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LA TEMATICA INDUSTRIALE E “IL MENABO’” DEL 1961

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LA TEMATICA INDUSTRIALE

E “IL MENABO’” DEL 1961

La prefazione a “Il Menabò di letteratura”

e l’industria culturale

“Il Menabò di letteratura”, con la sua particolare forma di collana-rivista e l’ambizione tipicamente vittoriniana di parlare della società e delle sue evoluzioni, rappresenta l’ultima fase dell’intensa attività postbellica dello scrittore siciliano. Dal 1945 al 1948, infatti, richiamandosi all’enciclopedismo risorgimentale di Carlo Cattaneo, Elio Vittorini aveva fondato e diretto “Il Politecnico”, passando da una prima fase divulgativa ad una di dibattito intellettuale culturale e politico. Lo scontro con Palmiro Togliatti, deciso a tramutare il periodico in strumento ideologico e letterario al servizio del Pci e delle sue istanze, portarono alla chiusura de “Il Politecnico” nel 1948, proprio mentre l’inasprirsi del clima politico e l’isolamento dell’opposizione comunista causavano la degenerazione del Neorealismo in una forma programmatica, strumentale, propagandistica.

Dopo le esperienze intermedie de “I gettoni” e di “Officina”, con la quale condivide il medesimo contesto storico-culturale ma dalla quale si distingue per un orizzonte più vasto1, “Il Menabò” si propone come obiettivo la ricerca aperta e l’indagine sulla multiforme attività letteraria (poetica, narrativa, saggistica) e allo stesso tempo la distinzione tra la produzione di consumo, condizionata dall’industria culturale, e quella che si pone nei confronti di essa in modo interlocutorio e contestatore.

La premessa redazionale del primo numero de “Il Menabò” (1959) definisce le linee programmatiche della rivista:

[…] I testi di letteratura creativa che vi andremo pubblicando (di narrativa, di poesia, di teatro) saranno tutti così lunghi che ciascuno di essi dovrebbe poter fare un libro a sé ed essere comunque in grado di dare un’idea completa della personalità (al momento) di chi lo ha scritto. Per questo l’iniziativa è da collana. Ma i testi saranno almeno un paio per volume, verranno associati volta a volta secondo un criterio che li coordini in senso di affinità o di contrapposizione, e ogni testo avrà accanto (oltre a note

1 La rivista bolognese “Officina” (1956-1959) è la prima, in ordine temporale, a porre l’attenzione sul tema industriale,

trattando con lucido disincanto l’utopia di un mondo industriale rinnovato e a misura d’uomo, sottolineando piuttosto l’inevitabile alienazione prodotta dal lavoro in fabbrica e la necessità di un impegno dello scrittore che vada al di là di una semplice partecipazione etica. Cfr SEGRE-MARTIGNONI, Testi nella storia, vol.4, pp.1377-78

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informative o polemiche) un saggio critico concertato in sede di redazione che tratti del problema morale o storico o letterario cui il testo in qualche modo, per diritto o per rovescio, si riferisce2.

L’obiettivo del periodico è quello di “vedere a che punto ci troviamo nelle varie, troppe, questioni non solo letterarie oggi in sospeso, e cercare di capire come si potrebbe rimetterci in movimento”. Un duplice proposito, quindi: promuovere un’indagine sulla situazione della letteratura italiana e contribuire al suo rilancio. Ma che cosa intende Vittorini per “stasi” della situazione letteraria? Perché è necessario “rimetterla in moto”?

La crisi della letteratura (e in genere della cultura) in Italia sembra essere più che altro, oggi, di deficienza critica […] Tra le quali [cause] potremmo ricordare già tutti i risaputi strazi contemporanei tipo 1) livellamento delle esperienze della cultura umanistica attraverso le manifestazioni della cultura di massa come il cinema, la televisione, la radio, il giornalismo da rotocalco, il sanremismo, ecc. ecc.; oppure 2) accelerato “sviluppo” in senso verticale della cultura scientifica e della tecnica, che si contrappone al primo con l’aspetto di un processo quasi marziano pur agendo in congiuntura con esso; o ancora 3) “decadenza dell’individuo” come soggetto di autodeterminazione ideologica e insomma come eroe (fatto storico che riguarda in particolar modo la sorte del romanzo nella sua struttura ottocentesca ma che non ci angustia né per l’individuo né per il romanzo anche perché si manifesta ormai associato alla necessità ugualmente storica di una rivalutazione della parte individuale come la sola possibile parte morale, e cioè la sola che sconti in termini di coscienza ogni forma e ogni idea di vita fino a trasformare tali forme e idee stesse in incentivi di vita infiniti).3

La deficienza critica4 e la decadenza dell’individuo “come soggetto di autodeterminazione ideologica” sono gli scotti amari del livellamento operato dalla cultura di massa e dall’accelerato sviluppo dei settori scientifici e tecnici a scapito di quelli umanistici. Se, infatti, l’intensa trasformazione, agli inizi degli anni Sessanta, del sistema economico e sociale dell’Italia, promossa nel novero dei Paesi tardocapitalistici, comporta, come riflesso immediato, una forte ripresa della produttività e del benessere economico, per converso accentua ben presto i segni di una nuova crisi culturale. Il boom economico provoca, per usare la definizione di Pierpaolo Pasolini, una “mutazione antropologica”5

, che non risparmia neanche –o soprattutto- l’organizzazione della cultura.

2

VITTORINI, Prefazione a “Il Menabò”, 1, 1959

3 Ivi

4 Qui Vittorini allude a diverse forme di compiacimento: compiacimento di non dar scandalo, compiacimento della

mancanza di tensione, compiacimento della mancanza di rigore, compiacimento di scoprire che c’è del buono anche nel conformismo

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Nasce una vera e propria “macchina culturale” articolata in grandi apparati (RAI-TV, cinema, editoria, scuola..) che si organizzano in senso industriale e capitalistico, operano un reclutamento di massa degli intellettuali (ormai considerati una forza-lavoro simile alle altre), canalizzano i servizi e le merci verso una destinazione sociale di massa, puntando al massimo profitto e al condizionamento ideologico- spesso in senso conservatore e cattolico- del pubblico. L’industria editoriale tende a superare la fase artigianale e ad affrontare un processo di concentrazione in poche, potenti mani: il libro diventa sempre più un prodotto, una merce, la cui confezione spesso può essere preparata e programmata in serie, nonchè condizionata dalle esigenze del mercato.

Al “libro d’autore” va sempre più sostituendosi il “libro di editore” e la massificazione dei beni culturali porta al superamento della “strategia borghese delle due culture”6

, ovvero della distinzione tra prodotti di elaborazione originale e prodotti di compilazione, tra testi prestigiosi per iniziati e anonimi volgarizzamenti (in senso lato) popolari. La separazione tra cultura alta e bassa (o “paccottiglia”, secondo una definizione di Gramsci), nonché tra cultura tout court per pochi e sottocultura per molti, si era finora manifestata anche a livello di produzione e distribuzione, favorita dallo iato tra la generale arretratezza del Paese e la modernità di una ristretta èlite. Negli anni Sessanta, invece, la logica capitalistica adegua la produzione, secondo una logica consumistica e interclassista, ad un’unica cultura di massa, profondamente stratificata in modo da poter abbracciare le esigenze di tutti gli strati sociali, rivolgendosi ad un “uomo medio” che si contribuisce a creare anche attraverso il mezzo editoriale. È però una medietas che vira verso la mediocrità di un individuo che ha perso la sua autodeterminazione ideologica.

Herbert Marcuse, esponente della Scuola di Francoforte, parla giustamente di unidimensionalità culturale a proposito dello stato dell’arte e della cultura nella “società capitalistica avanzata”7. Se prima l’alta cultura costituiva una dimensione opposta- in

quanto non integrata- a quella della realtà, ora invece le due dimensioni sono unificate, appiattite, perché la prima è stata assorbita dai grandi mezzi di comunicazione di massa.

Ai giorni nostri l’aspetto nuovo è l’appiattirsi dell’antagonismo tra cultura e realtà sociale, tramite la distruzione dei nuclei d’opposizione, di trascendenza, di estraneità contenuti nell’alta cultura, in virtù dei quali essa costituiva un’altra dimensione della realtà. Codesta liquidazione della cultura a due

dimensioni non ha luogo mediante la negazione e il rigetto dei “valori culturali”, bensì mediante il loro

6

Cfr FERRETTI, Il mercato delle lettere, cit. p.7

7 Cfr La conquista della coscienza felice: la de sublimazione repressiva in L’uomo ad una dimensione, MARCUSE, op.

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inserimento in massa nell’ordine stabilito, mediante la loro riproduzione ed esposizione su scala massiccia8.

