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Introduzione Il presente lavoro nasce da un interesse personale per la traduzione audiovisiva che, insieme ad una passione per la serie televisiva Aquí no hay quien viva

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Academic year: 2021

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Introduzione

Il presente lavoro nasce da un interesse personale per la traduzione audiovisiva che, insieme ad una passione per la serie televisiva Aquí no hay quien viva, mi ha fornito l’idea per incentrare la mia tesi sulla traduzione di un episodio di questa serie, e poter realizzare, poi, un’analisi linguistica sulle peculiarità del registro colloquiale spagnolo.

Circa un anno fa, ho iniziato a pensare a qualcosa di originale, e, sapendo che avrei dovuto tradurre un testo dall’inglese o dallo spagnolo, il primo passo è stato quello di scegliere la lingua straniera che sarebbe stata la protagonista del mio lavoro di tesi. Il passo successivo è stato quasi immediato, poiché sapevo di voler intraprendere un lavoro di traduzione di natura audiovisiva, e Aquí no hay quien viva è stata sempre un po’ presente nel mio tempo libero. Ho visto per la prima volta un episodio di questa serie durante una lezione di lettorato spagnolo del mio corso di laurea triennale, all’Università di Catania, e da subito ha attirato il mio interesse.

La serie, infatti, è molto divertente, fortemente intrisa di ironia, humor, e soprattutto elementi tipici dell’oralità dello spagnolo colloquiale. Un motivo in più per diventare oggetto di ricerca per la mia tesi.

Tuttavia, non è stato un lavoro semplice, fin dall’inizio. Per poter tradurre un testo straniero, infatti, bisogna averlo a disposizione in forma scritta. Trattandosi di un episodio di una serie televisiva, ciò che avevo a disposizione erano soltanto i video degli episodi. Dopo aver fatto alcune ricerche, e non trovando, sul web, un archivio che contenesse i copioni delle puntate delle cinque stagioni di questa serie televisiva, ho deciso che avrei dovuto trascrivere io i dialoghi dell’episodio che avrei scelto.

Ho scelto, quindi, un episodio dell’ultima stagione, in modo che fosse il più recente possibile, e che contenesse stimoli interessanti su cui poter impostare una riflessione linguistica e traduttologia sul registro colloquiale.

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Il lavoro di trascrizione non è stato facile, a volte non riuscivo a capire perfettamente le espressioni colloquiali che i personaggi pronunciavano, o per la velocità degli eloqui, o per le peculiarità degli accenti degli attori. Mi sono consultata, a riguardo, con alcuni amici spagnoli, per poter avere la certezza di una trascrizione fedele, da cui avrebbe potuto prendere vita una buona traduzione.

La tesi è divisa in due parti: la prima parte, che si estende per quattro capitoli, è dedicata all’introduzione della traduzione audiovisiva, agli studi finora rivolti a questa disciplina all’interno dei Translation Studies, con la trattazione dei principali approcci e teorie traduttive ad essa collegati. Segue poi un’analisi degli aspetti pragmatici dell’interazione comunicativa, con il tentativo di fornire una definizione del registro colloquiale, e infine un’introduzione della serie televisiva Aquí no hay quien viva e dei personaggi presenti in questo episodio, sottolineando il ruolo svolto dal linguaggio colloquiale che è loro peculiare, nell’ambito di questo lavoro.

La seconda parte, l’ultimo capitolo, è quella relativa al commento linguistico-traduttologico del copione dell’episodio che ho trascritto, in cui ho fornito spiegazioni delle mie scelte traduttive operate per i casi più rilevanti presenti nel testo d’origine. Il commento è stato sviluppato secondo un’analisi per livelli linguistici: livello fonetico, livello morfo-sintattico e livello lessico-semantico.

Il livello fonetico prende in esame alcuni esempi in cui è possibile rilevare le caratteristiche principali del parlato colloquiale per non incorrere in errori di traduzione, dovuti alla diversa pronuncia e intonazione dei parlanti.

Il livello morfo-sintattico risulta essere tra quelli più complessi. Viene fatto un elenco di alcuni marcatori discorsivi che compaiono nei dialoghi analizzati, con la loro rispettiva traduzione, fornita in base alla funzione e al contesto situazionale. Oltre alle congiunzioni, vengono presi in esame i vocativi con base nominale e verbale, e le interiezioni. Di grande rilevanza è il ruolo dei suffissi nel linguaggio di ogni giorno, utilizzati come strategie di intensificazione e attenuazione. Non meno importante è la funzione che svolgono i deittici nel corso di una conversazione, e le perifrasi verbali, e attraverso alcuni esempi che compaiono nel

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testo, vengono esposte le difficoltà che il traduttore incontra per la loro traduzione.

Per quanto riguarda l’ultimo livello, il livello lessico-semantico, risultano evidenti le difficoltà che il traduttore incontra per l’assenza di corrispondenza tra il repertorio fraseologico delle diverse lingue. In più, tenendo presente che il registro colloquiale ha un lessico tutto suo, il compito risulta ancora più difficile. Vengono giustificate le scelte traduttive di alcuni casi esaminati nel nostro copione, riguardanti le locuzioni tipiche dell’argot, i riferimenti culturali, e il turpiloquio che pervade la conversazione spagnola di ogni giorno. Ciò che viene esaltata è la grande capacità creativa che il traduttore deve avere per poter rendere fruibile il testo di origine a un pubblico di destinazione, senza che questo avverta un senso di straniamento derivante da scelte traduttive che amplifichino la distanza tra le due culture.

Per questo lavoro di tesi, risultano di fondamentale importanza sia un’analisi di tipo linguistico che culturale. Molte espressioni, infatti, non sono presenti in nessun dizionario, poiché il linguaggio colloquiale ha la caratteristica di creare parole nuove, spesso senza regole precise. Dopo un primo lavoro di trascrizione, ho dedicato molto tempo alla lettura e all’interpretazione del testo spagnolo, per poter iniziare il lavoro vero e proprio di traduzione. Dopo la stesura di una prima traduzione ho apportato alcune modifiche, in seguito, anche grazie all’aiuto che mi ha fornito l’elaborazione del commento, da cui ho potuto condurre una riflessione linguistico-pragmatica che ha contribuito a generare in me una maggiore consapevolezza degli strumenti e delle strategie da utilizzare in merito a numerosi casi di traduzione.

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1. LA TRADUZIONE AUDIOVISIVA

1.1 Introduzione

La rapida diffusione della comunicazione di massa e di nuove e sofisticate tecnologie ha fatto sì che la traduzione per lo schermo diventasse oggetto di studio e di riflessione sia teorica che pratica, ritagliandosi uno spazio tutto suo all’interno dei Translation Studies. È nel 1995 che, in seguito a una serie di eventi culturali, si è affermata come disciplina autonoma, riconoscendo la presenza di diversi codici semiotici che contribuiscono alla creazione del linguaggio filmico. Infatti, il processo traduttivo si concentra senza dubbio sulla componente verbale, ma questa non può prescindere da quella visiva. L’approccio da privilegiare è di sicuro quello multidisciplinare, in cui gioca un ruolo fondamentale l’interazione di studi traduttologici e di quelli dedicati al linguaggio filmico. Quindi, essendo noto che in un testo audiovisivo operano simultaneamente più canali e più codici, verbale, visivo e sonoro, bisogna tener conto delle problematiche ad essi legate

quando si intende tradurre un’opera filmica1

.

Con il termine «traduzione audiovisiva» si fa riferimento al doppiaggio, alla sottotitolazione, al voice-over, all’interpretazione consecutiva, all’interpretazione simultanea e alla traduzione simultanea. Il voice-over, tipico del genere documentario o notiziario, come dice la parola stessa, è la sovrapposizione di una voce narrante nella lingua d’arrivo con una lieve sfasatura temporale rispetto alla lingua originale, che si sente a volume più basso. L’interpretazione consecutiva può avvenire live, quando si intervista qualcuno in diretta; pre-registrata e in modalità link-up per le comunicazioni a grande distanza. L’interpretazione simultanea, invece, è tipica delle dirette televisive. Della traduzione simultanea si fa uso prevalentemente durante i festival del cinema, e si sviluppa da un copione o da sottotitoli disponibili in una lingua pivot.

