tratta di un’instabilità

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dovuta all’azione della tensione superficiale, che tende a destabilizzare un sistema fluido per crearne uno con lo stesso volume ma minore superficie.

Plateau è stato il primo a pubblicare in questo campo [11], e alcuni dei suoi esperimenti riguardano lo studio dei fenomeni di coesione; nello specifico egli realizzò un dispositivo, una scatola, nel quale era possibile far gocciolare un liquido con la stessa densità del liquido presente nel recipiente, in modo da eliminare l’azione del peso. Egli notò inoltre, durante altri studi su colonne di liquidi, che le perturbazioni diventavano instabili quando la loro lunghezza d’onda superava un certo limite [12]. Successivamente Lord Rayleigh riprese e migliorò l’analisi di Plateau, mantenendo le ipotesi di fluido incomprimibile e privo di

viscosità. Rayleigh studiò le condizioni di stabilità di un cilindro liquido di raggio r0 e

di lunghezza infinita disturbato da perturbazioni di diverse lunghezze d’onda, e calcolò come esse si rafforzano nel tempo, arrivando anche a trovare la perturbazione di massima instabilità [13,15].

I risultati di Rayleigh erano in accordo con i dati sperimentali di Savart (1833), che furono di fatto la prova sperimentale del lavoro di Plateau e Rayleigh. Savart fu infatti il primo ad accorgersi che la rottura di un getto d’acqua è governata da leggi che prescindono le circostanze sotto le quali il getto viene prodotto [16]; egli studiò l’evoluzione di getti liquidi illuminandoli con fasci planari di luce ed osservò la crescita delle ondulazioni che precedono la rottura del getto e la sua separazione in gocce.

Il primo dispositivo che può essere considerato il predecessore delle odierne inkjet risale al 1858, quando William Thomson inventò il registratore a sifone (UK Patent 2147/1867). Questo ricevitore venne sviluppato all’interno di un progetto che riguardava la messa in opera di un telegrafo sottomarino per trasmissioni a lunga distanza, attraverso il cavo transatlantico. Il registratore a sifone serviva per trascrivere automaticamente i messaggi ricevuti, a differenza della precedente soluzione, il galvonometro a specchio, che non lasciava alcuna traccia tangibile.

Il principio di funzionamento è caratterizzato da due punti chiave, il primo riguarda l’elettrificazione dell’inchiostro all’interno di un capillare, il quale aveva un’estremità con-nessa alla riserva e l’altra che pendeva sulla striscia di carta mobile. Per caricare l’inchiostro Thomson collegò un polo di una macchina elettrostatica alla riserva e l’altro polo al rullo metallico che muoveva la striscia di carta davanti l’estremità scrivente del capillare. L’a-zione capillare assicurava che il tubo fosse sempre riempito di inchiostro, mentre la forza elettrostatica tra l’inchiostro e il rullo era sufficiente ad attirare un sottile getto di inchiostro. Il secondo principio riguarda la trascrizione automatica del messaggio che poteva av-venire grazie ad una connessione fra il capillare ed una piccola bobina posta fra i poli di un magnete. Gli impulsi di corrente ricevuti dal cavo, attraversando la bobina, causavano l’interazione tra i campi elettromagnetici che a sua volta produceva una forza meccanica sul capillare. Quindi la posizione in cui l’ inchiostro veniva distribuito sulla carta variava di

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conseguenza. Era poi necessario un addetto in grado di decifrare i segni che si delineavano sul foglio.

Figura 1.1: Disegno del registratore di segnali di Elmqvist, il primo dispositivo inkjet. Un importante evento nell’evoluzione delle stampanti inkjet caratterizzò la fine dell’800; Maxwell pubblicò le sue equazioni sull’elettromagnetismo nel 1865 [17].

La loro formulazione ha definito in modo completo il legame tra campo elettrico e magnetico, i due campi verranno infatti considerati a partire da qui due manifestazioni diverse di un unico campo, il campo elettromagnetico. Le equazioni di Maxwell hanno anche aperto la strada alla rilevazione sperimentale dell’esistenza delle onde elettromagnetiche, prima di allora sconosciute, avvenuta da parte di Hertz nel 1886.

Un altro avvenimento rilevante fu la scoperta dell’effetto piezoelettrico, che avvenne nel 1880 ad opera di Pierre e Jacques Curie. I fratelli Curie, svolgendo delle indagini spe-rimentali sul quarzo, scoprirono che esercitando una pressione sul cristallo lungo un suo particolare asse compaiono delle cariche elettriche sulle facce opposte. Tale effetto scompa-re al cessascompa-re della pscompa-ressione applicata. Scoprirono anche che se si stira il cristallo si ottiene una polarizzazione elettrica invertita. Arrivarono quindi a concludere che la deformazione meccanica del cristallo, lungo determinate direzioni, determina la sua polarizzazione elet-trica. Tale fenomeno prende il nome di effetto piezoelettrico [18]. Pierre e Jacques Curie riuscirono anche ad osservare, seguendo le indicazioni di Gabriel Lippmann, l’effetto pie-zoelettrico inverso: se si sottopone il cristallo a un campo elettrico, il cristallo subisce una deformazione direttamente proporzionale all’intensità del campo applicato [19]. Successi-vamente Voigt diede un assetto definitivo alla teoria della piezoelettricità determinando tra le 32 classi di simmetria cristallina le 20 nelle quali si riscontra l’effetto piezoelettrico; i risultati delle sue ricerche apparvero nel 1910 nell’ opera “Lehrbuch der Kristallphysik”. La piezoelettricità trovò la sua prima applicazione nella realizzazione di misuratori di carica, ad esempio della carica emessa dal radio, ad opera dello stesso Pierre Curie. Nel 1931 fu

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riportato l’utilizzo di un materiale piezoelettrico come attuatore [20] e da quel momento i materiali piezoelettrici furono impiegati nella realizzazione di varie tipologie di attuato-ri e trasduttoattuato-ri, grazie alla loro capacità di trasformare energia meccanica in elettattuato-rica e viceversa.

Negli anni a cavallo fra l’800 e il 900 la teoria della formazione della goccia fu perfe-zionata; furono svolti esperimenti che rivelarono effetti non lineari di ordine superiore, dai quali poteva essere calcolata la tensione superficiale [21,22] e Weber introdusse la viscosità nello studio di questo fenomeno [23].

A questo punto molti punti chiave della tecnologia inkjet erano emersi e nel 1951 Elmq-vist, della compagnia Siemens-Elma, brevettò il primo dispositivo a getto d’inchiostro (US 2566,433). Questo apparecchio si basava sull’ instabilità di Rayleigh e, a differenza del registratore a sifone, ciò che veniva stampato era un flusso continuo di gocce. Le gocce uscivano da un foro di 15 mm posizionato all’ estremità di un capillare, lungo 3 cm, posto perpendicolarmente rispetto al foglio e la posizione delle gocce variava continuamente in funzione del segnale ricevuto (Fig.1.1). Il dispositivo fu poi commercializzato con il nome di Mingograf e più che una vera e propria stampante inkjet si trattava di un registratore di segnali, in particolare veniva usato per segnali EEG e ECG [24]. Tuttavia bisognò aspettare l’arrivo del microprocessore, per poter assistere allo sviluppo della tecnologia inkjet, che fu lanciato nel 1971 dalla intel. Da quel momento l’evoluzione del microprocessore ha seguito con buona approssimazione la legge di Moore.