Pregnante l’esempio di Marcuse: nella cultura pre-tecnologica la dimensione letteraria (in contrasto con quella reale) era rappresentata “non dagli eroi religiosi, spirituali, morali (che spesso sostengono l’ordine stabilito) ma piuttosto da personaggi in un certo senso sovversivi come l’artista, la prostituta, l’adultera, il gran criminale senza patria, il guerriero, il poeta-ribelle, il diavolo, l’idiota- coloro che non lavorano per vivere, almeno non in un modo ordinato e normale”9. Oggi, nella società industriale avanzata, queste figure sono state sostituite da quelle del gangster, della stella del cinema, del dirigente industriale, che il filosofo ritiene non opposte, ma funzionali, in ultima analisi, al sistema. L’arte aveva un potere di opposizione, oggi non più: nel mondo attuale Madame Bovary sarebbe stata curata da uno psicanalista e non avrebbe più costituito alcuna negazione all’ordine: il problema sarebbe stato risolto- ovvero soppresso, represso-, le contraddizioni appiattite, la società riconciliata10. È ciò che Marcuse chiama desublimazione repressiva, ovvero la riduzione di tutte le realtà culturali e spirituali superiori non integrate in questo sistema ad elementi e funzioni interni interne al sistema.

Ritualizzata o no, l’arte contiene la razionalità della negazione. Nelle sue posizioni più avanzate, essa rappresenta il Grande Rifiuto, la protesta contro ciò che è.11

La cultura di massa, invece, per la sua diffusione e fruizione su vasta scala, perde il suo carattere sovversivo e finisce per essere assorbita nello status quo. Nonostante gli sforzi dell’arte e della letteratura di essere espressioni del Grande Rifiuto, pare che nulla resista all’assorbimento da parte della civiltà tecnologica e dei suoi mezzi di comunicazione; tutto risulta allora immerso in una onnipresente mediocrità.

Lo sviluppo dell’industria culturale, la diffusione della televisione e la scolarizzazione di massa provocano una profonda trasformazione tanto del pubblico quanto della condizione stessa dell’intellettuale, sempre più emarginato in una civiltà in cui l’immagine e il suono soppiantano la parola scritta. La funzione dell’intellettuale

8 Ivi, p.76 9

Ivi, pp 77-78

10 Cfr CASINI, cit., pag. 261 11 MARCUSE, cit., p.82

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umanista, custode di un sapere totalitario e chierico disinteressato, si sfalda definitivamente, lasciando il passo ad un intellettuale-tecnico, lavoratore salariato al servizio dell’apparato culturale a cui è assegnato. Il letterato, specialista privo di un’effettiva specializzazione, viene sollevato dall’onere di coniare in proprio le ideologie, ma è poi incaricato di diffonderle in vasta scala come una merce da supermercato.

L’atteggiamento di Vittorini verso una realtà che tende ad escluderlo in quanto intellettuale è tutto iscritto nel titolo scelto per la rivista collana:

[…] esso [il titolo] non ha, nelle nostre intenzioni, alcun valore emblematico. “Il menabò”12,

diciamo, e tutti si sa che cosa sia un menabò, di pratico, di strumentale, nel corso della realizzazione grafica d’ogni lavoro editoriale o giornalistico. Un nome legato a un’idea di funzionalità, e rapido e allegro di suono: per questo ci è piaciuto.13

Il nome di “Menabò” denuncia quindi una volontà operativa, empirica, strumentale non in un senso produttivo ma riflessivo. La riflessione che Vittorini propugna coinvolge la letteratura e il suo rapporto con la nuova società, e si articola dialetticamente, in strutture completamente aperte, pronte a dare spazio anche a voci dissidenti come quella di Franco Fortini.

È qui, nell’attenzione al solido nesso tra cultura e società, realtà e letteratura e quindi alla formula dell’intellettuale engagè, che possiamo individuare il filo sotterraneo che unisce, a distanza di anni, “Il Politecnico” e il “Menabò”. Lo scopo del primo14 era sicuramente più ambizioso rispetto a quello della più recente rivista-collana, ma credo sia un’altra la differenza principale tra le due esperienze. Se la prima proposta vittoriniana si inseriva, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, in un contesto fortemente bisognoso di unità, di dialogo, di condivisione tra istanze diverse e tra gente comune e intellettuali, investiti del dovere di uscire dalla loro torre d’avorio, negli anni Sessanta le condizioni sono molto diverse. L’intellettuale deve ora compensare la sua attività puramente letteraria adeguandosi ai meccanismi di produzione, o anche- come accade per molti autori, da Ottieri a Volponi a Sereni- entrare fisicamente in fabbrica, da tecnici specializzati. Nessuno più chiede loro di occuparsi della società: la riflessione

12

La parola deriva dalla voce settentrionale mena bue, guida i buoi, passata poi ad indicare il foglio o l’insieme dei fogli su cui sono incollati nella disposizione voluta le bozze di stampa o le illustrazioni, che serve come modello

d’impaginazione per un giornale o una rivista.

13 VITTORINI, Prefazione a “Il Menabò”, 1, 1959 14

Nell’articolo programmatico Nuova cultura, prefazione al primo numero de “Il Politecnico”, Vittorini esprime la necessità di una cultura non più consolatoria –fallimentare, perché non ha saputo impedire gli orrori della guerra-, ma impegnata, impegnata a modificare la realtà e le sue distorsioni.

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non è redditizia, anzi spesso stimolare le menti degli italiani, assuefatte dal miracolo economico, può rappresentare un pericolo agli occhi retrivi della Chiesa e della Democrazia Cristiana.

Ma anche Vittorini non è più lo stesso di venti anni prima: il fallimento dell’esperienza de “Il Politecnico” (e con essa la caduta delle sue istanze di rinnovamento della cultura), l’avversione per il realismo programmatico, dilagante dopo il 1948, la delusione per l’invasione dell’Ungheria, nonostante le parole di distensione del XX Congresso del Pcus, il rifiuto di pubblicare presso Einaudi “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa (in quanto partecipe della “vecchia letteratura consolatoria”), rivelatosi poi un immenso successo- dimostrando di fatto l’inapplicabilità e l’inattualità dei suoi principi letterari- se da un lato provocano numerosi contrasti con il Pci, da un altro decretano il superamento della letteratura dell’impegno negli interessi del pubblico e l’inutilità di posizioni arroccate su presupposti storici non più vigenti.

Ecco perché nel dibattito su “Industria e letteratura”, sviluppato nel quarto numero de “Il Menabò”, Vittorini guarderà al nuovo mondo industriale italiano non con gli occhi ringhianti della critica marxista, ma con ottimismo e fiducia nel progresso, un atteggiamento- tra l’altro non adottato dagli altri autori della rivista- che è stato definito neoscientismo umanistico.

I primi tre numeri della rivista-collana sono di carattere compromissorio, ovvero tendono a smorzare la feroce polemica della Premessa sul panorama culturale italiano degli anni Sessanta, rispettivamente dedicati alla letteratura dialettale e di guerra il primo ( si pensi a Il calzolaio di Vigevano di Mastronardi e a Pace ad El Alamein di Palladino), alla poesia degli ultimi anni il secondo (con Roversi, Pagliarani, Pennati, Leonetti..), e alla letteratura meridionalista il terzo. Si tratta di alcuni tra i “generi” più significativi degli anni Cinquanta, risultanti dalla rigida codificazione realista ed epigoni della stagione del Neorealismo più stereotipato. Quanto di più lontano dai desideri di Vittorini, insomma. Scrive giustamente la Fiaccarini Marchi nella brillante introduzione al “Menabò di letteratura”:

Se “Il Menabò” n.3 fu un numero di attesa- e per Vittorini di nervosa attesa- “Il Menabò” n.4 e n.5 risposero completamente alle aspettative del suo direttore: in essi infatti venne impostato e sviluppato il dibattito teorico (ma anche pratico) sul rapporto letteratura e industria, che d’ora in avanti caratterizzerà tutta la rivista15.

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Già nei saggi del terzo numero, però, emerge il tema su cui s’incentrerà il dibattito successivo: l’inadeguatezza degli schemi narrativi in cui si era cristallizzata la produzione degli anni Cinquanta, schemi ancora troppo vincolati ad un atteggiamento e ad un linguaggio di tipo neorealistico e quindi insufficienti a rappresentare il nuovo mondo industriale. La polemica che ne segue nel quarto e nel quinto numero, ampliamente dibattuta tra Vittorini, Calvino, Scalia, Eco, è una polemica essenzialmente formalista, laddove la nuova tematica industriale è sentita innanzitutto come esigenza di rinnovamento del linguaggio letterario.