Con lo sviluppo delle nuove tecnologie, si sono affermati altri tipi di traduzione per lo schermo. Per rendere più accessibili i prodotti audiovisivi a un

1 S. Bruti, Traduzione audiovisiva, in C. Barone, S. Bruti, M. Foschi Albert, V. Tocco (a cura di), Dallo stilo allo schermo. Sintesi di teoria della traduzione, Pisa, Plus, 2011, p. 145.

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pubblico «particolare» è utile, ad esempio, l’audio-descrizione per ciechi e ipovedenti: una voce descrive ciò che succede nei momenti in cui non c’è dialogo, senza interferire con le colonne sonore originali. Tra i giovani, nei giorni nostri, è diffusissimo il fenomeno della community translation. Già nato negli anni Ottanta per iniziativa di alcuni appassionati di cartoni animati giapponesi che, non riuscendo a trovare le versioni tradotte fuori da quei confini nazionali, cominciarono a produrre le proprie copie e a condividerle con altri fan. Nella fattispecie: il fansubbing è l’attività di sottotitolazione di programmi stranieri per merito di appassionati e non di professionisti, e il fandubbing, tramite un procedimento analogo, consiste nella modifica dei dialoghi originali, ma anche delle trame e dei personaggi di un testo audiovisivo. Sta diventando molto popolare in rete anche il re-dubbing, l’attività di ridoppiaggio di alcuni dialoghi di

film o serie famose, per scopo umoristico2.

Il doppiaggio e la sottotitolazione sono le due forme di traduzione più diffuse, e su cui si concentra maggiormente l’attenzione di studiosi e critici, spesso considerate in opposizione anche se erroneamente, poiché destinate a pubblici e situazioni differenti. I sottotitoli sono stringhe di testo scritto che vengono sovrapposte alle immagini di un prodotto audiovisivo, di solito nella parte inferiore dello schermo. È possibile fare una distinzione tra sottotitoli interlinguistici e sottotitoli intralinguistici. Sono interlinguistici quelli che trasferiscono i dialoghi della lingua di partenza nel testo scritto della lingua d’arrivo. Dal punto di vista linguistico, questi sottotitoli offrono il vantaggio di poter usufruire delle voci e dei dialoghi originali per le lingue di maggiore diffusione, purché queste siano, almeno in parte, conosciute dal pubblico; in caso contrario la lingua straniera rappresenterebbe solo un elemento di disturbo, essendo trasmessi contemporaneamente alle immagini e al dialogo originale. Il tempo di permanenza dei sottotitoli, infatti, è limitato, varia da un minimo di un secondo e mezzo a un massimo di sei, sette, e la velocità dell’eloquio è superiore a quella di lettura. Chiameremo invece sottotitoli intralinguistici quelli con cui si trascrivono in forma scritta e ridotta i dialoghi del prodotto filmico originale.

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Molto utili, questi ultimi, per un pubblico con deficit di tipo uditivo, ma anche per gli apprendenti di una lingua straniera.

Il doppiaggio invece offre la possibilità di creare un discorso affine a quello originale, in quanto permette di sostituire un dialogo orale con un dialogo orale in un’altra lingua, con le voci di attori doppiatori, evitando così che lo spettatore sottragga tempo all’osservazione dell’immagine a causa del tempo dedicato alla lettura dei sottotitoli. Un problema con cui bisogna fare i conti, qui, è quello del sincronismo labiale, la necessità di mantenere una certa coerenza tra le immagini e il sonoro, tentando di far coincidere il più possibile i movimenti degli organi fonatori con l’estensione dei nuovi dialoghi. Per doppiaggio si intende anche la «post-sincronizzazione», che avviene quando un attore doppia se stesso dopo che il film è stato girato, oppure quando un attore o un’attrice vengono doppiati

perché incapaci di recitare o con una voce non adatta al ruolo3.

Il linguista francese Cary ha definito il doppiaggio «traduzione totale» in

quanto la traduzione non riguarda solo la catena delle parole ma il tessuto dialettico che le unisce, quindi parole, immagini, suoni e linguaggio scritto che, disposti in un certo ordine dal narratore sono portatori di istanze sociolinguistiche

e socioculturali4. Bisogna tener conto, oltre che dei valori semantici e pragmatici

delle battute, anche di quelli fonologici, come l’intonazione, la lunghezza delle parole, la prosodia, il sincronismo labiale. Affrontare il problema della traduzione per il cinema e la televisione implica perciò, mettere in relazione la lista dei

dialoghi con il significato veicolato dalle immagini e dalla colonna sonora5.

Tuttavia, non esiste una forma di traduzione che mantenga l’integrità semiotica dell’opera audiovisiva. Anche nel doppiaggio riscontriamo un prodotto che potremmo definire un “falso” rispetto all’opera originale, poiché non solo sono state cambiate le parole, ma sono state sostituite le tracce sonore, parte costitutiva del testo originale, e con esse i tratti paralinguistici, le inflessioni regionali e

3 R. M. Bollettieri Bosinelli, Tradurre per il cinema in R. Zacchi, M. Morini (a cura di), Manuale di traduzioni dall’inglese, Milano, Bruno Mondadori, 2002, p. 77.

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Apud G. Mounin, La traduzione per il cinema in Teoria e storia della traduzione, Torino, Einaudi, 1965, p. 161.

5 I. Malaguti, Il doppiaggio come traduzione totale, in G. Peron XXIX Convegno Un aspetto della

traduzione: Il doppiaggio cinematografico. Vol. 31,

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sociali, con un’ovvia perdita semiotica6

. Ma è rispettando la sua natura di testo tradotto, attraverso l’autenticità e la verosimiglianza dei dialoghi, che si può riuscire a elevare il testo doppiato allo stesso livello del testo originale.

1.2 Il doppiaggio in Italia

La traduzione filmica nasce dall’esigenza di rendere fruibili a un pubblico non anglofono i primi film sonori di produzione americana. The jazz singer fu il primo film sonoro diretto da Alan Crosland per la Warner Brothers nel 1927, in cui tutti gli attori furono doppiati da cantanti professionisti anche nell’originale. Con l’avvento del sonoro, per risolvere il problema della diffusione dei film di Hollywood sul mercato internazionale, l’industria cinematografica dapprima ricorse ai sottotitoli, poi al doppiaggio per favorire i lettori lenti, poco colti, o addirittura analfabeti. Fu il fisico austriaco Jacob Karol a inventare nel 1931 il sistema del doppiaggio. È sotto Mussolini e il governo fascista che fu creata l’industria del doppiaggio in Italia. Dal 1929 al 1931 molti film furono trasmessi muti, in modo da evitare che gli italiani imparassero una lingua straniera andando al cinema. Rimanevano solo le musiche e gli effetti sonori dell’originale, con le traduzioni dei dialoghi che interrompevano le sequenze. Nella primavera del ’32 comparve il primo stabilimento di doppiaggio italiano alla Cines-Pittaluga diretto dal regista Mario Almirante. Nel 1933 il governo fascista emanò una legge che vietava la circolazione delle pellicole doppiate all’estero. Così come in altri paesi europei con simili governi totalitari, come la Spagna e la Germania, il doppiaggio rappresentava uno strumento utile per esercitare il proprio controllo sulla lingua e i contenuti. Tuttora, l’attitudine dei traduttori nei confronti del testo audiovisivo e le strategie traduttive che adottano risentono del peso delle pratiche della censura

e della manipolazione subite dai primi film doppiati in Italia7.

Nel nostro paese la maggior parte dei prodotti audiovisivi viene doppiata. L’Italia non è l’unico paese che doppia i film stranieri importati, ma in altre

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M. Pavesi, La traduzione filmica: aspetti del parlato doppiato dall’inglese all’italiano, Roma, Carocci, 2005, p. 21.

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I. Ranzato, Translating culture specific references on television. The case of dubbing, London & New York, Routledge, 2015, pp. 34-35.