Nel corso del 1960 venne alla luce il principio di funzionamento delle stampanti inkjet a getto continuo (brevetto US 3596,275), grazie alle osservazioni di R.G. Sweet [25]. Egli dimostrò che applicando un’ onda pressoria all’inchiostro contenuto in un tubo capillare, ad esempio attraverso un trasduttore piezoelettrico, questo forma a livello dell’orefizio un flusso che viene rotto in piccole gocce di uguali dimensioni, con frequenza fino a 120 kHz. Per controllare la stampa le gocce vengono caricate elettrostaticamente subito dopo l’ espulsione e quindi deflesse, a seconda della carica, da un campo elettrico trasversale in modo da formare l’immagine desiderata sul substrato; le gocce non cariche seguono un percorso alternativo che consente la loro rimessa in circolo (Fig.1.2).

Nel 1964 la compagnia A.B. Dick elaborò l’invenzione di Sweet e grazie al brevetto di Lewis–Brown (US 3298,030) fu possibile stampare caratteri; ciò portò alla produzione della prima stampante commerciale CIJ, la Videojet 9600, che utilizzava un singolo getto di gocce a 66 kHz. Un’altra compagnia che lavorava allo sviluppo della tecnologia CIJ era la Sharp, e nel 1973 rilasciò sul mercato la stampante jetpointer. Tuttavia fu la IBM a concretizzare questo processo innovativo, grazie ad un grande lavoro di ricerca ed all’acquisto delle licenze dalla A.B. Dick e dalla Mead; infatti nel 1976 immisero sul mercato la prima stampante da ufficio, IBM 6640 [26], che operava attraverso la deflessione di gocce con frequenza pari a 117 kHz.

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Negli stessi anni il professor Hertz, dell’Istituto di Tecnologia di Lund in Svezia, sviluppò altri metodi di stampa a getto continuo con i quali era possibile modulare le caratteristiche del flusso di inchiostro per stampare in scala di grigi. Uno dei metodi di Hertz consisteva nel controllare il numero di gocce depositate in ogni pixel, variando il numero di gocce si poteva controllare la quantità di inchiostro per unità di volume e quindi l’intensità di grigio da far assumere al pixel [27]. Nel 1977 la Applicon produsse la prima stampante a colori, basata sul metodo del professor Hertz.

Sempre nel 1968 la Honeywell depositò il brevetto di Sweet e Cummings (US 3373,437) per la stampa multigetto. Oltre ad avere molteplici ugelli, in questa tipologia di stampante vengono recuperate le gocce cariche, mentre le responsabili della scrittura sono le gocce che non vengono deflesse; questo è il princio di stampa continua (CIJ) binaria.

Figura 1.2: Principio di funzionamento delle stampanti CIJ multiple, con ricircolo delle gocce non cariche.

In questi anni si sviluppò un’altra tipologia di stampa, la cosidetta Drop-on-Demand (DOD), che non richiede la generazione di un flusso continuo di gocce. La tecnologia DOD permette la formazione di gocce in modo arbitrario, ovvero in concomitanza all’attuazione di un trasduttore, ed è molto più semplice rispetto al sistema continuo perchè non necessita di sistemi di ricircolo, elettrodi per caricare e deflettere le gocce e complicati circuiti di alimentazione. Al giorno d’oggi, il sistema CIJ è generalmente impiegato in applicazioni industriali che richiedono più velocità rispetto all’ accuratezza, mentre il metodo Drop on Demand si rivolge alla stampa digitale, ovvero sfruttano questa tecnologia tutte le stampanti presenti nelle case o negli uffici.

I principi di attuazione più importanti per la tecnologia DOD sono quello piezoelettri-co e quello termipiezoelettri-co, che verranno discussi più approfonditamente nel paragrafo successivo. Questi due principi furono i primi ad essere scoperti ma dovettero passare molti anni

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pri-ma che venissero sviluppati ed inseriti all’interno di un prodotto commerciale. Infatti la tecnologia DOD mosse i primi passi negli anni ’40 grazie al lavoro di Hansell della Radio Corporation of America (RCA). Egli inventò il primo sistema drop-on-demand attuato da un disco piezoelettrico [27]. Negli anni ’60 Naiman della Sperry Rand Company brevettò un sistema innovativo grazie al quale, riscaldando un inchiostro acquoso a certe frequenze, si potevano generare bolle di inchiostro; ma l’importanza di quest’invenzione non fu capita e la compagnia non sfruttò l’idea.

La prima tecnica DOD che veramente emerse fu quella ad estrazione elettrostatica, il cui brevetto risale al 1962 ad opera di Winston (US 3060,429). Questa metodologia prevedeva l’uso di un inchiostro conduttivo, trattenuto all’interno della camera da una pressione negativa; la goccia veniva estratta dall’orefizio applicando un impulso ad alta tensione su un elettrodo posto al di fuori dell’ugello. Dopo aver fatto uscire la goccia questa veniva deflessa e collocata sul substrato, come nelle stampanti a getto continuo, ma in questo caso si poteva deporre una goccia per volta; mentre nelle stampanti CIJ si ha una moltitudine di gocce che segue un determinato percorso. Alcune aziende, come la Casio, la Pillard e la Teletype lavorarono con la tecnica ad estrazione, ma negli anni ’70 fu abbandonata a causa della scarsa qualità ed affidabilità di stampa.

Una volta abbandonata la tecnica ad estrazione i produttori si orientarono verso l’uso di cristalli piezoelettrici, infatti nel primo decennio del 1970 vennero brevettati tre metodi di stampa che sfruttavano il principio piezoelettrico e che ancora oggi caratterizzano la tecnologia PIJ. Ciò che accomuna questi tre brevetti è l’uso di un attuatore piezoelettrico, come era stato suggerito 20 anni prima da Hansell, per generare l’onda pressoria capace di espellere la goccia; mentre ciò che li differenzia è la geometria della camera e il tipo di deformazione.

Figura 1.3: Disegno del brevetto di Kyser, metodo bender. L’attuatore rettangolare è posto sulla parete superiore e la stampa avviene in direzione perpendicolare al piatto piezoelettrico. Il primo dei tre brevetti risale al 1972, ad opera di Zoltan della Clevite company (US

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Patent 3683,212), e propone l’utilizzo di un tubo cavo costituito da materiale piezoelet-trico. Alle facce esterne del tubo vengono collegati due elettrodi ed il tubo è polarizzato radialmente; quindi una volta alimentati gli elettrodi si ha una contrazione dell’attuatore che causa lo schiacciamento della camera, cosa che forza la goccia ad uscire ; questo meto-do viene chiamato infatti ”squeeze”, schiacciamento, ed è utilizzato da compagnie come la Siemens e la Gould.

Il secondo brevetto è di Stemme della Chalmers University (1973; US Patent 3747,120) ed utilizza la deformazione del piezoelettrico nel cosiddetto bend-mode. In questo caso il piezoelettrico è vincolato ad una membrana passiva che costituisce la parete posteriore della camera; una volta alimentato il materiale ceramico il diaframma si piega causando la generazione dell’onda pressoria, che permette l’espulsione di una goccia d’inchiostro.

Il terzo brevetto, di Kyser e Sears della Silonics company (1976; US Patent 3946,398), utilizza sempre il metodo bender con caratteristiche leggermente diverse. Dal punto di vista strutturale Stemme usò un disco piezoelettrico ancorato alla parete posteriore, mentre Kyser e Sears posizionarono un piatto rettangolare sulla parete superiore. Inoltre nel sistema di Kyser la scrittura avviene su un foglio posto perpendicolarmente rispetto all’ attuatore, viceversa nel brevetto di Stemme il piezoelettrico è posto parallelamente rispetto al foglio. La Silonics pochi anni dopo utilizzò il brevetto di Kyser per produrre una stampate DOD piezoelettrica, chiamata Quietype, la quale funzionava con tensioni di alimentazione pari 150 V e lavorava a frequenze di 3kHz.

Il bend-mode è utilizzato tutt’oggi dalla Epson, dalla Sharp e dalla Tektronix.