Non a caso “Il Menabò” del 1962 ospita anche un gran numero di testi, in versi e in prosa, di autori come Sanguineti, Leonetti ed Eco che di lì ad un anno fonderanno a Palermo il cosiddetto “Gruppo 63”16

, un movimento critico nei confronti dei moduli tipici del romanzo neorealista e della poesia tradizionale che si propone di sperimentare nuove forme di espressione. Il dibattito formalista arriva al suo esito più estremo, alla rivoluzione di un linguaggio tanto attardato quanto ormai deprecato, ed il primo ad ospitare gli innovatori è proprio “Il Menabò” di quel Vittorini che anni addietro teorizzava la necessità di una letteratura neorealista. Segno- se mai ce ne fosse bisogno- dell’attualità di questo intellettuale al passo coi tempi, ma incapace di rinunciare al suo ruolo di scrittore-direttore a suo modo sempre impegnato.

L’apertura de “Il Menabò” verso questo movimento prosegue nel sesto numero che, sebbene si apra diplomaticamente con “Una poesia” di Carlo Emilio Gadda e con un saggio su “La cognizione del dolore”, continua poi con la sua opera di rottura pubblicando i versi di giovani e sconosciuti poeti ( Isgrò, Majorino, Miccini..), innovativi per il diverso rapporto di significazione che istaurano con la realtà contemporanea. Il “Menabò” si conferma incunabolo della Neoavanguardia e di ogni proposta letteraria di carattere dirompente: è in atto il rilancio della cultura italiana auspicato da Vittorini nella Prefazione al periodico.

Il “Menabò” n.7 è una nuova rivista: nome, mutato in “Gulliver-internazionale” è indicativo di nuovi progetti,

[di] un’altra struttura, un altro ordine di rapporti, un altro modello di nessi, un’altra vocazione di ricerca, un’altra prospettiva di lavoro associato17.

16“Gruppo 63” o Neoavanguardia, per distinguersi dalle avanguardie storiche del primo Novecento 17 VITTORINI, Premessa a “Il Menabò”, n.7

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La rivista diventa una sorta di zona franca internazionale, nella quale tre gruppi di scrittori (francesi, italiani e tedeschi), tentando di evadere dalle ristrettezze delle proprie letterature nazionali, cercano di istaurare un progetto metodologico e critico comune. L’idea è ambiziosa, ma la realizzazione della rivista rimane confinata al 1964, forse a causa –dirà poi Leonetti, redattore per il gruppo italiano- “dell’insufficienza della cultura di sinistra, incapace di organizzarsi da sé e senza intellettualismi, e incapace di superare residui problemi di “cultura nazionale”18

.

È con questo numero che praticamente termina “Il Menabò”: gli ultimi tre fascicoli sono più dei supplementi, anche se il n.8 merita una menzione a parte, sia perché prosegue il discorso sulla Neoavanguardia, ampliandolo attraverso la pubblicazione di sperimentazioni ad esso complementari o alternative, sia perché è ancora seguito con attenzione da Vittorini, ormai malato, e rappresenta l’ultima espressione della sua volontà.

Il nono numero, affidato ad Enzensberger, verte completamente sulla letteratura tedesca, mentre il decimo, postumo al suo direttore, è un commiato per lo scrittore siciliano che sotto il titolo La ragione conoscitiva raccoglie, secondo il criterio adottato da Vittorini stesso per Diario in pubblico, stralci di suoi scritti precedentemente apparsi sul “Menabò”: brani di interviste, dibattiti, presentazioni, oltre a vari saggi a lui dedicati. Impensabile che la rivista sopravviva al suo creatore: la serie termina infatti nel 1967.

Il discorso per una nuova cultura si era aperto nel 1945 con il nome di Vittorini, e con lo stesso nome si chiude negli anni Sessanta, sostituito dal dibattito su industria e letteratura; tuttavia la prospettiva neorealistica postresistenziale avviata da “Il Politecnico”, poi teoricamente combattuta ne “Il Menabò” dal suo direttore, era rimasta come una propaggine neanche troppo latente nelle prime opere ospitate dalla rivista, fino alla rottura rappresentata dalla Neoavanguardia.

Con Vittorini se ne va un intellettuale impegnato ma mai dogmatico, capace di individuare le priorità di ogni epoca (una cultura nuova e unitaria nel Dopoguerra, un nuovo modo di rappresentare la realtà industriale negli anni Sessanta) e per questo incapace di rimanere rinchiuso nella sua torre d’avorio. È il 1967: non ci sarà spazio più per un altro Vittorini, né il dibattito formalista sembrerà fondamentale di qui in avanti. La contestazione si sposta ora dall’ambito letterario al cuore della stessa società capitalistica e borghese; dalla lotta di penna alla lotta di piazza e di fabbrica.

18 Cit. in GRONDA, p.442

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La letteratura della coscienza tra Calvino, Eco e Vittorini

Come è stato detto, è con il quarto fascicolo de “Il Menabò”, uscito nel 1961, che viene reso esplicito un tema già latente nei numeri precedenti, quello del rapporto tra industria e letteratura. L’argomento è attualissimo: lo sviluppo “non sostenibile” dell’Italia scopertasi industriale coinvolge e sconvolge ogni ambito della vita pubblica e privata, e alto è il prezzo da pagare per il nuovo benessere, in termini di sfruttamento e alienazione umana dentro la fabbrica, in termini di tensione democratica e compressione delle libertà nell’esistenza quotidiana. Difficile che Vittorini riesca ad ignorare un argomento come questo; del resto l’impostazione operativa data alla rivista è in linea con la sua concezione engagè della letteratura.

La prima affermazione teorica del tema è affidata ad un saggio del direttore stesso, dal titolo Industria e letteratura, che apre (subito dopo Una visita in fabbrica di Vittorio Sereni) il famoso quarto numero.

L’indagine che cerchiamo di condurre, con “Menabò”, nella vita del nostro paese “attraverso” la letteratura, e cioè attraverso il filtro di coscienza e di giudizio che la letteratura può riuscire ad essere della vita, o almeno “attraverso” gli elementi di coscienza e di giudizio che i problemi letterari (e le istanze letterarie, e i conati letterari) possono riuscire a suggerire dinanzi alla vita; doveva portarci presto o tardi a raccogliere dei testi che ci consentissero di vedere a qual punto le “cose nuove” tra cui oggi viviamo, direttamente o indirettamente, per opera dell’ultima rivoluzione industriale abbiano un riscontro di “novità” nell’immaginazione umana19 […]

La letteratura è quindi, per Vittorini, ancora “il filtro di coscienza e di giudizio” della vita, legata indissolubilmente alla realtà esterna, mai fine a se stessa. Non credo sia da sottovalutare il richiamo all’intervento di Italo Calvino, Il mare dell’oggettività (in “Il Menabò” 2, 1960), sulla necessità di passare da una “letteratura dell’oggettività” ad una “letteratura della coscienza”20, termine che diventa il palese trait d’union tra i due saggi. Il condirettore de “Il Menabò” formula qui un preciso atto di accusa, che coinvolge tutti i livelli del lavoro intellettuale:

19 VITTORINI, Industria e letteratura, in “Il Menabò” 4, 1961, p.13

20 Ingeneroso con Calvino e forse immemore delle sue perorazioni per una letteratura della coscienza è il libro di Carla

Benedetti, Pasolini contro Calvino, per il quale a partire dagli anni Sessanta “nessun tipo di tensione critica nei confronti dell’istituzione letteraria colonizzata dall’industria culturale sopravvive in uno scrittore come Calvino. La rinuncia a un’idea <<forte>> di letteratura diventa qui del tutto pacifica, solo appena venata da un’ironia malinconica.” La Benedetti attribuisce inoltre al condirettore “l’attitudine ad <<accomodarsi>> dentro l’instituzione, ormai in gran parte coestensiva all’industria culturale”, in opposizione alla reazione pasoliniana, che dichiara guerra a tale tendenza, attaccandone la separatezza, la convenzionalità, l’autoreferenzialità. Cfr BENEDETTI, Pasolini contro Calvino, pp. 20-22

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[…] Non mi pare che ci siamo ancora resi conto della svolta che si è operata, negli ultimi sette o otto anni, nella letteratura, nell’arte, nelle attività conoscitive più varie e nel nostro stesso atteggiamento verso il mondo. Da una cultura basata sul rapporto e contrasto tra due termini, da una parte la coscienza la volontà il giudizio individuali e dall’altra il mondo oggettivo, stiamo passando o siamo passati a una cultura in cui quel primo termine è sommerso dal mare dell’oggettività, dal flusso ininterrotto di ciò che esiste.21

Motivo propulsore- anche se non l’unico- della polemica in corso è l’affermazione in Francia dei “romanzi della école du regard raccontati attraverso gli oggetti”, ovvero attraverso la tipologia dello sguardo inappartenente e anonimo che finisce per annullare la distanza e il confronto con l’altro. Nella nuova tendenza, dunque, la dialettica tra mondo soggettivo e mondo oggettivo è azzerata, la validità dell’”io” paralizzata dalla registrazione mimetica, dalla reificazione.