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nazioni europee è concesso doppiare solo un determinato numero di pellicole straniere ogni anno, le altre possono diffondersi esclusivamente in versione sottotitolata. Gli americani, invece, non contemplano per niente il doppiaggio, sia

quello di film stranieri, sia quello di film autentici8. Ciò dipende non solo da

fattori economici, ma anche da un atteggiamento culturale meno chiuso, dalla presenza di strutture produttive e dalla propria posizione geografica che può favorire o meno lo scambio linguistico. È stato rilevato che la percentuale di programmi stranieri che vengono trasmessi in Italia è molto più elevata rispetto a quella delle produzioni italiane. L’importazione di programmi stranieri, soprattutto dagli USA, ha avuto inizio nel 1956 e più stabilmente dagli anni Settanta. I programmi televisivi stranieri sono sempre stati doppiati, ma con l’avvento della televisione satellitare nel 1994, della TV via cavo nel 1997, e infine della TV digitale terrestre nel 2003, al pubblico italiano si è aperta la possibilità di guardare gran parte dei film e delle serie televisive nella loro versione originale con i sottotitoli. Nonostante ciò, la maggioranza preferisce

sempre la versione italiana doppiata9.

In Italia gli studi sul doppiaggio non si sono soffermati sulle eventuali differenze esistenti tra gli adattamenti per il cinema e quelli per la televisione, sia da un punto di vista traduttologico, che tecnico. Tuttavia, il modo di approcciarsi sia dei professionisti che del pubblico varia molto nei confronti dei due media. Il cinema è percepito sempre più come una forma d’arte ma anche d’intrattenimento, e soprattutto come un qualcosa che gli spettatori scelgono in maniera attiva. Invece i prodotti del genere fiction trasmessi in televisione vengono considerati una pura forma d’intrattenimento, nel complesso ricevuti passivamente dal pubblico. Non stupisce infatti che la televisione è stata sempre considerata un mezzo popolare per le produzioni di massa e per un pubblico meno esigente. In Italia non esiste un dibattito che abbia come argomenti la TV di qualità o d’autore, al contrario di altri paesi, in cui a riguardo si sono concentrati a lungo gli studi televisivi e le recensioni dei critici. È senza dubbio evidente la differenza tra gli

8 M. D’Amico, Dacci un taglio, bastardo! Il doppiaggio dei film in Italia, in E. Di Fortunato, M.

Paolinelli (a cura di), Barriere linguistiche e circolazione delle opere audiovisive: la questione

doppiaggio, Atti del Convegno “Un ascensore per la torre di Babele, 9-10 febbraio 1996”, Roma,

Aidac, www.aidac.it/documenti/book/barriere.pdf, pp. 209-216.

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standard elevati dei programmi di qualità importati dall’America e dal Regno Unito, e gli standard nettamente inferiori delle fiction prodotte dalla televisione italiana10.

Il processo del doppiaggio è strutturato, in genere, in quattro fasi: la traduzione, di solito letterale, del copione; l’adattamento, tramite cui si opera una revisione del copione cercando di intervenire per rendere i dialoghi credibili nella lingua d’arrivo, sottostando ai vincoli del sincronismo; la registrazione dei nuovi dialoghi da parte degli attori doppiatori nello studio di doppiaggio e, infine, il missaggio delle colonne doppiate con la colonna internazionale e con le musiche. Le prime due fasi vengono assegnate rispettivamente alla figura professionale di un traduttore e a quella di un dialoghista-adattatore, anche se spesso è una sola persona responsabile di entrambi i passaggi. Durante la fase di registrazione in sala di doppiaggio, è il direttore di doppiaggio che coordina i lavori, assegnando i ruoli agli attori, assistendoli nella recitazione e controllando il sincronismo; l’assistente al doppiaggio divide invece il copione in porzioni, i cosiddetti «anelli», in cui si era soliti tagliare e chiudere materialmente le pellicole, in passato, per poter proiettare in continuazione la stessa sequenza di immagini. Adesso, grazie allo sviluppo dell’elettronica vengono semplicemente rilevati i time code di inizio e fine di ogni anello11.

Gli adattatori di dialoghi delle opere audiovisive straniere devono confrontarsi continuamente con le peculiarità della lingua italiana, sforzandosi di creare un linguaggio parlato non banale, e superando le difficoltà di rendere alcune espressioni che non hanno corrispondenti nella lingua di arrivo. Nonostante i numerosi vincoli che esistono nella traduzione filmica, l’adattatore, i doppiatori e il direttore del doppiaggio collaborano per rendere il prodotto maggiormente comprensibile per il pubblico di arrivo.

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Ivi pp. 2-3.

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S. Bruti, Traduzione audiovisiva, in C. Barone, S. Bruti, M. Foschi Albert, V. Tocco (a cura di),

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1.3 Il dialoghista-adattatore

Non si tratta soltanto di un traduttore, bensì si potrebbe definire un co-autore, in quanto collabora con l’autore, sebbene non lo conosca e non lo conoscerà mai, nelle scelte relative al testo da trasporre per il doppiaggio. Egli deve pensare prima di tutto se determinate scelte siano nello stile dell’autore e se non tradiscano il suo spirito. Il suo è anche un lavoro creativo, poiché l’adattatore spesso è costretto, specialmente in alcune lingue ricche di frasi idiomatiche e di slang, a inventare dei corrispettivi che rendano al meglio quelle terminologie nella lingua del testo doppiato. Il suo compito è quello di smembrare il copione di partenza, e di ricomporlo trasferendo il patrimonio linguistico di un paese in un ordine di idee diverso, elaborando una trasposizione il cui adattamento deve avvenire secondo il sincronismo ritmico e labiale dei dialoghi dei prodotti audiovisivi stranieri, al fine

di rendere nella lingua italiana lo spirito originale dell'opera12.

Tuttavia, nell’analizzare la traduzione come prodotto, ovvero la traduzione «finita» confrontata con l’originale, è inevitabile trovare «errori», interpretazioni sbagliate, fraintendimenti dovuti a ignoranza e incomprensione del testo originale, scarsa professionalità, o ancora le condizioni di lavoro dei dialoghisti. La causa principale è da attribuire ai tempi e ai ritmi di lavorazione che sono sempre più ristretti e pressanti e ai compensi bassi, che spesso impongono la scelta più facile che è anche la più banale, e non riuscendo a elaborare soluzioni ottimali i

dialoghisti propendono necessariamente a un certo automatismo traduttivo13.

La professione del dialoghista-adattatore è sempre più esposta a critiche. Il dialoghista-adattatore di opere audiovisive deve rendere conto di una duplice «fedeltà linguistica», quella nei confronti dell’opera originale e quella nei confronti della lingua in cui essa viene trasposta. Ma non è sempre valido l’uso delle simmetrie e delle equazioni di carattere semantico che pertengono alla traduzione del testo dell’opera audiovisiva. Il suo lavoro di traduzione non si può fondare su una presunta esattezza. Non si tratta di far parlare bene l’italiano, o di migliorare il testo, ma di riprodurre e adattare i dialoghi secondo le peculiarità dei

12

M. Traversi, Doppiaggio come traduzione e/o doppiaggio creativo in E. Di Fortunato, M. Paolinelli (a cura di), op. cit., pp. 145-147.

13 F. Castagnoli, La responsabilità della professione in E. Di Fortunato, M. Paolinelli (a cura di), op. cit., p. 115.

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personaggi, agendo sul senso della scena, sui suoi contenuti inespressi ma evidenti allo sguardo. È più interessante soffermarsi sulla traduzione come processo, e chiedersi cosa avviene quando si opera il trasferimento fra diversi contesti linguistici e culturali, quali sono le aree problematiche, per quali stadi di successive approssimazioni si può arrivare in primo luogo a comprendere le

funzioni comunicative del testo di partenza e poi a trasferirle14.

Per quanto riguarda la professionalità dei dialoghisti, talvolta viene messa in dubbio. Il problema è quello della selezione all’origine. Solo una piccola percentuale di essi è laureata, gli altri sono diplomati, comunque tutti possiedono una buona competenza linguistica solo nella lingua di arrivo della trasposizione del testo audiovisivo. Fino a pochi anni fa non esistevano corsi di specializzazione per formare dialogisti-adattatori, così spesso il dialoghista non aveva compiuto alcun percorso formativo orientato a quella particolare professione, ciascuno utilizzava esclusivamente il proprio background culturale. Pertanto, l’ingresso nel

mondo del lavoro avveniva generalmente in maniera piuttosto casuale15.