Gli altri due metodi di stampa con attuatore piezoelettrico nacquero nel decennio suc-cessivo. Nel 1984 Stuart Howkins della Exxon company (US Patent 4459,601) descrisse il metodo push nel quale l’attuatore, una volta alimentato, spinge la parete delle came-ra sulla quale è posizionato; anche in questo caso la parete è costituita da una membcame-rana deformabile. La Trident e la Epson sono compagnie che utilizzano questo tipo di attuazione. Infine fu introdotto lo shear-mode da Fischbeck (US Patent 4584,590). In questo caso l’attuatore è costituito da una piastra di materiale piezoelettrico polarizzato dove sono scavati dei canali, contenenti l’inchiostro; la piastra di base è poi ricoperta da una piastra inattiva. Il piezoelettrico è alimentato attraverso degli elettrodi che generano un campo perpendicolare alla direzione di polarizzazione, cosa che causa la flessione del materiale ceramico e forza l’espulsione della goccia. Questa è una sostanziale differenza rispetto agli altri principi di attuazione, nei quali il campo era sviluppato parallelamente rispetto alla direzione di polarizzazione del piezoelettrico, principio che verrà illustrato nello specifico successivamente. Lo shear-mode è utilizzato da compagnie come la Xaar, la Philips e la Fujifilm.

Dal punto di vista commerciale però la tecnologia piezoelettrica non riuscì ad ottenere grandi soddisfazioni, infatti furono sviluppati diversi prodotti, tra cui un sistema di

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video-scrittura dotato di una testina a 5 ugelli ed una stampante con una testina a 20 ugelli; ma questi prodotti rimasero a livello prototipale.

Pochi anni dopo un’altra svolta segnò la storia delle stampanti DOD. Ichiro Endo e Toshitami Hara, che stavano sviluppando una testina piezoelettrica per la Canon, risco-prirono casualmente duranti alcuni test di laboratorio il principio di attuazione termica, suggerito da Naiman negli anni ’60. Appoggiando inavvertitamente la punta di un salda-tore all’ago di una siringa piena d’inchiostro, i due ingegneri si accorsero che il repentino riscaldamento dell’ago era sufficiente a provocare uno spruzzo del liquido dalla siringa. Da questo fortunato incidente è derivata la tecnologia a getto termico d’inchiostro, alternativa alla piezoelettrica, e il relativo brevetto depositato da Canon nell’ottobre del 1977.

In questo tipo di stampanti l’elemento piezoelettrico viene sostituito da un resistore che, percorso da corrente elettrica, provoca la repentina evaporazione dell’inchiostro a contat-to e la conseguente formazione di una bolla. Proprio da quescontat-to fenomeno deriva il nome bubble-jet attribuito da Canon a questa tecnologia. Analogamente alla deformazione mec-canica del cristallo piezoelettrico, la bolla aumenta fortemente la pressione all’interno della microcamera, spingendo l’inchiostro verso l’ugello e, quindi, sul supporto da stampare. I primi dispositivi che sfruttavano questo principio sono stati brevettati, quasi contempo-raneamente, da Canon e HP nel 1979, ma è spettato a quest’ultima il primato di com-mercializzazione, nel 1984, della prima stampante a getto termico d’inchiostro, battezzata ThinkJet. La ThinkJet generava gocce di 180 pl da 12 ugelli, alla frequenza massima di 1.3 kHz; si trattò della prima stampante inkjet low-cost.

L’invenzione delle stampanti termiche rivoluzionò la ricerca in questo ambito, in quanto si riuscì ad ovviare al principale problema delle stampanti piezoelettriche, la miniaturizza-zione.

La Canon e la HP brevettarono tutto ciò che riguardava la tecnologia termica e nel decennio successivo misero in atto la vera rivoluzione nel mondo delle stampanti a getto d’inchiostro. Nel 1988 la HP produsse la Deskjet, che generava gocce di 85 pl alla frequenza di 3.6 KHz, e nel 1990 anche la Canon produsse la sua BJ10 che raggiungeva risoluzioni di 360 dpi. Nel 1991 l’HP lanciò la prima TIJ a colori, e sempre in quell’ anno la Lexmark si divise dalla IBM per diventare uno dei tre principali venditori di stampanti termiche grazie al lancio della ExecJet IJ 4076 avvenuto nel 1993.

Un altro aspetto fondamentale delle stampanti termiche è che queste possono essere realizzate sfruttando la produzione su larga scala di circuiti integrati. Infatti nella fabbri-cazione delle testine è possibile e vantaggioso l’impiego di un wafer di silicio che integra tutti i componenti necessari; questo rende il costo estremamente inferiore rispetto ad una stampante PIJ. Resta comunque il vantaggio, in un’ attuazione piezoelettrica, di poter stampare una grande varietà di inchiostri fra i quali gli inchiostri termofusibili (solidi allo stato iniziale e finale, che subiscono un cambiamento di fase durante la stampa).

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L’HP risolse anche il problema dell’affidabilità, legato ai cambiamenti di fase che subisce l’inchiostro all’interno delle testine termiche, introducendo l’uso di cartucce usa e getta. Ciò che caratterizza quest’azienda è il continuo miglioramento delle loro tecnologie; il numero di gocce stampate al secondo è raddoppiato ogni diciotto mesi nel corso degli ultimi 20 anni, fino ad arrivare ad avere 3900 ugelli in una stampante a sei colori che funziona attraverso un singolo chip (2006).

Ad oggi il gap fra i due sistemi è stato colmato dall’avanzo della tecnologia PIJ, in entrambi i casi si riescono ad avere cartucce con migliaia di ugelli che generano gocce di volume inferiore a 1pl, con frequenze superiori ai 10 kHz. La Epson, che ha incentrato il suo lavoro di ricerca sull’aumento del numero di ugelli nelle stampanti PIJ, si è specializzata nella qualità della stampa; mentre l’HP ha dato più importanza alla produttività. La Canon si è concentrata sulla dimensione delle gocce, riuscendo a generarne di molto piccole, cosa che influisce sulla qualità di stampa; mentre la Lexmark è rimasta indietro a causa della scarsa spesa in ricerca e sviluppo.

L’aumento della risoluzione si accompagna all’abbattimento dei prezzi e questo testi-monia che la tecnologia per il segmento di mercato cosiddetto “small office – home office” (SOHO) è arrivata ormai allo stadio della maturità.

1.2 Classificazione

La metodologia di stampa inkjet può essere suddivisa in due grandi categorie, quella Con-tinua e quella Drop-on-Demand, le quali a loro volta si suddividono in sotto categorie a seconda della modalità di stampa, per le CIJ, e del principio fisico, per le DOD, come si vede dalla Figura 1.4.

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1.2.1 Tecniche di stampa CIJ

Il minimo comun denominatore dei metodi di stampa CIJ sta nel fatto che solo una piccola frazione delle gocce viene utilizzata per la stampa, mentre la maggior parte è rediretta ad un collettore e ricircolata tramite una pompa e vari filtri.

Per quanto riguarda la stampa binaria e multipla CIJ il getto continuo di gocce viene generato applicando una perturbazione periodica all’inchiostro contenuto in una camera avente una piccola apertura, un ugello, sulla parte terminale. La perturbazione viene generata solitamente sfruttando l’azione di un piezoelettrico, a frequenze appropriate, e questo fa sì che le gocce che si formano abbiano dimensione e velocità uniforme. Se la perturbazione non fosse periodica si formerebbe comunque un getto che per sua natura si rompe in gocce, per minimizzare l’area superficiale, ma queste gocce avrebbero dimensioni e velocità variabili in modo quasi casuale. Le gocce vengono poi caricate grazie ad un elettrodo che circonda la regione dove avviene la rottura del getto. Nel metodo CIJ multiplo la scrittura avviene per mezzo delle gocce cariche, le quali passano attraverso due piastre ad alta tensione che le deviano a seconda del rapporto carica/massa; in questo tipo di stampa è possibile avere una scrittura bi-dimensionale di piccole aree con un singolo ugello. Nella stampa binaria, invece, le gocce non cariche sono quelle che terminano la loro corsa sul substrato, mentre quelle cariche vengono successivamente rimesse in circolo; le differenze fra questi due metodi sono evidenziate dalla Fig.1.5.