La polemica contro la nuova moda dell’identificazione con l’esterno doveva essere una preoccupazione costante in Calvino, se pensiamo che anche nel Cavaliere inesistente, pubblicato un anno prima di questo saggio, è presente tra le righe la stessa tematica. Il riferimento è ad un personaggio del romanzo, il servo Gurdulù ( o Omobò: il suo nome cambia di luogo in luogo, confermandone la totale perdita di soggettività), che crede e finge di essere ciò che vede, dimenticando ogni distinzione tra sé e il mondo.

[…] L’uomo, allo stagno, si buttò sull’acqua giù di pancia, sollevò enormi spruzzi, s’agitò con gesti incomposti, provò ancora un “Quà! Qua!” che finì in un gorgoglio perché stava andando a fondo, riemerse, provò a nuotare, riaffondò.

- Ma è il guardiano delle anatre quello?- chiesero i guerrieri a una contadinotta che se ne veniva con una canna in mano.

- No, le anatre le guardo io, son mie, lui non c’entra, è Gurdulù…-disse la contadinotta […] ogni tanto gli piglia così, le vede, si sbaglia, crede d’esser lui..[…] Il guaio è quando finisce nella rete con i pesci…Un giorno gli è successo mentre s’era messo lui a pescare…Butta in acqua la rete, vede un pesce che è lì lì per entrarci, e s’immedesima tanto di quel pesce che si tuffa in acqua ed entra nella rete lui…22

Nel suo intervento Calvino prosegue indagando sulle cause storiche che hanno portato all’esautorazione del soggetto, nonchè del ruolo intellettuale:

21 CALVINO, Il mare dell’oggettività, p. 9 22 CALVINO, Il cavaliere inesistente, pp. 34-36

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Già appaiono remoti i temi fondamentali del dibattito culturale degli anni da cui prese le mosse il nostro lavoro: diciamo all’ingrosso gli anni della guerra spagnola, della seconda guerra mondiale e del suo dopoguerra. Si discuteva allora se il poeta doveva rinchiudersi nella propria interiorità, difendendola dalle contingenze storiche, oppure partecipare e dar battaglia. Erano entrambi modi del tutto volontari, individuali, aristocratici di concepire il rapporto con il mondo, tanto che ora non ci paiono neppur più così dissimili tra loro, improntati com’erano l’uno e l’altro a un riconoscere, a un patire la ferita della realtà esterna e ad entrare con essa in un rapporto di resistenza passiva o attiva, a opporre ad essa un duro guscio23.

Fino al Dopoguerra, che il poeta partecipasse o meno con la sua opera agli eventi del mondo, l’affermazione del soggetto era dato imprescindibile e comune ad entrambi gli atteggiamenti. Anzi, con le avanguardie della prima metà del Novecento , da Kandinsky a Joyce, la corrente soggettiva sembra prevalere, attraverso l’espressione pura e priva dell’attrito col mondo oggettivo. Poi la tendenza muta, ed è forse l’ambito pittorico il primo a risentire dei grandi cambiamenti in corso:

La pittura di Pollock o di Wols è invece l’identificazione con l’esterno, con la totalità esistenziale indifferenziata dall’io: cosmo, mondo naturale e febbre meccanica della città moderna racchiusi nello stesso segno. Così la spinta che muoveva tutta l’avanguardia del primo quarantennio del secolo ha invertito la sua direzione. Allora era il flusso della soggettività prorompente, -espressionismo, Joyce, surrealismo, - che pareva voler inondare tutto, contestare la cittadinanza dell’uomo in un mondo oggettivo per farlo navigare nel fiume ininterrotto del monologo interiore o dell’automatismo inconscio. Ora è il contrario: l’oggettività che annega l’io; il vulcano da cui dilaga la colata di lava non è più l’animo del poeta, è il ribollente cratere dell’alterità nel quale il poeta si getta.24

Le due tendenze si sono invertite, quindi, ma non è sufficiente opporsi al nuovo flusso dell’oggettività, al mare che tutto sommerge: serve soprattutto “coglierne il perché e il momento di verità e le vie che essa ancora apre a una ripresa dell’intervento attivo dell’uomo”. La principale causa individuata da Calvino all’apertura delle “dighe all’alluvione oggettiva” è la crisi dello spirito rivoluzionario.

Rivoluzionario è chi non accetta il dato naturale e storico e vuole cambiarlo. La resa all’oggettività, fenomeno storico di questo dopoguerra, nasce in un periodo in cui all’uomo viene meno la fiducia nell’indirizzare il corso delle cose, non perché sia reduce da una bruciante sconfitta, ma al contrario perché vede che le cose (la grande politica dei due contrapposti sistemi di forze, lo sviluppo della tecnica e del dominio delle forze naturali) vanno avanti da sole, fanno parte d’un insieme così

23 CALVINO, Il mare dell’oggettività, in “Il Menabò” 2, 1960, p.10 24 Ivi, pp. 10-11

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complesso che lo sforzo più eroico può essere applicato solo al cercar di avere un’idea di come è fatto, al comprenderlo, all’accettarlo25.

Siamo davanti alla drammatica reazione di uno dei più significativi autori della generazione resistenziale nei confronti della crisi della funzione democratica della cultura, maturata nel corso degli anni Cinquanta. L’intellettuale, figura di riferimento per la rinascita culturale e sociale dell’Italia postbellica, viene ora relegato- con la sua persona, il suo ruolo, il suo punto di vista- ai margini di un mondo industriale che isola chi non produce. La rinuncia alla spinta rivoluzionaria è una costante di questi anni, come dimostra anche il riferimento alla “definizione-chiave” di Boris Pasternàk,

[il quale] sostiene nel suo romanzo [ Il dottor Zivago] che la storia non è l’uomo a farla (neanche le migliaia di piccoli uomini di Tolstoj), ma che essa è un farsi, trascendente all’uomo come la natura; natura e storia sono un’unica entità, senza distinzione, un solo flusso solenne e spietato, cui è vano opporsi attivamente26.

Il termine che consente alla letteratura di evitare che il magma (“Oggi si è dato il giro: il punto di vista è quello del magma”) annulli completamente il necessario rapporto tra soggetto e oggetto è per Calvino la coscienza. Un raro esempio attuale di narrazione immersa nel caos magmatico ma insieme segnata dalla coscienza è individuato in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda:

Roma, vischioso calderone di popoli, dialetti, gerghi, lingue scritte, civiltà, sozzure, magnificenze, non è mai stata così totalmente Roma come nel Pasticciaccio di Gadda, dove la coscienza razionalizzatrice e discriminante si sente assorbire come una mosca sui petali di una pianta carnivora. Ma da questo sprofondamento dell’autore e del lettore nel ribollire nella materia narrata nasce un senso di sgomento: e questo sgomento è il punto di partenza di un giudizio, il lettore può in grazia d’esso fare un passo in là, riacquistare il distacco storico, dichiararsi diverso e distinto dalla materia in ebollizione.27

L’intervento di Calvino termina con una proposta per recuperare il protagonismo della cultura: 25 Ivi, p. 11 26 Ivi, p. 11 27 Ivi, p. 14

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Dalla letteratura dell’oggettività alla letteratura della coscienza28: così vorremmo orientare la

nostra lettura d’una ingente zona della produzione creativa d’oggi, ora secondando ora forzando l’intenzione degli autori […] Ma il momento che vorremmo scaturisse dall’uno come dall’altro modo di intendere la realtà, è pur sempre quello della non accettazione della situazione data, dello scatto attivo e cosciente, della volontà di contrasto, della ostinazione senza illusioni29.

Richiamando l’intellettuale alle sue responsabilità etiche, alla sua tradizionale funzione di produttore di valori, Calvino rifiuta la letteratura che si pone come accettazione pura e semplice del naturale, dell’oggettivo e dell’irrazionale. La realtà è per lui conoscibile e trasformabile, riformabile: non si mira certo ad una palingenesi, ma ad una rinnovata fiducia nella cultura e nelle sue ormai limitate ma significative possibilità concrete.