1.4 Il dialogo filmico

Ciò che è possibile notare guardando i film e le serie televisive in lingua inglese, è che nei dialoghi si riflette una certa variazione sociolinguistica. I dialoghi sono ricchi di elementi della conversazione spontanea: le espressioni fatiche e gergali, i vocativi, il turpiloquio, l’umorismo linguistico. Nel dialogo filmico italiano si osserva, invece, una tendenza alla normalizzazione e semplificazione nelle scelte sintattiche, una mediazione sul piano lessicale con l’esclusione di espressioni letterarie o gergali, e in generale una riduzione degli scarti tra le varietà in diatopia (variazione geografica) , diastratia (variazione

14 S. Murri, La trasposizione audiovisuale tra mercificazione ed estetica in A. Castellano (a cura

di), Il doppiaggio: profilo, storia e analisi di un’arte negata, Roma, Aidac, 2000a, pp. 91-95.

15 P. Taronna, Un mostro da formare in E. Di Fortunato, M. Paolinelli (a cura di), op. cit. , pp.

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sociale) e diafasia (variazione per livello di formalità) , che sono invece dei tratti

distintivi del parlato nazionale16.

Pertanto, rispetto alla rappresentazione filmica della produzione straniera recente in cui le marche linguistiche caratterizzano i personaggi come appartenenti a determinate aree geografiche e a diversi ceti socioeconomici, nell’italiano doppiato è inevitabile la perdita del tratto della variazione diatopica, poiché è impossibile trovare un corrispettivo geolinguistico che nella lingua d’arrivo si carichi delle stesse connotazioni e degli stessi stereotipi culturali del geoletto o dei geoletti delle opere originali. Nell’italiano doppiato si assiste quindi a una perdita della maggior parte dei significati espressi dalla variazione fonologica e si ricorre a dialetti e accenti eccezionalmente per caratterizzare personaggi criminali, comici o fantastici. È negli anni 70 che inizia ad essere utilizzato in Italia il dialetto per il doppiaggio dei prodotti audiovisivi stranieri. Ad esempio nel film Il padrino (1972, F. F. Coppola, The Godfather) i personaggi mafiosi parlano uno pseudosiciliano. Qui il dialetto o l’italiano regionale subiscono l’influenza di stereotipi e luoghi comuni dettati dalla tradizione

cinematografica17.

A livello morfosintattico, nei film doppiati sono presenti forme di italiano colloquiale e talvolta popolare, tratti del parlato spontaneo informale che riflettono l’italiano parlato dai parlanti reali. Ciò nonostante, sono trascurati i tratti nonstandard che dovrebbero tradurre il nonstandard delle versioni originali, utili per individuare il contesto socioculturale dei parlanti. Si opta dunque per l’azzeramento sociolinguistico, con l’esito conseguente di un italiano socialmente appiattito. Talvolta si procede all’utilizzo di marche polivalenti per indicare la variazione diastratica: ne è un esempio l’uso marcato dell’indicativo invece del

congiuntivo18. Tuttavia, per quanto concerne il lessico, il livello linguistico che ha

interessato maggiormente studiosi ed esperti di doppiaggio, è possibile esaminare l’evoluzione nel tempo dell’italiano doppiato.

Sia esperti di traduzione audiovisiva, che ricercatori interessati all’evoluzione del linguaggio hanno evidenziato, attraverso un’analisi del linguaggio italiano

16 M. Pavesi, op. cit. , pp. 31-34. 17 Ivi pp. 34-38.

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attuale, la notevole influenza che i testi audiovisivi tradotti hanno prodotto sulla nostra lingua, per la presenza di numerosi calchi, prestiti, e routine traduttive che provengono dai dialoghi tradotti dei film e delle serie televisive straniere, soprattutto dall’inglese.

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2. DIFFERENTI APPROCCI ALLA TRADUZIONE

2.1 Toury e le norme traduttive

Come ho già accennato, la traduzione audiovisiva si colloca in una categoria specifica all’interno dei Translation Studies. Essendo una forma di traduzione, essa coinvolge due lingue o due testi, ed è opportuno chiedersi quale approccio privilegiare quando si ha intenzione di condurre un’analisi. Vediamo nel dettaglio l’evoluzione degli studi sulla traduzione che hanno attirato l’interesse di molti studiosi.

Il maggior rappresentante dell’approccio descrittivo è di sicuro Gideon Toury, che negli anni Ottanta ha improntato la sua ricerca spostando l’attenzione sul testo d’arrivo, dopo una lunga tradizione fortemente caratterizzata dall’enfasi posta sul testo di partenza. Secondo Toury, non solo un testo straniero viene inglobato dalle culture riceventi, in modalità che riflettono l’attitudine di una data cultura nei confronti dell’estraneo, ma l’introduzione di un testo in un contesto nuovo provoca dei cambiamenti anche nel sistema ricevente. Quindi non è solo il testo a cambiare durante il processo d’inserimento nel nuovo sistema culturale, ma il sistema ricevente stesso viene alterato. Ma poichè la disciplina dei Translation Studies ha bisogno di basi scientifiche più solide per studiare più a fondo quest’interazione reciproca di influenze tra il testo di partenza e quello d’arrivo, Toury sostiene la necessità di regole, al di là di semplici esempi isolati e casuali, prestando attenzione alle regolarità del comportamento traduttivo grazie all’analisi

di un corpus considerevole di materiale selezionato ad hoc19.

Per Toury, che si ispira alla sociologia e alla psicologia sociale, le norme sono la traduzione di valori generali, o idee condivise da una comunità (ciò che è giusto e sbagliato, adeguato e inadeguato), in istruzioni di comportamento appropriate e valide in particolari situazioni. Le norme vengono acquisite dagli individui durante la socializzazione e implicano sempre una sanzione. Il linguista israeliano continua asserendo che le norme occupano una posizione intermedia tra i due

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estremi delle regole assolute da una parte, e delle pure idiosincrasie dall’altra. La traduzione come attività regolata da norme, così come la vede Toury, permette una certa quantità di deviazioni dalle norme predominanti, sebbene ci sia un prezzo da pagare per la scelta di un tipo deviante di comportamento, in quanto le deviazioni possono mettere a rischio il successo della traduzione finale. Le norme vengono classificate da Toury in: norme «preliminari», che influenzano il comportamento prima dell’inizio del processo traduttivo, come per esempio la selezione del testo da tradurre; e norme «operazionali», che interessano l’atto della traduzione stessa. Queste ultime sono ulteriormente divise in: norme «matrice», che possono reggere l’esistenza stessa del materiale della lingua-target come un sostituto del corrispondente materiale della lingua di partenza, la sua posizione nel testo e la segmentazione testuale; e norme «linguistico-testuali», che descrivono il materiale tradotto e le operazioni traduttive, e a loro volta possono essere generali o particolari, riferendosi a particolari tipi e modalità di traduzione, come nel nostro caso la traduzione audiovisiva. Il ragionamento di Toury sembra essere particolarmente valido se applicato al doppiaggio. Ad esempio, nel doppiaggio esiste la norma secondo la quale ogni volta che un attore nello schermo è ripreso in primo piano, le considerazioni sul sincronismo labiale tendono a prevalere su quelle semantiche. L’idea fondamentale di Toury è che nonostante alcune norme traduttive possano essere identiche alle norme che regolano la produzione di tipi di testo non traduttivi, non si dovrebbe dare per scontata una simile identità. Questa è la ragione metodologica per cui nessuno studio sulla traduzione può, o dovrebbe procedere dal presupposto che quest’ultima rappresenti la lingua d’arrivo. Le norme che sottendono alla produzione dei testi doppiati non sono le stesse di quelle che regolano la produzione di tipi di testo non tradotto. Ne è un indice il fatto che l’utilizzo di alcune routine traduttive nel doppiaggio fa sì che i dialoghi doppiati suonino in maniera diversa rispetto alla conversazione spontanea e ad altri tipi di testo originale20.