Figura 1.5: Confronto stampa CIJ Binaria e Continua.

Un esempio di stampante multipla CIJ è l’ IBM 5258, che ha 40 ugelli e può stampare 92 lettere al secondo con una risoluzione pari a 240X240 dpi (dots per inch, gocce per pollice). Il diametro dell’ugello è di 33 mm, la frequenza di pilotaggio 117 kHz, l’elettrodo che carica le gocce lavora a 200 V e le piastre per la deflessione a 3.3 kV.

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Un esempio di stampante binaria è la Diconix (Kodak) Dijit - 1 che ha 64 ugelli, una risoluzione pari a 300x300 dpi e riesce a stampare 20 pagine al minuto.

Il metodo Hertz permette di stampare in scala di grigi ed è caratterizzato dal fatto che la rottura del getto avviene in modo quasi casuale; senza cioè utilizzare una stimolazione periodica a frequenze predefinite, ma solamente sfruttando la rottura spontanea del getto che si verifica quando la camera è sottoposta ad una certa pressione. All’uscita dell’orefizio viene applicata un’ elevata tensione (100-500 V) che crea forti forze di repulsione elettro-statica fra le gocce le quali tendono ad aprirsi a ventaglio. Prima di arrivare sul foglio le gocce devono passare attraverso una maschera che seleziona le gocce centrate e variando la differenza di potenziale si può avrà uno spot più o meno scuro (Fig. 1.6a). In particolare applicando basse tensioni all’elettrodo di controllo si ottiene un tono più scuro, mentre con alte tensioni poche gocce passano attraverso la maschera e lo spot sarà più chiaro; in genere ogni spot è composto da almeno 30 gocce.

Anche in questa tecnica viene utilizzato spesso un piatto che deflette le gocce non utilizzate, permettendone il ricircolo. Il principale inconveniente consiste nell’alone grigio chiaro che circonda i punti stampati.

Figura 1.6: a) Variazione della densità di stampa in funzione della tensione applicata, tecnica Hertz. b) Disegno del brevetto del sistema di stampa microdot.

Un esempio di stampante che utilizza questa metodologia è la IRIS Graphics 2044, nella quale la camera è costituita da un capillare in vetro che termina con un foro di 15mm di diametro, l’inchiostro al suo interno è in pressione a 650 psi, e produce 1000000 gocce al secondo. Una stampa a quattro colori viene eseguita in un singolo passaggio con 240 punti per pollice su fogli di formato E (34x44 pollici) e può essere realizzato in 30 minuti. [29]

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Infine la tecnica di stampa a microgocce è caratterizzata dall’utilizzo esclusivo di gocce di piccole dimensioni. Il sistema è costituito da una camera sulla quale si trova un pie-zoelettrico alimentato a frequenze che si aggirano intorno ai 140 kHz e da due elettrodi di controllo, alimentati con un’ onda quadra, posizionati nella regione in cui il getto si rompe in gocce. La particolarità di questa tecnica sta nel fatto che il sistema di eccitazione del piezoelettrico e gli elettrodi lavorano in sincronia. In questo modo vengono caricate sola-mente le gocce più piccole, le quali poi sono deflesse sul substrato dagli stessi elettrodi che le hanno caricate. La figura 1.7 illustra il principio di funzionamento sopra descritto ed è estrapolata dal brevetto US 4746928. Come gli altri tre metodi, anche in questo caso si ha un sistema di recupero delle gocce non stampate.

Figura 1.7: Schema di funzionamento del sistema microdot. Con ”charging signal” si intende il segnale applicato agli elettrodi (elementi 8a e 8b in figura 1.6b), mentre con ”excitation voltage” l’onda (elemento 5 in figura 1.6b) che alimeta il piezoelettrico.

I principali svantaggi della tecnologia CIJ sono dovuvti al complesso meccanismo di ricircolo, soggetto ad errori e costoso, alla poca accuratezza legata al sistema di deflessione e alla necessità di caricare le gocce, cosa che limita la scelta dell’inchiostro. In generale sono sistemi abbastanza costosi che forniscono stampe di bassa qualità. Per contro garanti-scono alta velocità di lavorazione, quindi un’elevata produttività, cosa che ha permesso alle stampanti continue di mantenere il loro mercato fra le applicazioni industriali. Infatti sono molto utilizzate nella stampa di etichette, codici a barre, stampa su tessuti e marcatura microcarattere di prodotti ad alta velocità.

1.2.2 Tecniche di stampa DOD

I principi di stampa acustico e elettrostatico sono i meno utilizzati all’interno delle stam-panti inkjet.

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Nela tecnica elettrostatica la camera contenete l’inchiostro è sottoposta ad una leggera pressione (circa 98 Pa, corrispondente ad 1cm di acqua) che consente la formazione di un menisco all’altezza dell’ugello dove è posizionato un elettrodo di gate, alimentato fino a 2kV. L’alto voltaggio consente il superamento della tensione superficiale e la conseguente formazione di gocce, tutte ugualmente caricate (Fig.1.8). Le gocce possono successivamente essere accelerate verso la superfice di stampa da un ulteriore campo, pari circa a 7kV; ed in alcuni casi si sono utilizzati due elettrodi in serie ortogonali che orientano le gocce nella direzione verticale ed orizzontale. Fra le aziende che utilizzano questa tecnologia vi sono la NEC e la Tokyo Electric.

Figura 1.8: Metodo di estrazione di gocce elettrostatico, senza deviazione.

La tecnica acustica è caratterizzata dall’assenza dell’orefizio, infatti ciò che viene utiliz-zato è un fascio di onde acustiche focalizutiliz-zato sulla superfice libera dell’inchiostro. Le onde sono prodotte grazie all’utilizzo di un trasduttore piezoelettrico posto all’estremità inferiore di un buffer rod, ovvero un’ asta realizzata in cristallo di quarzo o silice fusa caratterizzata da una bassa attenuazione degli ultrasuoni. Sull’altra estremità dell’asta si trova una cavi-tà sferica, che funge da lente, riempita con l’inchiostro. Quando il trasduttore è eccitato, con un segnale a radiofrequenza, genera onde acustiche che si propagano fino alla lente la quale le indirizza verso la superficie del liquido, che è posto all’altezza del piano focale del fascio convergente. L’impatto delle onde fa sì che una certa quantità di liquido si muova verso la superfice andando a formare un cono dal quale, grazie all’azione dell’instabilità di Rayleigh-Taylor, si formerà una goccia (Fig.1.9). A questo punto la goccia viene espulsa dalla superficie e viaggia alla velocità di qualche metro al secondo; le gocce formate con questo metodo sono stabili in dimensione velocità e direzione [30]. Il metodo acustico è utilizzato dalla Xerox.

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Figura 1.9: Singolo estrattore di gocce acustico.