Sulla stessa linea si pone un altro saggio del condirettore, La sfida al labirinto (Menabò n. 5, 1962):, in cui si fa più esplicito e centrale il riferimento alla Neoavanguardia, distinta tra una “linea viscerale”, arresa al labirinto (corrispettivo del “magma” ne Il mare dell’oggettività”), e una “linea razionalista”, che mira invece a disegnare una mappa del labirinto, laddove la “mappa” sta, ancora, per la coscienza. Il labirinto, metafora che connota la letteratura contemporanea, non va rimosso, ma sfidato, come occasione e stimolo per un più complesso orientamento. “Disegnare la mappa” significherà allora recuperare e salvaguardare la funzione gnoseologica e critica della letteratura:

Quel che la letteratura può fare è definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro. È la sfida al labirinto che vogliamo salvare, è una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto.[…]E a chi vorrebbe che in cambio rinunciassimo (e a chi è pronto ad accusarci di rinunciare) alla nostra esigenza di significati storici, di giudizi morali, risponderò che anche di ciò che ora si pretende (e forse ha le sue ragioni per pretendersi) metastorico, quel che conta per noi è la sua incidenza nella storia degli uomini; che anche di ciò che ora si rifiuta (e forse ha le sue ragioni per rifiutarsi) a un giudizio morale, quel che conta per noi è quello che ci insegna.30

]28 Non la pensa così Renato Barilli: “Se ora passiamo appunto a una simile indagine storico-pragmatica, temiamo purtroppo di dover riconoscere che ciò che Calvino chiama coscienza sia in realtà non molto più che un vuoto simulacro, un flatus vocis; mentre invece avverrà di constatare che una autentica razionalità incarnata passa attraverso quelle opere, quelle posizioni in cui egli crede di ravvisare il negativo, la mera opacità e materialità di ciò che altro dalla ragione” in Tre numeri del Menabò in BARILLI, cit., p.270

29 Ivi, p. 14

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Alla lezione moraleggiante di Calvino si contrappone l’intricato saggio estetico Del modo di formare come impegno la realtà di Umberto Eco, pubblicato, come La sfida al labirinto, nel quinto fascicolo del “Menabò”. Il discorso del semiologo parte da lontano, dal fenomeno dell’alienazione come fattore ineliminabile nella vita dell’uomo moderno, accantonando, se non negando, la nozione marxiana del termine e reintegrando quella hegeliana, dove essa equivale piuttosto al significato- anche calviniano- di “oggettivazione”. In questo senso, il concetto di alienazione

[…] può essere indicato […] come una struttura dell’esistenza, o se si vuole come il problema che si pone al soggetto non appena esso produce un oggetto e gli si rivolge in un atto di intenzione per usarlo o anche semplicemente considerarlo. E di questo tipo di alienazione- quella conseguente qualsiasi atto di oggettivazione- vorremmo in questa sede occuparci, persuasi che tale problema si distingua nei termini suoi propri, e costituisca il problema di qualsiasi essere umano col mondo delle cose che lo circonda31..

L’alienazione-oggettivazione diventa quindi un fenomeno irrimediabile, permanente (perché concerne qualsiasi rapporto del soggetto col mondo esterno. “Parafrasando Hegel, l’uomo non può rimanere chiuso in se stesso nel tempio della propria interiorità: deve esteriorizzarsi nell’opera, e così facendo si aliena ad essa”32

), ma al tempo stesso non tragico, anzi pressoché naturale. Dato il presupposto di un’identificazione tra oggettivazione e alienazione, Eco passa quindi ad analizzare le implicazioni culturali di questa situazione “di fatto”:

In quali termini si pone una problematica dell’alienazione sul piano delle forme dell’arte o della pseudo arte? […] Si può anzitutto parlare di una alienazione interna agli stessi sistemi formali […] Facciamo un esempio, l’invenzione della rima. Con l’invenzione della rima si pongono dei moduli e delle convenzioni stilistiche, non per autolesionismo, ma perché si riconosce che solo la disciplina stimola l’invenzione e perché si individua una forma di organizzazione dei suoni che appare più gradevole all’orecchio. […] Tuttavia dal momento che è posta, la convenzione ci aliena ad essa: il verso che segue ci è suggerito dalla natura del verso che ha preceduto, secondo le leggi della rima. […] Esempio tipico di alienazione formale è proprio quello del paroliere di canzonette, su cui si scherza dicendo che, per riflesso condizionato, quando scrive “cuor” deve scrivere immediatamente “amor” o, al massimo, “dolor”33

.

L’universo della rima e l’universo tonale (l’altro esempio di tradizione e alienazione portato da Eco, non poetico, ma musicale), però, oltre ad essere alienanti,

31

ECO, Del modo di formare come impegno sulla realtà, in “Il Menabò” 5, 1962, p.203

32 Ivi, p.205 33 Ivi, p.214

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ribadiscono un’idea di ordine e tranquillità che non corrisponde al mondo in cui l’uomo si trova a vivere, un mondo in crisi.

[…]È in crisi perché all’ordine delle parole non corrisponde più un ordine delle cose (le parole si articolano ancora secondo l’ordine tradizionale mentre la scienza ci incita a vedere le cose disposte secondo altri ordini oppure addirittura secondo disordine e discontinuità) […] Dunque il mondo non è affatto come vorrebbe riprodurlo il sistema di linguaggio che giustamente l’artista di “avanguardia” rifiuta, ma si trova proprio scisso e dislogato. […] l’artista che protesta sulle forme ha compiuto una duplice operazione: ha rifiutato un sistema di forme, e tuttavia non lo ha annullato nel suo rifiuto, ma ha agito al di dentro di esso […] e quindi per sottrarsi a questo sistema e modificarlo ha tuttavia accettato di alienarsi parzialmente in esso, di accettarne le tendenze interne. […] Quindi di nuovo egli si è

compromesso.34.

Siamo finalmente giunti alla questione di partenza: diversamente da Calvino, secondo Eco per capire l’oggetto bisogna prima compromettersi, laddove per “compromissione” egli intende l’indistinzione tra oggetto e modo di scrittura, nell’assunzione del tema in “forma”:

[…] il primo discorso che l’arte fa, lo fa attraverso il modo di formare […] Col che ci stiamo avvicinando al nodo del problema: non si può giudicare o descrivere una situazione nei termini di un linguaggio che non sia espresso da questa situazione, perché il linguaggio rispecchia un insieme di rapporti e pone un sistema di implicazioni successive35.

L’esigenza di un adeguato rapporto tra linguaggio e realtà – e in particolare di una rifondazione del primo per poter trattare della novella tematica industriale- era già stata affermata da Vittorini un anno prima nel suo saggio Letteratura e Industria, ma la posizione di Eco si situa ora ai limiti di un formalismo assoluto:

Il vero contenuto dell’opera diventa il suo modo di vedere il mondo e di giudicarlo, risolto in

modo di formare, e a questo livello andrà condotto il discorso sui rapporti tra l’arte e il proprio mondo36.

Non saranno dunque la coscienza o la “mappa del labirinto” a ridurre l’oggettività ad un universo umano, ma l’assunzione dello stesso magma nella forma del discorso estetico. Alla tendenza di una letteratura che storicizza ed emette giudizi ( la “letteratura della coscienza” tanto rimpianta da Calvino), Eco oppone “una letteratura

34

Ivi, pp 217-218

35 Ivi, pp 220-222 36 Ivi, p.222

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che esprime nelle sue forme aperte e indeterminate gli universi vertiginosi e ipotetici azzardati dall’immaginazione scientifica”. Una forma aperta è dunque l’unica possibile per un contenuto indeterminato e magmatico, nel quale è inutile tentare di scovare risposte ultime che sarebbero soltanto “mistificatrici”:

Se nella pittura informale come nella poesia, nel cinema come nel teatro osserviamo l’affermarsi di opere aperte, dalla struttura ambigua, sottoposta a una indeterminazione degli esiti, questo avviene perché le forme, in questo modo, adeguano tutta una visione dell’universo fisico e dei rapporti psicologici proposta dalle discipline scientifiche contemporanee, e avverte di non potere parlare di questo mondo nei termini formali coi quali si poteva definire il Cosmo Ordinato che non è più nostro.37

La chiusura di Eco decreta l’inattualità e soprattutto la nocività di un arroccamento ai valori della vecchia “letteratura della coscienza”, valori superati e incapaci di dare ordine ad un universo non più ordinabile.