Attraverso il concetto di norma, Toury reintroduce quello di equivalenza all’interno dei Translation studies. Conservando la nozione di equivalenza, Toury

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supporta allo stesso tempo uno spostamento rilevante, da un concetto astorico prescrittivo ad uno storico. L’equivalenza non dovrebbe essere concepita come un termine di paragone astratto tra il testo di partenza e quello di arrivo, bensì come un concetto mutevole, connesso alla storia, che riflette un rapporto preciso tra un determinato testo d’arrivo e uno di partenza, in un tempo preciso e in uno spazio preciso. L’equivalenza tra due testi dovrebbe essere descritta secondo le norme

che regolano la traduzione in un dato momento e in un dato luogo21.

Una delle implicazioni dell’approccio di Toury, orientato verso la lingua di arrivo, è che il nuovo testo tradotto, nel suo contesto storico-sociale, assume un’importanza senza precedenti rispetto ai primi approcci ai Translation Studies che erano orientati per lo più verso il testo di partenza. E il contesto storico-sociale diventa fondamentale per comprendere il comportamento dei traduttori e le loro scelte dettate dalle norme. Le circostanze storico-sociali in cui è comparsa la traduzione audiovisiva in Italia possono far luce sul comportamento dei traduttori in generale, e sulla pratica della traduzione audiovisiva compiuta in Italia in particolare. Il concetto di Toury è facilmente riscontrabile nella realtà, in quanto risulta evidente la notevole influenza esercitata dall’introduzione e dalla traduzione di programmi audiovisivi stranieri, in particolar modo anglo-americani, sulla lingua parlata in Italia, e anche sulla cultura del paese d’importazione, nel

corso degli anni22.

2.2 Even-Zohar e la letteratura tradotta

Prima di Toury, negli anni Settanta, un altro studioso di Tel Aviv aveva sviluppato un approccio, nell’ambito della traduzione, orientato al testo di arrivo, sottolineando l’importanza del contesto storico-sociale per comprendere il processo traduttivo e i prodotti tradotti in tutte le loro implicazioni.

Prendendo le mosse dagli scritti dei formalisti russi, nel 1974 Even-Zohar pubblicò un saggio molto innovativo in cui espose la sua «teoria del polisistema», sottolineando con questo termine la natura più dinamica del concetto, in

21 Ivi, op. cit., p. 15. 22 Ivi, op. cit., p. 16.

(17)

17

contrapposizione al «sistema» più statico dei formalisti. Il polisistema da lui concepito è un agglomerato eterogeneo di sistemi che interagiscono per dare luogo a un processo dinamico in continua evoluzione all’interno del polisistema. Secondo lo studioso israeliano, la letteratura è un elemento di quel complesso di sistemi integranti che costituisce la cultura. Il sistema globale della letteratura è costituito da vari sottosistemi, e al suo interno la letteratura tradotta costituisce un sottosistema a sé stante, non rivestendo quindi una posizione periferica, come

viene sostenuto in alcuni studi letterari23.

Sebbene Even-Zohar abbia concepito questa teoria prendendo in considerazione i testi letterari, le sue considerazioni possono valere anche per i testi audiovisivi. Secondo quanto afferma il linguista belga Lefevere, che ha proseguito e sviluppato il lavoro di Even-Zohar, la posizione centrale occupata un tempo dai libri nella società occidentale è stata rimpiazzata oggi dal cinema, dalla televisione e dalla musica popolare. Inserendo questo particolare sistema audiovisivo, costituito da testi doppiati, sottotitolati o testi audiovisivi diversamente tradotti, nel quadro più ampio dei fattori che regolano la produzione, la promozione e la ricezione dei testi stessi si otterrà un contesto in cui i testi sono probabilmente le componenti più importanti, ma non le uniche. Si dovrà fare riferimento allora ai seguenti fattori: considerazioni sul pubblico ricevente in termini di età, status sociale, e gusti; e considerazioni legate al grado di successo del programma, rispetto ad altri. È utile interrogarsi sul ruolo che i testi doppiati occupano all’interno del grande polisistema della cultura italiana, così come il loro rapporto con la letteratura può fare un po’ di luce non solo sulle scelte che si compiono quando vengono selezionati i testi da tradurre, ma anche sulle strategie utilizzate per tradurli24.

Il doppiaggio, in Italia, ha occupato sempre una posizione centrale all’interno del polisistema audiovisivo. Even-Zohar ha individuato tre condizioni principali che favoriscono la centralità dei testi tradotti all’interno di una cultura:

23 I. Even-Zohar, The position of translated literature within the literary polysystem, in L. Venuti

(a cura di), The Translation Studies Reader, London & New York, Routledge, 2004, pag. 200.

(18)

18

a) quando un polisistema non si è ancora formato del tutto, ovvero quando una letteratura è “giovane”, aperta agli stimoli esterni derivanti dalle opere straniere tradotte;

b) quando la letteratura nazionale è “periferica” rispetto a quelle dominanti a livello mondiale;

c) quando una determinata letteratura attraversa momenti di svolta, crisi o vuoti letterari25.

La posizione periferica e debole dell’Italia nei confronti della potente cultura americana, specialmente nel campo della produzione di film e fiction televisive permette di spiegare il ruolo centrale che hanno sempre assunto i testi doppiati all’interno del sistema audiovisivo. Nel nostro paese, la diffusione di una lingua del doppiaggio sempre più caratterizzata da routine conversazionali e un lessico che appartiene alla più forte cultura anglo-americana ne è una testimonianza tangibile.

2.3 Teorie funzionaliste della traduzione

Anche la scuola funzionalista tedesca, dagli anni Settanta in poi, nell’ambito della teoria della traduzione, ha proposto i suoi modelli basati sul rapporto tra le funzioni comunicative del testo e la strategia traduttiva da adottare. L’approccio alla traduzione basato sulla tipologia testuale, che Katharina Reiss espose in un articolo nel 1977, ha messo in relazione le funzioni comunicative della lingua con i tipi testuali e con la metodologia traduttiva.

Il modello di Bühler del 1934 ha fornito alla Reiss un input per la distinzione di tre funzioni fondamentali della lingua, che sono: la funzione referenziale, che mette al centro l’oggetto della comunicazione; la funzione espressiva, che si preoccupa dell’atteggiamento dell’emittente nei confronti dell’oggetto della comunicazione; la funzione appellativa, che ha lo scopo di suscitare una determinata reazione nel destinatario. I tipi testuali scaturiscono dall’associazione

25 I. Even-Zohar, The position of translated literature within the literary polysystem, in L. Venuti

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19

di certe funzioni comunicative a diverse situazioni d’uso linguistico. Nella fattispecie, i tipi testuali identificati dalla linguista tedesca sono rispettivamente: testo informativo, orientato sul contenuto del linguaggio (enciclopedie); testo espressivo, in cui si dà importanza all’atteggiamento dell’autore e alla forma che conferisce al messaggio (testi letterari); testo operativo, focalizzato sulla reazione che si vuole suscitare nel lettore (testi pubblicitari ecc.). Un quarto tipo che la Reiss ha aggiunto successivamente è il testo audiovisivo, che viene fuori dalla relazione delle tre tipologie testuali con i contenuti audiovisivi. Le strategie traduttive da attuare, secondo Reiss, per ognuno di questi testi sono diverse: per il testo informativo si utilizza un linguaggio chiaro ed esplicito; per il testo espressivo il traduttore deve identificarsi con l’autore del testo di partenza; per il testo operativo si utilizza il metodo adattivo, per poter suscitare nei confronti del lettore del testo d’arrivo un effetto analogo a quello previsto per la ricezione del testo di partenza; per il testo audiovisivo si deve tenere conto delle limitazioni derivanti dall’armonizzazione della componente verbale con le componenti sonore e iconografiche. Ma spesso ci troviamo di fronte ad una varietà di testi o generi ibridi per tipologia. Ciononostante si può sempre individuare la funzione dominante del testo di partenza, che sarà determinante per la produzione del testo d’arrivo. Ma furono molte le critiche mosse all’approccio di Reiss, tra cui quella

di dare un’importanza assoluta al tipo testuale nella scelta del metodo traduttivo26.