Il metodo di stampa termico è quello che ha riscosso il maggiore successo dal punto di vista commerciale; una testina TIJ è costituita da centinaia di ugelli, di dimensioni pari a 70mm. Gli ugelli sono ricavati da una sottile piastra di plastica o metallo e sotto ad ogni foro sono posizionate le resistenze, separate elettricamente fra di loro. Tutti gli elementi sono ricavati, attraverso fotolitografia, da un substrato di silicio monocristallino. Fra l’elemento riscaldante e l’orefizio si trova la camera di ebollizione dove l’inchiostro viene riscaldato, a 300°, grazie al passaggio di corrente attraverso la resistenza. A questa temperatura si assiste alla nucleazione di piccole bolle, alla base della camera, che continuano ad espandersi finchè l’inchiostro non è forzato ad uscire formando una goccia, in direzione parallela alla bolla di vapore (Fig.1.10). Dopo aver emesso la goccia la contrazione della bolla fa sì che nella camera rientri la quantità di inchiostro appena uscita, grazie al canale di refill comune; il tutto è ripetuto automaticamente migliaia di volte al secondo per ogni ugello. In questo ciclo è importante la composizione chimica dell’inchiostro, che deve mantenere intatta la sua purezza pur subendo fortissime sollecitazioni termiche, infatti dopo il riscaldamento la temperatura delle microcamere si normalizza immediatamente per non far evaporare l’inchiostro.

Esistono due varianti nelle testine termiche, a seconda di dove è posizionato l’elemento riscaldante (Fig.1.11). Nella prima, la cosiddetta roof-shooter, la resistenza è posta sotto l’orefizio; questa metodologia è utilizzata da tre aziende importanti come l’ HP, la Lexmark e l’Olivetti. Un esempio l’HP 890C, una stampante a 3 colori con 192 ugelli ed una superifice riscaldante di 1 mm², che espelle 12000 gocce a 10 pl/s.

La seconda, chiamata side-shooter, prevede che il riscaldatore sia posto lateralmente rispetto all’ugello. Questa tecnica è usata dalla Canon e da Xerox. Ad esempio la Canon BJC 7000 è una stampante a 6 colori con 480 ugelli.

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Figura 1.10: Meccanismo di formazione della goccia in una stampante termica. Dalla nucleazione delle bolle di vapore all’espulsione.

Figura 1.11: Da sinistra: principio di funzionamento di una TIJ roof-shooter, principio di funzionamento di una TIJ side-shooter.

1.2.2.1 DOD Piezoelettrica

Di seguito sarà spiegata nel dettaglio la natura fisico-chimica dei materiali piezoelettrici e il loro utilizzo come attuatori all’interno di una stampante inkjet, con le diverse architetture. L’effetto piezoelettrico

L’effetto piezoelettrico diretto è quel fenomeno per cui alcuni materiali con struttura cri-stallina generano una tensione elettrica a causa di una deformazione meccanica, forza o vibrazione; si parla invece di effetto indiretto nel caso in cui il materiale si deforma ela-sticamente se sottoposto all’azione di un campo elettrico. L’effetto piezoelettrico diretto è sfruttato in applicazioni sensoristiche, mentre quello indiretto come principio di attuazione. Condizione necessaria per l’esistenza del fenomeno piezoelettrico è l’assenza di un centro di simmetria nel cristallo (anisotropia); tra le 32 classi cristallografiche 20 hanno questa caratteristica e quindi, potenzialmente, possono mostrare il fenomeno della piezoelettricità.

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In generale i cristalli piezoelettrici naturali presentano diversi momenti di dipolo elettrico disposti in direzioni tali da compensarsi; ma se si applica uno sforzo in una appropriata direzione, uno dei momenti polari viene ad essere favorito e si crea un momento polare netto. Invece l’applicazione uniforme di una pressione idrostatica sollecita il cristallo in tutte le direzioni e la carica elettrica risultante è nulla.

Il processo di orientamento dei dipoli prende il nome di processo di polarizzazione (poling) e consiste proprio nell’applicazione di un campo elettrico che allinea i dipoli nella stessa direzione del campo applicato, generando così un dipolo permanete.

La ceramica piezoelettrica consiste in un insieme di microcristalli ferroelettrici, che so-no costituiti da zone di piccole dimensioni, dette domini di Weiss, in cui i dipoli hanso-no orientamento parallelo; a questa categoria appartengono, ad esempio, il Sale di Rochelle ed il Niobato di Litio. In questo tipo di materiali la piezoelettricità è indotta grazie all’ap-plicazione di un campo elettrico di polarizzazione sufficientemente elevato (1-4 kV/mm) in conseguenza del quale le ceramiche manifestano un momento di dipolo netto che rimane invariato dopo la rimozione del campo esterno. Una ceramica piezoelettrica è inizialmente isotropa; dopo la polarizzazione questa isotropia è distrutta nella direzione di polarizza-zione, ma è conservata nel piano ad essa perpendicolare (ortotropia). Durante il processo di polarizzazione l’elemento ceramico subisce un’espansione permanente nella direzione del campo elettrico ed una compressione nelle due direzioni ortogonali. Tali variazioni nelle dimensioni permangono anche dopo la rimozione della polarizzazione, e quando si applica una tensione continua, della stessa polarità della tensione di polarizzazione, ma di ampiez-za più piccola, l’elemento ceramico subisce un’ulteriore, ma temporanea, espansione nella direzione di polarizzazione ed una contrazione nei piani paralleli a quelli degli elettrodi. Viceversa, se la tensione applicata è di polarità opposta, la contrazione avviene nella dire-zione di polarizzadire-zione mentre l’espansione si verifica nelle direzioni ad essa perpendicolari. La polarizzazione dei materiali ferroelettrici è caratterizzata da isteresi (Fig.1.12a). Se il materiale è inizialmente allo stato non polarizzato, la polarizzazione, P, cresce al crescere

del campo elettrico E, raggiungendo, per un certo valore di E, un valore, Ps; la sostanza

si dice polarizzata alla saturazione. Facendo poi decrescere E, la polarizzazione decresce,

ma quando il campo è nullo il materiale conserva un valore non nullo di polarizzazione, Pr,

detto polarizzazione residua; per annullare P occorre applicare un campo diretto in senso

opposto a quello precedente e d’intensità opportuna, Ec (campo coercitivo). Aumentando

ancora l’intensità di tale campo si raggiunge di nuovo una condizione di saturazione e, in definitiva, si ottiene, al variare di E un diagramma chiuso (ciclo di isteresi dielettrica); la curva OA, relativa alla polarizzazione iniziale, prende il nome di curva di prima polarizza-zione. La polarizzazione residua è dovuta al fatto che alcuni domini rimangono allineati, ed è il fenomeno che si sfrutta per garantire l’effetto piezoelettrico.

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Figura 1.12: a) Ciclo di isteresi in un materiale ferroelettrico. b) Coefficienti di

accoppiamento kp e permittività er dei PZT al variare della composizione.

Per ogni ceramica piezoelettrica, inoltre, c’è una temperatura caratteristica, detta punto di Curie. Quando la ceramica raggiunge tale temperatura perde completamente e perma-nentemente le sue proprietà piezoelettriche. Altri fattori che possono causare la depo-larizzazione della ceramica sono: l’utilizzo di forti campi elettrici (fenomeno della rigità dielettrica), continui o alternati, e l’impiego di stress meccanici robusti.

Accanto a questi limiti peculiari dei materiali piezoelettrici si aggiungono le limitazioni tipiche dei materiali ceramici quali la massima sollecitazione di trazione e di compressione (i materiali piezoelettrici sono fragili), la rigidità elettrica (valore del campo elettrico oltre la quale vi è conduzione di corrente attraverso il materiale), la resistenza a fatica, l’aging (riduzione delle caratteristiche piezoelettriche dovute a depolarizzazione) e la degradazione per infiltrazione di particelle esterne (come le particelle di acqua in ambienti umidi). Per non oltrepassare questi limiti vengono adottate delle misure preventive quali l’impiego del materiale a temperature inferiori alla metà della temperatura di Curie, la limitazione della sollecitazione di compressione a valori pari a circa il 25 % della sollecitazione massima am-missibile, la limitazione delle tensioni di pilotaggio e l’adozione di rivestimenti impermeabili all’acqua.