[…] l’operazione dell’arte che tenta di conferire una forma a ciò che può apparire disordine, informe, dissociazione, mancanza di ogni rapporto, è ancora l’esercizio di una ragione che tenta di ridurre a chiarezza discorsiva le cose; e quando il suo discorso pare oscuro è perché le cose stesse, e il nostro rapporto con esse, è ancora molto oscuro. Così che sarebbe molto azzardato pretendere di definirle dal podio incontaminato dell’oratoria: questo diventerebbe un modo di eludere la realtà, per lasciarla stare così come è. Non sarebbe questa l’ultima e più compiuta figura dell’alienazione?38

Il dibattito tra Calvino ed Eco, che suscita reazioni di terzi anche nel sesto fascicolo de “Il Menabò”, non è, come potrebbe sembrare, un confronto pignolo e astratto per e tra specialisti. Tutt’altro: centro della discussione è la ridefinizione dei ruoli e dei modi della letteratura degli anni Sessanta, su cui si dividono le posizioni formaliste ed avanguardistiche del noto semiologo39, volto ad identificare- e limitare- l’impegno dell’intellettuale sulla realtà al modo di formare, e quella “vecchia anima razional-moralistica40”di Calvino, ancora pronto a sostenere che la letteratura sia “l’intelligenza del mondo”. Sintesi e superamento delle due controparti può essere considerato, come vedremo, l’atteggiamento di Elio Vittorini, di razionale apertura alla

37 Ivi, p.220 38 Ivi,p.236 39

Così su Eco G.Scalia: “Non si tratta di un difensore di ufficio del neoavanguardismo […] Si tratta di un intelligente descrittore di una letteratura, di un’arte, che c’è, aperta, vigente, in ricerca: in servizio. Eco, esplicitamente, non vuole proporre un’estetica; non pensa di battersi per una poetica; non fa il moralista “reazionario” o il disperato del marxismo a venire (con la sua letteratura a venire). È l’operatore, e l’utente, della presente vita della letteratura: cioè, di tutte quelle forme che sono modi di formare l’informe.” in Apertura e progetto in SCALIA, cit, pp 197-198

40 La definizione, particolarmente felice, è di Angelo Guglielmi, che interviene sull’argomento nel sesto numero con il

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nuova realtà tecnologica, ma anche di costante attenzione al tradizionale risvolto etico e gnoseologico della letteratura.

Sul saggio “Industria e letteratura”di Vittorini

La letteratura industriale trova la sua piena legittimazione come genere –insieme a numerosi, vittoriniani altolà di carattere soprattutto formale- nel famoso quarto numero de “Il Menabò”, uscito nel 1961. Già da qualche anno le trasformazioni sociali introdotte dal miracolo economico avevano raggiunto una dimensione romanzesca, a partire da Tempi stretti di Ottiero Ottieri nel 1957, a Donnarumma all’assalto (dello stesso autore) e – affine nel tema, ma di ambientazione cronologica prebellica- Il calzolaio di Vigevano di Lucio Mastronardi nel 195941; forte restava, tuttavia, l’ipoteca neorealista esercitata su questi testi.

“Il Menabò”, dimostratosi fin dai primi tre numeri vetrina disponibile ad ospitare tendenze letterarie vecchie (con un po’ di insofferenza da parte di Vittorini) e soprattutto nuove, inaugura, nella persona del suo direttore, una tematica attuale, impegnata, e almeno nelle intenzioni, innovativa. Per dirla con le parole di Renato Barilli -e non saprei trovarne di più adatte- “Vittorini conferma anche in tale occasione quella sua prerogativa, già vivamente illustrata, ai tempi del Politecnico, di stare sempre qualche spanna più innanzi rispetto a quanti altri si muovono nel fronte della cultura cosiddetta “impegnata”, e di sapersi liberare con una generosa scrollata dagli schemi fittizi, per portarsi in uno spazio di aperta e spregiudicata circolazione delle idee”42

. L’”editoriale” di Vittorini, che ribadisce sin dall’inizio il valore della letteratura come “filtro di coscienza e di giudizio” della vita, si pone in modo critico e tutt’altro che soddisfatto verso l’apporto di innovazione dei componimenti presenti nello stesso numero, accusati di non saper carpire letterariamente il nuovo mondo industriale:

I testi qui raccolti e, dietro ad essi, le varie tendenze non soltanto italiane né soltanto europee cui essi appartengono, non si può dire però che derivino una vera e propria “novità” letteraria da quanto pur mostrano di sapere delle “cose nuove” in questione.

41 Pubblicato sul primo numero de “Il Menabò di letteratura” nello stesso 1959 42 BARILLI, Tre numeri del Menabò in La barriera del naturalismo, cit., p.274

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I testi poetici presentano sì un atteggiamento che, per il fatto stesso d’esser lirico, è globale, inclusivo di tutto dell’uomo, nei riguardi del “nuovo mondo” […] ma lo sforzo loro si manifesta ancora all’interno di un’esperienza letteraria già da tempo accertata come non altro che un ennesimo dei tanti sforzi interlocutori di questa. E i narrativi, lungi dal trarre un qualunque vantaggio di novità di sguardo ( e di giudizio) dalla nuova materia che trattano, sembrano invece trovarsene talmente impacciati […] riducendosi con ciò a darne degli squarci pateticamente (o pittorescamente) descrittivi, che risultano di sostanza naturalistica e quindi d’un significato meno attuale di altri testi letterari che magari ignorano tutto della fabbrica, del lavoro specializzato, delle strutture aziendali , ecc. ecc. ma ne sono profondamente influenzati per riflesso dei loro effetti sulla condizione dell’uomo in generale43

.

La rappresentazione della nuova realtà industriale non può ridursi, per Vittorini, al mero aggiornamento tematico (in questo caso la scelta della fabbrica come oggetto narrativo), ma deve piuttosto comportare la ricerca di un nuovo linguaggio, che superi i moduli naturalistici della cultura letteraria pre-industriale. In effetti, i romanzi e i racconti di ambiente operaio usciti alla fine degli anni Cinquanta- scritti “in un tempo in cui, si noti, fabbriche e tecniche e operai non avevano ancora determinato alcuna variazione di ritmi o di visuali nel mondo e anzi restavano soggetti al vecchio ordine contadino-artigiano44”- manifestano una quasi esclusiva attenzione per i contenuti, a scapito dei problemi della forma e del linguaggio. Così Ottiero Ottieri riconoscerà in seguito in una delle conversazioni critiche con Ferdinando Camon:

E’ nel ’57 che presi a far concorrenza alla sociologia ed alla economia politica […] Avevo scoperto Marx. La conseguenza fu che non vivevo affatto i problemi della forma e del linguaggio, se non in modo inconsapevole. Ne uscì Tempi stretti, libro sommamente industriale di tipo “naturalistico”. In parole povere, ero talmente preso, travolto, proiettato sui nuovi contenuti che affrontavo, sulla loro oggettività, che in quel libro, notevolmente volontaristico, il che cosa dire assumeva una prevalenza assoluta sul come

dire: avevo intravisto sì, e dolorosamente, i problemi del come, ma non li percepivo con coscienza

culturale e stilistica. Pretendevo di essere un fedele interprete narrante, uno scopritore ardito di una realtà sociale, prepotente, sacra, vera. Il risultato fu un libro per me faticosissimo, lavoratissimo, e scritto con i piedi45.

Le prime prove letterarie direttamente legate ai temi della fabbrica e del proletariato risalgono infatti al 1957 (anno di Tempi stretti dello stesso Ottieri)- 1958. Sono anni di crisi, di inquietudini per l’emergere di uno stato d’animo complesso e contraddittorio negli italiani: la percezione della Resistenza come “rivoluzione rallentata

43

VITTORINI, Industria e letteratura in “Menabò” n.4, pp. 13-14

44 Ivi, p.14

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e rientrata”46

, il dopoguerra come periodo di involuzione politica e di accondiscendenza verso le istanze ex fasciste e le loro propaggini, il disorientamento del cittadino. Viene cioè a maturazione la crisi di quella visione unitaria della società italiana e dei suoi problemi che aveva costituito una spinta propulsiva per la produzione letteraria, artistica e cinematografica del Neorealismo. E tuttavia persiste ancora quel mito della spontaneità, dell’autenticità delle cose “direttamente parlanti” che era alla base dei limiti neorealistici nell’impostazione del rapporto tra realtà e letteratura, e che adesso, nel nascente genere industriale, si traduce sotto il profilo linguistico nell’uso del gergo e del dialetto (come mimesi e registrazione del parlato), o nell’adozione di un lessico tecnico, quasi da manuale da officina, nelle minuziose descrizioni delle lavorazioni.