Tuttavia, la studiosa tedesca, fu una delle prime a riconoscere alla traduzione audiovisiva il valore di vera e propria disciplina traduttologica.

Si deve a Vermeer, verso la fine degli anni Settanta, l’elaborazione della «teoria dello skopos», e sarà successivamente, insieme a Reiss, che ne faranno una teoria generale della traduzione. Egli comprese che, di fondamentale importanza nella scelta della strategia traduttiva, erano le motivazioni e la finalità che stavano dietro alla traduzione di un testo nella cultura di arrivo. Ciò che contava era lo scopo, ovvero l’obiettivo della traduzione come prodotto e come processo. Ci si riferisce in particolare alle richieste fatte dai clienti durante la commissione di una traduzione, così come alle aspettative dei destinatari del testo di arrivo. Ma per rendere comprensibile il testo di arrivo, è imprescindibile un rapporto di coerenza

26 S. Masi, Teorie funzionaliste della traduzione, in C. Barone, S. Bruti, M. Foschi Albert, V.

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20

tra il contenuto della traduzione e le conoscenze enciclopediche della cultura d’arrivo. Per ovviare alla variazione degli scopi della traduzione col variare dei riceventi nella due culture, si dovrà intervenire con un processo di adeguamento degli scopi, attraverso una selezione e riorganizzazione dei contenuti del testo di partenza27.

Ma una delle critiche che sono state rivolte a questa teoria è stata quella di non rivolgere la dovuta attenzione al livello locale del tessuto linguistico del testo di partenza. È così che prende forma, durante gli anni Novanta, il modello di Nord, che si è concentrato sull’analisi del testo da tradurre, prestando attenzione sia ai fattori esterni che a quelli interni al testo. Confrontando i fattori esterni insiti in entrambi i testi, che emergono dalla commissione della traduzione, si decide il tipo di traduzione da realizzare. Sono due i tipi di traduzione nella classificazione di Nord: la traduzione «documentaria» e la traduzione «strumentale». La prima, tipica della traduzione letteraria, rappresenta un documento della comunicazione tra autore e destinatario della cultura di partenza, e di conseguenza privilegia uno stile orientato alla cultura del testo fonte. La seconda rappresenta il tramite per l’invio di un messaggio, che ha una sua autonomia nella cultura ricevente, e lo stile quindi sarà orientato alla cultura d’arrivo. Procedendo nell’analisi del testo è importante individuare le diverse funzioni comunicative che si nascondono dietro ai vari segmenti linguistici presenti nel testo e saperli adattare alla cultura ricevente in base allo scopo della traduzione. A riguardo, Nord aggiunge una quarta funzione alle tre già presenti nel modello di Bühler: la funzione fatica che, presa in prestito, a sua volta, dal modello di Jakobson, si riferisce al canale di contatto stabilito tra l’emittente e il destinatario che partecipano alla comunicazione. Svolgono questa funzione gli elementi che costituiscono l’incipit e la chiusura di un testo, come ad esempio il titolo e la parte conclusiva di un testo. In una comunicazione, in presenza di un dialogo, la funzione fatica è svolta dalle forme di saluto e dai vocativi, espressioni tipiche di determinate comunità di parlanti che si servono spesso di formule specifiche. La loro relazione sociale è indicata soprattutto dalla scelta di determinati registri, ne è un esempio il fatto che

(21)

21

alla scelta di un registro informale corrisponde l’uso di un lessico colloquiale, in

cui abbondano strutture paratattiche, forme contratte28.

Il modello illustrato da Jakobson nel suo saggio, pubblicato nel 1959, “On Linguistic Aspects of Translation” è il più ampio, costituito da sei funzioni: referenziale, espressiva, appellativa, fatica, metalinguistica, poetica. Per lui, la traduzione si distingue in base a tre diversi modi di interpretare un segno verbale, ovvero: in altri segni della stessa lingua; in un’altra lingua; o in un altro sistema di simboli non verbali. Queste tre diverse modalità di interpretazione vengono rispettivamente denominate: traduzione «endolinguistica» o riformulazione, che consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di altri segni della stessa lingua; traduzione «interlinguistica», che è la traduzione propriamente detta, consistente nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di un’altra lingua; e traduzione «intersemiotica» o trasmutazione, ossia l’interpretazione dei

segni linguistici per mezzo di sistemi di segni non linguistici29.

2.4 Testualità e traduzione

All’interno degli studi di traduttologia, si è dibattuto a lungo sulla natura dell’unità di traduzione. Verso gli anni Novanta, sulla scia degli studi di linguistica testuale, che considerano il testo come unità linguistica comunicativa di base, molti studiosi della traduzione hanno deciso di considerare la struttura testuale come unità di traduzione.

Hatim e Mason, per formulare la loro analisi dei problemi traduttivi, si sono serviti dei sette criteri di testualità individuati da Beaugrande e Dressler, due figure chiave della linguistica testuale: coesione, coerenza, intenzionalità, accettabilità, informatività, situazionalità e intertestualità. Ogni testo si riconosce grazie all’insieme delle caratteristiche che formano la sua testualità. Compito del traduttore è quello di riprodurre nel testo di arrivo la testualità del testo di partenza, raggiungendo così l’equivalenza tra i testi a livello testuale. Neubert e

28

Ivi, pp. 87-89.

29 Apud A. Cuneo, Linguistica, stilistica e stilistica comparata, in C. Barone, S. Bruti, M. Foschi

Albert, V. Tocco (a cura di), op. cit., pp. 63. .

(22)

22

Shreve hanno elaborato una serie di indicazioni utili al traduttore per rispettare i criteri di testualità:

 Per creare un testo tradotto coerente e coeso, il traduttore dev’essere in grado

di individuare i meccanismi di coerenza e coesione della lingua di partenza e della lingua di arrivo. La coesione fa riferimento ai legami di ordine grammaticale esistenti tra le parole, come per esempio il parallelismo, l’anafora, la catafora, l’ellissi, la subordinazione, le categorie di tempo e aspetto, l’intonazione. Ogni lingua si serve di determinati meccanismi connettivi, e di solito è impossibile riproporre gli stessi legami di coesione lessicale, ad esempio, del testo di partenza nel testo di arrivo, come potrebbe essere il caso delle espressioni idiomatiche. E sarà compito del traduttore trovare altre associazioni e apportare delle modifiche per mantenere il significato e allo stesso tempo la coesione nel testo di arrivo. Il traduttore, secondo Hatim e Mason, dovrà avere sempre in mente anche quale sia il sapere condiviso tra i destinatari del testo tradotto e i destinatari del testo originale30.

La coerenza rappresenta i concetti e le relazioni di tipo semantico, logico, presenti nel testo di superficie, e viene stabilita dal destinatario del testo, che mette in relazione il sapere espresso in quel testo con il suo sapere e la sua conoscenza del mondo. Questa è legata a fattori extralinguistici quali l’età, la razza, la nazionalità, l’educazione, la religione, ecc., per cui, come sostiene Baker, le difficoltà del traduttore non risiedono nel testo originale, ma nel significato che la cultura ricevente attribuisce al testo tradotto. Avendo bene in mente le differenze culturali dei destinatari, il traduttore potrà operare modifiche nel testo di arrivo. Tuttavia, egli non deve piegarsi del tutto alle aspettative dei destinatari, che potranno benissimo sforzarsi di comprendere

visioni del mondo diverse dalla loro31;

 Per mantenere lo stesso livello d’informatività del testo di partenza il

traduttore deve aggiungere informazioni nuove nel testo di arrivo. Gli studi della Scuola di Praga sulla Functional Sentence Perspective, hanno dimostrato

30 Rosa M. García Jiménez, Testualità e traduzione, in C. Barone, S. Bruti, M. Foschi Albert, V.

Tocco (a cura di), op. cit., pp. 69-70.