I vantaggi dei materiali piezoceramici sono l’elevata efficienza di trasformazione elettro-meccanica, definita nello specifico in seguito come fattore di accoppiamento k, la buona lavorabilità, l’ampio range di forme ottenibili e la possibilità di fare produzioni seriali, anche se la riproducibilità è l’obiettivo più difficile da realizzare nel processo di produzione delle ceramiche piezoelettriche.

La prima ceramica piezoelettrica che è stata realizzata era basata sul Titanato di Bario

(BaTiO3). Le ragioni di tale successo sono da ricercarsi nel fatto che, ad eccezione del Sale

di Rochelle, il Titanato di Bario presenta un più elevato fattore di accoppiamento elettro-meccanico di quello dei cristalli. Inoltre, esso è di facile realizzazione e presenta un punto

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di Curie sufficientemente elevato (130 °C), mentre il Sale di Rochelle ha un punto di Curie molto basso (intorno a 24°C). Ad oggi Il Titanato di Bario è stato sostituito generalmente

dal Titanato Zirconato di Piombo (Pb(Zr,Ti)O3), commercialmente denominato PZT, per

le sue superiori proprietà piezoelettriche e più alte temperature di funzionamento (superiori ai 250°C).

La maggior parte dei piezoceramici (BaTiO3, PbTiO3, PZT) appartiene alla semplice

struttura cristallina della perovskite (CaTiO3); in figura 13 è rappresentata la cella

ele-mentare di un cristallo PZT. Gli atomi di piombo sono posizionati agli angoli della cella unitaria e gli atomi di ossigeno ai centri delle facce. Al di sopra di una temperatura di Curie, il reticolo ha una struttura cubica che consiste di ottaedri di ossigeno regolarmente organizzati al centro dei quali è disposto uno ione titanio o zirconio. Al di sotto della tem-peratura di Curie, la struttura del reticolo si riordina in una miscela di cristalli romboedrici

e tetragonali in cui lo ione titanio (Ti4+ ) o zirconio (Zr4+) non è più disposto nel centro ma

si sposta lungo una delle tante direzioni permesse. In particolare la struttura romboedrica può essere vista come una struttura cubica allungata lungo un asse diagonale della cella unitaria, l’ allungamento spontaneo nei PZT è lungo l’insieme di direzioni <111>; la strut-tura tetragonale invece corrisponde ad una strutstrut-tura cubica estesa lungo uno dei vettori reticolari, la direzione spontanea è lungo l’insieme <100> di direzioni. A causa di questa trasformazione di fase, con spostamenti atomici di circa 0.1 Å, avviene una separazione di cariche che produce un dipolo elettrico con un singolo asse di simmetria.

Il PZT è una soluzione solida di PbZrO3 ortorombico (52, 54%) e di PbTiO3tetragonale

(48, 46%). Il confine morfotropico di fase tra la fase tetragonale e romboedrica, corrispon-dente al range di composizione ottimale in cui, a causa dell’accoppiamento fra due stati energetici equivalenti, le prestazioni piezoelettriche hanno un picco, è quasi verticale nel PZT (Fig. 1.12b). Per composizioni vicine a questo confine (PbZrO3: PbTiO3= 43:47) è disponibile un gran numero di direzioni di polarizzazione, che porta ad alti valori dei coefficienti di accoppiamento elettromeccanici e della permittività elettrica. Controllando la chimica e la produzione, una grande quantità di composizioni e forme geometriche pos-sono essere ottimizzate per specifiche applicazioni. Aggiungendo differenti tipi di agenti droganti (donatori o accettori), le proprietà dei PZT possono essere fortemente modificate. Sul mercato sono disponibili due classi di PZT, denominate soft e hard.

Nei PZT soft l’aggiunta di cationi droganti a valenza più alta dei cationi sostituiti,

come lo ione Nb5+ al posto di Ti4+/Zr4+ o La3+ al posto di Pb2+ , incrementa la mobilità

delle pareti dei domini. Di conseguenza i PZT soft hanno grandi coefficienti piezoelettrici, alte perdite elettriche e alti fattori di accoppiamento, mentre la rigidità elastica, il campo coercitivo ed il fattore di qualità meccanica diminuisco. Nei PZT hard si aggiungono

invece droganti di valenza inferiore, come cationi Sc3+ o Fe3+al posto di Ti4+/Zr4+ oppure

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reticolo formando dei dipoli. Questi dipoli si allineano con la polarizzazione nel dominio creando campi interni che ne stabilizzano la configurazione e riducono al mobilità delle sue pareti. Il PZT diventa meno sensibile alla risposta piezoelettrica, con bassi coefficienti piezoelettrici, bassa permittività, basse perdite, bassa resistività elettrica ma più stabile; il campo coercitivo aumenta, così come il fattore di qualità meccanica.

L’attuatore piezoelettrico utilizzato in questo lavoro di tesi è un PZT 5H presente in commercio sottoforma di disco unimorfo; il materiale utilizzato in questo tipo di dispositivi è tipicamente il PZT 5H o 5A, che sono due PZT soft.

Figura 1.13: a sinistra. Cella elementare di un ceramico PZT: (a) T>TCurie, (b) T<TCurie, conformazione tetraedrica.

Di seguito sono descritti i coefficienti fondamentali che caratterizzano i materiali pie-zoceramici in uso, standardizzati da IEEE [32], e le equazioni costitutive. Data la natura dei materiali in questione gli effetti piezoelettrici dipendono fortemente dall’orientamento rispetto all’asse polarizzato, che rappresenta la direzione di polarizzazione e generalmente è indicato come l’asse z di un sistema cristallografico ortogonale. Questo significa che i parametri utilizzati per descrivere un materiale piezoelettrico possono assumere valori di-versi lungo i didi-versi assi del cristallo, ciò rende necessaria un’analisi tensoriale del fenomeno piezoelettrico. Gli assi x, y e z sono rappresentati abitualmente con i numeri 1, 2 e 3 e le direzioni di taglio intorno agli assi, rispettivamente, con 4, 5 e 6 (Fig. 1.14). Per correlare

quantità elettriche e meccaniche sono stati introdotti doppi pedici (per esempio dij). Il

pri-mo pedice dà la direzione del campo elettrico associato alla tensione applicata o alla carica prodotta; il secondo pedice dà la direzione della sollecitazione meccanica o della deforma-zione. Inoltre è utilizzato l’apice per esprimere la condizione al contorno che è mantenuta

costante (ad esempio, "T è la permettività a stress T costante). I coefficienti piezoelettrici

descritti di seguito variano con temperatura, pressione, campo elettrico, fattore di forma, condizioni al contorno meccaniche ed elettriche.

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Figura 1.14: Sistema convenzionale degli assi usato nel descrivere le proprietà piezoelettriche.

Il coefficiente di accoppiamento elettromeccanico k descrive la conversione di energia da elettrica a meccanica o viceversa. Misura quanto è forte l’accoppiamento fra il modo di vibrazione e l’eccitazione. Poiché questo coefficiente è un rapporto di energia, è

adimensionale. Grandi coefficienti kij forniscono un trasferimento di energia più efficiente

e sono richiesti negli attuatori.