Vittorini prosegue:

Certo fu con la voga della “fetta di vita” che la letteratura cominciò a parlare di fabbriche e operai […] Quest’aspetto magari efferato ma in sostanza marginale e non nuovo sotto cui si presentavano fabbriche, tecniche e operai negli ultimi decenni dell’Ottocento si trovò ad apparire tipico e definitivo nei termini d’una rappresentazione che, dietro a Zola in Europa e a Frank Norris in America, riduceva lo specifico delle cose ad elementi di soggetto, d’intreccio, di particolarità psicologica o pittoresca e insomma d’iconografia […] Era la materia a immobilizzare il modo di trattarla o era il modo di trattarla a immobilizzare la materia?47

La prima letteratura industriale, quella europea ottocentesca, operava per stereotipi e situazioni prestabilite, coniugando mimesi naturalistica e pathos populista, tipiche emanazioni di penne borghesi. È soprattutto Calvino a notare il forte iato tra oggetto e soggetto che la tradizione letteraria trascina con sé fino ai tempi più recenti, la deriva buonista e paternalistica come esito scontato di una cultura sui subalterni prodotta ai piani alti della borghesia francese:

La letteratura che si propone di rappresentare criticamente i primi aspetti dell’industrialismo nasce da questa couche borghese così compromessa, e ne eredita molti atteggiamenti. La condanna estetico-ideologica che pesa oggi su di essa è stata confermata si può dire unanimemente dai giurati delle più diverse tendenze critiche. Per limitarci al romanzo francese nel periodo compreso tra George Sand e Zola, si salvano i due meno compromessi con l’ideologia umanitaria del tempo, Stendhal e Balzac […] mentre cade Victor Hugo. E cade Zola che si documenta sulle miniere e sulle halles per ambientarvi le scene a effetto della sua immaginazione ancora vittorughiana. Insomma, essere insieme progressista e poeta è sempre più difficile. Il fatto è che la discussione “all’interno della sinistra”- cominciata già ai

46 Cfr FERRETTI, Industria e letteratura, p.926 47 VITTORINI, Letteratura e industria, p.14

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tempi della Rivoluzione francese- occupa d’ora in avanti tutto l’orizzonte della cultura ideologica e non solo ideologica. E che la linea romantico-umanitario-positivista dimostra di non reggere al di là della prima fase dell’industrializzazione..48

Attraverso l’esempio francese la tendenza passa in Italia, sebbene nella seconda metà dell’Ottocento si possa parlare ancora poco di “proletariato industriale”. Il modo con cui gli scrittori nostrani (soprattutto Paolo Valera e Giovanni Cena, oltre ad alcuni veristi) guardano alla questione sociale che scaturisce dall’emergere di questa nuova classe (non tanto industriale, quanto soprattutto contadina) oscilla tra l’arcadia e il paternalismo: da una parte la dura realtà rurale viene ingentilita con i colori dell’idillio, dall’altra sono esaltate le positive qualità popolari (la laboriosità, l’onestà, la dignità). L’edulcorazione e la negazione di ogni reale antagonismo di classe , attraverso il ricorso ai miti del bon peuple e del “buon selvaggio” hanno come primo obiettivo la conservazione dell’ordine sociale esistente e l’esorcizzazione della forza del proletariato, che la borghesia sente farsi sempre più minacciosa. Secondo la tesi centrale di Scrittori e popolo di Asor Rosa, infatti, tutta la letteratura otto-novecentesca, realista e neorealista, è viziata da un difetto di populismo, ovvero da un atteggiamento sì illuminato e progressista dell’intellettuale borghese nei confronti degli strati subalterni, ma accompagnato dalla negazione del riconoscimento –forse per inconscio timore- della classe operaia, della sua autonomia e della sua funzione dirigente nel processo storico.

Con l’attribuzione, da parte di Vittorini, di un significato negativo, reazionario, attardato alle parole “naturalismo”, “realismo”, “neorealismo”, si sancisce ora la rottura con le impostazioni dominanti dieci o quindici anni prima, quando “neorealismo” significava volontà trasformatrice e progressiva, volontà di contatto con il mondo, con la storia, con il popolo.

Ma tradizione e polemica non bastano a spiegare, in una epoca che ha conosciuto molte rotture, come chiunque racconti di fabbriche e aziende lo faccia sempre entro dei limiti letterariamente “preindustriali”. La questione coinvolge l’interesse stesso, cioè il cumulo di motivi psicologico-culturali per il quale accade che uno scrittore si metta a raccontare di fabbriche e aziende. A che cosa è interessato, in effetti, lo scrittore che ne racconta? Possiamo dire ch’egli sia interessato alla “cosa” industriale in sé e per sé o al mutamento a livello industriale che la “cosa” industriale comporta in ogni altra specie di cosa?49

48 CALVINO, Sfida al labirinto, in “Il Menabò”.5, p.89 49 VITTORINI, Letteratura e industria, pp 15-16

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I “limiti preindustriali” che gravano sui romanzi di attardato impianto naturalistico riguardano sia il contenuto (poiché sono dominati da “una radicale sfiducia umanistica verso le cose nuove”) sia –e soprattutto- la forma, il linguaggio.

Certo, egli cita di continuo oggetti che sono della realtà industriale. Oggetti, gesti, parole di essa…E tuttavia nessuno degli oggetti o gesti che cita ha mai un significato d’un ordine finalmente diverso da quello degli oggetti “naturali” […] Oggetti e gesti nuovi vengono semplicemente annessi al vecchio ordine “naturale” con significati desunti dagli oggetti e gesti “naturali” che li rendono ausiliari di questi senza renderli anche capaci di sostituirsi a questi […] Lo scrittore è di fabbriche e aziende che racconta ma non ha interesse agli oggetti nuovi e gesti nuovi che costituiscono la nuova realtà attraverso gli sviluppi ultimi delle fabbriche e aziende. L’interesse che lo muove si rivolge in fondo a ciò che succede della vecchia realtà “naturale” ( e degli oggetti e gesti “naturali”) nelle fabbriche e aziende50

Al centro della polemica di Vittorini si situa l’esigenza di non ignorare il mutamento, ma al contrario di dirigerlo e di ridisegnare- lo si evince tra le righe- un ruolo dell’intellettuale che sia congruente e compatibile con la nuova realtà tecnologico-industriale. Ma sembra difficile per questi scrittori- compresi quelli pubblicati nello stesso quarto numero de “Il Menabò”, vedere ed esprimere narrativamente la condizione operaia in una prospettiva che vada al di là di un momento di crisi e che investa tutti quei valori che il proletariato porta con sé.

Le cose nuove è in via subordinata che entrano poi nel discorso: in quanto l’ideologia con la quale ci si è approssimativamente identificati è un’ideologia non immobile che si occupa anche delle cose nuove e le studia. L’ideologia dà loro importanza, e lo scrittore si sente impegnato dall’ideologia a dar loro a sua volta importanza. Ma il rapporto ch’egli così viene ad avere con le cose nuove è mediato dall’ideologia e risulta chiaramente, punto per punto, ch’è tale: mediato, sforzato, senza radici in esse, e senza neanche consapevolezza della novità di esse, senza mai tensione per esse, senza eccitazione su di esse, senza adesione ad esse51.

Il rapporto con le “cose nuove” –e il proletariato è una di queste- sarà allora sempre mediato, deformato dai “vecchi nomi e dalle “trascrizioni simboliche” dell’ideologia. L’ideologia, appunto, la vecchia nemica dello scrittore siciliano, è qui definita come mediazione mistificante e come impaccio alla conoscenza e all’appropriazione del “mondo nuovo”. La sua proposta “scientifica” di apertura alla realtà industriale nasce soprattutto come reazione agli errori e alle frodi di cui l’ideologismo degli anni Cinquanta si era reso colpevole, con la sua opera di

50 Ivi, p.16 51 Ivi, pp. 16-17

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occultamento e di rispecchiamento distorto della realtà. Il 1956 aveva segnato un profondo iato con la precedente fiducia degli intellettuali nell’ideologia comunista che nessuna apertura, nessuna democratizzazione avrebbe più colmato.