(23)

23

che è possibile distinguere segmenti che denotano l’informazione nota e segmenti che introducono l’informazione nuova all’interno di un enunciato, servendosi rispettivamente dei concetti di tema e rema. Di solito, queste informazioni seguono un determinato ordine di esposizione nella comunicazione, che sarà diverso per ogni lingua, e il traduttore dovrà rispettare quello della cultura di arrivo durante il processo di traduzione;

 L’intenzionalità e l’accettabilità sono interdipendenti, in quanto un testo è

accettabile se il ricevente è in grado di capire il tipo di testo e ciò che aveva intenzione di comunicare l’autore. I criteri di accettabilità variano in base ai tipi di testo e alle lingue e alle culture. Essa non dipende solo dalla sua correttezza formale, ma anche dalla sua rilevanza per i destinatari della comunicazione. La dimensione pragmatica fa emergere l’intenzionalità di un testo. È grazie alla nozione di atto linguistico che si riesce a conoscere l’intenzione aggiunta al significato verbale. Ma il traduttore dovrà conoscere le differenze culturali tra la forza illocutiva dei diversi atti linguistici per non

farli risultare offensivi nella cultura del testo di arrivo32;

 Per quanto riguarda la situazionalità, il traduttore deve rendere un determinato

testo adatto ad un determinato contesto. Se vi è una grande disparità di situazione tra i due testi, il traduttore deve apportare delle modifiche. Il contesto di situazione è un concetto che rimanda al criterio di situazionalità di Beaugrande e Dessler. Secondo Halliday e Hasan, il contesto situazionale è condizionato da quello culturale, in quanto è solo all’interno di una

determinata cultura che acquisirà significato33;

 Essendo l’intertestualità il principio che permette di riconoscere il tipo di testo

tradotto, il traduttore deve conoscere le convenzioni che esistono per i diversi tipi di testo nella cultura di arrivo. L’intertestualità si può definire come un processo di mediazione tra un testo di cui si fa uso in un momento presente, e quelli utilizzati in momenti precedenti. La mediazione sarà massima o minore

in base al grado di distanza di un testo dai precedenti34.

32 Ivi, pp. 72-74. 33 Ivi, pp. 72-73. 34 Ivi, p. 75.

(24)

24

3. L’INTERAZIONE COMUNICATIVA

3.1 Varietà di situazioni comunicative

Dopo la trascrizione del copione originale, mi sono potuta concentrare sulla traduzione dei dialoghi che si succedono nell’episodio della serie televisiva da me scelto per questo lavoro di tesi. I dialoghi riproducono un determinato registro utilizzato da una determinata comunità linguistica: lo spagnolo colloquiale.

Lo spagnolo colloquiale è una variante diafasica dello spagnolo standard. Siamo in presenza di una variazione diafasica quando, al variare delle diverse situazioni comunicative, vi è una variazione del modo in cui vengono realizzati i

messaggi linguistici, motivo per cui viene chiamata anche variazione situazionale. Sono tre le categorie fondamentali a cui si fa riferimento per definire le diverse

situazioni comunicative, in base al contesto di ogni situazione: il «campo» (field), il «modo» (mode) e il «tenore» (tenor). Il «campo» dipende dalla natura dell’attività svolta nella situazione o dalla funzione sociale, ad esempio la conversazione telefonica, il discorso scientifico, legale. L’argomento del discorso occupa un ruolo fondamentale in questa categoria; il «modo» si riferisce al mezzo scelto per l’attività linguistica, al tipo di contatto interazionale che si stabilisce, cioè le modalità orale e scritta; il «tenore» fa riferimento al rapporto in cui si pongono i partecipanti all’interazione comunicativa, e ai ruoli sociali e comunicativi che essi rivestono nella situazione, per esempio il livello di formalità o di distanza tra essi. Queste tre variabili sono legate tra loro, in quanto la scelta di un determinato campo su cui è incentrata la conversazione richiede l’uso di un modo di trasmissione adeguato, e la conseguente scelta di un livello di formalità

adeguato35.

3535

(25)

25

3.2 Gli atti linguistici e il principio di cooperazione

La pragmatica è la disciplina che studia gli atti linguistici, e le funzioni che gli enunciati linguistici svolgono nell’interazione comunicativa. Quindi studia le relazioni tra testo e contesto. Fanno parte del contesto: il parlante e l’ascoltatore, l’azione che essi realizzano quando producono un enunciato o lo ricevono, il sistema linguistico utilizzato, la conoscenza della finalità dell’atto linguistico, le attitudini degli interlocutori, i sistemi di norme e i costumi sociali.

Austin ha distinto tre tipi di atti linguistici, che sono diventati le unità basiche della pragmatica: atti «locutivi», «illocutivi» e «perlocutivi». Gli «atti locutivi» nascono nel momento in cui si produce un enunciato, con la semplice produzione fonica; gli «atti illocutivi» quando si trasmette l’intenzione del parlante (informare, avvertire); gli «atti perlocutivi» sono l’effetto o lo scopo che si ottiene pronunciando un enunciato, nei confronti dell’ascoltatore (convincere, persuadere).

L’interazione comunicativa consiste nella serie di azioni in cui alcuni individui si vedono coinvolti alternativamente e simultaneamente come agenti. Il principio di cooperazione di Grice è una guida che i partecipanti di qualsiasi interazione comunicativa seguono per facilitarne il suo sviluppo e fare in modo che abbia successo in base alle loro aspettative e ai loro interessi. Questo principio presuppone che gli interlocutori contribuiscano alla conversazione indirizzandola verso un proposito determinato.

Grice aggiunge al suo principio generale una serie di orientamenti secondari, denominati massime di quantità, qualità, modo e rilevanza. La massima di quantità si riferisce alla quantità di informazioni apportate dagli interlocutori nei loro enunciati; la qualità ha a che vedere con la veridicità e la dimostrabilità dell’informazione apportata nell’interazione; la massima di modo con la chiarezza e l’ordine dell’informazione durante le interazioni; la massima di rilevanza presuppone che i parlanti debbano apportare informazioni rilevanti in base

all’argomento trattato in ogni momento36

.

36 Francisco Moreno Fernández, Principios de sociolingüística y sociología del lenguaje,

(26)

26

3.3 La cortesia e la competenza pragmatica

Partendo dalle considerazioni di Grice si sono sviluppate le teorie più recenti intorno alla cortesia. Com’è noto, uno degli obiettivi fondamentali della comunicazione è quello di ottenere la collaborazione del destinatario, cioè l’obiettivo intermedio che permette di accedere al risultato finale. Il parlante, per il solo fatto di dirigersi ad un’altra persona, stabilisce un certo tipo di relazione, la cui natura dipende dall’interazione di una serie complessa di fattori sociali: l’età, il sesso, il grado di conoscenza previa, la posizione sociale, l’autorità, la gerarchia, ecc.

La cortesia può essere concepita come l’insieme di norme sociali che ogni società stabilisce per regolare il comportamento dei suoi membri, proibendo alcune forme di condotta, e favorendone altre. Sarà considerato «cortese» ciò che si adatta alla norma, al contrario ciò che non si adatta alla norma verrà classificato come «scortese». A differenza del principio di cooperazione, il cui obiettivo è quello di assicurare la trasmissione di informazioni efficaci, la cortesia è un complesso di strategie conversazionali al servizio delle relazioni sociali, volte a evitare o mitigare i conflitti sociali.

I linguisti che hanno contribuito allo sviluppo dei tre modelli d’interpretazione

della cortesia sono: Lakoff, Leech e Brown e Levinson37.

Quello di Lakoff, nel 1973, fu il primo tentativo di estendere l’idea della regola grammaticale rendendo conto dell’adeguatezza pragmatica. Per la linguista amaericana sono due le regole basiche della competenza pragmatica:

1. Sii chiaro 2. Sii cortese

La prima esprime lo stesso tipo di contenuto delle massime che sviluppano il principio di cooperazione di Grice, volta principalmente ad assicurare una trasmissione efficace dell’informazione; la seconda racchiude l’aspetto della relazione interpersonale. La regola generale Sii cortese, a sua volta, offre tre diverse possibilità:

37 M. Victoria Escandell Vidal, Introducción a la Pragmática, Barcelona, Editorial Ariel, 1996,

(27)

27 1. Non ti imporre

2. Offri delle alternative

3. Metti l‘interlocutore a suo agio

Ognuna di queste regole presenta un ambito di applicazione determinato, in base al grado di relazione esistente tra gli interlocutori. La regola Non ti imporre è adatta a quel genere di situazioni in cui vi è una differenza sociale evidente tra gli interlocutori, o quando c’è mancanza di familiarità. In questo caso, le strategie consistono nell’evitare o mitigare ogni possibile imposizione sull’altro, chiedendo permesso, utilizzando forme indirette, ecc.