La costante piezoelettrica d rappresenta la deformazione meccanica prodotta da un

campo elettrico applicato e si può misurare in ⇥m

V

. Grandi coefficienti dij si riferiscono

a grandi spostamenti meccanici, desiderati quando il piezoelettrico è utilizzato come tra-sduttore di moto. Viceversa, il coefficiente può essere visto come la carica raccolta sugli

elettrodi in seguito alla sollecitazione meccanica applicata, in questo caso si misura in⇥C

N

⇤ . A seconda dei modi con cui si applica la deformazione, è possibile considerare diversi

coefficienti d: Il d33 (d diretto) è usato quando la forza è nella direzione 3 (lungo l’asse di

polarizzazione) ed è impressa sulla stessa superficie su cui è raccolta la carica (Fig.1.15a); in questo caso la sollecitazione meccanica è parallela al momento di dipolo, producendo

un aumento della polarizzazione spontanea lungo l’asse 3. Il d31 (d trasversale) è usato

quando la carica è raccolta sulla stessa superficie di prima, ma la forza è applicata

perpen-dicolarmente all’asse di polarizzazione (Fig.1.15b). Il d15 (d di taglio) è usato quando la

carica è raccolta su elettrodi perpendicolari agli elettrodi originali di polarizzazione e la sol-lecitazione meccanica applicata è di taglio (Fig.1.15c). La matrice contenente i coefficienti

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Figura 1.15: Relazioni tra forza e carica elettrica per diversi modi di sollecitazione di materiali piezoelettrici

La costante piezoelettrica g, o coefficiente di tensione, rappresenta il campo elettrico

prodotto a circuito aperto da una sollecitazione meccanica ed è espresso in ⇥V⇤m

N

. E’ una misura della sensibilità di un materiale piezoelettrico perché è proporzionale alla tensione a circuito aperto, che deve essere sufficientemente alta in modo da potere rilevare il segnale generato al di sopra del rumore di fondo. La sensibilità è alta quando il coefficiente g è

elevato; di conseguenza, grandi valori di gij sono richieste nei sensori. In modo duale g è

anche il rapporto tra la deformazione sviluppata e la densità di carica applicata, in questo

caso la costante g è misurata in hm2

C

i .

La costante dielettrica relativa K è il rapporto tra la permittività del materiale, ", e

la permittività nel vuoto ("0 = 8.85⇤10 12F/m). Grandi costanti dielettriche sono richieste

nei sensori per superare le perdite associate alla presenza dei cavi, ma un valore eccessivo di K fa diminuire i coefficienti di tensione e quindi la sensibilità secondo la relazione tra i coefficienti d e g.

d = "Tg (1)

Il modulo di Young di un materiale piezoelettrico, cioè il rapporto tra lo sforzo (T ) e la deformazione (S), varia con il carico elettrico. Dato che la sollecitazione meccanica del ceramico produce una risposta elettrica, che si oppone allo sforzo, il modulo di Young valutato con gli elettrodi cortocircuitati è più basso di quello che si avrebbe a circuito aperto. In più, la rigidezza è differente nella direzione 3 rispetto a quella nella direzione 1 o 2. Di conseguenza, nell’esprimere tale quantità, devono essere specificate sia la direzione che le condizioni elettriche. In generale, il modulo di Young di un piezoceramico è circa un quarto di quello dell’acciaio (intorno ai 200GP a).

Prima di descrivere la costante di frequenza N è opportuno parlare dei modi di vibra-zione e della frequenza di risonanza.

Ogni piezoceramico ha una specifica frequenza elastica di vibrazione, che è una fun-zione del materiale e della sua forma. Quando una tensione alternata è applicata ad un piezoceramico con una frequenza uguale alla sua frequenza specifica di vibrazione, il

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pie-zoceramico esibisce risonanza. Questo fenomeno è sfruttato in molte applicazioni, perché alla frequenza di risonanza il coefficiente di accoppiamento elettromeccanico è massimo; ovvero l’ampiezza delle vibrazioni diviene massima. I ceramici piezoelettrici possono avere diversi modi di vibrazione (modi risonanti), che dipendono dalla loro forma, dall’orien-tamento di polarizzazione e dalla direzione del campo elettrico (Fig.1.16a). Ciascuno di questi modi di vibrazione ha frequenze di risonanza e caratteristiche piezoelettriche uniche. Facendo riferimento al circuito a parametri concentrati, ottenuto sfruttando le analogie-elettromeccaniche di Maxwell, la frequenza di risonanza può anche essere definita come la frequenza alla quale l’impedenza del circuito equivalente è minima. In figura 1.16b è ri-portato il circuito equivalente, con l’andamento del modulo dell’impedenza Z in frequenza.

Il valore di C0 è quello della capacità elettrica fra le due facce metallizate del ceramico,

invece il ramo RLC rappresenta le caratteristiche di risonanza elettromeccanica proprie del piezoelettrico; in particolare la Resistenza corrisponde al coefficiente di smorzamento del materiale, l’induttanza alla sua massa e la capacità alla cedevolezza (inverso dell’elasticità).

Figura 1.16: a) Tipici modi di vibrazione di ceramici piezoelettrici. b) Circuito elettrico equivalente e andamento dell’impedenza in frequenza.

La costante di frequenza N è usata per conoscere la velocità del suono, c, in un cristallo piezoelettrico ed è espressa in [Hz · m]

N = frl = c/2 (2)

Dove fr è la frequenza di risonanza e l la lunghezza caratteristica del piezoelettrico al

punto di risonanza. La velocità del suono è diversa per ogni modo vibrazionale quando il piezoceramico è eccitato in modo tale che solo un modo vibrazionale sia in risonanza.

Un altro parametro è il fattore di qualità meccanica Qm, definito come l’energia

elettrica che è convertita in energia meccanica rispetto a quella convertita in calore. Questo coefficiente rappresenta le perdite meccaniche ed è proporzionale al rapporto tra la frequenza

(30)

sono caratterizzati da stretti picchi di risonanza, mentre quelli con bassi fattori Qm hanno

larghezze di banda maggiori. A seconda del materiale, i valori di Qm sono molto differenti; i piezoceramici più comuni hanno valori tra 50 e 1000, mentre i cristalli di quarzo hanno

Qm pari a 10.

In più si ha il fattore di dissipazione dielettrica tand che è il rapporto tra la potenza dissipata e quella reattiva in un campione soggetto a un’onda sinusoidale in ingresso con frequenza molto al di sotto di quella di risonanza.

Infine è presa in considerazione la velocità di invecchiamento. La polarizzazione di un ceramico si riduce gradualmente col tempo e la velocità di questo processo, espressa in percento per decade di tempo, è conosciuta come velocità di invecchiamento, una funzione logaritmica del tempo. Di conseguenza l’invecchiamento è la tendenza del ceramico a tornare indietro al suo stato originale prima della polarizzazione e può essere attribuito al rilassamento dei dipoli nel materiale.

Le equazioni costitutive sono ricavate sfruttando la relazione lineare dell’elasticità estesa per comprendere l’effetto piezoelettrico. In questa trattazione i pedici indicano

Tali equazioni sono caratterizzate da:

Due tensori di dimensione (6x1), T e S, rispettivamente tensore delle tensioni meccaniche⇥N

m2 ⇤ e delle deformazioni ⇥m m ⇤ ,

Due vettori di dimensioni (3x1), E e D, rispettivamente campo elettrico ⇥N

C

e

sposta-mento elettrico o densità di carica⇥ C

m2

⇤ ,

Tre matrici, s (6x6) di cedevolezza o compliancehm2

N i , e (3x3) di permittività dielettrica ⇥F m ⇤ , e d (3x6) di accoppiamento piezoelettrico⇥C N ⇤ .

L’equazione di Hooke per l’elasticità può essere scritta come:

S = sT (3)

Mentre l’effetto piezoelettrico è formalizzato attraverso le seguenti equazioni, che esprimono l’effetto indiretto (Eq.4) e diretto (Eq.5) del materiale:

S = dE (4)

D = dTT (5)

Inoltre bisogna considerare l’equazione dei materiali dielettrici:

D = "E (6)

In notazione matriciale le equazioni che descrivono il comportamento elettromeccanico dei materiali piezoelettrici (nella cosiddetta forma Strain-Charge) sono:

2 6 4 S D 3 7 5 = 2 6 4 sE dt d "T 3 7 5 2 6 4 T E 3 7 5 (7)

(31)

Ed in forma estesa:

Dove si può notare l’isotropia planare tipica dei PZT, in particolare guardando la forma

della matrice d. In questa matrice compaiono due coefficienti omonimi, uno è il d31 =

d32 perché un campo elettrico applicato nella direzione di polarizzazione 3 produce una

deformazione meccanica uguale sia in direzione 1 che 2, l’altro è il d15= d24.