Secondo Gian Carlo Ferretti52, la crisi dell’intellettuale di sinistra deluso e confuso si riflette nell’assenza di unità stilistica e di pregnanza espressiva di queste opere. Privo di una visione dialettica della realtà e di un preciso orientamento ideale, lo scrittore “industriale” ha un approccio ansioso e inquieto con i problemi della società italiana, e la sua opera, lungi da acquisire lo status di romanzo, si risolve spesso in un’indagine saggistica frammentaria, provvisoria, circoscritta ad un lembo di realtà. Non è un caso che questa nuova letteratura sia rappresentata in buona parte da scrittori-operai (i meno conosciuti) e scrittori-sociologi (Ottieri e Volponi soprattutto), che narrano le loro esperienze di dirigenti, addetti al personale o alla propaganda in fabbrica. Ed è proprio la visione “dall’alto”, il filtro intellettuale che si frappone tra la realtà e la pagina scritta, l’estrazione borghese e la posizione dirigenziale di questi autori, a costituire, nonostante l’ammirevole tentativo di astrazione dalla loro condizione, il vero e più pesante limite di questo sottogenere “industriale”.

E certo è innegabile che la letteratura, in confronto alla trasformazione grandiosa e terribile che avviene nella realtà intorno a noi e in ogni nostro rapporto con essa, risulta nel suo complesso storicamente più arretrata non solo della sociologia neomarxista […] ma anche di attività artistiche come la pittura o come la musica […]

L’attenzione del direttore è focalizzata sul ritardo della letteratura nei confronti del “salto epistemologico”53

indotto dalla nuova realtà. L’antinomia tra natura e industria apre lo spazio all’ideologia della tecnica e della sua capacità autonoma di produrre progresso sociale, convinzione che permea tutti gli interventi di Vittorini su “Il Menabò”. La nozione platonica di natura viene quindi demistificata, perché opera come elemento ritardatore per una completa decifrazione della realtà industriale:

Il mondo industriale, che pur ha sostituito per mano dell’uomo quello “naturale”, è ancora un mondo che non possediamo e ci possiede esattamente come il “naturale”. Esso ha ereditato da questo il vecchio potere di determinarci fin dentro alla nostra capacità di trarne dei vantaggi, e deve quindi subire una trasformazione ulteriore che lo privi appunto del potere di condizionare le nostre scelte e determinarci. Ora una letteratura che fosse pienamente all’altezza della situazione in cui l’uomo si trova di fronte al mondo industriale, conterrebbe tra l’altro l’istanza di questo passaggio ulteriore, e non

52 FERRETTI, Industria e letteratura, op. cit., p 931

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ideologicamente, ma nelle cose per il fatto stesso che la rappresentazione comporta sempre (appena sia metafora […] ) un minimo di progettazione […]

Niente della letteratura contiene oggi un’istanza simile di fronte al mondo in cui viviamo.54

Vittorini coglie l’incapacità degli scrittori di possedere la nuova realtà industriale e il sostanziale ritardo della letteratura contemporanea di fronte alla civiltà moderna- limiti, questi, di una narrativa ancora di stampo neorealistico, incapace di andare al di là della “fetta di vita”.

In questo arroccamento al mondo e alla rappresentazione “naturali” diventa fondamentale il ricorso alla metafora, come centro della ricerca letteraria e dell’invenzione linguistica, nell’esigenza di superare i limiti del lessico cristallizzato e del parlato usuale. La metafora, via di fuga dall’appiattimento e dal mimetismo del linguaggio neorealistico, riconosce all’arte e alla letteratura una funzione informativa-conoscitiva di scoperta del nuovo e di rivelazione della verità delle cose. Già nel saggio Parlato e metafora55 del primo numero, Vittorini conferiva a questa figura retorica la prerogativa di realizzare nessi verbali capaci di schiudere nuovi orizzonti e di preludere ad una nuova cultura interdisciplinare, tesa al superamento del moralismo e dell’operazione mimetica. Ora, per il direttore de “Il Menabò”, la narrativa industriale che resta al di fuori delle “possibilità progettatrici della metafora” rimane circoscritta al mondo della cronaca e non può cogliere la sostanza dei problemi creati dallo sviluppo.

Quasi sorprendente è poi l’adesione immediata di Vittorini, carica di entusiasmo scientifico, al mito della rivoluzione industriale come “nuovo grado, nuovo livello dell’insieme della realtà umana”56

, come portatrice di una nuova visione globale del mondo, di una nuova letteratura, di un nuovo linguaggio. Egli contrappone l’industria alla natura, intesa nel senso positivistico-ottocentesco, per arrivare a parlare della letteratura di argomento industriale come qualcosa che prescinda nettamente dalla “realtà preindustriale”, dalla vecchia civiltà e cultura e che abbia come presupposto la nuova totalità che lo sviluppo capitalistico porta con sé.

[…] La narrativa che concentra sul piano del linguaggio tutt’intero il peso delle proprie responsabilità verso le cose risulta a sua volta, oggi, più vicina ad assumere un significato storicamente

54

VITTORINI, Letteratura e industria, pp. 17-18

55

“Ma noi siamo piuttosto i posseduti che i possessori di un linguaggio se non raggiungiamo la possibilità di unire “liberamente” una parola a non importa quali altre parole, e insomma di “inventare” a nostra scelta i rapporti tra le parole, pur realizzando, si capisce, il fatto della comunicazione (e dei suoi fini)” e ancora “Perché solo la metafora puù precisare l’informe e l’approssimativo. La forza della metafora è appunto una forza di precisazione.” In VITTORINI,

Parlato e metafora, op. cit.

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attivo di ogni narrativa che abbordi le cose nella genericità d’un loro presunto contenuto prelinguistico trattandone sotto specie di temi, di questioni, ecc. ecc. Ad esempio i prodotti della cosiddetta “école du regard”, il cui contenuto sembra ignorare che esistano delle fabbriche, dei tecnici e degli operai, sono in effetti molto più a livello industriale, per il nuovo rapporto con la realtà che si configura nel loro linguaggio, di tutta la letteratura cosiddetta d’industria che prende le fabbriche per argomento. Ciò che ha di vecchio rispetto all’industria una letteratura come quella del “regard” (o qualunque altra di indirizzo equivalente) è l’atteggiamento disperato (e quindi incapace di progettazione) che si protrae in essa, per vizio retorico, dalle varie avanguardie del principio del secolo; mentre la vecchiaia (rispetto all’industria) della letteratura che prende le fabbriche per argomento è oggi non solo del suo modo di atteggiarsi, o della sua retorica, ma anche del suo modo di vedere, del suo modo di osservare e del suo modo di concertare quanto vede e osserva, e insomma del suo modo di essere.57

Porre la fabbrica come argomento di un romanzo non è un elemento sufficiente per poter parlare di “letteratura industriale”, né il contenutismo da solo può sostenere il peso del cambiamento. Ne deriva allora un’implicita liquidazione di tutta la produzione artistica passata e l’indicazione di una prospettiva neoavanguardistica (in senso lato), quella dell’école du regard58

. La cosiddetta “scuola dello sguardo” riunisce le opere di alcuni scrittori francesi degli anni Cinquanta (Alain Robbe-Grillet, Michel Butor, Nathalie Sarraute) che teorizzano l’estrema oggettivazione del racconto. L’autore, allora –ed è su questo punto che Calvino mostrava il suo sdegno verso questa nuova tendenza ne Il mare dell’oggettività- deve sospendere il giudizio, limitandosi a rappresentare con la massima esattezza e in un linguaggio spoglio i fenomeni che accadono, come potrebbe coglierli uno strumento scientifico di osservazione. Ma la nuda registrazione dei fatti e la rinuncia all’interpretazione esprimono in fondo l’impossibilità dell’uomo di appropriarsi di una realtà che gli è presente solo come estraneità e alienazione.

Tuttavia anche la prospettiva oggettivistica sarebbe “vecchia” rispetto all’industria (perché incapace di progettazione): Vittorini pensa piuttosto ad una letteratura che sia sì “compenetrata della verità industriale”, ma che operi in modo di far subire al mondo industriale una trasformazione “che lo privi del potere di condizionare le nostre scelte e di determinarci”; una letteratura, insomma, che non sia posseduta.

Ottieri che amerebbe, con ambizione legittima, poter trattare della vita di fabbrica e insieme sapere scrivere a livello industriale sembra attribuire la difficoltà di riuscirvi (vedi in questo “Menabò” il primo paragrafo del suo Taccuino industriale) all’esperienza difettosa e superficiale che lo scrittore si

57 VITTORINI, Letteratura e industria, pp 18-19

58 “[…]le opere provenienti da quel clima di lavoro sembrano rispondere in modo soddisfacente e adeguato al compito

di rappresentare, non diremo la civiltà industriale, essendo questo un termine troppo aperto a possibilità di equivoci, bensì, più in generale, la realtà antropologica e sociale dei nostri giorni” in BARILLI, La barriera del naturalismo, op. cit., p.278

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