La seconda regola, Offri delle alternative, si applica soprattutto in una condizione di equilibro sociale tra gli interlocutori, ma in mancanza di familiarità e confidenza, cioè quando si presenta qualcosa in maniera che il rifiuto della propria opinione o della propria offerta non si avverta come polemico. Per esempio, si può utilizzare la strategia di presentare un’idea senza mostrarla però come personale, in modo che il suo rifiuto non ponga nessuno degli interlocutori in una posizione scomoda.

Infine, la terza regola, Metti l‘interlocutore a suo agio, è tipica delle situazioni in cui vi è una relazione molto stretta tra gli interlocutori, e si vuole collocare l’altro in una posizione gradevole, mostrando interesse per le sue cose. Si

utilizzano quindi le forme personali, e si esprimono le proprie idee e sentimenti38.

Il principio di cortesia di Leech, del 1983, si è sviluppato in una serie di massime, come ampliamento dei principi conversazionali di Grice, di cui la massima di tatto rappresenta una novità, tipica delle richieste. Secondo Leech, gli obiettivi della comunicazione si manifestano in due direzioni: o si cerca di mantenere l’equilibrio esistente; o si tenta di modificarlo. Per mezzo della cortesia si mantiene o si diminuisce la distanza sociale. È questa la cortesia relativa, che dipende dalla posizione sociale degli interlocutori. La cortesia assoluta, invece, si valuta in una scala, in termini di costi e di benefici che il compimento dell’azione comporta per il destinatario o per l’emittente. Maggiore è il costo per il destinatario e minore il suo beneficio, e più l’azione risulterà «scortese». Al contrario, maggiore sarà il costo per l’emittente e maggiore il beneficio per il

(28)

28

destinatario, e più risulterà «cortese». In base a questo, Leech stabilisce una sorta di classifica generale delle intenzioni. Al di sopra di questa classifica generale, funzionano due tipi diversi di cortesia: positiva e negativa. Non si può prescindere

dalla cortesia negativa per mantenere le buone relazioni39.

Il lavoro di Brown e Levinson, del 1987, è stato uno dei più influenti degli ultimi decenni. I due linguisti hanno voluto completare il modello di Grice, aggiungendogli la componente interpersonale. A tale scopo si rifanno al concetto di immagine pubblica di Goffman.

L’immagine negativa si realizza quando le persone, interagendo con gli altri, desiderano che non venga messa in discussione la propria immagine di persone autonome, e perciò si aspettano che non venga invaso il proprio spazio personale o limitate le proprie libertà d’azione. Con l’immagine positiva, invece, si fa riferimento al desiderio di venire apprezzato dagli altri, e che gli altri condividano gli stessi desideri. Esistono vari tipi di azioni che mettono in pericolo l’immagine pubblica, creando conflitti d’interessi. Le strategie di cortesia derivano dalla necessità di salvaguardare quest’immagine.

Il potenziale di minaccia di un atto linguistico si stabilisce in base alle seguenti variabili:

1. Il potere relativo del destinatario nei confronti dell’emittente, che riflette le differenze di gerarchia basate sull’età, la posizione, cioè la dimensione verticale della relazione sociale;

2. La distanza sociale, che forma l’asse orizzontale della relazione, che è determinata dal grado di familiarità e conoscenza previa tra gli interlocutori;

3. Il grado di imposizione di un determinato atto linguistico, ovvero il costo o il beneficio che la sua realizzazione rappresenta per gli interlocutori.

In base all’immagine pubblica che si predilige, avremo quindi una cortesia negativa e una cortesia positiva40.

39 Ivi, pp.143-147. 40 Ivi, pp.147-149.

(29)

29

4. IL REGISTRO COLLOQUIALE

4.1 Definizioni

Quando si tenta di definire il linguaggio colloquiale spagnolo, spesso, si compiono degli errori. C’è chi lo considera «tipico della classe sociale bassa», chi gli attribuisce l’accezione di «conversazionale», chi di «volgare», chi lo identifica con «l’orale».

Bisogna precisare che, a differenza dei dialetti e dei socioletti, che sono varietà che dipendono dalle caratteristiche proprie di chi ne fa uso, i registri sono

determinati dalla situazione d’uso, dal contesto comunicativo41

.

Per convenzione, si distinguono due tipi di registro: quello formale, e quello informale-colloquiale. Tra i due estremi si situano quelli che vengono chiamati registri intermedi. E può accadere che in una conversazione quotidiana si alternino vari registri.

I registri possono manifestarsi sia in forma orale, che scritta, tuttavia si deve ammettere che nella scrittura esiste sempre un grado di formalità maggiore. Il registro colloquiale trova la sua maggiore realizzazione, indubbiamente, in quella

che chiamiamo la conversazione quotidiana42.

Ma vediamo le definizioni più rilevanti che ci sono giunte negli ultimi anni:

W. Beinhauer, nel 1958, definiva lo spagnolo colloquiale come:

El habla tal como brota, natural y espontáneamente en la conversación diaria, a diferencia de las manifestaciones lingüísticas conscientemente formuladas, y por tanto más cerebrales, de oradores, predicadores, abogados,conferenciantes, etc., o las artísticamente moldeadas y engalanadas de escritores, periodistas o poetas43.

I tratti peculiari che vengono evidenziati da Beinhauer sono la spontaneità, la naturalezza e la mancanza di pianificazione.

41 A. Briz, El español coloquial: situación y uso, Madrid, Arco Libros, 1996, pag.15. 42

Ana M. Vigara Tauste, Morfosintaxis del español coloquial: esbozo estilístico, Madrid, Gredos, 2005, pag. 15.

43 Apud A. Briz Gómez, El español coloquial en la conversación: esbozo de pragmagramática,

(30)

30

Per E. Lorenzo44 il «lenguaje coloquial» è:

El conjunto de usos lingüísticos registrables entre dos o más hispanohablantes, conscientes de la competencia de su interlocutor o interlocutores, en una situación normal del la vida cotidiana, con utilización de los recursos paralingüísticos o extralingüísticos, aceptados y entendidos, pero no necesariamente compartidos, por la comunidad en que se producen.

Con questa definizione, Lorenzo segnala come costanti la presenza fisica di uno o più interlocutori, da cui il parlante riceve l’attenzione, e il carattere spaziale e temporale, ovvero la sua immediatezza e il suo carattere reale. Ciò che varia è l’esperienza comune dei parlanti, in base al loro grado di convivenza, che si manifesta attraverso implicazioni linguistico-comunicative, il carattere deittico, l’egocentrismo, ecc.

Tuttavia, tra queste definizioni non manca l’allusione a confondere un tipo di discorso, la conversazione, e una possibile modalità d’uso (colloquiale) che può esservi impiegata. A questo proposito ricordiamo anche la definizione di A. M. Vigara:

lo que designamos con el sintagma español coloquial es el empleo común que hacen de un determinado sistema lingüístico los hablantes de una determinada sociedad (la española) en sus actos cotidianos de comunicación.

E più avanti aggiunge:

La conversación (o coloquio) no es, en suma, sino una forma de interacción verbal puntual, determinada por tres características que le son consustanciales: la actualización oral, su inmediatez y la interdependencia dinámica de todos los elementos en el proceso de la comunicación45.

Possiamo riassumere i tratti tipici dello spagnolo colloquiale come qui di seguito:

- è un registro, un uso determinato dalla situazione, e in quanto tale è delimitato dalle caratteristiche proprie del registro. Il suo campo è la quotidianità, il suo modo è l’orale spontaneo, il suo tenore è interattivo, il suo tono è informale;

44 Ivi, p.38. 45 Ivi, p.39.

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