Le tre matrici di compliance (SE), accoppiamento piezoelettrico (d) e permettività

dielettrica (eT) di un PZT 5H sono:

Le equazioni che descrivono il comportamento dei materiali piezoelettrici possono essere scritte in diverse forme, date le loro caratteristiche duali. In particolare, oltre alla forma Strain-Charge, è spesso utilizzata la forma Stress-Charge:

2 6 4 T D 3 7 5 = 2 6 4 cE et e "S 3 7 5 2 6 4 S E 3 7 5 (8)

Nella quale c è la matrice di rigidezza (6x6) con ordine di grandezza⇥N

m2

ed e è la matrice del coefficiente di accoppiamento piezoelettrico nella forma Stress-Charge, con dimensioni

(32)

(3x6) ed ordine di grandezza⇥C m2

. Le trasformazioni matriciali che permettono il passaggio da una forma all’altra sono le seguenti.

cE = sE 1 (9)

e = d sE 1 (10)

"S= "T d sE 1dt (11)

Principi di attuazione nelle testine inkjet: Modalità bend

Una testina di stampa che opera in modalità bend è costituita da una camera a pres-sione nella quale si trova un ingresso per l’inchiostro di refill e un’ uscita che termina in un orifizio. Una parete della camera è costituita da una membrana conduttiva sulla quale è posizionata una piastra in ceramica piezoelettrica; la superficie esterna della piastra è ricoperta da un rivestimento che permette di collegarla al circuito di alimentazione. Il cam-po elettrico fornito è parallelo alla direzione di cam-polarizzazione del piezoelettrico, una volta applicato causa l’ espansione della piastra che si traduce in una flessione, verso l’interno della camera, del diaframma. In questo modo si produce una pressione sul fluido di stampa che forza l’espulsione di una goccia dal orifizio. La dimensione delle gocce è funzione della tensione di alimentazione, della durata dell’impulso, e del diametro dell’orifizio. Le testine di stampa a colori della Tektronix e della Epson si basano su questo principio di proget-tazione. L’attuatore può essere realizzato da un singolo strato piezoelettrico, attuatore unimorfo, o da due strati piezoelettrici complementari, attuatore bimorfo, cioè tali che ap-plicando una tensione una lamina si contrae e l’altra si dilata; in questo caso la differenza di allungamento dei diversi strati traduce in un momento flettente M, che può essere calcolato attraverso il modello di Eulero-Bernulli per la curvatura di un fascio laminato [33]. Per un

piezoelettrico bimorfo, libero di flettersi, di lunghezza lp spessore bp , altezza di ogni strato

hp e modulo elastico Ep

M = 2d31V Epbphp (12)

E la flessione della punta di questo attuatore [33,34] corrisponde a:

Dy = 3 4d31V ⇣ lp hp ⌘2 (13)

La maggior parte delle testine è realizzata con piezoelettrici unimorfi montati su una mem-brana passiva ed il calcolo dello spostamento massimo diviene più complicato in quanto influenzato dalle proprietà del materiale che costituisce lo strato passivo, e dalle dimensioni dei due strati. E’ stato visto però che il momento flettente ottimale dipende solamente

(33)

da due fattori, il rapporto fra gli spessori dei due strati ed il loro modulo elastico [34], come riportato in figura 1.17. Inoltre l’attuatore, in una testina, è fissato in modo rigido al supporto, e per garantire una maggiore flessibilità della membrana questo non ricopre l’intera area dello strato passivo; ciò complica ulteriormente la descrizione analitica del-la deformazione dell’attuatore. Perciò sono stati condotti studi che individuassero delle grandezze guida per la scelta dell’attuatore ottimale ed in quest’ottica è stato osservato che lo spessore dello strato piezoelettrico gioca un ruolo fondamentale nella performance complessiva [35,36]; nello specifico a spessori minori corrispondono flessioni maggiori, cosa che comporta, a parità di voltaggio, l’azione di campi elettrici più consistenti. Bisogna però ricordare che, in generale, l’azione di campi elettrici che superano la rigidità dielettrica del materiale comportano la degradazione e quindi la perdita del fenomeno piezoelettrico [37]; la rigidità dielettrica tipica di un PZT è di 500V/µm. Comunque l’intensità del campo elettrico utilizzato in testine di stampa piezoelettriche è dell’ ordine di 1-10 V/µm, quindi per queste applicazioni non c’è un limite pratico, legato all’azione del campo elettrico di depolarizzazione. Un altro effetto limitante è che la forza massima espressa diminuisce in attuatori più sottili.

La performance viene quindi definita attraverso l’equilibrio tra la deformazione totale e la massima forza generata. Una regola generale, per il design di una testina, non può essere seguita, in quanto sono fondamentali le proprietà acustiche dei canali contenenti l’inchiostro. La tendenza generale è che più sono piccole le dimensioni del canale, più sottile può essere l’attuatore bend.

La Epson partì da attuatori spessi 100µm, nella prima generazione di testine bend, fino ad arrivare a spessori di 1mm di materiale piezoelettrico sopra ad una membrana spessa 1µm, nell’ultima generazione, che ricoprono un canale di 55µm.

(34)

Figura 1.17: a) Principio di funzionamento dell’ attuazione bend. b) Flessione normalizza-ta con tensione di pilonormalizza-taggio cosnormalizza-tante in funzione dello spessore dello strato piezoelettrico

(PZT, E w 60 GPa) per diversi materiali passivi in una barra unimorfa libera di piegarsi.

Il rapporto ottimale fra lo spessore dello strato piezoelettrico e lo spessore dello strato di supporto è pari a: 3/5 con tantalio (E = 186 GPa), circa 1/2 con silicio (E = 130 GPa) e circa 1/6 con poliimmide (E modulo 9 GPa) .

Modalità push

La modalità push, anche chiamata modalità bump, è simile al metodo bend in quanto il campo elettrico è applicato parallelamente alla direzione di polarizzazione e lo sposta-mento avviene in direzione parallela o perpedicolare (in Fig.1.18) ad essi. L’attuatore è costituito da un’ asta di materiale piezoelettrico che una volta alimentata si espande e spinge l’inchiostro a fuoriuscire dall’orefizio. In teoria l’asta può essere messa in contatto diretto con l’inchiostro, ma nella realtà si preferisce interporre un sottile diaframma che evita interazioni indesiderate.

Lo spostamento libero di un elemento piezoelettrico di altezza hp, lungo l’asse y che

corrisponde alla direzione di polarizzazione, è:

Dy

hp = d33E3 = d33

V

hp (14)

La maggior parte dei PZT è caratterizzata da d33di circa 400 pm/V ed in questa modalità

di attuazione sarebbero richieste tensioni abbastanza elevate, di circa 80V ; mentre per i circuiti di alimentazione è preferibile erogare tensioni inferiori ai 40V. Un modo semplice per ovviare a questo inconveniente è l’utilizzo di attuatori multistrato; l’elemento piezoelettrico

può essere quindi costituito da n strati di spessore dlayer = hp/n, che produrranno un

Figura

Figura 1.5: Confronto stampa CIJ Binaria e Continua.
Figura 1.10: Meccanismo di formazione della goccia in una stampante termica. Dalla nucleazione delle bolle di vapore all’espulsione.
Figura 1.12: a) Ciclo di isteresi in un materiale ferroelettrico. b) Coefficienti di accoppiamento k p e permittività e r dei PZT al variare della composizione.
Figura 1.13: a sinistra. Cella elementare di un ceramico PZT: (a) T&gt;TCurie, (b) T&lt;TCurie, conformazione tetraedrica.
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